Die Arbeit 'Il Vesuvio – un vulcano nella letteratura e cultura' versucht, den Einfluss des Vesuvs auf Poeten, Schriftsteller, Regisseure und Musiker zu analysieren. Es existieren unzählige Dokumente, Reiseberichte, Gedichte und Romane aus unterschiedlichen Epochen, die vom Vesuv erzählen. Warum aber erregt er so viel Aufsehen und begeistert seit Jahrhunderten Künstler aus aller Welt?
Die Faszination des Vesuvs hat zwei Gesichter: einerseits wird er als „Zerstörerberg“ bezeichnet, andererseits gilt er als der Schöpfer einer unverwechselbaren Naturlandschaft.
Im Jahre 1836 schreibt Giacomo Leopardi das Gedicht 'La ginestra, o il fiore del deserto'. Er beschreibt darin die grausame Natur, die den Menschen immer wieder in seine Grenzen verweist, aber auch die Widerstandskraft des Ginsters, an der sich der Mensch ein Beispiel nehmen soll.
Curzio Malaparte beschreibt in seinem Roman 'La pelle' (1949) die Situation in Neapel im Jahre 1944. Doch nicht nur der Krieg und seine Folgen sind Bestandteil des Romans, sondern auch der letzte Ausbruch des Vesuvs. Der Autor stellt diesen als Strafe Gottes dar: die Bewohner der sündigen Stadt müssen für den Sittenverfall büßen.
Einen völlig anderen Zugang bieten die Verfilmungen des Romans 'Die letzten Tage von Pompeji' (1834) von Edward George Bulwer-Lytton. Diese Arbeit konzentriert sich auf die vier Versionen von Luigi Maggi (1908), Mario Caserini (1913), Carmine Gallone (1926) und Sergio Leone (1959). In allen Fassungen nimmt der Vulkan eine strafende Position ein. Die Bösen müssen büßen und die beiden Liebenden entkommen dem grauenvollen Tod.
Das Lied 'Funiculì funiculà' wurde 1880 von Peppino Turco und Luigi Denza komponiert und sollte auf die neue Seilbahn aufmerksam machen. Es handelt sich um eines der ersten Lieder im neapolitanischen Dialekt und um den ersten Werbe-Jingle. 'Funiculì funiculà' hat den Vesuv jedoch zu einer Touristenattraktion gemacht und der Vulkan hat dadurch seinen Schrecken verloren.
Der letzte Teil der Arbeit beschreibt die heutige Situation des Vesuvs: ein Ausbruch ist überfällig und die gegenwärtige Ruhe ist verdächtig. Doch keiner weiß genau, wann und wie heftig die nächste Eruption sein wird. Die Horrorszenarien eines Ausbruchs bilden heutzutage die Basis für Katastrophenfilme und -romane. Auch der Vesuv wird dabei oft berücksichtigt, weil genau dieser schmale Grat zwischen wunderschöner Naturlandschaft und apokalyptischen Szenarien die Spannung ergibt, die sich das Publikum erwartet.
Indice
1 Introduzione
1.1 Gli obiettivi di questo lavoro
1.2 L’etimologia della parola Vesuvio
2 Informazioni generali sul Vesuvio
3 Il Vesuvio - un vulcano nella letteratura e nella cultura
4 La descrizione dell’eruzione di Plinio il Giovane
5 Il Vesuvio - sterminatore o creatore?
5.1 La vegetazione rigogliosa sulle falde del Vesuvio
5.2 L’eruzione del Vesuvio - una punizione di Dio?
5.2.1 Il Vesuvio - un luogo mitico
5.2.2 San Gennaro contro il Vesuvio
6 La Ginestra o il fiore del deserto di Giacomo Leopardi
6.1 La vita di Giacomo Leopardi
6.2 Il periodo napoletano
6.3 La ginestra, o il fiore del deserto
6.4 Interpretazione della poesia
6.4.1 La natura nemica, l’ateismo leopardiano ed il progresso eccessivo
6.4.2 Analisi della poesia
6.4.3 Simbologia del Vesuvio e della ginestra
6.5 La morte del famoso poeta
7 La pelle di Curzio Malaparte
7.1 Malaparte - la sua vita
7.2 Il romanzo La pelle
7.3 1944 - L’ultima eruzione del Vesuvio
7.4 Il Vesuvio ne La pelle
7.4.1 Il capitolo La pioggia di fuoco
7.4.2 La resurrezione
7.4.3 L’ultimo capitolo Il dio morto
7.5 Il giudizio universale e la personificazione del Vesuvio
7.6 Come si manifesta la religione ne La pelle
7.7 Il registro, lo stile e l’ironia ne La pelle
7.8 Le critiche
8 Gli ultimi giorni di Pompei
8.1 La storia
8.2 Note sul film in generale
8.3 Il film storico italiano
8.3.1 La storia del film storico italiano
8.3.2 Caratteristiche del film kolossal
8.3.3 Gli ultimi giorni di Pompei - Un film catastrofico?
8.4 La versione del 1908 di Luigi Maggi
8.4.1 Il regista
8.4.2 Il cast del film
8.4.3 Note sul film
8.5 La versione del 1913 di Mario Caserini
8.5.1 I registi
8.5.2 Il cast del film
8.5.3 La trama della versione di Caserini
8.5.4 Note sul film
8.5.5 Il ruolo del Vesuvio nella versione del 1913
8.6 La versione del 1926 di Carmine Gallone
8.6.1 I registi
8.6.2 Il cast del film
8.6.3 La trama della versione di Gallone
8.6.4 Note sul film
8.6.5 La critica
8.7 La versione del 1959 di Sergio Leone
8.7.1 I registi
8.7.2 Il cast del film
8.7.3 La trama della versione di Sergio Leone
8.7.4 Note sul film
8.7.5 Il ruolo del Vesuvio nella versione del 1959
8.7.6 La critica
8.8 Analisi comparative del ruolo del Vesuvio nelle quattro versioni
8.8.1 La funzione ideologica del Vesuvio
8.8.2 La sfida estetica - Come rappresentare l’eruzione di un vulcano?
9 Funiculì funiculà
9.1 La storia della funicolare
9.1.1 Alle porte dell’inferno
9.1.2 Il meccanismo della funicolare
9.1.3 La Compania Thomas Cook & Son
9.1.4 La rinascita della funicolare
9.1.5 La funicolare durante la Seconda Guerra Mondiale
9.1.6 Ci sarà una ricostruzione della funicolare?
9.2 Luigi Denza e Giuseppe Turco - i due papà di Funiculì funiculà
9.3 L’enorme successo della canzone Funiculì Funiculà
9.4 Il testo di Funiculì funiculà
9.5 Analisi della canzone Funiculì funiculà
9.5.1 L’influenza della tarantella
9.5.2 Analisi dettagliata della canzone
9.5.3 La canzone napoletana
9.6 Riflessioni finali sulla canzone
10 Il Vesuvio di oggi
10.1 Il risveglio del Vesuvio
10.2 Il piano d’emergenza
10.3 Il Parco Nazionale del Vesuvio
10.4 Prospettive future
11 Conclusione
12 Deutsche Zusammenfassung
13 Bibliografia
14 Filmografia
15 Articoli nelle riviste specializzate
16 Siti Internet
Un vivo ringraziamento rivolgo…. Ein herzliches Dankeschön…
- an meine Diplomarbeitsbetreuerin, Frau Professor Birgit Wagner, die mein Thema sofort mit Begeisterung aufgenommen hat und mich im vergangenen Jahr mit allen Kräften unterstützt hat.
- a Lidia che ha fatto la rilettura della tesi, e che mi aiuta sempre quando ho un problema riguardante la lingua italiana! Grazie!
- an Florian, der mir bei der Analyse von Funiculì funiculà sehr behilflich war!
- an Franz, ohne den meine Arbeit vermutlich keine so tolle Formatierung erhalten hätte.
- an alle Lehrpersonen, die mir von der Volksschule in Mauthausen bis zum Ende mei- ner Studienzeit wertvolle Wegbegleiter waren und die mir viele Ratschläge mit ins Leben gegeben haben.
- a Alessandra Cianelli, che mi ha ospitato durante il mio soggiorno a Napoli e che mi ha assicurato alcuni giorni indimenticabili!
- a tutti i miei amici italiani, di Roma, di Cogollo del Cengio, di Forlì, della Sicilia, della Sardegna e dell’Alto Adige, che mi accolgono con tanta ospitalità e mi fanno sentire ‘a casa’. Grazie a voi ho potuto migliorare e perfezionare le mie conoscenze della lingua italiana.
- a tutti i miei amici italiani a Vienna, specialmente a Naty. Voi mi avete accolto come se fossi una dei vostri. Da quando vi ho conosciuto, abbiamo passato tante serate piene di chiacchierate e risate nelle pizzerie e trattorie di Vienna. Vi ringrazio per questi momenti, nei quali mi avete portato l’Italia nell’Austria.
- an alle meine Freunde in Wien und OÖ, besonders an Babi, Babsl, Karin, Kathi, Kers- tin und Lucia. Was würde ich wohl ohne euch machen?
- an meine Familie, im Besonderen an meine Eltern Gabi und Paul, die es mir ermög- licht haben, dieses Studium zu absolvieren und mir in allen Lebenslagen mit Rat und Tat zur Seite stehen.
- an meinen Dominik, mit dem ich viele Höhen und Tiefen des Lebens bewältigen ge- lernt habe und der mir immer wieder ein Lächeln aufs Gesicht zaubert!
1 Introduzione
“Deve esserci qualcosa di curioso nella vicinanza di un vulcano.”1
Questa frase, letta il 30 marzo del 2005 nel romanzo Mare e Sardegna dello scrittore britannico D.H. Lawrence, ha suscitato il mio interesse per il fenomeno “vulcano”. Da quel giorno in poi, mi sono dedicata con molta passione ai vulcani, e specialmente al Vesuvio, che mi ha affascinato sempre di più. Infine ho deciso di scrivere la mia tesi di laurea sul tema “Il Vesuvio - un vulcano nella letteratura e cultura” e i miei incarichi di ricerca mi hanno condotta perfino a Napoli sul cratere del famoso vulcano.
Il Vesuvio suscita emozioni nell’anima degli uomini: si presenta come montagna bellissi- ma ed affascinante quando dorme, ma quando erutta fa paura e spaventa la popolazione che vive sulle sue falde. Il fuoco del vulcano riscalda, ma contemporaneamente distrugge. L’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. ha contribuito a farne il vulcano più famoso d’Europa. Ma anche il fatto che il vulcano dorma da più di 60 anni suscita grande scalpore, perché le statistiche fanno vedere che la montagna di fuoco ha periodi di quiescenza di una durata massima di 25 - 50 anni. Il Vesuvio è, insieme ai Campi Flegrei, una bomba a tempo insi- diosa. Gli scienziati sono sicuri che il Vesuvio sputerà di nuovo fuoco e lava. È soltanto una questione di tempo, ma è certo che prima o poi si svolgerà una nuova eruzione di di- mensioni terrificanti.
Tra tutti i vulcani del mondo, il Vesuvio è quello la cui storia è meglio documentata. La sua conoscenza ci deriva non solo dagli apporti vulcanologici e archeologici, ma anche da quelli filologici. La filologia costituisce un’inesauribile fonte di informazioni per la storia e la scienza.2 Ma il Vesuvio ha anche una storia inseparabile con l’uomo: dopo lunghi perio- di di inattività apparente, il vulcano si è fatto vivo ed ha distrutto le abitazioni della popo- lazione, ed ha perfino portato morte e miseria. Ma l’uomo ha compreso il linguaggio della ‘montagna di fuoco’, ovvero il linguaggio della natura furiosa, sempre in un modo diverso. Esistono numerosi documenti, come lettere, poesie, prediche, diari di viaggio, favole, leg- gende, scritti scientifici, quadri, disegni e romanzi che attestano la percezione variabile con la quale viene osservato il vulcano dagli scrittori nel corso dei secoli. Tanti sono stati affa- scinati dal Vesuvio, altri sono stati spaventati, ma tutti hanno documentato le loro espe- rienze e pensieri. I testi di tanti secoli diversi ci aiutano a comprendere meglio il fenomeno Vesuvio.
1.1 Gli obiettivi di questo lavoro
Il Vesuvio e la Campania rappresentano un paesaggio pieno di miti popolari, diffusi dalle leggende degli abitanti delle colonie greche che si sono stabiliti su questo terreno ormai 3000 anni fa. Anche gli imperatori romani hanno contribuito alla popolarità di questa zona, passando le loro vacanze nelle località marittime vicino a Napoli per riprendersi dal lavoro. Questo luogo mitico ha fatto nascere tante leggende ed ha stimolato la fantasia dei poeti e dei pittori e nell’ultimo secolo anche i letterati hanno cominciato a lodare il paesaggio na- poletano. Specialmente il Vesuvio ha suscitato l’interesse sia della gente del posto che de- gli scrittori italiani e stranieri. A causa di questo fascino sono nati tanti racconti sul vulcano più famoso della Campania.
Nella mia tesi di laurea mi pongo le seguenti domande: com’è possibile che il Vesuvio susciti un interesse così enorme? Che cosa pensano scrittori e poeti, registi e altri artisti dell’equivocità del vulcano? Lo considerano sterminatore o creatore? Come si rivelano la crudeltà e la bellezza del Vesuvio nella natura? Quali possibilità hanno i letterati per pre- sentare il Vesuvio?
Per far capire meglio il fascino del Vesuvio e per rispondere alle domande precedenti, ho scelto quattro esempi abbastanza diversi, prodotti in Italia da autori italiani: due opere dell’Ottocento e altre due del Novecento. Si tratta della poesia La Ginestra o il fiore del deserto (1836) di Giacomo Leopardi, del romanzo La pelle (1949) di Curzio Malaparte, del film Gli ultimi giorni di Pompei di Luigi Maggi (1908), Mario Caserini (1913), Carmine Gallone (1926) e Sergio Leone (1959) e della canzone Funiculì funiculà (1880) di Luigi Denza e Peppino Turco.
Nella parte iniziale della mia tesi faccio un riassunto della storia del Vesuvio e presento informazioni generali sul vulcano. Come introduzione ho scelto la descrizione di Plinio il Giovane, sebbene si tratti di un testo scritto in latino, ma è la prima documentazione detta- gliata di un’eruzione del Vesuvio. Plinio descrive in una lettera (Epist. 6,16) allo storico Tacito sia l’eruzione che i particolari della morte di suo zio, Plinio il Vecchio. Dopo questa prefazione comincia il soggetto principale della mia tesi, ovvero come viene raffigurato il Vesuvio durante i secoli: si presenta come sterminatore o come creatore? Da una parte de- scriverò la natura meravigliosa che si trova sulle falde del vulcano grazie alla lava e dall’altra parte mi pongo la domanda se le eruzioni potrebbero essere una punizione di Dio. In questo ambito menzionerò anche il patrono di Napoli, San Gennaro, che più di una volta ha salvato la città dalle calamità naturali, fermando la lava del Vesuvio davanti alle porte della città. Questa e altre leggende hanno infine suscitato l’interesse di diversi poeti e scrit- tori, i quali si sono dedicati al fenomeno vulcanico e hanno cercato di esprimere i loro pen- sieri sul Vesuvio. Così ha fatto anche Giacomo Leopardi nella sua poesia La Ginestra o il fiore del deserto. Dopo l’analisi della poesia, parlerò del romanzo La pelle, che è ambien- tato a Napoli nel 1944. L’autore Curzio Malaparte lavora come giornalista e ufficiale di collegamento a Napoli e crea con La pelle una testimonianza importante. Le quattro edizioni del film Gli ultimi giorni di Pompei si basano sul romanzo di Edward George Bulwer-Lytton. Sia l’autore Bulwer-Lytton, sia i quattro registi descrivono il Ve- suvio come sterminatore che distrugge la città di Pompei. Il primo che ha trattato il tema della distruzione di Pompei in un film è stato Luigi Maggi. Altre edizioni vengono realiz- zate dai registi Mario Caserini e Carmine Gallone. Sergio Leone ha sostituito Mario Bonnard come regista durante le riprese dell’ultima versione de Gli ultimi giorni di Pom- pei nel 1959.
Infine ho analizzato la canzone Funiculì funiculà che è stata composta nel 1880 da Peppino Turco e Luigi Denza. La canzone è considerata anche il primo jingle pubblicitario per rendere famosa la nuova funicolare, costruita per facilitare la salita sul Vesuvio. Nell’epilogo (vedi capitolo 10: Il Vesuvio di oggi) voglio dare una breve sintesi del futuro del Vesuvio: si sveglierà nel prossimo futuro? Come deve reagire la popolazione che vive intorno al vulcano? Come funziona il piano d’emergenza che entra in vigore, quando il Vesuvio sta per eruttare? Infine cerco di dare una prospettiva nel futuro “scientifico” e “letterario” del Vesuvio. Gli scienziati parlano di un supervulcano e autori e registi sono sempre alla ricerca di nuovo materiale da elaborare.
La mia tesi è destinata a chi ha un interesse generale per il Vesuvio, a chi vuole sapere di più sulle opere d’arte scritte sul famoso vulcano e sui vari modi nei quali gli artisti realizzano le loro opere.
1.2 L’etimologia della parola Vesuvio
L’etimo del nome italico Vesuvius deriva dalle radici indoeuropee: *aues: ‘illuminare’ o *eus: ‘bruciare’. Il ceppo nominale *Uěsěụo- si è modificato con il tempo in *Věsēvus. La parola appare abbastanza tardi in Italia: in latino Vessuvius (con -ss-) è attestato in Sisenna3. La forma Vesuvius è adoperata da Varrone4 e in seguito viene utilizzata spesso insieme alla parola mons (monte). Stazio riporta sia la denominazione Vesuvius apex (il cono del Vesuvio) che il sostantivo Vesaevus5. Altre forme sono Vesvius e Vesevus, utilizzate da Valerio Flacco6, e Vesbius che compare in Marziale7.
2 Informazioni generali sul Vesuvio
Il Vesuvio costituisce il più importante complesso vulcanico attivo dell’Europa continentale e si trova circa 17 km a sud-est di Napoli e quindi nel cuore della Campania.
“Le vicende di questa antica regione, denominata dai Romani Campania Felix per la mitezza del clima, la fertilità del suolo e la bontà dei suoi prodotti, sono sempre state legate, dal punto di vista strutturale, a due tipi di eventi, spesso catastrofici: i movimenti tellurici e le eruzioni vulcaniche.”8
Probabilmente il Vesuvio è nato come vulcano insulare che si è in un secondo tempo unito alla terraferma, per effetto di un sollevamento delle terre e di emissioni di lava e di altri materiali piroclastici. La storia della formazione del vulcano non è del tutto chiaro, nono- stante i numerosi studi su tale argomento. È però sicuro che nel corso della sua storia, il profilo del Vesuvio è cambiato più volte a causa delle eruzioni estremamente esplosive. La singolarità della sua forma lo ha reso famoso in tutto il mondo. Non è solo uno dei rilievi vulcanici più interessanti d’Europa, ma anche uno dei più studiati dal punto di vista natura- listico.
L’eruzione più famosa del vulcano è senza dubbio quella del 79 d.C., documentata da Pli- nio il Vecchio. Con l’eruzione del 79 d. C. si apre la fase storica della vita del Vesuvio, che si suddivide nei due periodi del Vesuvio Antico e Medioevale e del Vesuvio Moderno. Il primo periodo va dal 79 d. C. al 1631, uno spazio di tempo nel quale si svolgono una ven- tina di eruzioni principali oltre a un numero non precisato di eruzioni secondarie. Il secon- do periodo inizia con l’eruzione del 1631 ed è caratterizzato da un’alternanza quasi regola- re di fasi di quiescenza con periodi eruttivi, le cosiddette fasi parossistiche.9 Una delle eruzioni più drammatiche è quella iniziata nel dicembre 1631: una settimana prima di Natale il Vesuvio sputa nubi di ceneri e zolfo, lapilli e lava. Il vulcano provoca scosse di terremoto, sollevamenti ed abbassamenti del monte e un maremoto. Il cratere crolla e il vulcano non smette di sputare pomici e altro materiale piroclastico. Numerose frane di fango distruggono i paesi di Somma, Ottaviano, San Sebastiano, San Giorgio, Por- tici e Ercolano. Più inquietanti sono però i flussi piroclastici e le colate di lava che scendo- no dalle pendici del vulcano e raggiungono perfino Torre del Greco, Torre Annunziata e Boscotrecase. Le vittime dell’eruzione e di tutti i fenomeni collaterali sono più di 4.000 e almeno il doppio di animali d’allevamento.10
L’eruzione del 1631 produce danni enormi e attira così l’attenzione dei vulcanologi italiani e stranieri. Essi osservano il vulcano con grande accuratezza e documentano le loro ricerche. Inoltre vogliono far luce sulla vita antica e recente del Vesuvio e sulle tappe della sua evoluzione. A partire dal 1631 contiamo 18 fasi parossistiche: la più corta è durata 2 anni, quella più lunga 45 anni.11
Nel Settecento e nell’Ottocento iniziano quindi le ricerche scientifiche intorno al Vesuvio. Uno dei ricercatori più famosi è Sir William Hamilton, che giunge a Napoli all’inizio della settima fase parossistica, nel 1638. Più di 50 volte sale sulla vetta del vulcano e documenta le sue osservazioni, e le invia alla Royal Society a Londra. Questa corrispondenza fa parte delle opere fondamentali della vulcanologia moderna. Nel 1794 termina la nona fase parossistica che ha distrutto per la terza volta dal 1631 la cittadina di Torre del Greco. Pur essendoci il pericolo di una nuova eruzione, gli abitanti tornano nelle loro case distrutte e ricostruiscono il loro luogo nativo sulla lava.
In questo periodo, Napoli è considerata una delle città più belle d’Italia ed è diventata la destinazione preferita dei viaggiatori del Nordeuropa. Anche Johann Wolfgang von Goethe si ferma nel 1787 a Napoli per salire ben tre volte sul Vesuvio. Possiamo leggere le sue riflessioni sul vulcano nella sua opera Viaggio in Italia. Goethe arricchisce con questi ap- punti le osservazioni fondamentali della vulcanologia moderna.
Nel 1822 termina la decima fase parossistica con un’eruzione molto violenta. Esplosioni innumerevoli, una colonna di fumo e una colata di lava sono i fenomeni collaterali dell’eruzione. I viaggiatori che si trovano a Napoli non hanno più paura del vulcano, anzi, si divertono a seguire lo spettacolo affascinante. Il cambiamento della percezione della gente si è accompagnato ad una registrazione realistica e naturalistica dell’attività vulcani- ca. Nel 1841 inizia la costruzione dell’Osservatorio Vesuviano sul versante occidentale del vulcano. L’inaugurazione si svolge nel 1845, ma all’inizio l’osservatorio assolve solo le funzioni di una stazione meteorologica, perché gli apparecchi per l’osservazione del vulca- no mancano. Dal 1856, il nuovo direttore Luigi Palmieri dà massima importanza alla vul- canologia.
Dopo un periodo di limitata attività inizia la diciassettesima fase parossistica che dura più di 30 anni. Verso la fine di questa fase, ossia nel 1906, il Vesuvio ha raggiunto la sua mas- sima altezza di 1335 metri. Nell’aprile del 1906 però il dinamismo del cratere si accentua: un’esplosione fa saltare la cima del vulcano, al cui suo posto rimane soltanto una grande voragine. Enormi quantità di ceneri, scorie e lapilli vengono lanciate a grande distanza, danneggiando alcuni centri abitati, come per esempio i paesi di Somma, Ottaviano e San
Giuseppe, che si trovano a nord-ovest del vulcano. Dopo questa eruzione, il Vesuvio è alto soltanto 1250 metri, quindi ha perso circa cento metri di altezza. Sette anni dopo, nel 1913, inizia l’ultima fase di attività che raggiunge il primo culmine nel 1929 e termina nel 1944.12
Attualmente il Vesuvio viene anche chiamato il Gigante addormentato, visto che le sue uniche manifestazioni esterne sono rappresentate da fumarole che escono lungo le pareti interne della voragine craterica. Oggi il Vesuvio conta 1281 metri di altezza e domina con la sua grandezza tutto il golfo di Napoli. La sua silhouette lo ha reso inconfondibile in tutto il mondo. Alla silhouette eccezionale del Vesuvio contribuisce un vulcano più antico: il Monte Somma, che forma il fondamento del Vesuvio. Il Monte Somma ha una circonfe- renza di circa 80 km e copre un territorio di circa 480 km².13 Dopo l’eruzione del 79 d.C., la montagna ha cambiato completamente forma. Prima aveva probabilmente soltanto una cima che è crollata durante l’eruzione. Si è formata la caldera enorme del Monte Somma, dalla quale oggi vediamo soltanto la parte settentrionale, la Punta del Nasone, alta 1132 metri. Le eruzioni successive hanno prodotto nell’antica caldera un nuovo cono, fatto di materiale lavico: il Vesuvio.14 Nella vulcanologia questo fenomeno si chiama vulcano a recinto ed il Somma-Vesuvio ne è un raro esempio. Tra i due complessi vulcanici si è formata la Valle del Gigante, che fa parte dell’antica caldera.
Il Vesuvio è un caratteristico vulcano misto, ciò significa che è costituito da lave di com- posizione chimica diversa. Le pareti interne del cratere sono costituite da diversi strati lavi- ci dai quali possiamo distinguere la storia del Vesuvio attraverso i secoli. Le pendici del vulcano invece, sono coperte da colate di lava, fanghi e depositi piroclastici. Passeggiando lungo il bordo del cratere, si coglie l’intera estensione del vulcano. Da ormai più di 60 anni
“[…] il vulcano sonnecchia e lascia tranquillamente inerpicare, lungo i suoi impervi sentieri, le migliaia di turisti, delusi dall’impossibilità di utilizzare la famosa funicolare […], ma che una volta giunti sulla cima con il fiato grosso rimangono estasiati alla vista dello splendido panorama, che non ha uguali.”15
In giornate limpide i visitatori sulla cima del Vesuvio possono ammirare tutto il Golfo di Napoli da Procida e Ischia fino a Sorrento e Capri.16
3 Il Vesuvio - un vulcano nella letteratura e nella cultura
Il Vesuvio è un vulcano che ha sempre attirato l’attenzione di viaggiatori, scienziati, stu- diosi, letterati ed artisti. Già nell’antichità molti scrittori sono affascinati dalla montagna di fuoco17, per esempio Virgilio, che menziona la sua fertilità, Strabone, che lo descrive come “un monte ricco di vigneti”18 e Columella, il quale sottolinea la produzione vinicola.19 Non soltanto gli scrittori antichi raccontano dell’affascinante vulcano. Numerosi viaggiato- ri europei del Cinque, Sei e Settecento, leggono testi sui paesaggi campani e sui dintorni del vulcano. Essi vogliono vedere con i propri occhi tutti questi luoghi descritti nella lette- ratura e passano per Napoli per seguire le orme degli scrittori antichi come Virgilio, Ora- zio, Seneca ed altri.20 I viaggiatori visitano i posti famosi e fissano le loro osservazioni nelle proprie documentazioni di viaggio. Nessuno lascia Napoli senza essere asceso sulle pendici del Vesuvio per provare delle emozioni forti e per osservare il potere distruttivo della montagna funerea. I più famosi viaggiatori sono senza dubbio Johann Wolfgang von Goethe, Sir William Hamilton, François-René de Chateaubriand e Stendhal. Questi scritto- ri, come anche tanti borghesi, che girano l’Europa e si fermano a Napoli per ammirare il paesaggio, considerano il Vesuvio la loro fonte d’ispirazione, come anche i due autori, Giacomo Leopardi e Curzio Malaparte, che presenterò in questa mia tesi di laurea (vedi i capitoli 6 e 7).
Bisogna rendersi conto però che il Vesuvio non appare soltanto nella poesia o nei romanzi, perché anche tanti pittori dedicano tele al vulcano, dipingendolo durante un’eruzione o in stato di quiescenza. Inoltre numerosi registi si occupano del tema, come vediamo nel capitolo 8, dove descriverò le quattro versioni de Gli ultimi giorni di Pompei. Infine ci sono anche i musicisti ed i cantautori napoletani che lodano il Vesuvio nelle loro canzoni. Un esempio ne è la canzone Funiculì funiculà (capitolo 9).
4 La descrizione dell’eruzione di Plinio il Giovane
Si stava alzando una nube, ma senza che a così grande di- stanza si potesse distinguere l’esatta provenienza (si chiarì poi che usciva dal Vesuvio), e nessun’altra pianta meglio del pino potrebbe riprodurne l’aspetto e la forma. Salendo infat- ti verso il cielo come sorretta da un immenso tronco, si al- largava poi in qualcosa di simile a dei rami, forse perché la potenza del turbine che dapprima l’aveva sollevata si anda- va spegnendo: priva di sostegno, dunque, o forse anche vinta dal suo stesso peso, la nube si spandeva in larghezza, talora candida, talora sporca e chiazzata a seconda che fosse cari- ca di terra o di cenere.
Plinio il Giovane (Epistulae VI, 16)21
Uno dei primi che si è dedicato alla documentazione di fenomeni naturali è stato Plinio il Giovane22, che descrive l’eruzione del Vesuvio e la tragica fine di suo zio, Plinio il Vec- chio23 con ricchezza di particolari in due lettere (VI, 16 e 20) a Tacito (ca. 55-119 d.C.), uno storico che gli chiedeva informazioni precise sugli eventi del 24 agosto 79 d. C. Pre- sumibilmente Plinio scrisse le lettere solo verso l’anno 107 d.C., quindi più di venti anni dopo la catastrofe. Tacito voleva pubblicare una relazione di un testimone nelle sue Histo- riae, che trattano in 14 libri il periodo dal 69 al 96 d.C. Purtroppo non possiamo controllare fino a che punto lo fece, perché l’opera di Tacito è incompleta. La catastrofe del 79 d.C. aveva quindi un testimone d’eccezione in Plinio il Giovane. La sua prima lettera (VI,16) contiene il racconto della fine gloriosa di Plinio il Vecchio, stori- co, scienziato e comandante della base navale di Miseno, che si imbarca per osservare da vicino il fenomeno e trova la morte a Stabia. Nella seconda lettera (VI, 20) Plinio il Giova- ne ci fa conoscere le ripercussioni del terribile evento sulla sua famiglia e sugli abitanti di Miseno.
Plinio il Giovane è ospite nella casa di suo zio Plinio il Vecchio, quando i due vedono il primo segnale dell’eruzione: una nube, che per figura e forma assomiglia ad un pino. All’inizio non riescono neanche a capire da quale monte si solleva la nube, ma un messaggio disperato dall’amica Rectina leva ogni dubbio.
Quindi Plinio il Vecchio salpa da Miseno per due ragioni: da una parte perché intende soc- correre Rectina e Tascus, due amici suoi, la cui villa si trova sotto il Vesuvio ad Ercolano, e tutta la popolazione del paese, dall’altra parte per scopi scientifici. Però lo sbarco gli è impedito a causa di un maremoto e del materiale eruttivo del Vesuvio, che cade sulla nave. Sotto la pioggia di cenere e pomici egli prende nota di tutte le sue osservazioni. Poi dirige la barca verso Stabia, dove gli è impossibilitata la fuga a causa di un vento sfavorevole.
Allora Plinio tranquillizza i suoi compagni e il suo amico Pomponiano, nella cui casa fa un bagno, si mette a mangiare e finalmente si addormenta, sebbene la cenere e le pomici pian piano sigillino l’ingresso dell’edificio. Quando la situazione diventa sempre più minacciosa, tutti si recano verso la spiaggia, con cuscini legati sulla testa per proteggersi dalle pomici che cadono dal cielo annerito. Essi cercano di raggiungere la barca, mentre Plinio il Vecchio cade a terra, soffocato dai gas velenosi.24
Nella seconda lettera (VI/20) veniamo a sapere che Plinio il Giovane aveva dormito poco e inquieto durante la notte dell’eruzione, però resta con sua madre nella casa di Miseno. Solo quando il pericolo diventa troppo minaccioso, egli decide di abbandonare la casa e tutta la popolazione lo segue. Però sua madre gli chiede di lasciarla indietro perché essa pensa che a causa della sua lentezza avrebbe rallentato la fuga. Ma Plinio non la vuole abbandonare e la costringe a seguirlo, tenendola per la mano. Essi temano di essere schiacciati dalla folla impaurita e quindi lasciano la strada e aspettano, sentendo le grida e le preghiere della gen- te spaventata. Poi ritornano a Miseno e passano un’altra notte piena di paure e ansie, ma non vogliono ripartire senza novità dello zio, Plinio il Vecchio. Con questa dichiarazione termina la seconda lettera (VI, 20) di Plinio.25
Plinio descrive le diverse fasi dell’eruzione, dalla nube che assomiglia a un enorme pino, fino alla pioggia di cenere e pomici. Egli ci racconta anche dei fenomeni concomitanti, come per esempio le scosse di terremoto, e il ritiro del mare dalla costa. Il rapporto di Plinio è stato trasmesso attraverso i secoli fino a noi, perché è l’unico reso- conto sopravvissuto al disastro e oltre a ciò descrive in modo molto dettagliato i fenomeni vulcanici.
In Campania si avvertono spesso piccole scosse di terremoto, che sono un fenomeno abi- tuale in quella zona.26 Il 5 febbraio del 62 d.C. un disastroso terremoto causa il crollo di numerosi edifici a Pompei, Ercolano e Nocera. I lavori di ricostruzione sono ancora in atto, quando l’eruzione del Vesuvio, diciassette anni dopo, seppellisce la città e gli abitanti di Pompei sotto una fitta coltre di lapilli, rocce e cenere. Bisogna dire che la catastrofe del 79 d. C. non distrugge soltanto Pompei, ma anche due altre città si trovano sulla strada della furia del vulcano: Ercolano e Stabia, due città che sono state sepolte e riscoperte tanti seco- li dopo.
Fino all’eruzione del 24 agosto del 79 d.C. il Vesuvio non sembrava un vulcano attivo. Le pendici del monte erano ricoperte da una vegetazione rigogliosa e da campi bellissimi. La descrizione del geografo greco Strabone (ca. 63 a.C. - 20 d.C.) però, conferma la sua attività vulcanica già nell’età augustea: la sommità è in gran parte piana, ma completamente sterile, cinerea d’aspetto, con valloni e spaccature di rocce di colore fuligginoso, come se fossero stati divorati dal fuoco, indizio che il luogo bruciò in precedenza, ebbe crateri di fuoco e questi si spensero venuta meno la materia da ardere.27
Ma le catastrofi naturali non sono state descritte soltanto dal punto di vista scientifico, ma vengono anche interpretate come manifestazione dell’ira degli Dei, come possiamo vedere nelle opere di Plutarco, Cassio Dione e Tertulliano.28 Anche Plinio attesta che il 25 agosto del 79 d.C. la reazione della gente fu contraddittoria:“Molti innalzavano le mani agli dèi, altri, però, in numero ancora più grande interpretavano che ormai gli dèi non esistevano più e che quella notte sarebbe stata eterna e l’ultima del mondo.”29
Per un giorno ed una notte interi, morte e distruzione piovono dal cielo. È logico che un avvenimento così apocalittico venga interpretato in chiave profetico-religiosa, ossia come vendetta divina (vedi capitolo 5.2 L’eruzione del Vesuvio - una punizione di Dio?).
5 Il Vesuvio - sterminatore o creatore?
Il Vesuvio e gli altri vulcani del mondo non portano soltanto morte e distruzione, quando eruttano, anzi, favoriscono in vari modi anche la vita. In tempi remoti hanno contribuito alla formazione dei mari e dell’atmosfera del nostro pianeta. Microbi speciali e certe alghe si riproducono soltanto nella lava bollente o dei vapori puzzolenti.30 Nell’antichità proprio il fuoco e i vapori fetidi hanno spinto la popolazione a credere che nel cratere dei vulcani si trovasse l’officina del Dio italico Vulcano, il Dio del fuoco e delle forge.31 Secondo un’antica credenza popolare, i crateri rappresentavano la porta per il re- gno di Efesto, il Dio dei fabbri, che lavorava il ferro su un’incudine gigantesca. La popola- zione credeva che la terra cominciasse a tremare ed i vulcani sputassero fuoco, quando gli Dei si arrabbiavano. Successivamente si diffuse l’idea che questo “buco” fosse l’entrata per l’Inferno, visto che ogni tanto ne usciva del fuoco.
Il cratere del Vesuvio è quindi un luogo mitico, nel quale il fuoco ha una simbologia molto espressiva. Il fuoco aveva un significato molto ambivalente per gli abitanti dei dintorni: da una parte temevano il potere distruttivo del vulcano, dall’altra parte avevano capito che la terra arricchita di lava era molto fertile e quindi molto importante per l’agricoltura (vedi capitolo 5.1 La vegetazione rigogliosa sulle falde del Vesuvio).
“E per molti di essi, come pei loro antenati, […] la morte venne: la morte, che op- presse piante ed animali, uomini e cose. Ma questa morte, ormai si sa, non è la fine, ma un semplice doloroso trapasso ad altre forme, di piante, di animali, di uomini e di cose. Dopo un mese, un anno, due, tre cinque, dieci, cinquant’anni, successiva- mente le terre coperte di ceneri, di lapilli, di scorie e di lave, torneranno a far fiorire le piante, a nutrire gli animali, a dare agli uomini vita e ricchezza […].”32
Da tempi remotissimi l’uomo ha ingaggiato una lotta continua con il Vesuvio, volendo
controllare le forze distruttrici del vulcano. Varie volte la ‘montagna di fuoco’ ha minac- ciato e annientato centri abitati e colture ed ha causato numerose vittime. Con i suoi im- provvisi risvegli, il Vesuvio ha spesso apportato rovina e distruzione ai campi ed alla popo- lazione del posto. L’uomo, però, è sempre ritornato in quelle zone che sono state teatro di morte e disastro ed ha ripreso il suo lavoro. Così la gente è riuscita a prendere confidenza con il Vesuvio e ad imprimergli un aspetto umanizzato, utilizzando il suolo per colture, giardini e campi.33
5.1 La vegetazione rigogliosa sulle falde del Vesuvio
Già dai tempi più remoti, la fertilità delle vulcaniti ha attirato l’uomo e perciò le aree circo- stanti ai piedi del Vesuvio sono state popolate da sempre. Il vulcano non è soltanto un fe- nomeno della natura che distrugge, ma è considerato anche come forza creatrice, perché le sue falde più basse appartengono alle più floride aree agricole della Campania e di tutta l’Italia. Le pendici del vulcano sono formate da cumuli di scorie laviche, che si rivelano preziose per la vegetazione a causa della loro natura fertile.34 Sostanze come potassio e silicio non ci sarebbero, se non ci fossero le valanghe di fango e le colate di lava fuoriusci- te dal vulcano. Queste colate laviche provocano però anche la distruzione del mantello vegetale del Vesuvio. Altre conseguenze deleterie sulla vegetazione hanno le piogge cau- stiche, i gas vulcanici e la caduta di ceneri e scorie. Si tratta di sostanze nocive che ostaco- lano il paziente lavoro agricolo di più generazioni di contadini.
Nonostante il pericolo ed il rischio rappresentato dalla vicinanza di un vulcano come il Vesuvio, tante persone hanno deciso di guadagnarsi la vita in questa zona con l’agricoltura, la viticoltura o altro. La terra è talmente ricca di sostanze nutritive, che ogni anno si possono effettuare quattro raccolti di ortaggi.35
Già nell’epoca greco-romana il Vesuvio è rinomato per i vini eccellenti prodotti sulle sue pendici coperte da vigne e da densi boschi. Sulle anfore vinarie, trovate a Pompei, si trova spesso la scritta Vesvinum oppure Vesuvinum, ossia vino del Vesuvio.36 Anche oggi quel territorio è soprattutto piantato a vigna e dalle uve si ottengono il Bianco Dolce di Somma, il Vesuvio Extra37 e il Lacrima Christi, uno dei migliori vini d’Italia.38
Oltre al vino e agli ortaggi, la fertilità dell’agro vesuviano favorisce la crescita di tante altre
piante particolari, come descrive Curzio Malaparte ne La pelle: “Nel luogo dove eravamo si stendeva […] un breve prato, sparso di cespugli di rosmarino e di ginestre fiorite. L’erba era di un color verde acerbissimo, un verde crudo e lucente, di un bagliore così vivo, così inatteso, così nuovo, che pareva appena allora creata”.39
Dal clima, dal sole e dalla terra fertile del vulcano deriva quindi un paesaggio molto vivace che sin dall’antichità ha destato la meraviglia dei visitatori. Specialmente i contrasti attirano l’attenzione dell’osservatore: essi si esprimono nel distacco tra il verde della copertura vegetale e il grigio delle correnti laviche.40
Ma questa ricca vegetazione ed il paesaggio unico del Vesuvio vanno protetti. Per questo motivo è stato fondato il Parco Nazionale del Vesuvio (vedi capitolo 10.3: Il Parco Nazionale del Vesuvio).
5.2 L’eruzione del Vesuvio - una punizione di Dio?
Tertulliano, un importante apologista latino, confronta il declino delle città campane con l’annientamento di Sodoma e Gomorra41. Queste due città bibliche furono distrutte da Dio a causa della miscredenza e della decadenza dei costumi dei cittadini. Nella tradizione cri- stiana, Sodoma e Gomorra sono simbolo delle conseguenze terribili di una vita immorale e di un abbandono della fede in Dio.42 Oggigiorno l’espressione “Sodoma e Gomorra” viene utilizzata per descrivere una catastrofe disastrosa, come anche la parola apocalisse, che nella Bibbia (Apocalisse di Giovanni) rappresenta la fine del mondo, che comporta grande dolore e terrore. Nel linguaggio moderno, invece, viene utilizzata per esprimere avvenimenti orribili, come per esempio catastrofi naturali.43
Un altro esempio di una catastrofe naturale nella Bibbia è il diluvio, voluto da Dio, che ha sterminato l’umanità, secondo il racconto dell’Antico Testamento (Genesi 6, 5-11). Gli uomini, che degeneravano nel loro comportamento e avevano soltanto pensieri malvagi, avevano colmato il mondo di violenza. Vedendo che l’umanità era diventata così malvagia, Dio si pentì di averla creata e prese la decisione di annientare tutte le persone e gli animali.
L’unico con cui Dio fu misericordioso, fu Noè, che salvò la sua famiglia e ogni specie di animale con la sua Arca.
Anche la storia biblica della torre di Babele (Genesi 11,1-9) si può inserire in questa serie di racconti, perché parla della sfrenatezza peccaminosa dell’umanità. Gli uomini non tennero conto dei limiti stabiliti da Dio e vollero costruire una torre che raggiungesse il cielo. Come punizione, Dio attribuì ad ognuno una lingua diversa, così che nel brusio di lingue nessuno capisse l’altro. Babele è quindi simbolo della superbia e sfrenatezza dell’uomo, che vuole superare il potere di Dio.44
Nell’antichità, cioè nel periodo prima dell’eruzione del 79 d.C., gli abitanti convivevano tranquillamente con la montagna “addormentata”, visto che la montagna simbolizza un luogo dove la terra incontra il cielo. La cima di un monte viene spesso associata con la sede degli Dei, e rappresenta quindi un pendant dell’Olimpo.45 Come vedremo, gli abitanti di Pompei praticavano, come gli antichi Greci, un politeismo, documentato dai numerosi templi per diverse divinità a Pompei, come per esempio anche il tempio di Iside, un culto importato appunto dai mercanti greci dall’Egitto.
Vale a dire che i romani non seguivano un libro sacro, come la Bibbia, con una sua morale di riferimento. La religione per i romani si riduceva a rituali, che eseguivano o nei tempi o a casa. Senza una sovrastruttura morale, né un testo base di riferimento, che stabilisse regole e comportamenti, la società diventava molto libera e licenziosa. L’altro lato della medaglia è quindi lo stile di vita eccessivo.
Già nell’antichità, la vita degli abitanti di Pompei era piena di voluttà e lussuria come te- stimoniano ancora oggi i lupanari, i bordelli della città. Si tratta di uno stile di vita proba- bilmente mutuato dai greci. La gente di Pompei si divertiva nelle ville meravigliose, nei teatri magnifici, nei bagni pubblici e nei bordelli. Inoltre godevano i piaceri della buona tavola e passavano il loro tempo in atri decorati sfarzosamente con pitture murali e mosaici di arte straordinaria. Gran parte di queste decorazioni sono di origine greca, perché secon- do gli storici, i romani ammiravano enormemente arte e letteratura greca. La vita piena di lusso e godimento non era riservata soltanto ai ricchi di Pompei. Anche tutti gli altri ceti sociali avevano accesso all’anfiteatro, ai bagni pubblici e ai templi. In alcune delle opere analizzate nella mia tesi, l’eruzione del Vesuvio è vista come la punizione degli Dei per questo stile di vita, considerato corrotto e degenerato.
Marziale scrisse durante un suo soggiorno nel golfo di Napoli un epigramma (IV, 44), nel quale descrive sia la vegetazione ricca, procurata dagli Dei benevoli, che le devastazioni sulle falde del Vesuvio, espressione dell’ira degli Dei:
“Ecco il Vesuvio, poc'anzi verdeggiante / di vigneti ombrosi, qui un'uva pregiata / faceva traboccare le tinozze; Bacco amò questi balzi / più dei colli di Nisa, su questo monte i Satiri in passato / sciolsero le lor danze; questa, di Sparta più gradita, / era di Venere la sede, questo era il luogo rinomato / per il nome di Ercole. Or tutto giace sommerso / in fiamme ed in tristo lapillo: ora non vorrebbero gli dèi / che fosse stato loro consentito d'esercitare qui tanto potere.”46
Marziale non è stato l’unico autore che si è occupato di tale tematica. Nel 787 d.C. il monaco Gregorio torna dal secondo Concilio di Nicea, passando davanti alle coste campane nel viaggio verso Roma. Durante il tragitto osserva lo spettacolo del Vesuvio che erutta cenere ed una lava bollente che distrugge alberi, campi e edifici. Gregorio esprime i suoi pensieri in una descrizione che termina con la considerazione che “il fenomeno era una punizione divina e si augurò che gli uomini ne trassero monito per rimettersi con gran pazienza al volere di Dio e che i cattivi si convertissero.”47
5.2.1 Il Vesuvio - un luogo mitico
Originalmente le leggende ed i miti intorno al Vesuvio sono di tipo religioso e servono per spiegare agli uomini fenomeni incomprensibili. Gli avvenimenti naturali misteriosi intorno ad un vulcano formano una base molto propizia per la nascita di un mito. Proprio per que- sto motivo si sono sviluppate tante leggende e storie mitiche in questa zona. Nell’antichità prevale il mito politeistico nella Campania, visto che il territorio è una colonia greca. Pre- gando nei templi, la popolazione chiede consolazione e clemenza dai numerosi Dei e semi- dei. Con la nascita del cristianesimo, i miti politeistici sono stati sostituiti da quelli cristiani e gli Dei sono stati rimpiazzati dai Santi.
Con l’evoluzione delle scienze, gli scienziati riescono a spiegare i fenomeni vulcanici e i miti perdono la funzione di commentare fatti imperscrutabili. Le leggende però sono sopravvissute fino ad oggi e la convinzione e la fede nei Santi, che aiutano in tempi difficili, sarà sempre un fatto importante per la popolazione napoletana.48 Naturalmente esistono numerosi miti e leggende intorno a personaggi o Santi della regione, ma nella mia tesi di laurea voglio presentare soltanto un Santo che è indispensabile per i napoletani: San Gennaro. A lui e alla sua leggenda voglio dedicare il capitolo seguente.
5.2.2 San Gennaro contro il Vesuvio
“San Gennaro contro il Vesuvio. San Gennaro contro i terremoti. Da sempre, i napoletani si erano rivolti in modo speciale al loro Patrono perché li proteggesse dalle calamità naturali che così spesso sconvolgevano il territorio partenopeo.”49
Sulla vita del Patrono di Napoli, San Gennaro, non esistono tante notizie. Sappiamo che apparteneva alla gens Ianuaria, ovvero ‘consacrata al dio Ianus’ (Giano)50 e che è stato vescovo di Benevento. Quando Dragonio, il giudice della Campania, viene a sapere che il diacono Festo, il lettore Desiderio e Gennaro si incontrano regolarmente per partecipare alle funzioni religiose, ordina l’arresto. Di conseguenza i tre vengono condannati a morte, perché si rifiutano di rinnegare la fede cristiana e di offrire sacrifici agli Dei pagani. La decapitazione è eseguita il 19 settembre 305 presso la Solfatara di Pozzuoli. Secondo la tradizione, una donna raccoglie il sangue di Gennaro, serbandolo in un’ampolla. Intorno all’anno 431 le reliquie di San Gennaro sono portate a Napoli, dove il santo comincia ad assumere il rango di Patrono della città, soprattutto perché il 5 novembre 472 tanti napole- tani si rifugiano vicino al suo sepolcro durante un’eruzione del Vesuvio. Nel 512 d.C. il Vesuvio si sveglia un’altra volta ed il vescovo di allora, Santo Stefano I, dà il via alle pre- ghiere propiziatorie nel nome di San Gennaro. Inoltre Stefano I fa costruire una chiesa in onore di San Gennaro, sulla quale è innalzato il Duomo nel Duecento. Il vescovo porta il cranio e le ampolle del sangue nella cripta della nuova chiesa e dopo tanti altri spostamenti, le reliquie sono portate nel 1646 nella Cappella del Tesoro. La prima liquefazione del sangue si svolge nel 1389 e da quel momento diventa abitudine esporre le ampolle del Santo per implorare la fine dei fenomeni vulcanici.51 Nel sabato precedente la prima domenica di maggio ed il 19 settembre (festa del patrono) la città si ricorda del Santo Patrono con processioni, canti e preghiere. Nel giro di questi giorni il sangue del Santo si liquefa di solito sempre, ma spesso i cristiani devono aspettare a lungo, com’è successo nel mese di maggio del 1991, quando il sangue si è liquefatto soltanto dopo 47 ore. Infine esistono anche delle liquefazioni estemporanee che possono accadere durante pubbliche calamità o visite di celebri personaggi.
Specialmente il 16 dicembre 1631 i napoletani hanno bisogno dell’aiuto del loro patrono, perché quel giorno accade la più disastrosa eruzione del Vesuvio dopo quella del 79 d.C. Il vulcano è in quiescenza da circa 150 anni ed i napoletani si sono disabituati al terrore della lava. L’eruzione non è stata prevista da nessuno e procura danni gravissimi: la lava bollen- te invade i paesi sulle pendici del vulcano, rocce ed altro materiale eruttivo cadono dal cie- lo. La città è coperta per alcuni giorni da una fitta pioggia di cenere. La popolazione si tro- va di fronte ad uno scenario da giudizio universale e considera la furia del vulcano come una punizione di Dio. Magari sono i loro peccati quotidiani che provocano l’ira di Dio e infuocano la loro montagna?52
Quale possibilità di salvezza se non l’aiuto di San Gennaro? Il vescovo decide l’esposizione delle ampolle col sangue e si accorge con sollievo che si è già liquefatto. In tutta la città si svolgono processioni e si sentono preghiere e prediche. Alla fine la popola- zione porta l’ampolla con il sangue di San Gennaro verso la montagna ardente ed accade un miracolo: il sangue liquefatto del Santo ferma la colata di lava. Quando il vulcano dopo qualche giorno smette di sputare fuoco, la popolazione di Napoli non deve piangere nean- che una vittima. Per ringraziare il loro Patrono è stata stabilita una terza festività ianuaria- na, istituita proprio il 16 dicembre: la festa del ‘patrocinio di San Gennaro’.
Dal 16 dicembre 1631, la fede nel patrono di Napoli si rafforza sempre, quando i napoleta- ni si sentono in pericolo. Ed è ovvio che la ‘lotta’ tra San Gennaro ed il Vesuvio è destinata a proseguire. Nel 1658, nel 1707 e nel 1767 accadono nuove eruzioni disastrose e la popo- lazione della città partenopea reagisce con panico e disperazione. Sempre, quando Napoli era scampata alle immani catastrofi, i napoletani facevano costruire altri monumenti per ricordare il prodigioso intervento del Santo. Le preghiere disperate, recitate dai napoletani in tempi disgraziati, sono una specie di difesa religiosa contro le catastrofi. In questi mo- menti difficili i partenopei pregano San Gennaro, ricordando l’iscrizione che si trova all’ingresso della Cappella del Tesoro:
“Divo Ianuario / E Fame Peste Bello / Ac Vesaevi Igne / Miri Ope Sanguinis / Erepta Neapolis / Civi Patroni Vindici.”53
Non si tratta soltanto di un’iscrizione, anzi, è anche un atto di fede nel quale risuona lo spirito con cui i napoletani guardano al loro Santo. San Gennaro non è solo il Patrono di Napoli ed un martire della fede, ma è anche un amico, un compagno di strada e un soste- gno sicuro nei momenti di difficoltà.54 Queste situazioni sgradevoli vivono ancora oggi nella mente dei napoletani: il Vesuvio rimarrà per sempre una minaccia. Per fortuna esiste San Gennaro che, secondo i napoletani, aiuta in ogni situazione d’emergenza ed allontana ogni male che minaccia Napoli.55
6 La Ginestra o il fiore del deserto di Giacomo Leopardi
6.1 La vita di Giacomo Leopardi
Giacomo Leopardi nasce il 29 giugno 1798 a Recanati, una cittadina sonnacchiosa dello Stato pontificio. Tra il 1809 e il 1816 il giovane Leopardi comincia a perfezionare e appro- fondire le sue conoscenze nella ricca biblioteca del padre, il conte Monaldo Leopardi. I suoi studi eccessivi gli creano danni irreparabili alla salute, ossia una schiena deformata, gobba, e una malattia agli occhi. Dal 1819 in poi Leopardi tenta più volte la fuga dalla sua prigione familiare, e si reca per esempio a Roma (1822), a Bologna e Milano (1825/26), a Firenze e Pisa (1827/28) e infine anche a Napoli. Egli resterà nella capitale campana dal 1833 fino al 14 giugno 1837, il giorno in cui more all’età di 39 anni.56 Il periodo napoletano di Leopardi, ossia il periodo che ha passato sulle falde del Vesuvio, è quello più importante per la mia tesi di laurea, visto che ha spinto il poeta a scrivere una delle sue più famose poesie, La ginestra. Per questo motivo descriverò in modo più detta- gliato gli anni dal 1833 al 1837.
6.2 Il periodo napoletano
Nell’ottobre del 1833 Leopardi e il giovane scrittore Antonio Ranieri, un suo caro amico napoletano, con cui ha già passato alcuni mesi a Roma, si trasferiscono a Napoli. Il poeta aveva pochi contatti con la città partenopea e con la sua gente. Proprio per questo fatto e per le condizioni di salute, che peggiorano sempre di più durante l’inverno, Leopardi si trasferisce nell’aprile del 1836 nella villetta di Giuseppe Ferrigni, il cognato di Antonio Ranieri. La villa Ferrigni si trova sulle falde del Vesuvio, presso Torre del Greco, e costi- tuisce un luogo, dominato dal vulcano, con paesaggi bellissimi e colori intensi.57 Il poeta riesce a fondersi completamente con lo scenario naturale del vulcano. La natura e la bel- lezza del luogo lo ispirano a comporre l’ultimo ‘canto’, quello della saggia ginestra.58
6.3 La ginestra, o il fiore del deserto
La poesia La ginestra o il fiore del deserto è forse una delle poesie più ammirate della let- teratura italiana. Ma perché tanta ammirazione? Nel cosiddetto testamento poetico e umano di Giacomo Leopardi confluiscono i temi e i moduli stilistici fondamentali dei Canti. Inol- tre troviamo nella Ginestra una lirica sostanzialmente nuova e rivoluzionaria. L’ultima poesia di Giacomo Leopardi è nata nell’ultimo anno di vita del poeta, nel 1836, ed è uscita nella terza e definitiva versione dei Canti. Questa versione, che contiene quarantun testi, è stata pubblicata soltanto dopo la morte dell’autore (nel 1845) da Antonio Ranieri.59 L’autografo della poesia è smarrito, ma Ranieri ci ha consegnato il testo della Ginestra in tre copie. Le varianti sembrano seguire un ordine di successione e contengono correzioni che probabilmente sono state dettate direttamente dal poeta. Invece è improbabile che tutta la poesia sia stata scritta da Ranieri sotto dettatura, dato che è assai lunga e complessa. La ginestra viene classificata con il numero XXXIV, si tratta quindi dell’ultimo canto di Leo- pardi, dopo il Tramonto della luna. A causa dell’assenza dell’autografo, esistono alcune incertezze testuali: da una parte Leopardi non ha mai scritto delle strofe così lunghe, dall’altra parte ci sono dissonanze formali, visto che il poeta preleva in modo trasgressivo dei termini linguistici dalla politica e dal giornalismo. Inoltre troviamo una certa rilassatez- za formale nella Ginestra, che non può essere considerata come errore, visto che Leopardi l’ha scritta con l’intento di creare una poetica nuova. Un esempio è la successione di parole uguali alla fine di versi che stanno vicini.60
Si tratta comunque di una lirica rivoluzionaria, scritta contro le dottrine della perfettibilità umana e contro la religione cristiana.61 Ma dell’ateismo leopardiano e del progressismo dell‘Ottocento parlerò dopo (vedi capitoli 6.4.1: La natura nemica, l’ateismo leopardiano ed il progresso eccessivo).
Con i 317 versi, divisi in sette strofe di lunghezza assai irregolare, la Ginestra è la più lunga delle poesie di Leopardi. Si tratta di una canzone libera in endecasillabi e settenari.62 Fino a quella poesia, l’autore non aveva mai scritto in quel modo, cioè con una struttura libera e diseguale.63 Inoltre ci sono molte innovazioni sorprendenti del metro e del ritmo nella seconda metà della Ginestra.
6.4 Interpretazione della poesia
Un’interpretazione approfondita di un poeta assai grande come Giacomo Leopardi non è molto facile, anzi, un’analisi che riguardi tutti gli aspetti della filosofia del Recanatese è quasi impossibile. Quindi ho deciso di concentrare l’interpretazione nella mia tesi di laurea su tre filoni principali nella poesia La ginestra o il fiore del deserto: la natura nemica, l’ateismo leopardiano e il progresso eccessivo.
6.4.1 La natura nemica, l’ateismo leopardiano ed il progresso eccessivo
La mia analisi sulla rappresentazione della natura nella Ginestra si basa in gran parte sull’interpretazione di Raffaele Sirri, che nel suo saggio La ginestra ovvero la condanna ad esistere si occupa dei temi natura e esistenza.64
La filosofia di Leopardi della natura nemica non è nata all’improvviso, ma si è sviluppata pian piano, con tante riflessioni. Per capire meglio la Ginestra, faccio un riassunto dei suoi pensieri, dalla gioventù fino alla famosa poesia del 1836. Il tema della natura accompagna il poeta già nella sua prima produzione letteraria. Il giovane Giacomo segue le orme dell’illuminista francese Jean-Jacques Rousseau (1712 - 1778) e viene a conoscere le sue idee. Dopo ne sviluppa un primo sistema di pensiero: l’infelicità umana non dipende dalla natura, perché la natura ha una forza positiva e benigna e produce sogni generosi, che comportano la grandezza dell’uomo.65 Qui si tratta di un pensiero molto vicino al mondo dei popoli antichi, che vivevano a stretto contatto con la natura.66 Essa significa armonia e fiducia e rappresenta un rifugio dalla vita crudele e deprimente, non solo per i popoli anti- chi, ma anche per Leopardi, che non si sente al suo agio a Recanati, a causa della sua de- formità fisica e della solitudine che ne risulta. Quindi si chiude nella biblioteca e studia i libri dei greci, che rappresentano la cultura arcaica dell’umanità, ossia l’infanzia dell’umanità. Essi erano capaci di grandi sogni e avevano fiducia nella natura. In questo periodo nasce la poesia L’infinito, che tratta dell’armonia con la natura. I moderni invece hanno perduto questa fiducia. La civiltà umana ed il progresso eccessivo hanno distrutto le illusioni del mondo antico, che rendevano la vita sopportabile. La transizione dall’età ar- caica verso l’età moderna ha portato l’abbandono dell’uomo ad un’infelicità insopportabi- le. In altre parole: l’evoluzione ha reso l’uomo infelice e disperato. Dato che l’infelicità umana è ritenuta un fenomeno storico, la prima fase del pensiero leopardiano viene anche chiamata il pessimismo storico.67 Tra il 1819 e il 1823, la sua filosofia sulla natura entra in crisi, e Leopardi si vede costretto a rivedere le sue teorie. Già prima della crisi, egli consi- derava che la natura non fosse capace di garantire la felicità agli uomini. Ma dal 1823 in poi le riflessioni comportarono una ridefinizione del concetto di “natura”: la natura che fungeva da rifugio nei testi giovanili di Leopardi diventa una natura crudele, che distrugge tutta l’aspirazione della specie umana alla felicità. La natura è responsabile dell’infelicità dell’uomo, perché procura delusioni, sofferenze e noia alla vita umana, con l’unico scopo di far morire i viventi. Secondo Benedetto Croce, questa nuova filosofia di Leopardi si sviluppa anche perché il poeta è un essere infelice e infermo, quindi non può che adottare una filosofia negativa e pessimista.68 Il poeta invece non avrebbe condiviso questa inter- pretazione. Ora non possiamo più parlare di un pessimismo storico, perché l’infelicità deri- va dalle condizioni essenziali dell’uomo. Questa seconda fase del pensiero leopardiano viene perciò chiamata “pessimismo cosmico”.69 Leopardi si pone al livello intellettuale dei grandi francesi del Settecento e sviluppa la visione della natura matrigna. La meta dell’uomo è il raggiungimento della felicità, però ciò è impossibile, perché l’universo è ostile agli esseri umani.70 Questa idea è una visione atea, perché non esiste una forza divina che aiuta agli uomini a vivere felicemente. Anziché Dio che ci riserva un paradiso dopo la morte, esiste un pessimismo radicale e disperato, provocato dalla natura matrigna e basato sulla mancanza totale di speranza. La civiltà razionale ha distrutto l’illusione, fa progredire la scienza e l’industria, e si impadronisce della natura. Il procedere della civiltà è considerato un movimento opposto alla natura.71 Questo progresso distrugge la felicità e la speranza, così che non esiste più niente oltre alla morte. Leopardi è il primo a sprofondare in questo pessimismo fondamentale che appare di nuovo nel Novecento: il cosiddetto esistenzialismo. Quindi la modernità del Novecento viene addirittura annunciata da Leopardi, che si trova alla ricerca di una via d’uscita dalla disperazione.
Durante l’Ottocento si verifica un progresso che, secondo Leopardi, comporta l’infelicità dell’umanità. La disperazione leopardiana è, però, un fenomeno marginale. Egli non è capace di adottare questa visione del progresso scientifico, perché si sente isolato e perduto. Proprio da questo sentimento d’isolamento nasce il pensiero dello scetticismo, che diventerà la corrente dominante nel Novecento.
Verso la fine della sua vita, Leopardi giunge alla conclusione che il genere umano è pro- fondamente isolato nell’universo e che si vede confrontato con una natura matrigna, senza il sostegno di un Dio. L’unica soluzione per l’umanità è confederarsi contro le offese della natura. La disperazione dell’individuo è cresciuta talmente, che la via d’uscita è la solida- rietà con gli altri uomini, perché siamo tutti nella stessa situazione, ossia siamo tutti con- frontati con la morte. Perciò dobbiamo scoprire la nostra amicizia e la nostra fratellanza per essere capaci di un aiuto reciproco e di una rivolta contro il difetto fondamentale dell’universo e contro l’ingiustizia cosmica.72
6.4.2 Analisi della poesia
Qui non voglio riportare tutto il testo della Ginestra, visto che si tratta di una poesia abbastanza lunga e complicata, ma vorrei piuttosto riprodurre dei versi che mi sembrano importanti per l’analisi.
La confederazione degli uomini contro i flagelli della natura si manifesta in vari modi nella Ginestra. La ginestra è un fiore che Leopardi ha potuto vedere e cogliere durante le sue gite sul Vesuvio negli ultimi anni della sua vita, passati nella villa Ferrigni insieme a Anto- nio Ranieri.
Qui su l'arida schiena Del formidabil monte Sterminator Vesevo, La qual null'altro allegra arbor né fiore, Tuoi cespi solitari intorno spargi, Odorata ginestra, Contenta dei deserti. (vv. 1-7) La dizione dei versi di apertura ha un timbro fermo e impersonale, indurito come il flutto lavico73, e mette subito al centro dell’attenzione i due elementi fondamentali del testo: da una parte il desolato paesaggio vulcanico (l’arida schiena / Del formidabil monte / Stermi- nator Vesevo - vv. 1-3), e dall’altra parte l’odorata ginestra (v. 6), che “rappresenta l’anelito della creatura debole […] a una vita che gli viene negata dalla natura matri- gna”74. Ma allo stesso tempo si tratta di un cespuglio capace di gioia e resistenza, come dimostra il “suo timido eppur forte palpito di vita sulla sterminata squallida distesa della lava pietrificata”.75 La ginestra cresce anche laddove altre piante non riescono a stabilirsi, cioè nel flutto indurato (v. 160), dove essa affonda le sue radici, in mezzo del deserto nero. Lo Sterminator Vesevo (v. 3), che ha distrutto le ville ed i giardini delle famose città anti- che, invece rappresenta la forza ostile della natura e costituisce per Leopardi l’elemento negativo per eccellenza. A confronto di questa potenza naturale l’uomo, sia l’uomo moder- no che quello antico, è nulla. La forma Vesevo è la forma latina della parola Vesuvio. Pro- babilmente Leopardi ha scelto questo arcaismo consapevolmente, per sottolineare il rap- porto fra il monte e l’antichità. Si tratta di un arcaismo che ci fa pensare subito all’eruzione del 79 d.C. che ha distrutto Pompei e ha cancellato la cultura pompeiana. Una particolarità costituisce il settimo verso: contenta dei deserti, perché Leopardi vuole esprimere il fatto che il fiore trova piacere in questo ambiente desertico e non è per niente infelice.
In seguito, il poeta ricorda un suo viaggio nel passato a Roma, dove ha già una volta incon- trato la ginestra e il profumo del fiore si è mischiato alle nostalgie per l’impero morto, che una volta era famoso per la sua gloria e la grandezza. Dopo l’esperienza romana, il poeta rivede la ginestra sulle falde del Vesuvio e fa il confronto tra la pianta fragile e la natura brutale, che risulta ancora più diretto: la vita è permanentemente in pericolo di morte ina- spettata.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi Lochi e dal mondo abbandonati amante, E d'afflitte fortune ognor compagna. (vv. 14 - 16)
La ginestra si sente al suo agio nel deserto lavico e perciò si tratta di una compagna di po- tenze abbattute (come la Roma imperiale e la Pompei romana) e destini infelici.76 Qui tro- viamo un’allusione alla situazione di Leopardi. Nei luoghi in cui cresce la ginestra si tro- vano anche delle persone infelici. Si tratta di luoghi abbandonati e campi cospargi (v. 17) di ceneri sterili, ricoperti di lava dura come pietra. Nel passato, questi campi sono stati co- perti dalle ville, dai palazzi e dai giardini di città gloriose e famose, come Pompei, Ercola- no e Stabia, le quali il monte superbo ha ricoperto con torrenti di lava insieme agli abitanti.
[…] e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse Con gli abitanti insieme. (vv. 29 - 32)
Oggigiorno tutto intorno è segnato dalla distruzione e dalla rovina, ma l’unica bellezza nel mezzo del deserto nero è la ginestra, il fior gentile (v. 34), che commisera le disgrazie degli altri e manda un profumo dolcissimo che consola perfino il deserto. Però la ginestra in sé non è gentile e non è nata per consolare i sofferenti. Invece è un prodotto casuale della na- tura e, come anche gli uomini, non conosce il proprio destino. A farla gentile e ad asse- gnarle una funzione umana è l’uomo stesso, consapevole della sventura della sua vita. La ginestra viene guardata dall’uomo con fraterna simpatia.77 È molto particolare che nella descrizione della ginestra manchi ogni sensazione visiva, cioè non venga mai menzionato l’intenso colore giallo del fiore. C’è soltanto la sensazione dell’olfatto, che sente il profu- mo della ginestra.78
Nella prima strofa, la rovina del Vesuvio, simbolo dello sterminio, smentisce la concezione ottimistica e la fiducia nel progresso.79
Inoltre troviamo espressioni come amante natura (v. 41) e dura nutrice (v. 44) in questa strofa, che rappresentano la venatura sarcastica e il carattere pluritonale di questo canto.
A queste piagge Venga colui che d'esaltar con lode Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto È il gener nostro in cura All'amante natura. E la possanza Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme, Cui la dura nutrice, ov'ei men teme, Con lieve moto in un momento annulla In parte, e può con moti Poco men lievi ancor subitamente Annichilare in tutto. (vv. 37-48)
Gli ultimi versi di questo passaggio esprimono il potere e la forza della natura, la quale è capace di distruggere tutto in un colpo con un minimo movimento.80 Mentre la prima strofa era segnata da un “linguaggio immaginoso […] e l’orditura temati- ca si era sviluppata in concatenazioni di immagini e risonanze”81, la seconda strofa è caratterizzata da “un linguaggio prosastico e didascalico”82. Inoltre è da notare l’asciuttezza della dizione e l’essenzialità del tessuto logico83. La seconda strofa riprende la tematica della prima strofa, e ne deriva una rilettura critica delle scelte filosofiche degli ultimi decenni: Dipinte in queste rive // Qui mira e qui ti specchia (v. 49 // v. 52).84 In questa strofa Leopardi si rivolge al Secol superbo e sciocco (v. 53), ossia all’Ottocento, che viene qui personificato dal poeta e perciò considerato un interlocutore concreto.
L’Ottocento è segnato dalla fede nell’uomo e nel progresso infinito: da una parte si svolge la rivoluzione industriale e dall’altra parte la scienza fa progressi. Tutto ciò fa nascere un clima di ottimismo e gli europei credono nel futuro che porterà giustizia sociale, industria- lizzazione e benessere per tutti. Gli uomini dell’Ottocento si credono dominatori della na- tura. Non esiste più la fede nella natura, ma si sviluppa la fede nella scienza e nel progresso che trasformano il mondo. Leopardi, invece, è avverso alla visione del progresso tecnico- scientifico che costituisce la corrente del pensiero ottocentesco. Secondo lui, il “solo pro- gresso autentico è quello compiuto fin dall’antichità in quanto l’uomo è riuscito a sbaraz- zarsi delle sue false credenze per giungere a una razionalità disingannata, disposta a ac- cogliere con calma e senza illusioni i messaggi crudeli dell’universo dominato dalle forze nemiche all’uomo.”85 L’umanità è riuscita a liberarsi dalle divinità e si crede al centro dell’universo, perciò è capace di governare il mondo e quindi non ha più bisogno di un Dio.86 Ciò viene espresso negli ultimi versi della seconda strofa, nei quali viene sostenuto il carattere divino degli uomini, o almeno delle loro anime:
e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle. (vv. 83-86)
In questi versi Leopardi vuole esprimere che chi sostiene la natura divina degli uomini inganna se stesso e gli altri, o in buona, o in cattiva fede: Ci sono gli uomini furbi, che sono interessati alle falsità che sostengono, oppure gli uomini folli, che sono ingenuamente fiduciosi nella propria posizione.87
La terza strofa si lega alla seconda con la ripresa di un contrasto: Fin sopra gli astri il mortal capo estolle // Uom di povero stato e membra inferme (v. 86 // v. 87). Nella prima parte della strofa (fino a v. 110) Leopardi porta un esempio allegorico: Un uomo povero e malato si può comportare in due modi diversi: o fa capire come sta veramente e dimostra così di essere ‘nobile’, oppure simula la ricchezza e una finta prestanza fisica, il che viene considerato un comportamento sciocco. Secondo Leopardi, anche all’umanità si offrono queste due scelte.
[...]
1 Lawrence 2000, p. 41
2 Renna 1992, p. 23
3 L. Cornelius Sisenna (ca. 118 - 67 a.C.) - Lib. IV
4 Marcus Terentius Varro (116 - 27 a.C.) - De re rustica I 6,3; I 15
5 Publio Papinio Stazio (ca. 45 - 96 d.C.) - Silviae III 5,72; IV 8,5
6 Gaio Valerio Flacco († 95 d.C.) - Argonatica III 209; IV 507
7 Marco Valerio Marziale (40 - 104 d.C.) - IV 44 Renna 1992, pp. 33 - 34; Mühlenbrock 2005, pp. 13 - 15
8 La Posta 1994, p. 1
9 Carmelo 1966, pp. 7 - 9
10 Frank 2003, p. 31
11 Carmelo 1966, p. 5
12 Frank 1997, pp. 45 - 77
13 Pichler 1970, p. 125
14 Loosli 1963, pp. 15 - 21
15 La Posta 1994, p. 2
16 Loosli 1963, pp. 11 - 12
17 Renna 1992, p. 16: La denominazione greca: phlegraion oros (= montagna di fuoco)
18 Ibidem, p. 18
19 Ibidem, p. 17
20 Richter 2005, p. 73
21 Roncoroni, 02.08.2006
22 Gaio Plinio Cecilio Secondo (61/62 - 113/115 d.C.)
23 Gaio Plinio Secondo (23/24 - 79 d.C.)
24 Bisel 1991, p. 29
25 Bütler 1970, p. 82 - 84
26 Renna 1992, p. 54
27 Ibidem, p. 36 (König 1979, p. 81: Strabone: Geogr. 5,4,247)
28 Ibidem, p. 21
29 Ibidem, p. 57 nota a piè di pagina 202, (Epist. VI,20) 13
30 Jung-Hüttl 1994, p. 127
31 Loosli 1963, p. 5
32 De Lorenzo 1931, p. 112
33 Carmelo 1966, p. 6
34 Vesuvio in rete, 03.08.2006
35 Bisel 1991, p. 61
36 Gamboni 1992, p. 16
37 Carmelo 1966, p. 83
38 Antignani 2005, p. 138
39 Malaparte 1959, p. 378
40 Carmelo 1966, p. 6
41 Quinto Settimio Fiorente Tertulliano (ca. 150 - 220 d.C.) - De pallio 2,4
42 Müller-Kaspar 2005, p. 261
43 Ibidem, p. 23
44 Müller-Kaspar 2005, p. 31
45 Ibidem, p. 37
46 Marco Valerio Marziale (ca. 40 - 104 d.C.) - Epigrammata IV, 44
47 La Posta 1994, p. 141
48 Musumeci 2004, p. 7
49 Grieco 1992, pp. 93 - 94
50 Il nome Gennaro ha la sua origine nel nome latino Ianuarius, che deriva da Ianus o Giano. Ianus è una divinità romana bifronte, responsabile per le porte e per l’inizio dell’anno (perciò il primo mese si chiama ‘gennaio’), visto che ha due facce, una che guarda l’anno vecchio e una che guarda l’anno nuovo. Huth 1932, pp. 11 - 14 e 35 - 50 La Stella 1993, p. 168 e 173
51 Grieco 1992, pp. 92 - 95 e Cattaniani 1993, p. 456 - 458
52 Frank 1997, p. 48
53 “A San Gennaro. Dalla fame, dalla peste, dalla guerra e dal fuoco del Vesuvio per la potenza del meraviglioso sangue, Napoli liberata (dedica) al cittadino Patrono, difensore.” (Grieco 1992, p. 96)
54 Grieco 1992, p. 96
55 Richter 2005, pp. 33
56 Luperini 2000, p. 125
57 Brilli 2000, p. 98
58 Panicara 1997, p. 6
59 Luperini 2000, p. 181
60 Sirri, in: Neumeister 1997, pp. 259
61 Levi 1997, p. 133
62 Luperini 2000, p. 228
63 Sirri, in: Neumeister 1997, p. 259
64 Ibidem, p. 259
65 Luperini 2000, p. 134
66 Kirsch 2006, p. 23
67 Luperini 2000, p. 134
68 Kirsch 2006, p. 24
69 Luperini 2000, p. 135
70 Kirsch 2006, p. 24
71 Luperini 2000, p. 135
72 Kirsch 2006, p. 29
73 Sirri, in Neumeister 1997, pp. 262 - 263
74 Kirsch 2006, p. 31
75 Mazzali 1974, p. 274
76 Mazzali 1974, p. 274
77 Sirri, in Neumeister 1997, p. 266
78 Ferrero 1991, p. 54
79 Luperini 2000, p. 239
80 Ibidem, p. 230
81 Sirri, in Neumeister 1997, p. 268
82 Ibidem, p. 268
83 Ibidem, p. 268
84 Ibidem, p. 268
85 Kirsch 2006, p. 31
86 Ibidem, p. 31
87 Luperini 2000, p. 231
- Quote paper
- Mag. Verena Lindtner (Author), 2007, Il Vesuvio - un vulcano nella letteratura e nella cultura, Munich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/78817
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