La visione dantesca della silenziosa armonia, della muta musica, tutta intellettuale, delle sfere celesti fonde, in certo modo, una componente aristotelico-tomistica con un'eredità neoplatonica. Nel celebre proemio, Dio è «Colui che tutto move», cioè il Motore Immobile, che con la sua perfezione attrae a sé tutti gli enti e tutte le creature, che si muovono «per lo gran mar de l'essere», nel vastissimo pelagus Substantiae infinitum («oceano infinito della Sostanza») di cui parlava Tommaso d'Aquino.
Matteo Veronesi
ESPERIENZA MISTICA, TEOLOGIA DELLA STORIA E IMPEGNO ETICO NEL PARADISO DI DANTE
La visione dantesca della silenziosa armonia, della muta musica, tutta intellettuale, delle sfere celesti fonde, in certo modo, una componente aristotelico-tomistica con un'eredità neoplatonica. Nel celebre proemio, Dio è «Colui che tutto move», cioè il Motore Immobile, che con la sua perfezione attrae a sé tutti gli enti e tutte le creature, che si muovono «per lo gran mar de l'essere», nel vastissimo pelagus Substantiae infinitum («oceano infinito della Sostanza») di cui parlava Tommaso d'Aquino.
Nel contempo, però, la «gloria di Colui che tutto move» è anche, come Dante stesso chiarisce nell'Epistola tredicesima a Cangrande della Scala (la quale, pur se di discussa autenticità, sancisce la dedica della terza cantica al signore di Verona, vicario imperiale, e in pari tempo ne offre preziose chiavi di lettura), divinus radius, sive divina gloria, «luce divina, ovvero gloria divina».
Qui Dante si avvicina alla mistica e alla metafisica della luce, di origine neoplatonica, e diffuse nella filosofia medievale, sia cristiana (Dionigi lo Pseudo-Areopagita, Riccardo di San Vittore, Roberto Grossatesta, Bonaventura da Bagnoregio), sia islamica (il Libro della Scala, che narra il viaggio celeste di Maometto, e presenta molte affinità con la narrazione dantesca).
La luce, in termini platonici, rappresenta la purezza dell'essere, della trascendenza, del Divino; le tenebre sono, invece, simbolo delle impurità e delle scorie della materia, del corpo, della conoscenza sensibile (la stessa selva oscura del primo canto dell'Inferno potrebbe rappresentare, oltre e più che il peccato, come banalmente si interpreta, proprio l'inganno della conoscenza e delle tentazioni legate alla materia e al corpo, tanto più che in greco hyle, come ricordavano nel dodicesimo secolo i filosofi neoplatonici della scuola di Chartres, significa sia ''selva'' che ''materia'', e per questo veniva contrapposta dialetticamente al Noys, all'Intelletto che si appressa al divino attraverso la conoscenza razionale e spirituale).
Dante sembra fondere la nozione aristotelico-tomistica del Motore Immobile con quella neoplatonica del ʺritorno all'Unoʺ, in base alla quale tutte le anime, che vivono sulla terra come in esilio, desiderano tornare al loro Padre celeste, alla loro origine prima, al Bene supremo ed assoluto, con una ʺfuga del solo verso il Soloʺ. Al tema mistico si lega strettamente quello dell'ineffabile. «E vidi cose che ridire / né sa né può chi di lassù discende».
Qualcosa di simile si legge nelle pagine in cui San Paolo, nelle Lettere, rievoca la propria ascesa al cielo del Sole, durante la quale aveva udito arcana verba, parole enigmatiche, arcane, di origine sovrumana, che a nessuno, sulla terra, è lecito riferire o interpretare.
Il razionalismo aristotelico-scolastico è, al culmine della visione, oltrepassato e trasceso (ma non per questo eliminato o privato di valore) dalla alienatio mentis, dall' excessus mentis dei mistici, ossia da uno slancio interiore che viola i limiti e i confini del corpo e dell'esperienza per immergersi totalmente nella divinità: una unio mystica o, come lo chiamerà Spinoza nell'era della Controriforma, un amor Dei intellectualis, «amore intellettuale di Dio».
«La mente mia ... di sé stessa uscìo, / e che si fesse rimembrar non sape» (XXIII, 43-45). «Dietro la memoria non può ire», si leggeva nel primo canto. La memoria non è in grado di rievocare e di mettere a fuoco con precisione e nettezza l'esperienza mistica, dal momento che quest'ultima riguarda realtà celesti ed ultraterrene, mentre la memoria, per definizione, concerne esperienze sensoriali trasformate poi dall'intelletto in immagini mentali o in parole. Lo sguardo di Dante è, insieme, individuale ed universale, intimo ed esteso a tutto l'universo. La conoscenza è razionale e insieme intuitiva del cosmo diviene esperienza profondamente vissuta, ed espressa tramite il filtro e la mediazione del soggetto poetico.
Nel canto trentesimo, la mistica della luce assume la forma della ʺvisione metamorficaʺ, fluente, cangiante, mutevole. Dante qui si ispirò forse all'opera La luce fluente della divinità della scrittrice mistica medievale Matilde di Magdeburgo, che alcuni identificano con la Matelda del Purgatorio, mediatrice fra Virgilio e Beatrice, fra una sapienza umana e terrena, per quanto nobile ed elevata, e una sapienza celeste e spirituale, e incarnazione (secondo Pascoli) dell'arte poetica, che sintetizza concezione intellettuale e perizia tecnica, idea e forma. Quella dell'Empireo, il cielo supremo, è «luce intellettual piena d'amore»: fusione di divinum lumen e intelletto umano, coscienza mistica e riflessione filosofica, lampo dell'ispirazione e dell'intuizione e più disteso ed articolato lavorio della facoltà letteraria. La luce di questo amore porta poi con sé bene, letizia e dolcezza. La contemplazione mistica ed intellettuale è fonte di inesauribile gioia, ormai perduta e impossibile da assaporare per noi, nel nostro esilio terreno.
La terzina XXX, 40-42 («luce intellettual, piena d'amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogni dolzore»), scandita da tre anadiplosi (ripetizioni, all'inizio del verso, della parola che si trova nella chiusura del verso precedente), rispecchia la «circulata melodia» (XXIII, 111) che domina la musica del Paradiso, e che riflette e traduce la natura di «pensiero di pensiero» (di pensiero, che data la sua suprema perfezione, non potrebbe pensare altro che se stesso senza contaminarsi, né può essere compreso e pensato se non da se stesso) che è propria della Divinità.
Significato analogo, a livello di semiologia della musica, può avere il ciclico, periodico e ricorsivo tornare su una stessa nota o uno stesso gruppo di note che si ravvisa nelle melodie del canto gregoriano (spesso riprese come tenor, come voce di base, nella polifonia dell' ars antiqua e dell' ars nova, anch'essa non ignota a Dante).
Analoghe strutture stilistiche iterative e ricorsive (anche se qui con un maggior tasso di variatio) si trovano, per esprimere la stessa natura di ʺpensiero di pensieroʺ propria dell'Essere Sommo, in XXXIII, 124-126: «O luce etterna che sola in te sidi, / sola t'intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi!».
Siamo arrivati, così, al canto conclusivo, in cui vengono a sintesi tutti i motivi principali della visio mystica e della beata visio che il poeta ha disseminato per tutta la terza cantica.
Maria Vergine è un paradosso assoluto, una sfida estrema e irriducibile che la fede pone alla ragione: «Vergine madre, figlia del tuo figlio», dice il verso iniziale, con due antitesi nette ed eloquenti. In pari tempo, ella è mater et mediatrix, mediatrice presso Dio delle preghiere degli uomini. Proprio grazie alla mediazione di Maria, Dante è ammesso a contemplare il Divino, in cui si raccolgono e si assommano, come le pagine infinite di un libro eterno, tutti gli aspetti, le forme, le potenzialità e gli enti disseminati per il cosmo (una metafora simile – quella del ʺLibro di Luceʺ – si trovava nell'islamico Libro della Scala).
I «tre giri / di tre colori e di una contenenza» (simili ad una rappresentazione contenuta nel Liber figurarum della santa, scrittrice ed artista Hildegard von Bingen, altra candidata all'identificazione con Matelda) simboleggiano le tre persone (che nello stesso tempo sono una sola, fondendosi in Dio) della Trinità.
Nell'ultimo canto, Dante assomma due fra i più profondi ed insondabili misteri della fede cristiana: la maternità verginale di Maria e il Dio uno e trino. E di fronte alla visione del Divino, anche la sua "alta fantasia'', anche le sue straordinarie facoltà immaginative ed espressive devono dichiararsi vinte e sopraffatte. La cantica, apertasi sotto il segno dell'ineffabile, sempre sotto di esso si chiude. La luce sconfina nell'accecamento, la parola nel silenzio. E su tutto regna l'«amor che move il sole e le altre stelle», la silenziosa armonia delle sfere, la dolce forza del Motore Immobile.
Nel canto terzo spicca la figura di Piccarda Donati, strappata con la forza dalla quieta e riparata «dolce chiostra» del convento (la quale, commentava Benvenuto Rambaldi, è «ombra del Paradiso», mentre il mondo esterno è «inferno dei viventi») e costretta con la forza, dal fratello Corso Donati, a sposare Rossellino della Tosa per bieche ragioni di convenienza politica.
Proprio lei, vittima innocente di violenza, testimonia ora – senza serbare alcun rancore ai suoi aguzzini, tanto lontano e trascurabile è ormai il mondo terreno – la perfetta concordia che domina il paradiso.
«E 'n la sua volontade è nostra pace». I beati gioiscono della loro inalterabile concordia, della loro armonia prestabilita, con Dio. La beatitudine è una sola, il paradiso è uno solo in tutti suoi luoghi e in tutti i suoi gradi; semplicemente (in virtù di qualcosa di simile all'ʺemanazioneʺ con cui, secondo i neoplatonici, l'Uno infonde l'essere, la bontà e la bellezza nelle varie creature senza venirne diminuito o alterato), la beatitudine eterna si manifesta e si rivela al contemplatore in modi, forme, aspetti, gradi differenti, pur restando in sé una ed immutabile, al pari del Divino da cui si origina. «Diverse voci fanno dolci note; / così diversi scanni in nostra vita / rendon dolce armonia tra queste rote» (Paradiso, VI, 124-126).
Anche questa armonia, questa unità e questa concordia sono parte del grande accordo della silenziosa musica celeste. I diversi gradi, o meglio le diverse forme della beatitudine, sono come le note che concorrono a formare una celeste, inalterabile consonanza.
Più combattiva, contrastata, dialettica è la figura di Francesco (canto Xl), che in Dante appare ben diverso da quello pacifico, candido e mite degli affreschi giotteschi. Anche lo stile (insolito per il Paradiso, perché aspro, crudamente realistico, a tratti quasi grottesco, anche prescindendo dalla questione del verso «a porta del pia- cer nessun disserra» in cui Auerbach vedeva una sorprendente metafora sessuale, benché trasferita, come nel biblico cantico dei cantici, nell'àmbito della simbologia mistica dell'unione fra l'Anima e Dio) sottolinea il carattere arduo e combattivo del santo, ribelle nei confronti del padre e della società mercantile per affermare un superiore valore di fede e di spiritualità.
Tuttavia, anche la caratterizzazione della figura di Francesco è dominata dall'idea dell'amore, stavolta (come nel Sacro Sposalizio del beato Francesco con Madonna Povertà) nella forma delle mistiche e simboliche nozze di Francesco con la povertà, che denotano una scelta di vita in antitesi alla ricchezza e al potere temporale della Chiesa. Dante era, del resto, vicino alle correnti profetiche ed estremistiche del francescanesimo spirituale, che criticavano la corruzione della Chiesa.
Dante, come Agostino nella Città di Dio, concepisce ed interpreta gli eventi storici non in sé e per sé, come frutto di fattori, circostanze e decisioni meramente umani e terreni, ma come espressione di un disegno trascendente, di una volontà divina, di un tracciato provvidenziale, che orienta l'agire dell'uomo pur lasciandogli un margine di libero arbitrio.
Anche l'Impero romano, pur avendo condannato Cristo e poi perseguitato i cristiani, rientrava in un disegno divino, in quanto culla e terreno per la diffusione del cristianesimo, e alleato della nuova religione a partire da Costantino (cui peraltro Dante non perdonava, considerandola a torto autentica, la donazione di Costantino, che avrebbe dato origine al potere temporale dei Pontefici).
Divina è anche l'ispirazione di Giustiniano, che domina il sesto canto, e che, promuovendo la realizzazione del Corpus Iuris Civilis, diede all'Impero (che con Carlo Magno sarebbe divenuto ʺsacroʺ, oltre che ʺromanoʺ, realizzando l'ideale dell'Europa come respublica christiana) e alle sue istituzioni un solido fondamento (almeno sulla carta) di legalità e di giustizia.
Morale e politica, fedeltà all'impero e tensione profetica sono presenti, nel canto XV, anche nella figura di Cacciaguida, il trisavolo di Dante che forse partecipò (si è ipotizzato che in realtà qui Dante mitizzi questo suo oscuro antenato) alla seconda crociata. La rievocazione del tempo passato, non ancora corrotto dal denaro e dalla lussuria, si lega alla militanza in nome della fede, intesa quale ʺmartirioʺ, quale sanguinosa testimonianza, attraverso la quale e dalla quale si merita infine di ascendere alla ʺpaceʺ del Paradiso.
Tanto la figura di Giustiniano quanto quella di Cacciaguida sono avvolte da una stessa atmosfera stilistica, da uno stesso registro alto, aulico, solenne, epico-tragico.
Nel canto diciassettesimo, la voce di Cacciaguida si fa profezia, figurando sia l'immeritato esilio del poeta, sia la sua missione e la sua investitura di poeta-profeta, di poeta-Vate portavoce della verità e redentore della civiltà. Dante, dice Cacciaguida, si farà «parte per se stesso» si porrà quale vir super partes, imparziale testimone e difensore della sapienza e della giustizia. È poi evocata, sempre in chiave imperiale, l'insegna gloriosa dei Della Scala, che accanto al simbolo gentilizio reca il "santo uccello'', cioè l'aquila imperiale (quello stesso "sacrosanto segno" che attraversa i secoli e la storia nel se- sto canto). Nel simbolo dell'aquila, l'idea della gloria imperiale sembra fondersi con quella della gloria poetica: Omero è «quel segnor de l'altissimo canto / che sovra li altri com'aquila vola» (Inferno, IV, 95-96).
Infine, nel canto ventisettesimo, Dante dà sfogo, per bocca dell'apostolo Pietro, a tutto il suo sdegno nei confronti della Chiesa corrotta, che ha tradito e rinnegato le sue pure ed eroiche origini paleocristiane, intrise del sangue dei protomartiri.
Qui lo stile di Dante tocca (creando un forte e voluto stridore con la tonalità eterea, sublime e rarefatta dominante nella terza cantica) punte assolute ed acuminate di asprezza e di crudezza. La curia pontificia, ormai privata della presenza di Cristo, è divenuta «cloaca / del sangue e della puzza». Del resto, nel trentaduesimo del Purgatorio, la Chiesa era stata addirittura identificata con la magna meretrix che, nell' Apocalisse, rappresentava la Roma imperiale, persecutrice dei cristiani, e vista come una prostituta che «puttaneggia coi regi», che si vende ai re di Francia.
Per adempiere la sua missione culturale e morale, Dante dovrà condannare, senza censure e senza timori, la corruzione della sua epoca.
- Citation du texte
- Matteo Veronesi (Auteur), 2018, Esperienza mistica, teologia della storia e impegno etico nel "Paradiso" di Dante, Munich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/446236
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