Il presente studio ha l’obiettivo di inquadrare primariamente il fenomeno moderno del documentarismo e del suo aspetto artistico correlativo che, per comodità, continueremo a chiamare Street Photography alla luce delle teorie e pratiche storiche, con una focalizzazione sul momento cruciale della nascita del concetto di “momento decisivo” con Henri Cartier-Bresson e gli artisti che, venuti dopo di lui, si sono ispirati al suo pensiero.
La ricerca affronta le tematiche filosofiche e artistiche in relazione alle principali questioni aperte in questo ambito: la riduttività della definizione del “genere” e la difficoltà di trovarne un succedaneo più adeguato; le relazioni altalenanti tra documentarismo e arte, tra documentare oggettivamente e comunicare soggettivamente la propria visione del mondo; l’aspetto antropologico sotteso alla pratica che consente di diventare testimoni del nostro tempo raffigurandolo a mezzo immagini; il collegamento sociale al territorio, allo spazio umano e alle espressioni artistiche dell’uomo nello stesso, come strumenti per il cambiamento sociale; la ripercussione del fenomeno del digitale e in particolare della fruizione ubiquitaria del mezzo nel contesto urbano.
Per finire, la relazione sempre imprescindibile con l’attimo passeggero, che può trafiggere come il punctum barthesiano, e che può rendere questa forma d’arte un’espressione sublime; un linguaggio universale che non fa mai perdere la possibilità di memoria: ossia, quel segno “indicale” che ha contraddistinto da sempre il mezzo; e quella possibilità di trasmissione e di poesia, che sono qualità uniche della fotografia.
Sommario
INTRODUZIONE
PARTE PRIMA
1. Henri Cartier-Bresson e il momento decisivo
1.1 La riflessione su Eugène Atget, André Kertész e Walker Evans
1.2 L’incontro con i surrealisti
1.3 L’approdo alla concezione del momento decisivo: il reportage
1.4 La pittura come complemento al momento decisivo della fotografia
1.5 Il momento decisivo e le sue relazioni con le poetiche artistiche
2. La nascita e la difficile definizione di un genere
2.1 Dallo studio alla strada
2.2 La street photography: caratteri e criteri di analisi, comuni, di un genere
2.3 Il superamento del pittorialismo (Stati Uniti)
2.4 La rappresentazione della “everyday life” (Londra)
2.5 L’ultima ondata del reportage del Novecento (Stati Uniti)
PARTE SECONDA
1. Le nuove poetiche degli anni Duemila
1.1 I criteri di analisi tra ieri e oggi
1.2 Un nuovo approccio filosofico: tra reale e artificiale
1.3 Oltre il documentarismo in Inghilterra
1.4 La difficile affermazione in Italia
1.5 Il nuovo potere formale della composizione e della luce negli Stati Uniti
2. I valori di una post- street photography
2.1 Il contesto storico post-moderno
2.2 Le nuove realtà della strada: dalle emergenze sociali agli attentati terroristici
2.3 Pratiche tra il frivolo e il serio, tra la banalità e l’insolito
2.4 I nuovi “luoghi”
2.5 Il decostruzionismo del racconto tradizionale
CONCLUSIONI
APPARATO FOTOGRAFICO
BIBLIOGRAFIA
INTRODUZIONE
Fin dagli esordi la fotografia ha rappresentato per l’uomo un mezzo di comunicazione con il mondo esterno che lo circonda. Ha stimolato nei fotografi la curiosità per la vita e per il reale, di cui è divenuta testimonianza concreta, neutrale e diretta. Oltre a questo, la fotografia è stata utilizzata come un modo originale di riflettere sulla realtà della “strada”, colta nella sua istantanea bellezza o nella sua dirompente drammaticità, e il suo nuovo linguaggio si è prestato altresì per un utilizzo più creativo del medium.
Il primo elemento caratterizzante, quello oggettivo e scientifico, si ricollega allo “stile documentario”1 che compare sulla scena della fotografia negli anni Venti del Novecento e la cui idea centrale, quella appunto di produrre un “documento” dalla forma impersonale e scevro di contenuto narrativo, affonda le sue radici nel lontano Ottocento. Tuttavia, solo con Walker Evans sarà definito “stile”2 ed entrerà a pieno titolo nei generi artistici. Dunque, secondo il critico Olivier Lugon, prima degli anni Venti il termine “documentario” è la negazione dell’arte. Poi, negli anni Trenta, invece, vediamo il fiorire di una tendenza opposta che li porta a concepirli come inscindibili: nasce l’“arte documentaria”. Tuttavia, si tratta ancora di una posizione piuttosto ambigua in quanto si vuole far assurgere la fotografia al rango dell’arte accettando l’automatismo del medium, la sua meccanicità, tenendo fede alla finalità della registrazione del reale, in linea con le Avanguardie e in controtendenza con il pittorialismo ancora dominante. Questo “approccio” conduce ad esiti confusi sia nella forma sia nella missione dell’arte documentaria. Viene accettata la concezione della pratica documentaria in generale come arte, ma non si spiega come mai solo per certi lavori artistici. Soltanto nel corso degli anni Trenta, dopo la riscoperta di Eugène Atget e con il lavoro di Walker Evans e di August Sander, avviene finalmente la dissociazione tra “documento” e “documentario” e l’arte documentaria entra a pieno titolo nella categoria estetica, anche se ancora in modo dibattuto3. A partire dalla fine degli anni Quaranta, quest’arte a poco a poco declina e sparisce lasciando spazio ad altre forme come la fotografia umanista e il nascente fotogiornalismo.
Torniamo ora al secondo aspetto della fotografia con finalità documentarie, che avevamo introdotto inizialmente, ossia quello più riflessivo, quello che mostra un legame più sciolto con tutto ciò che ci accade intorno. Esso si collega, a partire dal dopoguerra, al contenuto di una nuova categoria chiamata fotografia di “strada” o Street Photography. Gli artisti di questa generazione che hanno iniziato a lavorare su un tale “genere” non si sono mai identificati in esso in modo completo, sia perché ne hanno sperimentati diversi ad ampio spettro, sia perché si tratta, come vedremo, di un’etichetta che annovera da sempre esperienze molto diverse fra loro. Non solo gli esiti formali sono stati variegati perché caratterizzanti il linguaggio specifico di un autore, ma anche gli “stili” adottati sono stati difformi, se per stile consideriamo una “combinazione di forma e contenuto che detta insieme pensiero ed espressione”4.
Il dibattito sulla natura della Street Photography è proseguito tra gli storici e i teorici, lungo il solco della vecchia tradizione: si tratta di “arte” o “documento”, o una combinazione di entrambi che introduce una sorta di nuova “arte documentaria”? Anche con l’avvento della Street non si giunge ad una visione comune. Di certo esiste uno stretto legame della Street con la tradizionale fotografia documentaria da un lato e con il fenomeno del fotogiornalismo dall’altro. Lo studioso americano Clive Scott5 sottolinea la complessa natura di queste generi artistici analizzando il passaggio da Atget a Henri Cartier-Bresson, e arriva a separare (e ad equiparare) i due generi non facendone più un discorso estetico, ma piuttosto di approccio ad un contesto. Osserva come Lugon nella sua analisi abbia “scartato” i francesi Cartier-Bresson, Doisneau, Kertéz (a parte Atget) perché in quel paese non ritrova più nelle pratiche la neutralità del “documento”, ma all’opposto una fotografia narrativa, il reportage, che esalta l’istantanea e le inquadrature periferiche.
Uno degli aspetti fondamentali e comuni in tutte le pratiche della nuova Street Photography è il tempismo nell’esecuzione. Lo scopo principale, che porta a risultati finali anche molto diversi, consiste nel riprendere i soggetti in situazioni reali e spontanee, cogliendoli in momenti inaspettati.
Henri Cartier-Bresson (Chanteloup, 1908 - Montjustin, 2004) è il punto centrale di questo nostro lavoro in quanto a metà del XX° secolo è stato il più grande interprete e innovatore di tutti gli aspetti precedentemente menzionati: autore di servizi di fotogiornalismo documentaristico da tutto il mondo e, allo stesso tempo, creatore di immagini spontanee con una combinazione perfetta di elementi compositivi, che lo hanno designato artista e teorico della poetica innovativa del “momento decisivo”. In realtà, una poetica simile per certi aspetti e antesignana era stata già avanzata qualche decennio prima con l’esperienza del fotodinamismo che, nell’ambito del movimento futurista, aveva introdotto la “visione istantanea” e aveva coniato per la prima volta nella storia l’espressione di “fotografia candida”6.
La presente ricerca si focalizza sull’analisi della cosiddetta età dell’oro del nuovo genere “documentario” e di quello che definiremo il suo correlativo, ossia la Street Photography, così come teorizzati e praticati da Henri Cartier-Bresson e da altri grandi maestri tra cui William Klein e Garry Winogrand, a metà del secolo scorso fin verso gli anni Sessanta.
Sullo sfondo dei principali eventi storici mondiali che hanno caratterizzato il dopoguerra, si passeranno in rassegna i luoghi più importanti che hanno celebrato la genesi di un “genere” artistico e che hanno visto applicate queste poetiche. In Occidente, da Parigi a Londra, fino a New York la vita metropolitana è un pullulare continuo di stimoli, di idee, di spunti di vita. Ma anche un teatro di eventi drammatici: gli scontri sociali, le contestazioni politiche, le contraddizioni ideologiche. E poi c’è l’Oriente. La guerra fredda fra est e ovest, con il blocco sovietico e la costruzione del muro di Berlino, la crudeltà della guerra del Vietnam, i violenti conflitti indo-pakistani.
A questa grande ondata fa seguito un momento di maggiore stasi, in cui intervengono dibattiti nuovi. Gli slanci del fotoreportage hanno dapprima una battuta d’arresto, poi un ripiegamento interiore, continuando lungo la loro strada, ma seguendo il filone della fotografia “umanista”. Tra gli anni Settanta e Ottanta era infatti riapparsa la discussione sull’aspetto documentaristico della fotografia e la storia dell’arte documentaria torna ad essere un fondamentale punto critico di riferimento. Secondo la critica inglese Liz Wells7, era ritornato in auge il dilemma filosofico riguardo la distinzione cartesiana tra soggetto e oggetto, tra osservatore e osservato. Queste riflessioni avevano smascherato il mito del documentario come verità vista in modo neutrale e assoluta. Prima i fotografi erano considerati come “ricettori d’immagini” con un alto grado di oggettività e un basso grado di creatività, quest’ultimo relegato al riconoscimento di alcuni momenti narranti, ricchi di pathos, seguendo il filone del “momento decisivo” cartier-bressoniano. Poi, a partire dagli anni Settanta, la visuale si allarga e inizia ad affacciarsi la preoccupazione sulla “politica” di rappresentazione in pubblico: le fotografie sono esaminate in relazione al loro contesto di produzione, alle intenzioni e alla capacità del fotografo. Gli interrogativi che ci si pone riguardano “chi” deve fotografare e “che cosa”, con “quali modalità” e per “quali scopi”. La fotografia di “strada” persuade la gente a guardare la realtà da altri punti di vista più soggettivi, razziali, di genere, di classe, di etnicità e rende l’osservatore, a sua volta, sempre più in grado di diventare un “produttore di immagini” sociali. Allo stesso tempo, nel campo sociale, la Street Photography più impegnata oscilla co+nfondendosi con il genere fashion e con l’ advertising, e talora cede il passo alla televisione che è una nuovo m edium più adatto nella società moderna alla veicolazione di immagini foto-giornalistiche in movimento sull’attualità.
Un’ulteriore svolta arriva a partire dagli anni Novanta quando si assiste ad un nuovo e frenetico movimento di fotografi che, sull’onda dell’avvento del digitale, vengono alla ribalta con altri contenuti, benché non incuranti dei capisaldi storici del genere, quali ad esempio la compostezza formale, la ricerca del momento “candido” e un certo distacco emotivo. Seguendo il punto di vista di Clive Scott8, le nuove modalità documentaristiche e artistiche possono coesistere nella stessa immagine fotografica, anche se hanno obiettivi diversi. Entrambe le tipologie di pratiche avvengono all’aperto e implicano momenti “spontanei”, ma la fotografia documentaria è l’analisi dettagliata di un soggetto che mira a raccontare una storia in base ad un progetto, mentre la Street Photography è più temporanea e casuale e riguarda l’immortalare una ‘slice of life’9.
Alcuni artisti del nuovo corso sperimentano modalità inconsuete, meno dirette dei loro predecessori: Joel Sternfeld indaga il paesaggio americano mantenendo la sua distanza, così come Thomas Struth esordisce con la fotografia in bianco/nero di città, strade, musei, profili urbani con scorci inusuali, astratti, che richiedono maggiori tempi di posa. Lo svizzero Streuli usa un teleobiettivo per “scegliere” individui in mezzo alla folla da ritrarre. La stessa tecnica viene usata dall’americano Philip-Lorca diCorcia, anche se con lui gli individui, una volta “prelevati” con il suo occhio dalla strada, in mezzo alla massa, acquisiscono una sorta di eroica grandezza.
Anche in Francia vengono riprese delle considerazioni similari: il critico Gilles Mora10 ha riproposto l’idea di accostare uno s treet photographer della vita notturna parigina com’era stato Brassai al flâneur baudelairiano. Ha ripreso l’appellativo usato da Charles Baudelaire per indicare il borghese che passeggia per le strade e prova emozioni nell’osservare il paesaggio nei suoi angoli più pittoreschi. Un concetto utilizzato anche dal critico Walter Benjamin 11 per riferirsi all’osservatore moderno della società industriale e del contesto urbanizzato alla ricerca di verità sociali ed estetiche. E a tal proposito Jean Clair, commentando Henri Cartie-Bresson, aggiunge: «Ciò che dà a una fotografia la sua aura e la distingue dal semplice documento risiede senz’altro nel fatto che l’intenzione dell’autore non è mai evidente […] Nulla di premeditato, quindi, di composto, ancor meno di previsto»12. Negli ultimi trent’anni la fotografia di “strada” ha visto poi l’emergere di un nuovo dibattito, quello etico/legale. Pur non essendo l’obiettivo del presente lavoro, non possiamo non tenere in considerazione questo aspetto analizzando le opere degli artisti contemporanei che, alla pari dei loro predecessori, si trovano alle prese con “candid photographs”, pratiche veloci, istantanee ed eseguite segretamente al fine di ritrarre soggetti ignari.
Le strategie da loro impiegate in questa grande arena, aperta al mondo intero, hanno portato all’analogia con la “caccia”, concetto presto introdotto dalla critica americana Susan Sontag13, che in modo molto arguto ha usato per la prima volta una terminologia comune a entrambe le attività: “shooting”, “capturing” e “stalking”.14
L’etica in base alla quale lo street photographer agisce è quella secondo cui ritrarre il soggetto in un luogo pubblico è “fair game”. Sulla base di questo assunto, non c’è niente in una fotografia di “strada” che non fosse già nella vetrina pubblica e, come dice Paul Frosh15, il concetto “in pubblico” («in public») vuol dire nell’occhio pubblico affinché tutti vedano e possano essere fotografati.
Il fotografo di strada riprende un soggetto ignaro che la propria immagine sia catturata per un fine artistico. L’artista, grazie al suo tocco, la fa partecipare ad un’azione che diventa un’opera d’arte, ancorché mera testimonianza storico-sociale. Affinché questo accada, l’artista deve dunque avere garantita la propria libertà di espressione sulla strada, pur sottostando a delle norme etiche e civili che tutelano la fedele e realistica rappresentazione del soggetto.
Ma, come osserva il fotografo contemporaneo Joel Meyerowitz16, quella realtà della strada che è teoricamente visibile a tutti non lo è fintantoché l’artista la vede e la immortala. Quindi, torna nuovamente in primo piano il concetto sotteso nel lavoro del maestro Cartier-Bresson, ossia che con l’opera dell’artista avviene una sorta di epifania.
Il fotografo diventa un artista nel momento in cui decide che cosa ritrarre, che cosa escludere, che cosa includere e giustapporre, all’interno di una cornice che rende il soggetto e il suo contesto visibili in una fotografia. Ma non basta: i fotografi costruiscono le immagini in modo cosciente e allo stesso tempo sub-cosciente mostrandoci la loro visione del mondo sia che abbiano questa intenzione ex ante oppure no.
Dunque, l’opera finale è un oggetto con tutti i suoi significati associabili e tutte le possibili interpretazioni che saranno fatte dall’osservatore.
Le fotografie di “strada” dei praticanti di oggi, quando hanno la forza di documentare e al tempo stesso di essere considerate artistiche, non sono mai vere rappresentazioni della realtà (in questo ci permettiamo una piccola correzione a Cartier-Bresson): ma sono interpretazioni del reale, ossia rappresentazioni cariche di significati ideologici e di “autorità estetica”17. I dati sensibili registrati dalla realtà sono sempre la concretizzazione di una propria esperienza personale. Anche allorché la fotografia come mezzo di comunicazione dotato di “un legame iniziale con un referente materiale” (usando l’espressione di Rosalind Krauss18 e derivata dal concetto di “indice” di Charles Sanders Peirce) va a registrare sulla strada “oggetti” già pronti (nel senso duchampiano di ready-made), un’architettura, un murales, una scultura, una manifesto o un cartello, pure in questo caso essa svolge la sua funzione documentaria e artistica: li isola dal loro contesto reale per trasformarli in una vera e propria rappresentazione di loro stessi. E questo rende visibile in un modo nuovo, attraverso un’esperienza inedita, ciò che prima era visto solo parzialmente oppure non visto. La fotografia di “strada” crea narrazioni visive che consentono esplorazioni dell’identità personale, della storia urbana e artistica e una trasformazione della nozione di “patrimonio”.
Il presente studio ha l’obiettivo di inquadrare primariamente il fenomeno moderno del documentarismo e del suo aspetto artistico correlativo che, per comodità, continueremo a chiamare Street Photography alla luce delle teorie e pratiche storiche, con una focalizzazione sul momento cruciale della nascita del concetto di “momento decisivo” con Henri Cartier- Bresson e gli artisti che, venuti dopo di lui, si sono ispirati al suo pensiero.
La ricerca affronta le tematiche filosofiche e artistiche in relazione alle principali questioni aperte in questo ambito: la riduttività della definizione del “genere” e la difficoltà di trovarne un succedaneo più adeguato; le relazioni altalenanti tra documentarismo e arte, tra documentare oggettivamente e comunicare soggettivamente la propria visione del mondo; l’aspetto antropologico sotteso alla pratica che consente di diventare testimoni del nostro tempo raffigurandolo a mezzo immagini; il collegamento sociale al territorio, allo spazio umano e alle espressioni artistiche dell’uomo nello stesso, come strumenti per il cambiamento sociale; la ripercussione del fenomeno del digitale e in particolare della fruizione ubiquitaria del mezzo nel contesto urbano. Per finire, la relazione sempre imprescindibile con l’attimo passeggero, che può trafiggere come il punctum barthesiano19, e che può rendere questa forma d’arte un’espressione sublime; un linguaggio universale che non fa mai perdere la possibilità di memoria: ossia, quel segno “indicale” che ha contraddistinto da sempre il mezzo; e quella possibilità di trasmissione e di poesia, che sono qualità uniche della fotografia.
PARTE PRIMA
1. Henri Cartier-Bresson e il momento decisivo
1.1 La riflessione su Eugène Atget, André Kertész e Walker Evans
L’opera del fotografo francese Eugène Atget (Libourne, 1857 – Parigi, 1927) incominciò ad essere conosciuta all’indomani della sua morte, grazie alla Galleria Julien Levy di New York che per prima espose le sue fotografie su suggerimento di Berenice Abbott. Prima dell’inizio degli anni Trenta erano note solo ad alcuni pittori che scoprirono che le sue scene di strada erano documenti utili, e gli artisti surrealisti, sempre sensibili al fascino malinconico che una buona fotografia sa evocare con tanta forza pubblicarono alcune sue immagini sulla rivista La Révolution Surréaliste 20. Cartier-Bresson insieme a Evans venne a scoprire, dopo il 1930, in occasione della sua esposizione nella stessa galleria, l’opera di Atget. Sono immagini capaci di esprimere pensieri sul paesaggio urbano parigino e possiedono una fortissima carica espressiva. In queste è possibile ritrovare quell’intenzionalità necessaria, secondo gli scettici della fotografia intesa come arte, per essere considerate opere d’arte, anche se Atget non aveva ambizioni culturali. A Parigi a inizio Novecento per qualsiasi artista di strada c’era necessariamente un confronto obbligato, quello con l’arte impressionista e con la cultura letteraria di Charles Baudelaire e di Philippe Saupault. Era difficile dunque scegliere una direzione antipittorialista come invece fece Atget, per il quale si può parlare per la prima volta di stile documentario o di fotografia di grado zero. Come Roland Barthes in letteratura, così Atget nella fotografia va alla ricerca dello scatto più puro, libero dalle sovrastrutture. Fotografa, come un collezionista di strada, tutti i frammenti di vita che il suo occhio attento e scrutatore vede. Nel Petit marchand (fig. 1) ritroviamo uno scorcio di una Parigi a inizio secolo scorso filtrato attraverso un primo piano di un umile bambino che va in giro per la strada a vendere mazzolini di fiori. Non è semplicemente un’immagine di una Parigi d’altri tempi, ma, ben oltre, l’espressione di una poetica che mira a documentare in modo freddo ed obiettivo la realtà, soprattutto focalizzandosi sul secondario. Atget non è interessato alla resa tecnico-formale non ritenendosi neppure un artista, ma solo un “documentatore”. In realtà, dietro l’apparente casualità, c’è un utilizzo di luci, ombre e inquadrature, secondo un proprio punto di vista; pure la prospettiva, quella tipica pendente delle pavimentazioni delle piazze parigine, contribuisce a dare un tocco diverso dalla particolarità contingente. Atget, che aveva lavorato precedentemente nel teatro, utilizza accorgimenti scenografici e riesce a creare sul palcoscenico un vuoto, quasi metafisico, intorno ai suoi soggetti producendo quella sorta di estraniazione tra gli uomini e il mondo esterno che piacerà tanto ai Surrealisti.
Dietro alle sue immagini c’è una ricerca raffinata, seppure con le limitate apparecchiature tecniche dell’epoca e gli ancora lunghi tempi di posa; il tutto mira ad un’efficace operazione di conservazione di tratti realistici della vita, anche quelli più nascosti, catturati in modo solo apparentemente casuale e automatico, per affidarli alla memoria storica attraverso la fotografia. Clive Scott individua due caratteristiche dell’opera di Atget che la rendono fotografia documentaria, più che Street Photography ante letteram: le vetrine dei negozi vuote di persone sono lì come merci immobili, sono lì per ricordarci l’immutabilità della situazione, non sono un motore per il cambiamento, un momento in cui le classi sociali possono scambiare e avere contatti, inoltre, il fotografo rispetta il soggetto isolandolo e cercando di trasferire una soggettività in esso grazie proprio al fatto che viene analizzato oggettivamente.21
Quando nel 1928 il fotografo ungherese André Kertész (Budapest, 1894 – New York, 1985) acquista una Leica22 ha finalmente la libertà di muoversi negli ambienti, spostando il suo focus ancor più all’esterno. Per questo viene considerato il pioniere della strada, sebbene il suo modo di operare rimase tipicamente quello di costruire e sorvegliare la scenografia e pazientemente attendere il momento fotografico. Nello stesso anno ha inizio per lui una carriera come professionista per la rivista Vu insieme al collega Henri Cartier-Bresson.
Questo impiego gli apre le porte a varie esposizioni importanti: nel 1929 partecipa alla prima mostra indipendente di fotografia Salondle’Escalier con altri grandi protagonisti, come Man Ray e Paul Outerbridge.
Kertész aveva iniziato ad usare la Leica tre anni prima di Cartier-Bresson. Leggera e maneggevole, diventa per lui, come per molti fotoreporter, inseparabile, un vero terzo occhio. Come per Cartier-Bresson e per Evans, anche per Kertész si ha l’impressione che siano le cose, i soggetti che incontrano l’occhio ricettivo dell’artista mediato dall’obiettivo, non l’opposto. Questa esperienza è straordinariamente condotta nella realtà della città di Parigi prima e di New York dopo. In particolare, potremmo dire che il passaggio da Budapest a Parigi avvenuto nel 1926 segna per l’artista il momento in cui dalle belle e spontanee fotografie di strada con gente comune e ambientazione naturale, passa ad una “visione più costruttiva”, attraverso la quale impara a “cogliere l’attimo fuggente, non più ripetibile”23.
In Meudon (fig. 2), Kertész fornisce una visione univoca di movimento e velocità, catturando i passanti lungo la strada e il treno a vapore che sfreccia sopra il viadotto (all’opposto della locomotiva immobile), idea che piacque al leader dei Surrealisti, André Breton, che lo definì “magia provvidenziale”.
Questa immagine a zig-zag, dal sapore metafisico dechirichiano secondo Clive Scott è tutta giocata su una tensione di traiettorie24: la locomotiva sul viadotto, l’uomo con un enigmatico pacco avvolto da una carta di giornale in primo piano attirano in direzioni opposta, ma sono in contatto tra loro dal pilastro centrale del viadotto. La cornice ci mette a confronto con una scena familiare, ordinaria, ma impone un esame minuzioso, ci sfida a trovare un senso. Qualcosa sta succedendo sulla strada, qualcosa sta avvenendo all’occhio, ma l’immagine trattiene le sue motivazioni. L’“invisibilità” che la fotografia documentaria porta in luce, dall’altro lato, non è l’invisibilità di ciò che non possiamo vedere ma, più precisamente, l’invisibilità di ciò che noi solitamente rifiutiamo di isolare, di trattare come un caso speciale. In un’intervista25 lo stesso Kertész spiegò che la sua fotografia è paragonabile ad un diario intimo, come se fosse un suo quaderno visivo, atto a rivelare la poesia dietro le semplici e anonime cose quotidiane, catturate attraverso prospettive uniche e rivoluzionarie. Cartier- Bresson rimarrà sempre colpito dal lavoro del collega più anziano e, alla luce di tutti gli sviluppi successivi a questi anni Venti, dirà su di lui una frase rimasta celebre: “Qualsiasi cosa noi facciamo, Kertész l’ha fatto prima”.
Per tutta la sua vita Cartier-Bresson fu altresì un profondo ammiratore di un altro maestro della fotografia americana, Walker Evans (Saint Louis, 1903 – New Haven, 1975). Entrambi condividevano la passione di raccontare l’America, ciascuno con un suo occhio, ciascuno con un suo stile. Il primo era inizialmente un pittore, il secondo uno scrittore. Da Parigi a New York si svolse per loro il primo importante passo per diventare degli artisti veri che reinventarono il linguaggio fotografico.
In una retrospettiva26 del 2003 Cartier-Bresson è invitato a indicare una fotografia che ha fatto la storia e a tal proposito sceglie Girl in Fulton Street (fig. 3) di Walker Evans.
In questa fotografia Evans esplora il ruolo dello spettatore tra l’energia dinamica della città. Una giovane donna, elegantemente vestita, con un cappello alla moda e un cappotto con collo di pelliccia si trova in piedi davanti ad una vetrata di un negozio lungo un marciapiede affollato. Con lo sguardo accigliato e impassibile, segno di forza ed espressione di vulnerabilità ad un tempo, i passanti sembrano inconsapevolmente ignorare la sua presenza. Assorbita nei suoi pensieri pare essere del tutto ignara della presenza dell’artista che la ritrae. Lo scatto coglie il senso dell’isolamento in pubblico che caratterizza la vita sulle strade della città moderna americana.
È una visione, quella di Evans, che non implica mai la perdita degli elementi plastici, del sentimento intimamente tragico sul soggetto, specchio dell’America di quegli anni, pur utilizzando lo stile documentario. È un modo di parlare “nel modo più eloquente possibile dei soggetti prescelti, usando il linguaggio delle immagini”27. E questo approccio si corroborerà ancor più nel suo “nuovo stile documentario”28 usato per la rappresentazione della Grande Depressione degli anni Trenta.
In quel periodo, il governo americano si era reso conto che la fotografia era uno strumento straordinario per influenzare il pubblico e per accrescere nella gente la speranza di cambiare. In tutti i campi artistici ci furono delle reazioni: in pittura, con il ritorno al realismo sulla scia degli autori dei murales messicani, nel cinema con la nascita del documentario inteso come film non artistico, anti-estetico, ma narrante la verità e con essa il desiderio di superarla. Sotto il governo Roosevelt (1935/1942) venne lanciata una grande campagna fotografica attraverso il lavoro della Farm Security Administration (FSA) la cui missione era far conoscere attraverso le immagini i problemi di un mondo rurale duramente colpito dalla crisi. Walker Evans fu uno degli artisti principali che collaborò al progetto con le sue fotografie. Ma mentre lo spirito iniziale della FSA ben si coniugava con lo stile documentario di cui abbiamo parlato e che Evans aveva teorizzato, pian piano col passare degli anni si spinge sempre più verso il concetto di “documentario umanista” 29. L’immagine sentimentale sembra nuovamente far assurgere alla fotografia uno statuto artistico superiore a quello della fotografia documentaria pura. Nasce quindi una nuova concezione del documentario.
L’opera di Evans, pubblicata nel 1938 dal Museum of Modern Art con il nome American Photographs, invece rimane fedele alla sua impronta iniziale: non è una protesta sociale, non è una propaganda per una determinata causa. Non ha l’intenzione di contribuire al miglioramento del mondo, ma quella di catturare l’attenzione, mettendo sotto gli occhi della gente dei fatti concreti, anche scioccanti, in modo evocativo e anche talvolta misterioso.
Per quanto “documentaria”, fredda nello stile e priva di apparente coinvolgimento, tuttavia, la sua opera è sempre un’interpretazione fondamentalmente soggettiva del mondo in cui il distacco è voluto come “atto di sottomissione”30 verso il reale o di “profondo rispetto per le cose”31. E che della fotografia documentaria sono la caratteristica essenziale.
1.2 L’incontro con i surrealisti
Agli inizi degli anni Venti Cartier-Bresson frequenta l’atelier parigino del pittore cubista André Lhote e qui conosce l’eccentrico poeta René Crevel, che era entrato a far parte del movimento surrealista. Fu lui a fargli conoscere i surrealisti dell’epoca come lo stesso André Breton e ad introdurlo nell’ambiente e nella frequentazione dei salotti delle riunioni serali, in cui tuttavia, essendo troppo giovane, non riusciva ancora a prenderne realmente parte attiva. Cartier-Bresson è attratto, più che dai prodotti finali, dall’approccio utilizzato dai Surrealisti. Essi usano l’automatismo, un’azione automatica o immediata, senza riflessione. Interpretano i sogni secondo la lezione sull’inconscio di Freud, li disegnano con gli occhi chiusi o selezionano gli oggetti a caso. Poi ne studiano il risultato creando un’opera.
Cartier-Bresson amava giocare con l’idea di tempo, come Dalì. La fotografia si realizza in una frazione di secondo, è un’istantanea ma dura per sempre. È fuggevole ma costante nello stesso momento.
Molti dei lavori surrealisti sembrano fluttuare nello spazio. Le forme non hanno peso e vagano in un campo di colore, come in Magritte. In Cartier-Bresson tutte le forme sono rettangoli chiari, triangoli e onde improvvisate.
Quando acquista la sua prima Leica32, verso il 1932, Henri Cartier-Bresson s’innamora della spontaneità della fotografia, dell’ironia sottesa nei gesti ricercati della gente e, come avevano fatto nell’Ottocento gli antichi fotografi che scendevano con il dagherrotipo per la prima volta a esplorare le strade di Londra, Parigi e New York, si apre anch’egli ad un pionieristico approccio fotogiornalistico di strada.
In Hyeres, France, 1932 (fig. 4), ruba un istante di vita cittadina dall’alto di una prospettiva sospesa su una scala a chiocciola che crea un effetto a spirale, contrapposto all’altro focus dell’immagine costituito da un uomo che sta passando fugacemente in bicicletta lungo la strada; questa composizione è la traduzione matematica della spirale logaritmica di Fibonacci, vicinissima nella forma a quella della chiocciola.
Mentre in Derrière la Gare Saint-Lazare, 1932 (fig. 5) introduce l’elemento del riflesso sulla superficie dell’acqua e del soggetto catturato nel momento decisivo del balzo, creando una tensione data dallo sfiorato tocco dell’acqua.
L’artista applica già la composizione geometrica dinamica e la sezione aurea. I talloni dell’uomo con i relativi riflessi insistono su linee generate dal calcolo della sezione aurea sui lati del fotogramma. Lo stesso si può dire per la testa dell’uomo.
In queste composizioni, che porteranno alla sua prima esposizione personale solo un anno dopo, nel 1933, alla Julien Levy Gallery di New York, rimane comunque il fascino di un’immagine dal sapore vagamente surreale in cui fondamentale risulta essere l’interrogativo relativo a cosa stia facendo quell’uomo ripreso mentre salta in modo apparentemente insensato. In quale modo è arrivato fin lì e dove andrà?
Si tratta di qualcosa in più di un’immagine, di un riconoscimento di un evento, in cui il formalismo e il surrealismo convivono con l’espressione della sensibilità verso il mondo esterno. Così, oltre all’evento, possiamo rilevare la grazia di questa composizione che trova un armonioso riscontro nella doppia danza, dell’uomo con la sua ombra e della loro rima ripetuta sul poster fissato sul muro retrostante. Questa scena è stata “trovata” dall’artista nel mondo reale: il momento decisivo è stato congelato dal suo scatto, che ha effettuato il prelievo (il ready-made) e lo ha posto in relazione eidetica33 con gli altri fenomeni.
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Il formalismo di Cartier-Bresson è una registrazione di un qualcosa che già appartiene al reale e che viene svelato automaticamente, non è una ricostruzione dello stesso in chiave astrattista o neoplatistica della pittura del periodo. Per quanto riguarda gli aspetti formali dobbiamo ricordare che Cartier-Bresson fu istruito dal pittore cubista André Lhote, che gli insegnò la simmetria dinamica (quella che l’artista chiama “geometria” delle sue fotografie). Lhote era anche un eccellente teorico e scrisse un libro chiamato Treatise on Landscape Painting dove usava le griglie dinamiche in cui inscriveva i suoi dipinti, come un grafico ante litteram.
Nel 1937 Cartier-Bresson aiuta il teorico dei Surrealisti, André Breton, a illustrare la sua nuova pubblicazione, L’amoufrou 34. È in questa occasione che matura una consapevolezza maggiore su quella pratica già sperimentata sulla strada di volere fermare ciò che è transitorio e scegliere il picco dell’azione, l’acme, il che tradotto in una classica fotografia bressoniana equivale a marcare il tempo e il movimento di una strada vuota attendendo che una persona passi sulla stessa. Questo concetto trova un correlativo nella nozione di “bellezza convulsiva” introdotto da Breton nel suo L’amourfou . C’è un’interazione e un’influenza continue tra il nostro inconscio e ciò che vediamo. Vediamo coincidenze quando l’inconscio è messo in funzione. Tali concezioni, collegate a loro volta al concetto di “perturbante” freudiano, diventano la base per lo sviluppo futuro dell’estetica fotografica bressoniana.
Queste esperienze già profondamente surrealiste non riscuotono tuttavia successo: vengono definite “fotografie antigrafiche” 35 perché fatte quasi automaticamente, ancorché belle e provocanti esteticamente, “fotografie equivoche, ambivalenti, antiplastiche, casuali”36 perché mostrano l’irreale nel reale. Così, quando si presenterà alla mostra al MOMA del 1946 con lo Scrap-Book per avere più successo non si definirà, su consiglio dell’amico e collega Evans, artista surrealista, ma fotoreporter.
Solo a distanza di tanti anni dall’esperienza, parlando a proposito del Surrealismo, Cartier- Bresson annoterà, tra i tanti aneddoti accorsi con Breton, questa frase: « […] devo riconoscenza al Surrealismo perché mi ha insegnato a scavare con l’obiettivo fra le rovine dell’inconscio e del caso»37.
1.3 L’approdo alla concezione del momento decisivo: il reportage
Durante la II guerra mondiale Henri Cartier-Bresson entra nella resistenza francese, continuando a svolgere costantemente la sua attività fotografica. Catturato dalle truppe naziste nel 1940, riesce a fuggire dal carcere al terzo tentativo e questo drammatico evento lo segnerà per tutta la sua vita. Nel 1944, sopravvissuto alla guerra, fotografa con grande entusiasmo la liberazione della Francia: si veda Libération (fig. 6). Qui l’artista si rende conto che per rappresentare la realtà, la pittura non basta: se il disegno permette una razionalizzazione che la Leica non sempre concede, la macchina fotografica fa in modo di cogliere istanti che sfuggono all’occhio disattento, momenti irripetibili e fugaci. Convinto di questo assunto, abbiamo il primo passaggio conclamato dalla pittura e dal disegno alla fotografia come pratica artistica.
Nel 1947 Cartier-Bresson fa parte dei fondatori storici dell’agenzia cooperativa Magnum Photos che nacque da un’idea di Robert Capa in collaborazione con William e Rita Vandivert e Maria Eisner. I leader furono da subito l’ungherese Capa, il francese Cartier-Bresson, il polacco Seymour, l’inglese Rodger e gli americani Vandivert e Maria Eisner. Tutti avevano condiviso le esperienze tragiche degli anni della Seconda guerra mondiale, con i loro avvenimenti drammatici. La Magnum Photos nacque con lo scopo di divulgare i reportage dei fotografi aderenti sulle riviste francesi e americane avendo inizialmente due sedi, Parigi e New York, a cui in seguito si aggiunsero Londra e Tokyo, per meglio organizzare le missioni dei fotografi.
Grazie all’amicizia con Robert Capa (da lui definito l’avventuriero) e con David Seymour (da lui definito il pensatore), entrambi morti prematuramente durante un servizio come fotoreporter di guerre, Bresson incomincia a intraprendere viaggi sempre più lunghi in cui farà molteplici reportage che gli daranno fama mondiale. Viaggia in svariati angoli del pianeta: Cina, Messico, Canada, Stati Uniti, Cuba, India, Giappone, Unione Sovietica e molti altri paesi. Diviene il primo fotografo occidentale che fotografa liberamente nell’Unione Sovietica del dopoguerra.
Nel 1952 Henri Cartier-Bresson, ormai al culmine della fama e divenuto un nome importante nella fotografia, al ritorno dai suoi viaggi in Oriente, si accinge a scrivere un volume sulla fotografia: Images à la sauvette (Immagini al volo)38, che sarà edito anche dalla casa editrice americana Simon & Schuster con un titolo inglese, non del tutto fedele a quello originario, The Decisive Moment. Il libro era dotato di una copertina illustrata da Henri Matisse e da una prefazione che prende in prestito la filosofia del cardinale de Retz, primo arcivescovo di Parigi e filosofo del XVII secolo, rimasto celebre per questo suo motto: «Non c’è niente in questo mondo che non ha un momento decisivo»39.
Alla base di quest’opera, sotteso è il concetto di arte per Cartier-Bresson che possiamo dire essere costituito di due metà: una prima metà è proprio il transitorio, il fugace, il contingente; l’altra metà invece è costituita dall’eterno e dall’immutabile. I fotografi vanno di fretta, mentre i paesaggi sono eterni. A questo proposito Cartier-Bresson sfiora il dibattito tra arte fotografica (così la definisce già nel 1952) e arte tradizionale40.
Il collega e amico Walker Evans dopo aver letto la pubblicazione di The decisive moment del 1952 si espresse elogiando Cartier-Bresson come vero fotografo e vero innovatore nella fotografia: «Cartier-Bresson was and is a true man of the eye. More, he was one of the few innovators in photography».
Il libro, oltre a contenere una raccolta di alcune delle foto più note dell’artista, descrive il modo stesso di fare fotografia di Cartier-Bresson. L’autore si occupa di delineare il reportage fotografico, il soggetto, la composizione, il colore, la tecnica, i clienti.
L’artista concepito da Cartier-Bresson è colui che, con grande passione, s’immerge nel magma globale della realtà ma, a differenza dei pittori informali, effettua una scelta, appunto il momento decisivo. Da ciò scaturisce “l’aura dell’irripetibilità dell’istante, non dissolta dai mezzi di produzione ma riaffiorata nella fotografia/ ready-made”41. Come un punto di vista è sempre unico, così ogni scelta effettuata dal fotografo o dall’artista è unica e rappresenta una testimonianza di quell’istante preciso, in cui avviene quell’incontro fortunato. Così, possiamo sostenere che l’aura benjaminiana riaffiora in una forma diversa, come aura dell’irripetibilità dell’istante.
Da questa immersione/relazione continua dell’uomo nel mondo emerge l’unico senso della vita di cui la fotografia è una traccia. In queste pratiche, non c’è una vera progressione perché, nei viaggi di Carier-Bresson arriviamo sempre al punto da cui siamo partiti: ma sono le strade che contano, e la possibilità di conoscere per la prima volta, personalmente, direttamente, il senso del viaggio. Cartier-Bresson si trova a ripercorrere in fotografia una strada simile a quella battuta in filosofia da Edmund Husserl con le intuizioni eidetiche42 e in letteratura da Thomas Stearns Eliot con le sue potenti immagini poetiche sul viaggio di conoscenza individuale43.
Arrivano gli anni dei grandi reportage 44 in cui l’artista, con un approccio inizialmente inconsapevole del risultato, inizia a dare testimonianza ai più importanti eventi della storia moderna dell’umanità. Cartier-Bresson non dà con la sua fotografia risposte al perché delle cose, ma le evoca soltanto. La referenzialità diretta non si impone come un dato indiscutibile, ma come un’apertura evocativa verso le cose. Per questo motivo, abbiamo proposto di accostare un tale meccanismo a quello che in poesia è il “correlativo-oggettivo”.
In India si reca a partire dal 1947 e assiste così alla nascita della nazione. Prima osserva i funerali di Gandhi, morto il 30 gennaio 1948, presso la Birla House, a Nuova Delhi. In The funeral pyre of Gandhi on the banks of the Sumna River (fig. 7) come reporter si confonde nella calca della folla per coglierne l’improvvisa disperazione, dopo che il giorno prima aveva ritratto il leader in vita acclamato in una limpida atmosfera. Ma sul cui volto era già come inscritta la fine imminente, secondo Jean Clair45. Poi, gli esiti della guerra indo-pakistana durante il primo ampio reportage nel 1948. In Mahdum Shah Ziarat mosque. Friday prayer (fig. 8) ritrae oggetti concreti e situazioni particolari, immagini serene e oggettive come le donne indiane impossibilitate ancora ad entrare nella moschea a loro proibita per la preghiera del venerdì;
Il viaggio in Cina nel 1948/49 lo vede come inviato speciale di Life Magazine per documentare il turbolento passaggio di governo dal Kuomintang (Partito Nazionalista Cinese) al Comunismo. In Shanghai (fig. 9) testimonia il pandemonio accorso al momento in cui un crollo della valuta fece decidere i Kuomintang a distribuire quaranta grammi d’oro a persona. Migliaia di persone spingono disperate in questa fila in attesa di ricevere quanto promesso e la polizia rimane a fare da spettatrice inerte mentre decine di persone muoiono soffocate. Cartier-Bresson coglie abilmente, ma senza compiacimento, la disperazione e la claustrofobia della scena comprimendo dentro una stretta cornice del suo obiettivo la massa di persone accalcate dirette verso l’edificio della banca, elemento che sta al di là del bordo destro della fotografia.
Nella Germania dell’Ovest è in visita a sobborghi cittadini di Berlino: qui ritrae scene più soavi come i bambini innocenti, colti mentre giocano al di sotto dell’inquietante muro appena eretto per separare in due parti la città nel 1962, ignari del corso della storia. In The Berlin wall (fig. 10) con un tocco di pacato lirismo l’artista svela una realtà inedita e, allo stesso tempo, implicitamente ne denuncia da subito la sua tragicità.
Di nuovo è in India nel viaggio del 1966, ora alle prese con le poetiche visioni delle donne che asciugano il sari al sole come si vede in Gujarat. Ahmedabad (fig. 11), segno di un evidente interesse di Cartier-Bresson nei riti e nelle pratiche di vita giornalieri. Non c’è bisogno di mediazione o di spiegazione sui fatti, essi parlano da soli e concretizzano materialmente una situazione.
Il reportage è dunque un’attività irripetibile (ironicamente Cartier-Bresson dice che non si può ripetere quando torniamo in albergo!), è infatti un’esperienza unica46.
Il soggetto non si deve mai ritoccare47: per Cartier-Bresson può essere qualsiasi, anche il più umile e insignificante48, per quanto spiacevole per i pittori accademici, può nascondere delle verità da scoprire. Se la fotografia deve comunicare il suo soggetto in tutta la sua intensità, la relazione di forma dev’essere rigorosamente stabilita. Poiché il contenuto è legato inscindibilmente alla forma, la composizione è un qualcosa di inevitabile, che non si aggiunge, ma si trova. Il fotografo lo fa con il suo intuito, con la sua sensibilità, guardando il soggetto muoversi e cercando quel momento in cui si trova l’equilibrio perfetto49. A volte occorre attendere tanto tempo, altre volte è un processo veloce.
Non interessato alla parte tecnica della riproduzione, lascia la stampa ad un collaboratore, Pierre Gassman, dettando solo alcune regole da seguire nel processo: stampare su carta speciale “all-grey”, rigorosamente in bianco e nero 50 ; evitare qualsiasi ritocco in post- produzione, così come l’uso del flash o della messa in posa del soggetto che aggiungono finzione alla realtà; cogliere il momento decisivo con la collaborazione umana, non semplicemente con approccio automatico e meccanico.
Al termine dell’opera, Cartier-Bresson si accorge di non avere ancora cercato di definire in generale la fotografia, quindi dice: «Una fotografia è per me riconoscere simultaneamente in una frazione di secondo, da un lato, il significato di un fatto e dall’altro l’organizzazione rigorosa delle forme percepite visualmente che questo fatto esprimono»51.
E infine nelle sue note a china sulle fotografie più importanti raccolte in una biografia postuma scriverà: «Fotografare è trattenere il respiro quando le nostre facoltà convergono per captare la realtà fugace; a questo punto l’immagine catturata diviene una grande gioia fisica e intellettuale. Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere»52.
La poetica del “momento decisivo” è ormai matura e le esperienze condotte hanno potuto dimostrare a tutto il mondo la sua valenza.
Possiamo osservare come nella concezione di Cartier-Bresson al momento di questo approdo la fotografia doveva rappresentare il mondo reale, calibrato e minuziosamente disposto nell’inquadratura, o catturato e congelato nel “momento decisivo”: questi esiti hanno ancora un profondo legame con il formalismo-pittoricismo novecentesco. La fotografia si propone come organizzazione di un insieme, composizione unitaria di linee e materiali, come fosse un quadro. Da un altro lato, c’è un contatto anche con la nuova Straight Photograhy, altro esito dello stile documentario, che cerca di fare pulizia, nitidezza e non trascura nessun dettaglio. Non manca infine un legame con il terzo esito, quello della fotografia “umanista”: i fotoreportage di strada possono rappresentare una banalissima scena di strada e nulla più. Ma anche il banale, concetto relativo e legato al momento temporale dello scatto, col passar del tempo può diventare una spettacolare finestra su un passato più o meno lontano.
1.4 La pittura come complemento al momento decisivo della fotografia
Nel 1968, Henri Cartier-Bresson inizia gradualmente a ridurre la sua attività fotografica per dedicarsi al suo primo amore artistico, la pittura, dichiarando: «In realtà la fotografia di per sé non mi interessa proprio; l’unica cosa che voglio è fissare una frazione di secondo di realtà». Quell’approccio apparentemente disinteressato alla fotografia, volto a raccontare con le immagini cogliendo l’attimo in un’istantanea congelata nel tempo, gli aveva permesso di trasformare l’attualità in arte. Ma ben presto Cartier-Bresson si rende conto che a completamento della propria riflessione sulla realtà si può affiancare al medium fotografico quello pittorico, al fine di godere di una contemplazione più prolungata e meno istantanea. Sente che la fotografia da sola è insufficiente; pur avendo il grandissimo pregio di rivelare l’attimo, che può essere per noi una rivelazione, con maggiore difficoltà, una volta dischiuso, si lascia aprire a più significati. La fotografia rimane come imbrigliata necessariamente in quel momento soltanto.
A poco a poco, decide di abbandonare il reportage per approdare ad un tipo di fotografia più meditativa e si allontana anche dalla Magnum Photos.
Mentre nel 1973 esce un cortometraggio intitolato proprio Henri Cartier-Bresson: the decisive moment, contenente una retrospettiva con i suoi scatti più celebri che lo consacrerà a livello mondiale, appena un anno dopo decide di abbandonare ufficialmente la fotografia per dedicarsi esclusivamente al disegno. Anche se poi si contraddirà dicendo che non l’aveva mai abbandonata perché in ogni caso lui fotografava ancora, ma solo con la mente, senza l’apparecchio53. Cartier-Bresson nelle sue note ci rivela che nel 1975 aveva ricevuto anche un consiglio per questo improvviso e nuovo cambio di rotta dato dal suo amico regista Jean Renoir; il quale, prima di morire, gli aveva scritto una lettera spiegandogli le ragioni per cui gli suggeriva di continuare nel disegno e non nella fotografia54. Fu dunque una decisione meditata e condivisa.
Intanto nel 1979 veniva organizzata per lui a New York un’ennesima mostra tributo al genio del fotogiornalismo e del reportage.
Negli anni Ottanta e Novanta, Cartier-Bresson ritorna a quella che aveva da sempre definito come la sua prima passione, ossia la pittura, ispirandosi dal vivo. Dopo l’esperienza con la camera oscura, dopo la conoscenza della “bellezza convulsiva” dei Surrealisti di Breton da un lato, gli oggetti umanizzati di Picasso, le linee geometriche monumentali di Cezanne ora ci appare più vicino a Henri Matisse e ad Alberto Giacometti. Rispetto al primo, possiamo vedere un punto di tangenza a livello concettuale. Così come le silhouette ottenute dai cut-out di Matisse sottraggono il volume, il chiaroscuro, i dettagli, la profondità, restando solo un’ombra, una macchia scura che conserva la forma esterna e che ci chiede uno sforzo di riconoscimento, analogamente la fotografia in bianco e nero di Cartier-Bresson senza il colore equivaleva ad enfatizzare ritmi, contrasti e forme. Togliere anche la figura e lasciarne la sagoma riesce a valorizzare l’eleganza dei gesti, la delicatezza del contorno. Rispetto a Giacometti (da lui ritenuto un genio) ha poi un’analoga suggestione: le sue forme scultoree assottigliate nella forma, fragili e sempre più essenziali sono prive della grazia classica, ma nella loro imperfezione lasciano lo spazio per una rappresentazione della realtà in modo diverso.
Guardando la realtà dalla sua finestra della casa parigina sopra il giardino e il palazzo della Tuileries, Cartier-Bresson ora Cartier- Bresson contempla dall’alto la strada, uno spazio ampio e disordinato, tra il Louvre, l’Esplanade des Invalides e la Tour Eiffel. Fotografare è una presa istantanea ed esterna; dipingere implica una presa di consapevolezza maggiore del tempo (è una meditazione); dipingere con i colori implica inoltre una preparazione di pigmenti, non solo una forma disegnata ancorché mentalmente come nella fotografia. È cambiata per lui la visione dell’arte pittorica, grazie all’esperienza intermedia della fotografia, in senso più comportamentista: non è più un “deposito di pigmenti”, ma un “atto” a conclusione del quale resta una traccia. Ciò che conta non è l’opera, ma l’azione. 55
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I due mezzi, e quindi le tue pratiche, sembra intuire Cartier-Bresson, non si escludono a vicenda, anzi per l’artista rappresentano un complemento. Guardando ad occhio nudo ci si libera dall’ideale della perfezione, si accettano i difetti del disordine e si medita trattenendo il respiro, prima di tornare a mirare e a “sparare il colpo” con la macchina per captare l’istante e la sua eternità56.
1.5 Il momento decisivo e le sue relazioni con le poetiche artistiche
Non tutti i soggetti ripresi sulla strada sono colti in un momento decisivo. Poetiche come quella di due giganti come Brassai o Diane Arbus, ad esempio, presentano soggetti pienamente coscienti della propria condizione e consapevoli dell’azione che stanno svolgendo al momento dello scatto. L’autorivelazione con loro è un processo continuo, non istantaneo, e si identifica con lo strano, il bizzarro, il proibito.
Niente di tutto questo atteneva alla poetica di Evans o a quella di Cartier-Bresson. Lo aveva già osservato negli anni Settanta la critica Susan Sontag nel suo celebre saggio Sulla fotografia.
In quest’opera la critica americana affronta la poetica degli oggetti melanconici (o nascosti) e del realismo della fotografia esordendo in questo modo:
La fotografia ha la dubbia fama di essere la più realistica, e quindi la più superficiale, delle arti mimetiche. In realtà è l’unica arte che sia riuscita ad attuare la grandiosa secolare minaccia di una conquista surrealista della sensibilità moderna, dopo che molti dei candidati più quotati si erano ritirati dalla gara.57
La Sontag analizza il processo attraverso il quale il surrealismo attribuisce una nuova identità alla fotografia come mezzo, superando le arti che si erano “ritirate”. Ma quali sono queste arti?
La pittura era handicappata sin dall’inizio dell’essere una “bella arte”, dove ogni oggetto è un originale unico fatto a mano. Un altro svantaggio era l’eccezionale virtuosismo tecnico dei pittori solitamente inclusi nel canone surrealista, i quali raramente immaginavano scorrevolmente calcolati, compiacentemente ben fatti, privi di dialettica. Si tenevano a lunga e prudente distanza dalla polemica idea surrealista di sfumare i confini tra l’arte e la cosiddetta vita, tra gli oggetti e gli eventi, tra il voluto e il non intenzionale, tra la perizia artigiana e gli sbagli fortunati. Il risultato fu che in pittura il surrealismo significò poco di più che i contenuti di un mondo di sogni modestamente attrezzato: qualche fantasia spiritosa e soprattutto sogni con polluzioni e incubi agorafobici (solo quando la sua retorica libertaria contribuì a spingere Jackson Pollock e altri a un nuovo tipo di irreverente astrazione, il messaggio surrealista ai pittori cominciò finalmente ad acquistare un ampio senso creativo). La poesia, cioè l’altra arte alla quale i primi surrealisti erano particolarmente dediti, ha dato risultati quasi altrettanto deludenti. Le arti nelle quali il surrealismo è giunto a piena espressione sono invece la narrativa in prosa (soprattutto in fatto di contenuti, ma con tematiche assai più ricche e complesse di quelle affrontate dalla pittura), il teatro, le arti dell’assemblage e – in forma particolarmente trionfale – la fotografia.”58
Quindi per la Sontag la fotografia è la sola arte naturalmente surreale e il surrealismo è al centro della disciplina fotografica nella creazione di un mondo duplicato, di una realtà di secondo grado. Questa tesi, come ha osservato Claudio Marra59, deve essere ridimensionata in quanto in realtà non è un merito o una responsabilità esclusiva del movimento surrealista se la fotografia può cominciare ad essere se stessa, funzionare come macchina, come un medium automatico che proprio in quanto tale (e non come una pseudo-pittura) può diventare arte: era cambiato già il concetto di arte con altre Avanguardie, prima del Surrealismo, ad esempio con l’esperienza del Dadaismo il quale aveva portato in evidenza l’elemento della registrazione casuale e del prelievo dal vivo con i ready-made duchampiano. La critica poco dopo nel suo scritto però si corregge e fa una distinzione tra surrealisti che recuperano il ready-made in fotografia e altri che invece ripropongono solo lo stile pittorico surrealista:
L’errore dei surrealisti militanti era di immaginare il surreale come qualcosa di universale, vale a dire come una questione di psicologia, mentre in realtà è quanto c’è di più locale, di più antico, di più classista, di più datato. Di conseguenza le prime fotografie surrealiste risalgono agli anni dopo il 1850, quando i fotografi andarono per la prima volta a esplorare le strade di Londra, Parigi e New York cercandovi tranche de vie da non mettere in posa. Questo fotografie, concrete, particolari, aneddotiche (solo che l’aneddoto è stato cancellato) – momenti di tempo perduto, di usanze svanite – ci sembrano oggi assai più surreali di una qualunque immagine resa astratta e poetica mediante sovrapposizione, sottoesposizione, solarizzazione e simili accorgimenti. Convinti che le immagini di cui andavano in cerca venissero dall’inconscio, i cui contenuti, da freudiani devoti, immaginavano eterni oltre che universali, i surrealisti non capirono la cosa più brutalmente patetica, più irrazionale, più inassimilabile, più misteriosa, vale a dire il tempo. Ciò che rende surreale una fotografia è il suo incontestabile pathos, in quanto messaggio del passato, e la concretezza delle sue indicazioni sulle classi sociali.60
Per la Sontag è la fotografia ad avere dimostrato, meglio di tutte le altre arti, come giustapporre la macchina da cucire e l’ombrello, il cui incontro fortuito fu salutato nella poesia surrealista come un paradigma del bello. Se questo è davvero il caso, quale scenario più ideale della “strada” potrebbe essere concepito per questi incontri casuali?
Ciò che si prefissava Cartier-Bresson era, dice sempre la Sontag, di trovare la struttura del mondo da rivelare nel puro piacere della forma, per far emergere come nell’intero caos ci sia un ordine.
Un atteggiamento, noi aggiungiamo, figlio di quella nobile illusione “rinascimentale” di potere ridurre l’universo in un qualcosa di finito, alla misura dell’uomo, dentro una gabbia prospettica. Una tal disquisizione ci richiama ad una riflessione letteraria illustre, di nuovo Thomas Stearns Eliot, nella sua Love Song di J.H Prufrock 61. Il poeta, in una Londra aggrovigliata tra nebbia e fumo striscianti come un gatto assonnato in una soffice sera d’autunno, ironizza di fronte alla difficoltà di prendere una decisione, in campo sentimentale, e ad un certo punto, mentre le donne nel salotto stanno disquisendo di Michelangelo, si chiede se sarebbe bene osare, avere il coraggio di “forzare il momento alla sua crisi” e di “comprimere tutto l’universo in una palla”. È come quel coraggio cartier-bressoniano di uscire allo scoperto, attendere il momento decisivo e premere il tasto dell’apparecchio.
Ma se l’esito cartier-bressoniano è formale e classico, il procedimento è informale e squisitamente legato ai sensi più che alla mente. In molte dichiarazioni di Cartier-Bresson emerge l’idea di una continua relazione uomo-mondo e la fotografia più che come opera è la traccia di quella relazione con il mondo. Si potrebbe ipotizzare allora un’analogia tra il lavoro dell’artista fotografo con il suo gesto (l’“intuito” di Cartier-Bresson che va alla ricerca del momento decisivo) e quello del pittore informale con il suo gesto (il pennello in movimento di Pollock). Ecco che il reportage è stato paragonato alla poetica dell’informale pittorico62.
Tuttavia, bisogna fare alcune puntualizzazioni su questo accostamento: come per l’informale in pittura, la fotografia da reportage gioca sui toni dell’evocazione anche se con modalità diverse, indiretta per il primo e diretta per la seconda. Per la pittura abbiamo una referenzialità del “come se” rispetto alle non-forme, mentre per la fotografia la referenzialità diretta (imposta dal mezzo) cerca un più ampio respiro giocando sull’analogia e l’evocazione. Anche l’opposizione forma/non forma deve essere mitigata: la formalità cartier-bressoniana parte dal caos e registra qualcosa che appartiene al reale, senza introdurre nuovi schemi ordinativi; analogamente, quell’informale in pittura (come i graffi, le ruggini, gli strappi) è inteso come mancanza di tali schemi, ma non di assenza di riferimenti mondani. Anche l’elemento dell’istantaneità che potrebbe sembrare il più condiviso tra le due poetiche in realtà nasconde delle insidie: per l’informale il riferimento al reale è una tensione continua verso lo stesso (quell’atteggiamento di azione di Pollock), mentre per la fotografia da reportage è il momento decisivo cartier-bressoniano, carico di pathos, unico, che implica una scelta. Sembrerebbero due posizioni comuni ma c’è un punto di sfasatura. Per l’informale è inaccettabile l’idea di una realtà fatta di un continuum di momenti decisivi, tra i quali scegliere, poiché il riferimento al reale è una tensione continua ma indistinta, globale, senza possibilità di scelta.
Il messaggio che ci lascia Cartier-Bresson è che la fotografia ha la capacità di bloccare un istante che il normale flusso del tempo sostituisce, e le verità che possono essere rese in un momento dissociato dal flusso, per quanto significativo o decisivo, hanno una scarsa relazione con i bisogni di conoscenza. Contrariamente ai fotografi “umanisti” dai quali prende le distanze pur condividendone alcuni esiti, la capacità della macchina di trasformare la realtà in qualcosa di bello deriva proprio dalle sue debolezze nel convogliare verità assolute.
Benché, come vedremo nella seconda parte, i fotografi non abbiano ancora smesso oggigiorno di guardare alla ricerca del bello, la fotografia non è più necessariamente segnata da una ricerca di un valore estetico. La fotografia concepita autenticamente come un nuovo modo di vedere la realtà (per Cartier-Bresson precisa, intelligente, anche scientifica) è sfidata dalla generazione immediatamente posteriore di artisti che, come Robert Frank, vogliono l’occhio della fotocamera non profondo, ma democratico, senza pretendere di impostare nuovi standard visivi.
[...]
1 O. LUGON, LsetyldeocumentaireD. ’AugusStandearW’ alkeEr van1s920 -1945, Editions Macula, Paris 2001; tr. It. (a cura di Caterina Grimaldi) “Lo stile documentario in fotografia. Da August Sander a Walker Evans 1920-1945”, Mondadori Electa S.p.A. Milano 2008, pp. 15-17
2 Ivi, p. 19. Lugon riprende un’intervista di Walker Evans in cui sostiene: “Un documento ha un’utilità, mentre l’arte è davvero inutile. Perciò l’arte non è mai un documento, anche se può adottarne lo stile.”
3 Ivi, p. 26: “Da qualsiasi angolazione la si voglia guardare, l’idea di “arte documentaria” rimane un paradosso. Perché volersi avvicinare ad una visione puramente meccanica dovrebbe essere il mezzo più sicuro per fare della fotografia un’arte? Come pretendere sulla scorta di Walker Evans di lasciare le cose esattamente come sono e tuttavia produrre un lavoro di autore?”
4 R. BARTHES, Il grado zero della scrittura, trad. it. Einaudi 1982, p. 46
5 C. SCOTT, Street Photography. From Atget to Cartier-Bresson, I.B Tauros 2007, p. 15: “street photography puts us in a taxonomic quandary, not only because it stands on the crossroads between the tourist snap, the documentary photograph, the photojournalism but also because it asks to be treated as much as vernacular photography as a high art one”
6 B. NEWHALL, The History of Photography, The Museum of Modern Art 1982; trad. It.: Storia della fotografia, Einaudi 1982, p. 311: “Il direttore di un giornale inglese, vedendo quelle immagini [Visita di uomini di stato tedeschi a Roma nel 1931 di Erich Salomon], così profondamente diverse dai soliti ritratti presi in studio, le battezzò «fotografie candide», un’espressione di cui il pubblico subito s’impossessò”.
7 Cfr. L. WELLS, Photography: A Critical Introduction, Routledge 2004
8 C. SCOTT, op. cit, p. 4: “street photography has profoundly different orientations and ideologies […] however the modes can co-exist as the same time in the same image.”
9 Ibidem “[street photography] exploits the instantaneous in a way documentary does not”.
10 G. MORA, Photo Speak; A guide to the Ideas, Movements and Techniques of Photography 1939 to the Present. Abbevill Press 1998; p. 186: “Street photographers pursue the fleeting instant, photographing their models either openly or surreptitiously as casual passerby or as systematic observers.”
11 Cfr. W. BENJAMIN, I «passages» di Parigi, ed. it. a cura di Enrico Ganni, ed. Einaudi 2010
12 J. CLEAR, (Introduzione di) in H. CARTIER-BRESSON, Henri Cartier-Bresson, Foto Note – Contrasto 2004
13 SONTAG S., On Photography, Farrar, Strauss and Giraux, New York 1973; tr. It. S ulla fotografia: realtà e immagine nella nostra società, trad. di Ettore Capriolo, Einaudi, Torino, I ed. 1978, p. 13: “come l’automobile, la macchina fotografica viene venduta come arma predatrice, automatizzata il più possibile e pronta a scattare.”
14 Ivi pg. 14: “Tuttavia l’atto di fare una fotografia ha qualcosa di predatorio. Fotografare una persona equivale a violarla, vedendola come essa non può mai vedersi, avendone una conoscenza che essa non può mai avere; equivale a trasformarla in oggetto che può essere simbolicamente posseduto”.
15 P. FROSH, The public eye and the citizen voyeur: Photography as a performance of power. Social Semiotics, (2001), pp. 43-49: “the public eye is not an organ that one appears ‘before’; it is something that one is in”.
16 J. MEYEROWITZ, intervista 2008: https://www.youtube.com/watch?v=5Qjym5uliDw&t=126s; “Street photography is made up out of life but its invisible, all present, but invisible, only the camera makes it visible.”
17 P. BERENGO GARDIN (a cura di), Fotografial:’occhiodi unciclopdeietrol’obiettivo , in P. BOURDIEU, La fotografia – usi e funzioni sociali di un’artme edia , Guaraldi 1972, pp. 19/27
18 R. KRAUSS, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori 1990, p. 74
19 R. BARTHES, La camera chiara, Einaudi, Torino 1980, pp. 28 e sgg.
20 B. NEWHALL, The History of Photography, op.cit., p. 267
21 C. SCOTT, op. cit, p. 70
22 La prima fotocamera con pellicola 35 millimetri viene posta in produzione di serie dall’industria tedesca, con brevetto di Oskar Barnak, a marchio Leica nel 1925. È la prima vera macchina moderna, con negativi di piccolo formato e trascinamento della pellicola, che consente di ottimizzare i tempi dell’atto fotografico.
23 B. NEWHALL, op.cit., p. 314
24 C. SCOTT, op. cit, p. 60
25 A. KERTÉSZ, intervista BBC 1983: https://www.youtube.com/watch?v=Olc_QLDPUeU
26 Cfr. AA.VV., Leschoixd’HenriCartier -Bresson, catalogo dell’esposizione (Fondazione Henri Cartier- Bresson, 2003), Tours editeur 2003
27 R.E. STRYKER, Documentary Photography, in “Encyclopedia of Photography”, Greystone Press New York 1973, p. 1180
28 Così è definito dall’allora curatore del MOMA: JOHN SZARKOWSKI in Looking at Photographs, 100 pictures from the Collection of the Museum of modern art, New York 1973, p.116
29 O. LUGON, op.cit., pp. 1-21
30 O. LUGON, op.cit., p. 109-10
31 B. NEWHALL, op.cit., p. 342
32 In Images a la Sauvette nel 1952 scriverà (p. 6): «Avevo scoperto la Leica che è diventata il prolungamento del mio occhio, e da allora non mi lascia mai. Camminavo tutto il giorno, i nervi tesi, cercando nelle strade di prendere sul vivo delle foto, come flagranti delitti».
33 Eidetico è un termine caratteristico della fenomenologia di Edmund Husserl (1859-1938) dove si contrappone a empirico, relativo a dati di fatto, oltre che accostarsi al visivo, data la radice del verbo greco *ειδ / *ιδ / *οιδ «vedere». Eidetico è riferito a ciò che riguarda le essenze, gli oggetti ideali della mente indipendenti dalla realtà esterna.
34 Cfr. A. BRETON, L’amoufrou , Editions Galimard 1937. Racconto autobiografico scritto tra il 1934 e il 1936 in cui Breton dice: “la bellezza convulsiva sarà erotico-velata, esplosivo-fissa, magico-circostanziale o non sarà”. Parla delle conversazioni con lo scultore Alberto Giacometti sul desiderio di amare e di essere amati, come pure del valore di indizi e reperti rispetto al desiderio: “due individui che procedono fianco a fianco costituiscono una unica macchina a influenza innescata”.
35 B. NEWHALL, op. cit., pp. 316/20
36 B. NEWHALL, Ibidem
37 H. CARTIER-BRESSON, L’immaginariodavlero , prefazione di G. MACÉ, trad. Piera Benedetti, Abscondita 2005, p. 68
38 H. CARTIER-BRESSON, Images à la Sauvette, Ed. Vesre, Paris 1952; trad. It. Immagini al volo, a cura di Piera de Benedetti, Novecento Editrice 2002
39 Cfr. C.-B. PETITOT, Mémoires Cardinal de Retz, [ed. orig. 1825], libro II, sezione V
40 H. CARTIER-BRESSON, Images à la Sauvette, cit., p. 14 : “Con questo noi fotografi dovremmo sentirci a disagio, solo perché la nostra arte è più fugace, non abbastanza immanente?”
41 W. BENJAMIN, L’operad’artneell’epocadellsau a riproducibilità tecnica, ed. Einaudi, Torino 1955, p. 28
42 L’immagine-oggetto come la fotografia o il ready-made è provvista di un sistema d’apparizione stabile, permanente, inalterabile perché i momenti che ne hanno fissato l’esibizione nell’immagine fotografica rimangono sempre gli stessi (HUSSERL E L’IMMAGINE di C. Calì, Centro internazionale Studi di estetica)
43 T.S. ELIOT, Four Quartets - Little Gidding, Harcourt 1943: “… till the end of all our exploring will be to arrive where we started and know the place for the first time”
44 H. CARTIER-BRESSON, Images à la Sauvette, cit., p. 6: “Soprattutto desideravo cogliere in un’unica immagine l’essenzialità della scena che si presentava d’improvviso. Allora, non mi passava neppure per la testa il reportage fotografico, cioè raccontare una storia con molte fotografie. In seguito, osservando i servizi degli amici che praticavano il mio stesso mestiere e le riviste illustrate alle quali anch’io collaboravo, ho imparato come si fa un reportage.”
45 J. CLEAR, op.cit., Introduzione
46 Ivi, p. 9: “Il reportage è un’operazione progressiva della mente, dell’occhio e del cuore tesi ad esprimere, a fissare un avvenimento o delle impressioni.”
47 Ivi, p. 11
48 Ivi, p. 13: “In fotografia un particolare minimo può prendere grande rilievo e il più piccolo dettaglio umano diventare il leit-motiv. Noi fotografi vediamo e cerchiamo di far vedere in una sorta di testimonianza il mondo interno, ma è l’avvenimento stesso a provocare il ritmo organico delle forme”.
49 Ivi, p. 20: “La composizione deve essere una nostra preoccupazione costante, ma nel momento in cui fotografiamo non può che essere intuitiva, perché siamo alle prese con gli attimi fuggenti di un rapporto instabile”.
50 Ivi, p. 25: “Quando si parla di composizione non si può fare a meno di tornare ad un vecchio luogo comune: il nero è un colore simbolico. Il bianco e nero è una deformazione, una qualità astratta, in cui tutti i valori convergono e lasciano quindi la possibilità di una scelta”.
51 Ivi, p. 35
52 H. CARTIER-BRESSON, L’immaginariodavlero , cit., pp. 37/38
53 H.CARTIER-BRESSON, intervista 1999: https://www.youtube.com/watch?v=4ZSZLzGNPBQ
54 H. CARTIER-BRESSON, L’immaginariodavlero , cit., p. 73
55 Cfr. R. PASINI, L’informale, Clueb Bologna1995
56 H. CARTIER-BRESSON, L’immaginariodavlero , cit., pp. 9-11
57 S. SONTAG, On Photography, Farrar, Strauss and Giraux, New York 1973; tr. it. Sulla fotografia: realtà e immagine nella nostra società, trad. di Ettore Capriolo, Einaudi Torino I ed. 1978, p. 45
58 Ibidem
59 C. MARRA, Fotografia e pittura nel Novecento – Unastoria“senzacombattimento” , Bruno Mondadori 1999, p. 93
60 S. SONTAG, op. cit., p. 47
61 T.S. ELIOT, The love song of J. Alfred Prufrock, in “Poesie ”, Tascabili Bompiani 1989, pp. 160/69
62 C. MARRA, op.cit., pp. 136 e sgg.
- Arbeit zitieren
- Paolo Grandi (Autor:in), 2019, Il "momento decisivo" nella Street Photography contemporanea. Henri Cartier-Bresson ed il momento decisivo nella fotografia di strada, München, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/463776
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