La «critique amusante et poétique», il «poetical criticism» o se proprio si vuole, secondo la spregiativa ed inadeguata definizione crociana, la «critica estetizzante», ben lungi dal poter essere ridotte a forme di elusiva e dilettantesca evasione, o magari ad una sorta di «materiale di scarto» dell’officina poetica, sono parte integrante ed essenziale del contesto culturale in cui la modernità letteraria, «istituita dall’atto duplice e unitario che scandisce la critica e la poesia, si fa sistema»; tali forme di critica sono speculari a forme di «poesia della poesia», di poesia per cui quella che sarà la derobertisiana «collaborazione» della critica, già compiutamente prefigurata in queste esperienze, diviene un elemento consustanziale, vitale, irrinunciabile, quasi un’algebrica «condizione di esistenza». Siamo di fronte ad un portato, ad una conseguenza diretta e, nel contempo, ad un segnale e ad un sintomo di quella quasi patologica e nevrotica «coazione alla teoria» o, per usare una felice terminologia adorniana, «necessitazione all’estetica», che caratterizza la modernità letteraria.
INDICE
PREMESSA, VENT’ANNI DOPO
INTENZIONI
PRIMO CAPITOLO DALLA “CRITIQUE AMUSANTE ET POÉTIQUE” AL “POÈME CRITIQUE”: BAUDELAIRE E MALLARMÉ
SECONDO CAPITOLO VERSO UN NUOVO ELLENISMO RIFLESSIONI SULLA CRITICA WILDIANA
TERZO CAPITOLO SOLI DI FRONTE ALL’OPERA IL CONCETTO DI CRITICA NELL’ESTETISMO ITALIANO
EPILOGO. “UN SOLITARIO E TACITO CONCERTO” VERSO IL “SAPER LEGGERE” NOVECENTESCO
NOTE
BIBLIOGRAFIA
PREMESSA, VENT’ANNI DOPO
Certo, nel ripubblicare, a distanza di due decenni, pressoché immutato, questo lavoro (che, ricavato dalla tesi di laurea discussa con Fausto Curi all’Università di Bologna, ebbe la ventura di ricevere il premio Cesare De Lollis per la saggistica), non mi sfuggono le integrazioni bibliografiche che sarebbero possibili, se non necessarie.
Ma credo che esse, tutto considerato, non ne muterebbero l’impostazione di fondo e il nucleo essenziale; i quali, variamente sviluppati e declinati, hanno poi informato la riflessione sulla letteratura da me in séguito dispiegata, e sfociata, otto anni dopo ‒ con una restrizione dello sguardo d’indagine al contesto italiano, e insieme con un’estensione cronologica fino alla prima metà del Novecento ‒, nel libro Il critico come artista dall’estetismo agli ermetici, oltre che in una serie di contributi in riviste e miscellanee.
Sebbene certe fioriture liberty, certi compiacimenti estetizzanti, certe aristocratiche sublimazioni, congiunte e funzionali ad una diffusa, sullo specifico versante della critica e della saggistica (si pensi ad un testo pur fondamentale, e forse ancor troppo trascurato, la dannunziana Allegoria dell’Autunno), tendenza alla marginalità, alla divagazione, alla compiaciuta ed estatica esteriorità da “dilettante di sensazioni” (per citare la celebre definizione che Croce mutuò, peraltro, proprio da Nencioni), non possano non apparire remote dal nostro sguardo più lucido, disincantato, forse anche più sfiduciato e arido, è, a ben vedere, proprio in questi fastosi ed affocati albori del moderno, in questo crogiolo di estetismo, simbolismo, décadence (nell’accezione compiaciuta dei francesi come in quella nichilistica di Nietzsche, contagiato e insieme inorridito), che prende forma, attraverso la chiastica specularità, la complementarietà necessaria, di poème critique e critique poétique, quel nesso strettissimo, vitale e insieme tormentoso, di poesia e autocoscienza, poesia e metapoesia, che costituisce forse la nota essenziale del moderno.
È, lo si voglia o no, da queste spume ribollenti e spesso esorbitanti che sorge Crineide, la moderna Musa della Critica, e insieme del rischio dell’impotenza e della paralisi della creazione oppressa e vampirizzata dal parossismo dell’autocoscienza, di cui parlerà, raccogliendo una suggestione del Montégut, Mallarmé; è da questo raggelarsi e insieme concretarsi dei fervori romantici (da questo “tramonto del sole romantico” di cui parlò Baudelaire) che prendono forma la coesistenza, la coimplicazione di creazione e riflessione, tipiche della poesia moderna: dalla numinosa ed epifanica ontologia della parola di un Rilke alla fenomenologia oggettuale, corrispettivo poetico dell’ epoché e della “messa fra parentesi”, di un Sereni, dall’analogismo e dal rarefatto e insieme sensuoso platonismo del secondo Ungaretti e degli Ermetici all’oscillare di Montale fra “oscurità” e “autocoscienza”, in un perenne bergsoniano fluire di apparizioni, fantasmi, suggestioni, agnizioni ‒ Montale non indifferente, si ricordi, al fascino insidioso ed evasivo del Rinascimento di Pater, «il solo», scriveva in Auto da fè, «che ha fatto di noi gli uomini che siamo (o che dovremmo essere)» ‒, fino alla discesa heideggeriana e lacaniana nelle profondità dell’Inconscio-Parola di Zanzotto ‒ ma forse non si possono neppure del tutto escludere dal novero il recupero pasoliniano e pavesiano, fra Vico e Pascoli, degli archetipi naturalistici da cui germinava un lirismo nutrito di miti, o addirittura la liricizzazione della passione ideologica, fra pagina saggistica e scrittura in versi, di un Fortini, in cui assiduamente riaffiorano, benché ostinatamente esorcizzati, le tentazioni e i fantasmi della letteratura pura.
Peraltro mi rendo conto, ora (specie dopo la pubblicazione di un libro lucidissimo, La divina interferenza di Chiara Fenoglio, che può segnare uno spartiacque in questa linea di ricerca), di avere, forse, troppo strettamente ricondotto il legame di poesia e critica ad un’idea di poésie pure, di poesia assoluta, autoreferenziale, eburnea, chiusa e paga in se stessa; mentre il rapporto fra poesia e critica può collocarsi, sulla scia di Adorno, proprio nello spazio aperto e dinamico che separa il sé (l’«illusione mitica del puro sé») dall’altro da sé, e dunque la poesia dalla società, dalla storia, dalla natura, dal mondo: spazio che non è, o non è soltanto, «zona di sicurezza», ma «campo di tensione», fascio e reticolo di relazioni e di echi scambievoli.
E, allora, come mostra la Fenoglio, da Leopardi a Ungaretti, da Luzi a Pasolini a Zanzotto, pur se in modi e misure quanto mai diversi e anche contrastanti, il poeta-critico che, nel fondere creazione e riflessione, rivisita e sonda e scandaglia, da critico, la tradizione letteraria, la parola degli antichi e dei moderni (allo stesso modo che, da poeta, interroga e sollecita e fa risuonare il paesaggio e la materia vivente), al crocevia fra uomo, storia, natura, per distillare una parola autentica, condivisa, dialogante, assolutamente e universalmente umana e civile, non può che imprimere al proprio lavoro, direttamente o indirettamente, una funzione in senso lato ideologica, una curvatura più o meno marcata di militanza, d’impegno, di coinvolgimento etico, che non compromettono l’autonomia e l’assolutezza del fatto poetico, ma semmai le rafforzano e ne sono rafforzate. Il tutto al fine, per citare Bonnefoy, di «non essere più soli nel linguaggio», d’inseguire, con Pasolini lettore di Dante, una baluginante lux in tenebris, «qualcosa che si ostini a luccicare in un po’ di tetro fango» ‒ forse la stessa «luce chiara, incorruttibile» in cui, per Luzi, possono ardere e purificarsi le «spoglie« del mondo e del tempo.
Ma forse non è azzardato vedere, anche in ciò, pur se con tutte le distinzioni del caso, un’eredità, prossima o lontana, dell’estetismo. Il poeta che opponeva al «grigio diluvio» ‒ democratico nel senso di oclocratico ‒ dell’incipiente società di massa il culto della Bellezza pura (tinto, nell’estetismo inglese, da Ruskin a Morris a Wilde, di un sia pur quanto si vuole vago ed enfatico umanitarismo) è lo stesso che, con minuta sapienza letteraria, trae «con mano / casta e robusta dal gorgo / della prima origine» le antiche parole ormai consunte e svuotate e svilite dalla gretta e greve prosa del mondo.
Ulteriore motivo per il quale non mi pare inutile riproporre queste pagine. Che pure, forse, non escono sempre indenni dal tentativo e dall’insidia, del resto necessari, di trascendere le barriere, oggi quanto mai erte e inespugnabili, dello specialismo.
M. V.
INTENZIONI
I
Come ha scritto Pier Vincenzo Mengaldo, “sulla poesia italiana contemporanea” - ma, io credo, su ogni movimento e su ogni stagione letteraria - “s’impara, assai più che da tanti ambiziosi panorami globali, da ricerche apparentemente decentrate che percorrono per esempi e campioni l’intero territorio a partire da ipotesi di lavoro circoscritte ma precise, e in base a queste fanno emergere e contrastare episodi, personalità, testi” (1). Credo che questa formulazione possa offrire una prima giustificazione metodologica per l’operazione, certo ambiziosa ed assai ardua, che ora mi accingo, non senza esitazioni ed ansie, a compiere.
Certo l’accostamento e la giustapposizione di figure diverse rischiano di configurare una sorta di “panorama” dallo sfondo nebuloso e vago, o magari un incoerente e sfilacciato “elenco di dispersi” (2) in cui, volendo, si avrebbe gioco facile a ravvisare omissioni e lacune imperdonabili. Questo rischio è ancor più consistente quando, come nel mio caso, la trattazione tocchi alcune figure che rientrano a buon diritto nel novero degli autori centrali della modernità letteraria europea, e che anzi contribuirono, come si vedrà, se non proprio a segnarne l’inizio, quantomeno a “sistematizzarla” e a dotarla di lucida autocoscienza e nitida concettualizzazione. Si rischia, in altre parole - come del resto accadde anche ad un poeta-critico dal valore e dall’acume infinitamente superiori ai miei -, che la “très grande generalité” che è presupposto indispensabile di simili trattazioni sfoci “in una sorta di generalizzazione che sfuma e scolora” (3), attenuando i contrasti, dissolvendo i contorni, sfarinando masse e superfici.
Nel mio caso, comunque, fermo restando che “percorrere l’intero territorio” sarebbe opera di una vita, un’”ipotesi di lavoro circoscritta ma precisa” c’è: la “critique amusante et poétique”, il “poetical criticism” o se proprio si vuole, secondo la spregiativa ed inadeguata definizione crociana, la “critica estetizzante”, ben lungi dal poter essere ridotte a forme di elusiva e dilettantesca evasione, o magari ad una sorta di “materiale di scarto” dell’officina poetica, sono parte integrante ed essenziale del contesto culturale in cui la modernità letteraria, “istituita dall’atto duplice e unitario che scandisce la critica e la poesia, si fa sistema” (4); tali forme di critica sono speculari a forme di “poesia della poesia”, di poesia per cui quella che sarà la derobertisiana “collaborazione” della critica, già compiutamente prefigurata in queste esperienze, diviene un elemento consustanziale, vitale, irrinunciabile, quasi un’algebrica “condizione di esistenza”. Siamo di fronte ad un portato, ad una conseguenza diretta e, nel contempo, ad un segnale e ad un sintomo di quella quasi patologica e nevrotica “coazione alla teoria” (5) o, per usare una felice terminologia adorniana, “necessitazione all’estetica” (6), che caratterizza la modernità letteraria.
II
Torniamo, per un momento, al “panorama” e all’”ipotesi di lavoro”. Baudelaire e Mallarmé in Francia, Wilde - con la linea Arnold-Pater che lo precede e lo prepara, e alla quale la sua idea di independent criticism dovrà essere in qualche modo rapportata - in Inghilterra, D’Annunzio e Angelo Conti in Italia, sono, a mio parere, figure in cui si possono individuare gli “esempi” e i “campioni”, tipici e paradigmatici, di quella concezione creativa e artistica della pratica critica e di quello stretto legame tra la riflessione critica e la creazione artistica che sono tra i più limpidi tratti distintivi della décadence; décadence che per pura distinzione di comodo la mia trattazione scinde nelle duttili ed oscillanti categorie di simbolismo e di estetismo. Questi cinque autori, su cui sarà incentrata la mia tesi, e il cui estemporaneo e quanto mai aperto e rivedibile “canone” non vuole essere se non uno specimen, parziale ed esemplificativo, di un movimento e di un àmbito ben più vasti, sono accomunati, al di là delle innegabili differenze e peculiarità individuali, da forme di teorizzazione dell’autonomia dell’arte. Com’è noto, peraltro, questa concezione del fatto estetico come autonomamente fondato, assolutamente puro ed incondizionato - come, di conseguenza, assolutamente libere ed incondizionate rispetto alla morale e all’utile vorranno essere le facoltà esegetiche e valutative di questi critici-artisti -, si trovava già, lucidamente formulata, nel pensiero settecentesco, per quanto, ovviamente, ancora priva delle radicali e “militanti” esasperazioni che avrebbe incontrato nella poesia moderna, almeno a partire da Poe. Già in quelle teorizzazioni, ad ogni modo, si avvertiva una certa tendenza al “ripiegamento all’interno della stessa esperienza interiore dell’arte” (7): ripiegamento, autogenetico ed autoreferenziale, che è tipico della “poesia della poesia”, della poesia che si fa, che è quasi forzata a farsi critica di se stessa, e nel contempo ispira ed accredita una critica che in qualche misura si fa poesia, assume in sé modalità, forme e strutture che sono proprie della poesia. Come ha scritto Anceschi, delineando un principio metodologico a cui credo possa essere accordata validità generale, almeno quando si tratti di compiere “ricognizioni” globali come la mia, “questo avvicinare personalità diversissime non vuole indicare la formazione di una scuola, ma semplicemente la grande ricchezza e vitalità di questi concetti” (8); e si noti che Anceschi si spinge fino ad accostare agli autori citati, unitamente ad altri di sensibilità ed orientamento affini, anche figure come Valéry, al cui assai peculiare metodo critico e alla cui poetica, che certo devono molto all’”idea simbolista”, si dovrà perlomeno accennare, e Proust, fautore di una “teoria dell’arte come salvazione per via di una conoscenza obiettiva”. Credo che la ricchezza e la vitalità di questi concetti si possano in buona parte ricondurre al legame, intimo e necessitante e scambievole - quasi “simbiosi mutualistica” o “corrispondenza biunivoca” -, tra creazione poetica e riflessione critica. Come ha osservato Nicola Abbagnano, la definizione della poesia “come modo privilegiato di espressione linguistica”, come approfondimento ed affinamento dei valori, essenzialmente linguistici, metrici, stilistici, che sono propri della poesia e solo della poesia, è strettamente legata al presupposto dell’autonomia del fatto estetico. E’ questo “il solo procedimento che può dar luogo ad una definizione funzionale della poesia: ad una definizione cioè che si presti ad esprimere e a orientare l’effettivo lavoro dei poeti” (9). Non c’è da stupirsi, dunque, se poeta “autonomo” e poeta “critico” spesso convivono e collaborano vicendevolmente l’uno con l’altro, e anzi spesso coincidono. “A tale definizione”, prosegue Abbagnano, “hanno pertanto contribuito i poeti stessi, più che i filosofi”; e sulla fondamentale distinzione, se non proprio antinomia insanabile, tra “critico-poeta” e “critico-filosofo” (distinzione, del resto, anche anceschiana), tra artifex additus artifici e philosophus additus artifici, si dovrà certo tornare, per aggiungere un breve capitolo, se mai ce ne fosse bisogno, alla storia della grande incomprensione crociana della poesia moderna. Incomprensione che il postcrocianesimo, nelle sue varie e diversissime forme e manifestazioni, dalla critica all’estetica, da Fubini a Binni a Pareyson, ma già, in larga parte, il “saper leggere” vociano, che pure prendeva le mosse da presupposti latamente crociani, cercarono di sanare, tra le altre cose, proprio recuperando e riabilitando, pur se con grandi difficoltà e mille cautele, la concezione e l’idea da un lato di una poesia armata di un preciso “ideale estetico” che ne fissasse e ne regolasse i “modi di costruire”, dall’altro di una critica in cui sembrasse “di sentir battere due cuori”, quello del critico e quello del poeta, quello del “soggetto” e quello dell’”oggetto” - peraltro dispostissimi, all’occorrenza, a scambiarsi i ruoli - dell’atto critico.
III
Alla luce di quanto si è detto - e spero di non aver promesso troppo - credo che non si debbano sottovalutare le implicazioni che, in sede di storiografia letteraria, potrebbero forse derivare da una ricerca come questa.
In particolare, alla luce di quanto si è detto a proposito dell’ autonomia dell’arte e del cosiddetto art pour l’art, non è più molto chiaro, ad esempio, a che cosa alluda Northrop Frye quando definisce “l’ultima parte del XIX secolo” come “l’età d’oro della critica contro la critica”, soggiungendo che “molti dei suoi pregiudizi continuano a sopravvivere” (10). Certo, all’idea “militante” di una “critique amusante et poétique” è legata una battagliera polemica contro la critica “froide et algébrique”, che dietro il pretesto “scientifico” di “spiegare tutto” finisce per risolversi in sterile esercizio accademico, degno solo di tetri e cattedratici “professeurs jurés”. Analoga, per certi versi, sarà, in seno all’estetismo italiano del Convito e del primo Marzocco, la serrata polemica contro l’erudizione di stampo positivista e di scuola storica, peraltro innegabilmente meritoria. Ma non credo si possa affermare - dopo aver peraltro riconosciuto che “la critica letteraria si occupa di un’arte ed è essa stessa, manifestamente, un’arte” (11) - che “l’arte per l’arte è una rinuncia alla critica che si conclude con l’impoverimento della stessa vita civile” (12). In realtà, come si è detto, l’arte autonoma non formula necessariamente un atto di “rinuncia alla critica”, non ostacola e non esclude né l’immanenza della facoltà critica alla creazione poetica né una fattiva e attivamente operante “collaborazione” della critica alla poesia. Essa, anzi, sembra favorire e, in qualche modo, addirittura esigere la presenza, al suo fianco o addirittura al suo interno - la poesia come “critica in atto” o “in divenire” -, di una critica che l’accompagni e la sostenga. Nel momento stesso in cui la poesia si proclama “legge a se stessa”, entità assoluta, impregiudicata, nutrita e “garantita” da quella “finalità interna” che è la bellezza, e che la preserva da ogni uso strumentale e da ogni modalità di giudizio che ne metta in questione l’utilità pratica o la liceità etica, allora essa è ipso facto forzata a cercare e a trovare al suo interno una giustificazione, un fondamento, una ragion d’essere, che possono giungerle solo dalla collaborazione della critica; di una critica, beninteso, che voglia essa stessa porsi e presentarsi come “autonoma”, estetica, che voglia essere essa stessa arte, e che proprio per questo cerchi di enfatizzare e, se possibile, di riprodurre, per via “simpatetica” e “mimetica”, i valori e i fattori che sono intrinseci ed immanenti all’opera d’arte, e che ne fondano e ne garantiscono l’autonomia.
Se poi queste forme di arte, e conseguentemente di critica, possano o meno “impoverire la stessa vita civile”, è questione che sarebbe interessante sottoporre ad un sociologo della letteratura; qui non si possono fare che un paio di considerazioni.
Innanzitutto, sembra che già con un Baudelaire o un Wilde, la critica letteraria ed artistica cominci, accennando ad uno sviluppo che si accentuerà e giungerà a compimento con le Avanguardie e con la Scuola di Francoforte, a trasformarsi, ad evolvere e a risolversi in una critica che, da critica dell’”istituzione arte” si traduce, direttamente o indirettamente, in critica delle istituzioni, della società, dei pregiudizi, insomma “critica dell’esistente”; una critica che, dunque, si fa specchio e cassa di risonanza di una forma di “coscienza della crisi”, di quella crisi degli ideali libertari, delle certezze scientifiche, dei valori borghesi, che attanaglia l’Europa a cavallo tra i due secoli. Credo che questa critica, talora liquidata come “critica estetizzante”, assente, oziosa, disimpegnata, possa, magari per negazione e per contrasto, condizionare in modo non necessariamente negativo la “vita civile”. Del resto, come aggiunge Frye, “il solo modo di impedire e di prevenire il lavoro della critica è ricorrere alla censura, la quale ha con la critica gli stessi rapporti che il linciaggio ha con la giustizia” (13). I problemi che autori come Baudelaire e Wilde, ma anche, pur se in misura assai minore, Mallarmé e D’Annunzio, ebbero con la “censura”, possono, in quest’ottica, essere visti nella giusta luce, in relazione alla sdegnosa e spregiudicata autonomia tanto della loro arte quanto della loro critica. E uno dei prodigi di cui questa critica e questa poesia sono capaci è proprio quello di agire o reagire nei confronti della realtà esterna senza di necessità varcare, almeno visibilmente, lo spazio magico della pagina, della scrittura, del verbo. Si delinea, in tal modo, qualcosa di simile a quell’operazione intrinsecamente, internamente rivoluzionaria, a quella sorta di “rivoluzione nascosta” o, per usare una terminologia cara a certa critica anglosassone, quella “revolution of the word” che è l’unica che la poesia possa attuare senza divenire eteronoma, senza ridursi a oggetto o a strumento di propaganda. L’essenza di tale poesia continua a sottrarsi alle istanze ideologiche e agli schemi preconcetti propri di una critica che si configuri come “organismo logico-estetico pensato fuori della cosa, su un premere di impulsi esterni, in una prospettiva in cui lo ‘sguardo della storia’ (o meglio un particolare modo di muovere questo sguardo) prevale rispetto a ogni altro modo di affrontare l’enigma” (14).
Sempre per quanto concerne l’aspetto storiografico, con specifica attinenza alla storia della critica, una ricerca come questa potrà dare o aggiungere, se non un capitolo, almeno qualche paragrafo all’ardua ma incredibilmente affascinante “storia”, “ancora tutta da scrivere”, “dei modi diversi in cui fu intesa l’analogia come criterio di giudizio critico da Baudelaire a Ungaretti” (15). E’ proprio l’analogia, sia come forma di pensiero che come forma d’espressione, a consentire al poeta-critico “certe fulminee ricapitolazioni volte a cogliere d’un balzo l’essenziale” (16). In particolare, l’analogia rivelerà da un lato di essere in grado, come forma di pensiero, di consentire quell’immedesimazione “simpatetica” tra critico ed artista che sta alla base della forma saggistica dello “studio”, tipica dell’estetismo; dall’altro, come forma espressiva sistematizzatasi, con Baudelaire e con D’Annunzio, in modo tanto lucido e rigoroso da assumere quasi la consistenza e la funzionalità di una vera e propria “istituzione” retorica, essa si rivelerà strumento principe di quella sorta di “sfida all’ineffabile” - suoni, colori, profumi - che, negli anni della grande stagione simbolista, tanto la poesia quanto la critica stavano tentando.
IV
Ancora qualche doverosa - e molto cauta - considerazione. Alcune delle esperienze poetiche e critiche, tra loro coeve e interconnesse l’una all’altra, che sono oggetto di questa tesi, nacquero, o furono comunque in varia misura contrassegnate, da un diffuso atteggiamento di insofferenza e di rifiuto nei confronti di varie forme di accademismo filologico e storicista, dalla non ben precisata “critique froide et algébrique” contro cui erano indirizzati gli strali di Baudelaire, all’erudizione ottocentesca, di ispirazione positivista e di scuola storica, cui voleva contrapporsi l’estetismo militante di Conti e di D’Annunzio. Si tratta, del resto, di una posizione e di un atteggiamento che possono, in certa misura, trovare un qualche riscontro nella polemica che, con la sua consueta, garbata ironia, un poeta-critico come Eliot - non per nulla, in qualche misura, debitore, pur se non senza riserve e in una prospettiva del tutto autonoma, della grande tradizione simbolista - condusse risolutamente contro quella che chiamava “la scuola critica spremilimone” (17), e contro quegli studiosi perennemente intenti a riportare alla luce “i conti della lavandaia di Shakespeare”, o a svolgere - oggi, per di più, con il comodo ausilio degli strumenti informatici - ricerche intese a calcolare “quante volte si sono nominate le giraffe nel romanzo inglese” (18). Non c’è una grande differenza tra questi critici e certi odierni “scienziati”, entusiasmati soltanto dalla “scoperta di una sillaba usata per cinquantasei volte da Coluccio Salutati” (19).
Sembrano così ulteriormente rafforzate, pur se in modo indiretto e per negazione, certe considerazioni anceschiane. Anche se l’idea di una critica fondata su di un unico metodo, rigidamente formalizzato, e magari preso a prestito, con forti implicazioni in senso determinista, dalle scienze naturali, conobbe la sua più vasta e rigogliosa fioritura nel quadro del “dogmatismo scientista dell’Ottocento”, è però certo che “un filo collega con diverse colorazioni dalla metà del secolo passato fino a oggi varie esperienze: dalla critica che si disse ‘positivista’ fino alo strutturalismo e alla semiotica, fino alla psicoanalisi e alla sociologia, nella volontà continua di poggiare i piedi su una terra ferma, fuori sia dal ‘terrore’ della letteratura che dai suoi momenti di distensione, e in un modo in cui tutti possiamo esser coinvolti” (20). A questo sottile “filo” si oppone, e a tratti s’intreccia, quello parallelo della critica dei poeti, di volta in volta “impressionista”, “soggettiva”, “estetizzante”, antisistematica e affatto priva di preoccupazioni e di istanze di “scientifica”, rassicurante oggettività.
Con tutto questo non si possono comunque disconoscere gli stretti legami che hanno spesso unito la scienza alla poesia. Per limitarsi alla materia che è specifico oggetto di questa trattazione, non si devono certo trascurare, proprio nel quadro dei legami tra creazione poetica e riflessione critica, aspetti come il “metodo algebrico” e la “severa analisi” a cui Poe, a parere di un Baudelaire a sua volta non ignaro della frenologia, della fisiologia, del mesmerismo, sottopone la materia della sua arte, o come l’”uso”, peraltro totalmente pretestuoso ed arbitrario, che l’estetismo italiano fece delle dottrine del Taine.
E’, comunque, piuttosto inquietante che anche in anni relativamente recenti, in àmbito strutturalista, sia stata posta quantomeno in dubbio, proprio in nome della “scientificità” di un metodo critico, la stessa possibilità di una collaborazione e di una convivenza tra atto poetico e atto critico. Secondo Cesare Segre (21), in quello che può essere definito come “il secolo della critica”, quest’ultima “si pone ormai come concorrente della poesia: risultato di una attività bloccata, che cerca nell’arte altrui le energie vitali di cui è priva. Allora il boom della critica non apparirebbe più come il trionfo della ragione sull’irrazionale della poesia, ma come un proliferarsi tumorale di cellule sul corpo che suo malgrado la ospita”. Quest’ultima agghiacciante similitudine può illustrare nel modo più efficace certi aspetti degenerativi dell’abnorme proliferazione e superfetazione quantitativa della produzione critica. Non è detto, però, che la critica debba per forza perseguire “una vittoria della razionalità sull’irrazionale della poesia”, o che possa presentarsi come alleata e fiancheggiatrice di quest’ultima solo indossando le ingannevoli vesti di un’”antagonista camuffata da collaboratrice”, o assumendo le immonde sembianze di “un parassita che sopravvive su un cadavere”; si può, al contrario, ipotizzare che il “blocco” della critica possa, almeno in parte, essere imputato proprio al venir meno di quella funzione di “collaborazione” alla poesia che essa aveva per lungo tempo esercitato. Segre, comunque, conclude il suo ragionamento con un “richiamo a qualcosa di molto vicino all’onestà professionale”: il “fine istituzionale” da cui la critica non deve distogliersi è “quello d’interpretare e illustrare l’opera d’arte esplicitando quanto vi sia implicito: significati che, nel loro sistema, costituiscono dei valori”. In tal modo, certo, la critica evita di imboccare “strade divaganti e divergenti dall’intento ermeneutico”, ma rischia anche di isterilirsi, “bloccarsi”, restare ghiacciata e imprigionata nei severi limiti di un’operazione che ha il “rigore” della scienza ma, in certi casi - non certo, com’è ovvio, in quello di Segre, finissimo e sensibilissimo lettore -, anche il “rigore” del cadavere. Ciò non toglie che proprio alcuni preziosi princìpi introdotti dal formalismo e dallo strutturalismo, come l’”immanenza” o la “centralità del testo”, possano essere assai proficuamente applicati anche allo studio del rapporti tra poesia e critica.
Non è casuale, comunque, che proprio un post-strutturalista come Geoffrey Hartman abbia potuto parlare “critica salvata dalla poesia” (22). Secondo il critico americano, “una delle ragioni per cui la critica moderna ha ristretto i propri orizzonti è che l’elemento creativo, che era parte integrante di certa critica, e che è così proprio della poesia, è stato espunto, nel senso che si è fatto di tutto per espungerlo. (...) La poesia, lo spirito della poesia salva il critico ma allo stesso modo lo spirito critico è necessario alla salvazione della poesia, soprattutto nel mondo contemporaneo”. Non è detto, poi, che una critica “creativa” si risolva sempre e comunque in una forma di vacuo e sterile “impressionismo”, o in un estetizzante esercizio letterario fine a se stesso, che riduce il testo a pretesto, a “traccia”, a labile e flebile gramma. In base al “principio di reciprocità” di cui ha parlato lo stesso Hartman, rifacendosi esplicitamente ai “maestri dell’Ottocento”, tra cui Baudelaire e Wilde, la critica creativa è, al contrario, capace di rivalutare da un lato “il proprio potenziale creativo”, dall’altro “il potenziale critico e riflessivo della poesia”.
Ancor oggi, talvolta, “verso i modi del critico-poeta, del critico-scrittore, del critico-saggista si alzano dita accusatrici che indicano cartelli di protesta su cui si legge impressionismo, arbitrarietà, puri motivi di gusto... Insomma si eleva l’accusa di cattivo soggettivismo” (23). Non è detto, peraltro, che il soggettivismo debba essere sempre e soltanto “cattivo”; e non sarà indispensabile condividere l’idea wildiana della critica come “mode of autobiography” per riconoscere che tale soggettività “ha dato e dà talora risultati molto apprezzabili” (24). Quest’idea di “critica soggettiva” presenta, del resto, sorprendenti analogie con certi aspetti del metodo di critici come un Renato Serra o, in forme e contesti completamente diversi, Barthes.
La critica dei poeti, al di là del rischio di assolutizzazione e di ipostatizzazione dei propri assunti che incombe su di essa come su ogni critica, in genere si guarda bene dal promettere più di quanto non possa poi dare, dal prospettare certezze e verità che, nel suo esasperante ed irrisolto oscillare tra istinto e ragione, tra “impressione” e sistema, non può garantire neppure a se stessa; tali certezze e tali verità, anzi, sotto la lente di questa critica apparirebbero forse come una perentoria ed arrogante rivendicazione di un carattere di assolutezza e di incontrovertibilità. Per contro, “una delle maggiori illusioni di una critica che pretenda di evitare le eventuali limitazioni e le quasi inevitabili contraddizioni del gusto nelle quali può incorrere, e spesso vi incorre, il critico-poeta in quanto direttamente implicato nel ‘fare poesia’, risiede nella convinzione d’essere in grado di formulare giudizi di valore oggettivi e definitivi”. Anche il poeta- critico può tendere, come il caso specifico di Eliot mostra in modo evidente, verso una qualche forma di sistematicità, cercando, per usare una formulazione baudelairiana, di “eriger en lois ses impressions personnelles”; e allora “lo scontro fra alcuni di questi elementi fissi di verità (critica, estetica, di sistema) e l’intuizione (poetica, di rispondenza personale, creativa) di ‘ciò che l’età richiede’ risulta a tratti violento, contraddittorio, e provoca squilibri prospettici, esasperazioni di giudizio che tendono, da apertamente personali, a pretendere validità di categorie assolute” (25). Eliot - esempio quasi paradigmatico di poeta-critico - “è alla ricerca di un metodo (non assoluto, ma sempre confrontabile, controllabile) e nel medesimo tempo sembra averne timore”. (26) L’unico strumento attraverso il quale queste contraddizioni possono in qualche modo ricomporsi, restando, nel contempo, vitali e feconde, sarà qualcosa di non molto diverso dalla “sistematicità aperta” teorizzata e realizzata dall’estetica fenomenologica, e, come si vedrà, già presente in nuce, e già attivamente operante, negli scritti estetici di Baudelaire.
Non si vuole, con tutto questo, negare che la critica possa aspirare ad uno statuto di scientificità, e conseguirlo in modo compiuto. “I fatti sono esaminati scientificamente, le fonti secondarie sono usate scientificamente, i vari campi sono investigati scientificamente, i testi sono editi scientificamente. La struttura della prosodia è scientifica: così la fonetica, così la filologia. Quindi la critica letteraria è scientifica, oppure tutti questi addestratissimi ed intelligenti studiosi stanno perdendo il loro tempo intorno ad una pseudoscienza” (27). Credo che questa quasi lapalissiana considerazione possa essere sostanzialmente condivisa, a patto di non volervi scorgere una forma di supina ed irriflessa acquiescenza, del tipo “la critica è scientifica perché si presenta come tale e tale si dichiara”. Bisogna però precisare - senza con questo voler ridurre filologia, storia della lingua, sociologia della letteratura e quant’altro al rango di umili “ancelle” della critica - che “la critica mostra una sempre più resoluta tendenza a definirsi quale attività autonoma”, forse in termini non molto diversi da quelli in cui la sua “autonomia” è stata definita e considerata nel paragrafo precedente. “Di fatto, il critico è scienziato, ma non si risolve nella scienza e nei metodi; è storico, ma non si risolve nella storiografia; è filologo, ma non si risolve nella filologia; è studioso di filosofia, ma non si risolve nelle questioni generali...” (28). La scientificità della critica dovrebbe dunque essere considerata e definita non tanto o non solo in relazione agli strumenti e ai materiali di cui essa si serve, ma su basi che siano sue proprie, autonome, ad essa esclusive.
Non si sa, inoltre, fino a che punto coloro che usano, con riferimento agli studi letterari, il termine “scientifico” - magari “con un tono esclusivo, quasi da esorcisma” (29) - si siano effettivamente interrogati, come forse dovrebbero, sulla problematica ed inquietante evoluzione che lo statuto e la nozione di scienza hanno subìto nel nostro secolo, dal fallibilismo al falsificazionismo fino al relativismo di epistemologi come Thomas Kuhn, la cui applicazione allo studio dell’evoluzione e del mutamento dei sistemi letterari ha sortito, non a caso, interessanti risultati. E prospettive ugualmente affascinanti potrebbero forse essere dischiuse, in particolar modo per ciò che concerne lo studio delle avanguardie, dall’applicazione ai fatti letterari della teorie di un Feyerabend, con il suo “anarchismo” o “dadaismo” scientifico. Al di là delle provocatorie esasperazioni, in senso esageratamente relativistico ed antidogmatico, insite in tali teorie, sembra, in ogni caso, buona norma di igiene intellettuale guardarsi comunque da “tutti coloro che sono disposti ad accettare un’opinione solo se essa viene espressa in un certo modo e che prestano fede ad essa solo se contiene certe frasi magiche, designate come protocolli o rapporti d’osservazione” (30). In generale, e a maggior ragione nel caso di ogni critica che voglia presentarsi come scienza, “si determina davvero un singolare trasferimento quando si riporta alle scienze che si dicono umane quella fiducia assoluta nei procedimenti e nei metodi euristici che le stesse scienze che si dicono esatte, senza perdere la produttività della ricerca e l’efficienza dei risultati, anzi proprio nel momento in cui produttività ed efficienza sono al più alto livello, hanno messo in crisi” (31).
V
Credo che l’innegabile impasse, riconosciuta e lamentata ormai da più parti, in cui la critica si dibatte da qualche anno a questa parte, sia da ricondurre, in certa misura, da un lato all’esasperazione - e nel contempo, forse, alla crisi - del suo carattere e del suo statuto di disciplina “scientifica”, specialistica, strettamente tecnica, dall’altro alla perdita, che sembra irrimediabile, di quel prezioso e vivificante ruolo di collaboratrice e di guida del lavoro poetico che essa ha per lungo tempo esercitato, e ancora esercitava in anni non molto lontani dai nostri. Sarebbe, credo, sintomo di goffo e generico materialismo ridurre questa impasse ad una sorta di “crisi di sovrapproduzione” del lavoro critico. Peraltro l’abnorme, ipertrofica proliferazione e superfetazione del “discorso secondo”, della riflessione sulla letteratura più che per la letteratura, è un fenomeno che caratterizza in modo eminente questi ultimi anni; e ben difficilmente, credo, vi si potrebbe porre rimedio ricorrendo all’utopistica “ecologia letteraria” prospettata da Ferroni, che finirebbe, comunque, per essere in qualche modo condizionata da presupposti metodologici “di parte” e da pregiudizali ideologiche.
Indubbiamente, come ha scritto Sapegno (32), “la riflessione critica sui fatti artistici (...) acquista nel quadro della civiltà letteraria italiana del Novecento un rilievo inconsueto, una vastità e varietà di manifestazioni, un rigore metodico, quali forse non aveva conosciuto mai nei secoli precedenti e solo in parte erano stati precorsi in tempi recenti dall’atteggiamento consapevole di alcuni grandi scrittori (Foscolo, Manzoni, Leopardi), nonché soprattutto dall’attività militante, ma già fortemente specializzata, di un Tenca e di un De Sanctis”. A mediare tra l’esempio dei grandi dell’Ottocento italiano e il grande sviluppo novecentesco della critica collaboratrice, sta la lezione dei simbolisti francesi, e più in generale della tanto disprezzata “critica estetizzante” del secondo Ottocento, a cui si ricollegano, più o meno direttamente, varie esperienze, dal “saper leggere” vociano alla critica ermetica, dalla critica di un Valéry alla decostruzione. Il progressivo “accentuarsi della componente riflessiva e critica in seno alla stessa esperienza artistica e il suo prender coscienza di sé, fino a costituirsi in un’attività parallela e autonoma, fiancheggiatrice e indipendente, non senza la pretesa a volte di esercitare una funzione non più servile e marginale, anzi preminente, di stimolo e di guida, sono fatti concomitanti, non soltanto italiani, ma che in Italia per l’appunto prendono un rilievo più netto e toccano un grado più alto di consapevolezza”. Questo carattere di “attività fiancheggiatrice ed indipendente” e questa “funzione di stimolo e di guida” hanno trovato espressione soprattutto nelle riviste che si sono susseguite in gran numero nel nostro secolo, e a cui spesso si sono strettamente legate le posizioni e l’attività di autori, di gruppi e di correnti; e si vedrà, in questo caso specifico, l’importanza che riviste quali Il Marzocco e Il Convito rivestirono nel quadro del programma culturale perseguito dall’estetismo. Di conseguenza, l’”incessante susseguirsi” delle riviste non indica necessariamente, come pure è stato ipotizzato, “la prevalsa dell’elemento critico riflessivo su quello fantasioso creativo” (33), fino a configurare un’ipotetica “vittoria della critica sulla letteratura”. La grande diffusione e la grande importanza delle riviste sono, al contrario, un mirabile esempio proprio di quell’attiva e fattiva collaborazione tra critica e poesia il cui venir meno rappresenta, forse, una delle principali cause dell’odierna impasse della critica.
Quanto poi alle istanze di scientificità accampate da quest’ultima, credo si possano condividere alcune penetranti osservazioni di Giulio Ferroni: “la filologia tende a muoversi al di là del certo addirittura verso l’ esatto, o meglio verso un suo simulacro. (...) Quanto più perfetta e avanzata è la verifica e la ricostruzione filologica, tanto più si allontana la vitalità dei testi, il loro rapporto con un continuum vitale, il confronto con il loro essere storico ed esistenziale” (34). Il fatto, poi, che in questa “verifica” e in questa “ricostruzione” giochino un ruolo determinante le nuove tecnologie informatiche, “proposte e imposte dal mercato”, può rappresentare - sia detto per inciso - un altro elemento da aggiungere a quella più generale e diffusa “informatizzazione” dello spazio, della comunicazione, della cultura, delle relazioni intersoggettive e, insomma, della vita, che è stata più volte avvertita e descritta come uno dei tratti caratteristici del cosiddetto “postmoderno”. Verrebbe da pensare, in qualche caso, che certi abusi delle tecnologie informatiche applicate agli studi letterari finiscano per concretizzare certe deliranti teorizzazioni futuriste, che nei primi anni del secolo - quando, secondo la prospettiva storiografica di un Peter Bürger, al passaggio dall’estetismo all’avanguardia si affiancava e si intrecciava quello dall’autonomia all’eteronomia dell’arte - arrivarono a prospettare l’avvento della “misurazione” in luogo della critica, e del “collaudo” in luogo della recensione.
Il critico poeta riesce a fruire, percepire e “ricreare” il testo per una via immediata, simpatetica, quasi “medianica” e “gnostica”, a suo modo oggettiva, ma “oggettiva proprio perché e solo in quanto è penetrata nell’oggetto” (35), come postulava la critica ermetica, strettamente legata ad ascendenze simboliste; gli strumenti informatici, proprio nel momento in cui sembrano promettere e garantire una più completa, lucida, “esatta” visione del reale, finiscono per spezzare il “continuum vitale” che unisce soggetto percipiente e oggetto percepito, interpretans ed interpretandum, e per smaterializzare l’appercezione e la fruizione dei dati sensibili ed intellettivi, facendoli sfumare ed evaporare in una dimensione di volatile ed impalpabile virtualità e rendendoli, nel contempo, “assenti”, freddi e disanimati proprio nel momento e all’atto di quella che dovrebbe essere la loro universale, totale, planetaria condivisione.
VI
Da quanto detto può emergere il sospetto che, forse, non dovrebbe essere trascurata la lezione che giunge dalla critica dei poeti, che talora “rivela non solo fortissima coscienza del ‘fare’”, di quell’assiduo e strenuo poiein in cui si sustanzia, tra esitazioni, ansie, ripensamenti, il travaglio poetico, “ma anche una grande curiosità teorica e una particolarissima disponibilità all’’ascolto’ delle voci altrui” (36).
Non è poi casuale che in queste pagine sia stato tanto spesso citato Luciano Anceschi, che, tra i non numerosissimi studiosi che hanno dedicato trattazioni sistematiche ai problemi inerenti alla teoria e alla metodologia generale della critica letteraria, è stato certamente quello che ha prestato la più assidua attenzione alla critica dei poeti, pur non riuscendo a risolvere tutti i problemi teorici che essa pone e a scandagliare a fondo tutte le innumerevoli ed affascinanti prospettive storiografiche che essa potrà dischiudere. Egli “è stato l’ultimo critico letterario capace di agire sulla letteratura, di dirigerla e indirizzarla. Con la sua eleganza misurata, Anceschi ci richiama a un’epoca in cui (...) la critica poteva orientare la ricerca letteraria. Dopo di lui, questo legame si è rotto” (37). E’ certo difficile stabilire con esattezza quando o con quale personalità, a un certo punto del secondo Novecento, si è franto il legame, stretto, vitale - quasi una placenta -, tra creazione poetica e riflessione critica. E’ certo, però, che la signorile figura di Anceschi, disposto ad “orientare e guidare” - pur se da una prospettiva “imparziale”, con rigore, coerenza, autonomia di giudizio e anche qualche cautelosa riserva - il lavoro poetico prima dell’Ermetismo, poi della Neoavanguardia, potrebbe rappresentare ancor oggi un prezioso esempio di possibile convivenza e collaborazione tra la critica e i poeti.
Non sarà inevitabilmente necessario rifarsi a personalità come Serra e De Robertis, indubbiamente lontane da noi e forse, come è stato osservato, tali da interessarci proprio per questo loro essere lontane. Proprio De Robertis, comunque, offre ed incarna un perfetto esempio di come possa essere attuata la “saldatura”, che oggi sembra irrimediabilmente perduta, “tra cultura universitario-scientifica e critica militante, tra critica dei classici e critica dei contemporanei” (38). E proprio De Robertis annoverava tra i suoi “testi”, accanto a Foscolo e Leopardi, anche Poe, Baudelaire, Mallarmé e Valéry.
Si possono anche ravvisare legami che uniscono a quella che per comodità si potrebbe definire “critica come arte” del secondo Ottocento esperienze come quella della “nouvelle critique”, alla base della quale sta l’idea di una critica intesa come simpatetica “coincidence de deux consciences”, o come “relation critique” che connette, in senso biunivoco e bidirezionale, i due protagonisti dell’avventura ermeneutica. Analogo discorso potrebbe essere fatto a proposito del decostruzionismo, fondato sulla concezione del creative criticism, della scrittura critica intesa come scrittura creativa, oggetto e insieme prodotto della facoltà creatrice. Ci si dovrà, allora, guardare dalle tentazioni e dalle insidie del postmodernismo, della “deriva” del senso, della totale, indiscriminata, onnicentrica dispersione dei significati e dei valori testuali.
Bisogna certo porsi “il problema di come sottrarsi alla deriva nichilista, di come cioè discernere tra interpretazione del testo e discorsi che, sebbene partano dal testo, lo assumono però come pretesto, proliferando indebitamente senza tornare al testo, senza rendere conto di esso, annullando con ciò la sua parola” (39). Del resto anche i decostruzionisti, almeno quelli più cauti ed accorti, pongono un freno all’autonomia della critica, riconoscendo che “l’atto critico è sempre un atto mediato in cui per comprendere appieno l’opera letteraria interviene sempre la conoscenza storica e quella intertestuale” (40).
VII
A quest’ultimo proposito, è bene chiarire che questo lavoro condivide la convinzione che “la modernità, lungi dall’essere declinata nel cosiddetto postmoderno, sia una realtà culturalmente - e politicamente - non ancora conclusa o adempiuta” (41). Mi sembra, però, altrettanto innegabile che questa stessa modernità corra, quantomeno, il serio rischio di andare incontro ad una simile “declinazione”, di essere travolta dalla disgregazione e dalla deriva del postmoderno.
E non è da escludere che essa possa salvarsi e preservarsi, almeno per quanto concerne la letteratura, proprio recuperando quella facoltà critica, quella lucida anche se problematica autocoscienza, quella “razionalità estetica” che consentono al poeta-critico di tenere “una linea sottile di demarcazione rispetto all’omogeneizzazione del ‘postmoderno’, dove”, come ha scritto un grande poeta del secondo Novecento, “‘tutto (...) pare uguale a tutto e tutto è, in fondo, niente; ed esiste solo un insieme di frammenti talmente estranei fra loro, talmente persi in disconferme reciproche, da non poter nemmeno ‘ipotizzare’ di aver avuto qualcosa in comune’” (42).
PRIMO CAPITOLO DALLA “CRITIQUE AMUSANTE ET POÉTIQUE” AL “POÈME CRITIQUE”: BAUDELAIRE E MALLARMÉ
I - FRAMMENTI DI UNA TEORIA DELLA CRITICA
1. “Ce serait un événement tout nouveau dans l’histoire des arts qu’un critique se faisait poète, un renversement de toutes les lois psychiques, una monstruosité; au contraire, tous les grands poètes deviennent naturellement, fatalement, critiques. Je plains les poètes que guide le seul instinct; je les crois incomplets. Dans la vie spirituelle des premiers, une crise se fait infailliblement, où ils veulent raisonner de leur art, découvrir les lois obscures en vertu desquelles ils ont produit, et tirer de cette étude une série de préceptes dont le but divin est l’infaillibilité dans la production poétique. Il serait prodigieux qu’un critique devînt poète, et il est impossible qu’un poète ne contienne pas un critique. Le lecteur ne sera donc pas étonné que je considère le poète comme le meilleur de tous les critiques” (1).
Il passo appena riportato, tratto dal celebre articolo, scritto nella primavera del 1861, Richard Wagner et Tannhauser à Paris. Encore quelques mots, è uno dei più noti e dei più citati tra tutti quelli che, negli scritti estetici e critici del poeta, catturano volta a volta l’attenzione del lettore. Da esso, però, non sono forse state ancora tratte tutte le implicazioni teoriche che se ne potrebbero ricavare, e che assumono un’importanza cruciale nell’economia di questa trattazione.
In particolare, si ha l’impressione che la prospettiva qui delineata, secondo cui da un lato non c’è poeta che non contenga in sé un critico, ma, dall’altro, sarebbe inverosimile, anzi addirittura “prodigioso”, che da un critico nascesse un poeta, sia stata a volte assolutizzata, schematizzata e, quel che è peggio, decontestualizzata ed astratta dalla complessa, aperta, proteiforme evoluzione di quella sorta di “paradigma in movimento” che la definizione di una “méthode de critique” rappresenta agli occhi dell’autore, e di cui queste tarde pagine contengono non già il definitivo e stabile compimento, ma soltanto l’ultima e più ampia e matura formulazione. Baudelaire scrive che il critico non può diventare poeta; di conseguenza - se ne è spesso troppo frettolosamente dedotto - il momento della riflessione critica non rappresenta, per l’autore delle Fleurs, che una sorta di “appendice” o di “corollario” della produzione creativa. Tale errata interpretazione è forse parsa, in qualche misura, rassicurante, sembrando salvaguardare una sorta di romantico rispetto o di “sacro terrore” al cospetto dell’assolutezza e dell’inviolabilità dell’”ispirazione”, cioè di quell’impulso extrarazionale, di quel primum assoluto e prelogico che starebbe alla base della creazione poetica. Tutto il quadro è stato forse ancor più mitigato dall’apparente ancoraggio ad una qualche forma di certezza “scientifica”, cioè il riferimento e l’ossequio a non ben precisate “leggi psichiche”, con cui Baudelaire sembra pagare un temporaneo pedaggio, del resto non molto impegnativo e non molto costoso, alla cultura scientifica della sua epoca, tra il nascente determinismo positivista e la già vasta divulgazione dei princìpi della frenologia. Simili riferimenti sono, del resto, parte integrante di quella sorta di ambigua e sottilmente ironica “correttezza” o cautela che l’autore, almeno negli scritti saggistici, tende a mantenere nei confronti delle certezze vere o presunte, delle idées reçues, insomma del “sapere normale” che è proprio della sua epoca e, soprattutto, ben radicato nel suo pubblico borghese: “il lettore”, proprio alla luce di quelle “leggi psichiche”, “non si stupirà ...”.
Secondo Walter Binni, tanto per fare un esempio, nel passo citato “l’idea della coscienza critica del vero poeta è chiaramente enunciata al di sopra, non al di sotto e prima, della coscienza romantica della forza ispirativa essenziale (il critico non può diventare poeta)” (2). Secondo Binni, del resto, “a volte l’esasperata attenzione alla poetica programmatica e alla coscienza critica del proprio operare può diventare il segno di una minore energia fantastica e di una certa commistione saggistica critico-artistica che può esser portata sino a un certo sperimentalismo tecnico-linguistico e tematico-sociologico” (3). Binni rivelava, a tratti, di essere ancora fondamentalmente legato ad un certo retaggio crociano, anche quando, anzi proprio quando cercava, da crociano “in movimento” qual era, di propugnare da un lato - proprio in riferimento al cosiddetto “decadentismo” - un’idea di “poetica” intesa “come intimamente attinente allo stesso operare poetico, come consapevolezza attiva dell’ispirazione” (4) - ispirazione che nella sua prospettiva restava comunque, lo si è appena visto, vergine ed inviolata -, dall’altro una concezione per certi versi quasi “derobertisiana” della funzione del critico, che doveva essere animato dalla “vocazione (...) ad essere interprete e collaboratore della tensione poetica e della poesia”, pur avendo poi come fine ultimo un ancora crociano “accertamento dell’arte” (5).
Su questo notissimo luogo si è ripetutamente soffermata, in una diversa ottica, anche l’attenzione di Jacques Maritain. Nel primo scritto di estetica del filosofo francese, Art et scolastique, il passo è citato in nota, senza ulteriori chiarificazioni, per giustificare, in modo piuttosto anacronistico, una particolare concezione, di trasparente suggestione aristotelico-tomista, delle “regole dell’arte”. Ogni artista, scrive il filosofo, sa bene di non poter prescindere dal controllo delle regole, intese non come “imperativi di concezione imposti all’arte dall’esterno”, ma come “vie operative dell’arte stessa, della ragione creatrice”; “senza questa forma intellettuale dominatrice della materia, la sua arte non sarebbe che un groviglio di sensazioni (un gachis sensuel)” (6).
Certamente la concezione, difficilmente conciliabile con il “satanismo” e il “surnaturalismo” di Baudelaire, secondo la quale “l’operazione del genio assomiglia nell’arte ai miracoli di Dio nella natura”, conduceva Maritain a fraintendimenti e forzature; ma il filosofo coglieva certamente nel segno sottolineando la particolare funzione che la “razionalità estetica” del poeta-critico adempiva nello sgombrare ulteriormente il campo, dopo le già decisive eversioni dei romantici, dalla tirannide delle regole classicistiche. Mentre quelle regole tendevano ad istituire un canone che si poneva come “prassi” creativa universalmente valida, imposta dall’esterno e dall’alto, la “razionalità estetica” del poeta-critico è una razionalità sempre immanente all’opera, partecipe dell’intimo travaglio della creazione, e solidale con il testo nel momento e all’atto del suo fieri, del suo “divenire” e del suo “farsi”.
Come Baudelaire afferma poche righe dopo il passo citato, con una brusca transizione logica di per sé non del tutto perspicua, e che proprio le osservazioni di Maritain possono aiutare a chiarire, “la poésie a existé, s’est affirmée la première, et elle a engendré l’étude des règles”; è proprio l’attività assidua e vigile dello spirito critico che crea, di volta in volta, le regole della e per la poesia, entro il “recinto sacro del fare” (7), del poiein, in seno al lungo, meditato, ansioso travaglio della creazione poetica.
Maritain ritornerà su questo problema, in modo più ampio e sistematico, e facendo ancora riferimento al luogo che stiamo esaminando, nel volume Situation de la poésie. “La poesia”, scrive, “ha cominciato (dico tra i poeti) solo in tempi relativamente recenti a prendere coscienza di se stessa in modo esplicito e deliberato” (8). Proprio in questo senso “ciò che è successo in poesia dopo Baudelaire ha un’importanza storica uguale a quella delle più grandi epoche di rivoluzione e di rinnovamento della fisica e dell’astronomia nel dominio della scienza. (...) E’ della poesia, e di se stessa come poesia che con lui la poesia prende coscienza. L’importanza della presa di coscienza è immensa in lui, e vi ha spesso insistito egli stesso: ‘Sarebbe prodigioso che un critico divenisse poeta’” ... (9).
2. La concezione baudelairiana della critica, per essere in qualche modo messa a fuoco, deve essere còlta proprio nel suo inquieto e problematico divenire, nel suo cangiante fluttuare, nel suo prendere forma attraverso spunti, riferimenti, accenni che, “come lunghi echi”, si rispondono e si integrano vicendevolmente.
Una definizione univoca e definitiva di un metodo critico e la fissazione stabile e perentoria di un sistema unico sarebbero del tutto contrarie a quel “relativismo estetico” che anima Baudelaire, e che “non ammette eccezioni” (10). Anche negli ultimi anni, approssimativamente dopo il ’60 (11), quando Baudelaire cominciò ad avvertire l’esigenza di ricondurre entro le strutture e le maglie di “une pensée unique et sistematique”, come scriveva in una lettera del febbraio 1865, tutta la vasta messe di spunti interpretativi e di prospettive estetiche disseminata nella sua ormai copiosa produzione critica, il sistema da lui delineato od accennato restò - come scrive Margaret Gilman in quella che rimane, forse, la migliore monografia esistente sul Baudelaire critico - “sperimentale al più alto grado, (...) con tutte le conclusioni costantemente ricondotte all’esperienza. Non è l’applicazione di un sistema, ma la ricerca di un sistema”, quasi una sorta di ansiosa e sempre irrisolta quête. Per una “critica (...) fondata non su ipotesi, ma sull’esperienza immediata” (12), non potrebbe essere altrimenti. Sembra delinearsi una dinamica che non è difficile ravvisare, guardandosi bene dal cedere alla tentazione di facili quanto indebite generalizzazioni, in molti poeti-critici, e soprattutto in quelli legati, pur se indirettamente, a quell’”idea simbolista” che incomincia proprio in certe pagine baudelairiane a trovare un degno corrispettivo sul versante della scrittura critica: Baudelaire, come poi avverrà per Eliot, “è alla ricerca di un metodo (non assoluto, ma sempre confrontabile, controllabile) e nel medesimo tempo sembra averne timore” (13); averne timore come di un “cruel châtiment”, di una “espèce de damnation qui nous pousse à une abjuration perpétuelle”, a un assiduo processo di aggiustamento, correzione, modifica, che, con un consapevole quanto fruttuoso anacronismo, si potrebbe pensare già in termini di “falsificazione” o, magari, abbattimento di vecchi “paradigmi” a cui se ne debbono e se ne vogliono sostituire di nuovi.
Un primo deliberato e programmatico tentativo di definizione di un metodo critico si trova in limine al Salon de 1846, in un paragrafo intitolato A quoi bon la critique? (14). Si tratta di un tentativo già piuttosto ampio ed articolato, e tale da integrare in modo decisivo, pur se retrospettivamente, le enunciazioni contenute nel passo del saggio wagneriano citato in apertura. Scrive Baudelaire: “Je crois sincèrement que la meilleure critique est celle qui est amusante et poétique; non pas celle-ci, froide et algébrique, qui, sous prétexte de tout expliquer, n’a ni haine ni amour, et se dépouille volontairement de toute espèce de tempérament; mais, - un beau tableau étant la nature réfléchie par un artiste, - celle qui sera ce tableau réfléchi par un esprit intelligent et sensible. Ainsi le meilleur compte rendu d’un tableau pourra être un sonnet ou une élégie”. Innanzitutto, appare qui già limpidamente, agli occhi del teorico venticinquenne, la nozione di una “critique amusante et poétique”, contrapposta a quella “fredda ed algebrica”. In quest’ultima sarà da scorgere un’allusione tanto al vecchio accademismo erudito e storicista, quanto al nascente determinismo positivista, che, come si è accennato nell’introduzione, tendendo a ridurre la creazione artistica ad un semplice anello di un processo materiale, meccanico, fisiologico, e la critica ad un’operazione sperimentale, clinica, anatomizzante, quasi “da laboratorio”, escludeva a priori quell’intima e viva compartecipazione al travaglio creativo dell’artista, quella fattiva e vitale collaborazione al globale processo di significazione cui l’opera mette capo, che è il presupposto essenziale, la componente principale di una critica intesa come arte. Inoltre, come si desume integrando questo passo del Salon de 1846 con quello dello scritto wagneriano, balza agli occhi come per Baudelaire, nel complesso, se da un lato “non c’è poeta che non contenga in sé un critico” e “tutti i poeti diventano inevitabilmente, fatalmente critici”, dall’altro lato la critica - la vera, la migliore critica - deve essere, per parte sua, “piacevole e poetica”, assumere in sé alcuni dei caratteri che sono propri della poesia. Se il vero critico deve essere anche poeta, allora il critico che, secondo il Baudelaire del 1861, non può diventare poeta sarà, come risulta implicito, quel critico “freddo ed algebrico”, erudito e “scientifico”, che già nel 1846 veniva relegato da Baudelaire ai margini di quelle “hauteurs nouvelles” a cui la “critica poetica” è in grado di elevare il lettore. La facoltà critica, dunque, lungi dal configurarsi come una sorta di “verme roditore” che logora e consuma le radici dell’ispirazione, o come una sorta di vacuo ed inane sforzo che debilita l’”energia fantastica”, è invece fedele ed imprescindibile alleata di quella facoltà creatrice e di quella vena poetica che, del resto, le sono indispensabili, e di cui essa stessa deve, a sua volta, alimentarsi.
Si pone, a questo punto, un problema teorico di notevole portata. Esso viene mirabilmente illuminato ancora da uno scritto di Eliot. Si tratta del saggio La funzione della critica, scritto nel 1923 e poi confluito nella raccolta Sui metafisici e altri saggi. In esso non è difficile ravvisare le tracce di un movimento argomentativo, peraltro consono all’articolato e fluente saggismo eliotiano, sorprendentemente analogo a quello appena ricostruito, pur se à rebours e per sommi capi, in Baudelaire. Da un lato, “buona parte della fatica di un autore nell’atto creativo è lavoro critico; il lavoro di cernita, combinazione, costruzione, cancellazione, correzione, verifica; questa tremenda fatica è non meno creativa che critica” (15). Il poeta, dunque, racchiude in sé un critico; e si può notare, per inciso, che qui Eliot attribuisce al momento critico-riflessivo-costruttivo insito nella creazione poetica un carattere eminentemente dinamico, “variantistico”, in fieri (“cancellazione” e “correzione”), tipicamente novecentesco, presente solo in nuce nell’ultimo Mallarmé e coerentemente sviluppato soprattutto da Valéry. Su tale concezione si fonderanno, com’è noto, i presupposti teorici della derobertisiana e continiana “critica delle varianti”. Sull’altro piatto della bilancia pesa, però, un dubbio inquietante: “se (...) una parte così fondamentale della creazione è attività critica, non ne deriva forse che buona parte di ciò che chiamiamo critica è un’opera creativa? Se è così, non si può forse parlare di critica creativa” (16), di quel “creative criticism” che da Wilde arriva fino ai decostruzionisti? La risposta che dà l’”impersonale” ed “oggettivo” Eliot è negativa, com’è lecito attendersi: “sono partito dall’assioma in base a cui una creazione, un’opera d’arte sarebbe autotelica; e che l’attività critica concerne per definizione qualcosa di esterno a sé” (17); ne consegue - secondo un procedimento sillogistico impeccabile ed implacabile, che per la verità sarebbe forse parso a Baudelaire “freddo ed algebrico” - che la critica non può essere creativa perché non può essere autonoma. Secondo Eliot, tra l’altro, alla critica non è del tutto estranea neppure una finalità esterna di tipo etico-pedagogico, dato che, come l’autore preciserà in un tardo scritto, Critica al critico (1961), “non se ne può escludere totalmente il giudizio morale, religioso e sociale” (18); al contrario Baudelaire, soprattutto negli scritti su Poe, insiste proprio sulla radicale e provocatoria autonomia del giudizio critico dal giudizio morale. Per Eliot, inoltre, secondo un convincimento già ben radicato nella prima fase del suo pensiero estetico, “una critica letteraria non può avere emozioni ad eccezione di quelle immediatamente provocate dall’opera d’arte - e queste (...), quando siano valide, forse non saranno chiamate per nulla emozioni” (19). Si delinea, in tal modo, un’idea di critica che rischia seriamente di non avere “ni haine ni amour”, e di risolversi, dunque, in una gelida operazione razionalistica, in un’”impersonalità” esasperata ed ipostatizzata, del tutto incompatibile con la “razionalità estetica” - aperta, problematica, appassionata - di un Baudelaire.
Così per Baudelaire come per Eliot, comunque, “l’attività critica trova il suo punto più alto , il suo autentico coronamento in una sorta di unione con l’atto creativo nello sforzo artistico” (20). Per Baudelaire, però, il “dare e avere” tra facoltà poetica e facoltà critica si traduce, come si è visto, in una vitale simbiosi, mutua e scambievole: da un lato non c’é vero poeta che non racchiuda in sé un critico, dall’altro la vera critica deve recare in sé qualcosa di “piacevole e poetico”. Per Eliot, invece, la critica dà alla poesia molto più di quanto non ne riceva in cambio; una critica, peraltro, anche agli occhi di Baudelaire, almeno nel 1861, si configura, per certi aspetti, come “un prolungamento e una razionalizzazione della sua poesia” (21) - dà alla poesia molto più di quanto non ne riceva in cambio.
Ma c’è di più. Nel passo baudelairiano prima citato, l’analogia tra atto poetico ed atto critico è esplicitamente additata nella somiglianza - intrinseca, essenziale, strutturale - tra il modo in cui l’artista, nella fattispecie il pittore, si pone di fronte alla realtà, “riflettendola” nella sua opera, e quello in cui, con analogo movimento, il critico-artista, “intelligente e sensibile”, “riflette”, rivive e ricrea, in una sorta di “mimesis creativa o di aemulatio, l’oggetto della sua operazione ermeneutica (e “intelligenza” e “sensibilità” saranno forse da intendere, qui, in senso pieno, pregnante, quasi filosofico e “tecnico”, a connotare le due facoltà, già lucidamente individuate dal pensiero settecentesco, che il poeta-critico riesce, nella sua razionalità piena di passione, a fondere). La critica sta all’arte come l’arte sta alla natura; l’arioso parallelismus membrorum (“nature réfléchie par un artiste ... tableau réfléchi par un esprit”) scandisce e bilancia lucidamente gli equilibri della proporzione. Per quanto concerne questo concetto di “riflessione”, “la condizione dell’etimo (reflectere, da flectere, piegare, ma anche cambiare, modulare) ha un suo significato, anzi diversi significati possibili. (...) Il termine implica in ogni caso per ciò a cui precisamente si riferisce un certo modo di spostamento, di mutamento, e perfino una certa deformazione” (22). La scrittura critica è apparentata alla scrittura creativa dal fatto che entrambe assumono, rispetto alla realtà - naturale, artefatta, testuale o puramente psicologica che essa sia - una condizione di “copia” e, in certa misura, di “falsificazione”, di deliberato e finanche arbitrario intervento “creativo” sul significato intrinseco ed “oggettivo” dell’opera d’arte esaminata. La scrittura poetico-critica, che in Mallarmé si preciserà come poème critique, qui è già nitidamente prospettata dall’idea che il più scintillante “riflesso” di un dipinto possa emanare da “un sonetto o un’elegia”. Come già intuiva Anceschi, “la critica è un’opera d’arte di secondo grado, che agisce rispetto al mondo dell’arte in un rapporto analogo a quello con cui il mondo dell’arte agisce rispetto al mondo della natura: il mondo dell’arte, infine, è la ‘natura’ della critica” (23).
Tutta la problematica che si viene qui delineando coinvolge, in certa misura, la storia dell’evoluzione che, nel pensiero estetico di Baudelaire, interessa il concetto di “natura” e l’uso stesso del termine. Nel Salon de 1845 l’autore si rivelava ancora legato alla concezione romantica secondo cui “l’artista deve imitare la natura, non seguire le orme degli altri artisti”: questa natura era ancora, per certi aspetti, la natura naturans dello spinozismo romantico e dell’idealismo schellinghiano, panteisticamente animata dall’immenso afflato divino. Nel Salon de 1846, invece, la nozione di “natura” incomincia ad assumere connotati diversi. Il termine corrispondente arriva quasi a “tecnicizzarsi” e a “deromanticizzarsi”, venendo ad indicare “il mondo esterno percepito dai sensi”, e alla natura stessa “è assegnato un ruolo decisamente subordinato rispetto all’artista”, quasi una funzione di “‘fonte’ per l’artista ed il poeta” (24). Già nel passo baudelairiano che stiamo esaminando, dunque, si delinea in modo abbastanza chiaro la concezione che ritroveremo, come si vedrà più avanti, nell’estetismo italiano: ad un’arte intesa da Angelo Conti come “homo additus naturae” farà riscontro una critica per così dire “elevata al quadrato”, intesa cioè ancora in una posizione “di secondo grado”, nel ruolo di un “artifex additus artifici” (25); e si noti, peraltro, che, ancor più radicalmente, còmpito dell’artista è per Baudelaire non tanto “aggiungere” quanto “sostituire” l’uomo alla natura, “substituer l’homme à la nature”.
All’eroico furore e alle appassionate effusioni dei romantici si è ora sostituita, nel quadro di una “razionalizzazione” o “deromanticizzazione” del romanticismo, un’arte intesa come “artificio”, capace di “usare” spregiudicatamente la natura come “fonte”, proprio come la critica usa come “fonte” o come “pretesto” l’opera dell’artista e del poeta.
Questa natura, assunta o ridotta ad “oggetto” di percezione e di rappresentazione - secondo lo stesso processo “riflessivo” attraverso il quale la critica assume a proprio oggetto l’opera d’arte - ma ancora, in qualche modo, salvaguardata e rispettata, nella sua integrità, dalla “sensibilità” e dalla “piacevolezza” del critico, sarebbe di lì a poco caduta tra le fauci dello spietato surnaturalisme baudelairiano, di una sorta di “immaginazione produttiva” intesa come facoltà che opera e si esprime al di sopra della natura, che la signoreggia e la soggioga, disgregandola, frantumandola e “decostruendola” con le affilate armi della “fantasia dittatoriale” e dell’”allegoria vuota” (26).
3. Com’è ovvio, la presenza di un momento critico-riflessivo al fianco, se non addirittura all’interno della poesia, nella più intima e magmatica profondità della creazione, ha certo incominciato a manifestarsi ben prima di Baudelaire e del simbolismo.
In generale si potrebbe anzi dire - ma con il rischio di ricadere in quella “generalizazione che sfuma e scolora” di cui si è parlato nell’Introduzione - che “ogni opera di poesia - anche il più breve ‘frammento’ - mostra un suo organismo compatto, e sembra porsi, implicito ed esplicito, un consapevole progetto di sé, in un suo articolarsi di coerenze interne con una avvincente volontà di unità, come corpo vivo” (27). “Il primo atto critico”, in questa prospettiva sincronica ed astorica, “si ha nell’opera d’arte in quanto tale. Essa è sempre, in se stessa, una proposta, un atto teorico, un’implicita formulazione di princìpi” (28). Questa “formulazione di princìpi” può essere, talvolta, anche esplicita: basti pensare ai tanti testi poetici, delle più diverse epoche, in cui vengono esposti veri e propri “manifesti” o programmi estetici. Nel momento stesso in cui un autore definisce, espressamente o meno, una propria gamma di scelte stilistiche ed espressive, delimitando o “ritagliando”, in tal modo, una propria area o “spazio di dicibilità” all’interno dello sterminato e infinitamente vario territorio del “possibile verbale” - già in parte limitato e definito, in qualche caso, dalla o da una tradizione -, nel “recinto sacro” del suo poiein è già attiva e vigile la sorveglianza della “poetica” e di determinate “istituzioni” letterarie che, seguite, “usate” o, al contrario, negate e “profanate”, lasciano comunque, in positivo o in negativo, sul recto o sul verso dell’esperienza poetica, la loro tangibile e riconoscibile impronta sul tessuto, quanto mai rabescato, della scrittura. Anche sul piano storico, e alla luce dei testi, indubbiamente “da Omero in poi possiamo parlare di ‘poetica’, la poesia è sempre stata accompagnata da una riflessione su se stessa” (29).
L’età in cui nasce e matura la critica di Baudelaire segna, però, una svolta decisiva. Soprattutto dopo Hegel, “l’arte non è più ‘spontanea’”, non è più “naturale” od “ingenua”, come del resto non poteva più essere già nella prospettiva di uno Schiller o di un Leopardi. Essa “si fa critica di se stessa, attenta come non mai al discorso di se stessa, conscia di una sua diversa realtà storica, nel mettere continuamente in discussione la propria tradizione” (30). Con Hegel, l’arte prende coscienza dell’ombra che incombe su di lei, dell’agghiacciante prospettiva del suo “superamento” o della sua “morte”: il suo fine e la sua fine sembrano, con tragica ironia, intrecciarsi e coincidere. “Se, come teorizza Hegel, l’ora dell’arte ingenua è passata, allora l’arte deve incorporarsi la riflessione e spingerla così in là che questa non si libri più al di sopra di lei come un qualcosa di a lei esterno, straniero” (31), ma ne costituisca al contrario una componente essenziale, irrinunciabile, intimamente fusa, in un’epoca in cui, per quanto concerne la poesia, “nulla può essere dato per scontato”, nemmeno la sua stessa esistenza.
E’ dunque “dai romantici, ma soprattutto da Baudelaire in poi, che il discorso della poetica si è fatto più intenso, si è posto come connotato necessario della vita interna della poesia anche in rapporto alla consapevolezza sempre più chiara di una mutata condizione della poesia nella società” (32).
Anche e soprattutto in quest’ottica credo non possa essere posta seriamente in dubbio quella prospettiva storiografica, ormai invalsa, che fa di Baudelaire il “poeta della modernità” per antonomasia, o addirittura il vero e proprio fondatore di una modernità letteraria tratta provvidenzialmente in salvo dalle secche di certo sentimentalismo romantico; foss’anche di una modernità intesa come prodotto, a volte anche aberrante, di una “disumanizzazione dell’arte” o di una libera e spregiudicata autocoscienza che sul piano etico - basti pensare, per l’appunto, a Baudelaire o, in una diversa ottica, a Wilde - può degenerare, come del resto “chaque prise de conscience”, nel “risque de perversion” paventato, sul piano prettamente etico e in una prospettiva cattolica, da Maritain. Secondo la nota e fortunata formulazione di André Suarès, “il est une façon de sentir avant Baudelaire et une façon de sentir après lui”. Egli è infatti, per antonomasia, “le bien voyant, le vrai poète qui pense sur la poésie”.
Non si deve certo sottovalutare la funzione storica adempiuta, proprio in questo senso, dall’autore delle Fleurs. “Baudelaire, con un criterio di cui possiamo studiare organicamente le variazioni più minute fino alla formulazione definitiva, trasse il primo romanticismo oratorio e sentimentale, che”, almeno nelle sue manifestazioni deteriori, “lasciava l’iniziativa ad una parola carica fino al vizio di stimoli affettivi e di programmi di storia e di moralità, a quella contemporanea consapevolezza intellettuale e inquieta misura critica che poi si sviluppò in tante successive ricerche dell’espressione poetica” (33).
II - “UNA GRAZIA CELESTE O INFERNALE”. BAUDELAIRE E IL CONCETTO DI ROMANTICISMO.
1. Nel già citato paragrafo introduttivo del Salon de 1846, A quoi bon la critique?, viene fieramente asserita l’alta e sublime funzione conoscitiva della critica. Si incontrano, in queste pagine, toni e termini che, se da un lato possono far pensare a tracce di un non ancora pienamente superato retaggio idealistico, dall’altro anticipano, per alcuni aspetti, certi eloquenti e sdegnosi proclami mallarmeani. Se le arti “sont toujours le beau exprimé par le sentiment, la passion et la rêverie” - ecco, in una sua già abbozzata prospettiva di applicazione critica, la “poetica della rêverie” - “de chacun, c’est-à-dire la variété dans l’unité, ou les faces diverses de l’absolu” - siamo, forse, a mezza via tra l’interiorizzato ed introiettato Absolut degli idealisti e l’ipostatizzato, spersonalizzato, straniante “Absolu” mallarmeano -, “la critique touche à chaque instant à la métaphysique”. Ecco, dunque, una critica elevata al rango di metafisica - “evolutasi”, come vorrà Nietzsche, “in filosofia” -, capace di svelare i mille volti del reale, e che, come si vedrà finalmente tra breve, risulta abilitata a questa versatile, poliedrica e totalizzante funzione gnoseologica dal libero uso del pensiero analogico.
Ecco, allora, entrare in gioco, proprio in relazione alla critica, la particolarissima nozione baudelairiana di “romantisme”: “Si l’on veut entendre par romantisme l’expression la plus récente et la plus moderne de la beauté, - le grand artiste sera donc, - pour le critique raisonnable et passionné, - celui qui unira à la condition demandée ci-dessus, la naïveté, - le plus de romantisme possible”. Ecco, ancora, la già più volte sottolineata fusione, qui non ancora schizofrenica o lacerata, tra passione e ragione di cui il critico “raziocinante e appassionato” - come, specularmente, il poeta che riflette sulla poesia - deve essere capace. Il fine ultimo dell’atto critico è, almeno sul piano del giudizio valoriale, quello di soppesare, come dirà Rimbaud, la “quantità di romanticismo” che si manifesta in un dato artista o in una data opera; dunque quella teoria della critica i cui evanescenti contorni cominciano, gradatamente e per successive approssimazioni, a prendere forma, non potrà essere ricostruita che prendendo attentamente in esame l’evoluzione a cui il concetto di romanticismo va incontro nell’àmbito di tale teoria.
Nel paragrafo susseguente, Qu’est-ce que le romantisme, questi concetti si precisano ulteriormente. Questo particolare “romanticismo” non si può certo identificare con la posizione di quanti, “croyant encore à une societé catholique, ont cherché à réfleter le catholicisme dans leur oeuvres”: ancora, non a caso, l’idea e l’immagine della “riflessione”, che stavolta danno luogo a una metafora (“riflettere” o “rispecchiare” il cattolicesimo) alquanto, e forse volutamente, desueta. Per una corretta interpretazione di questo luogo bisogna certo tener presente la distinzione semantica, qui operante in absentia, tra i verbi réfleter e réflechir. Come sottolinea finemente Silvia Pegoraro, nella lingua francese “‘réfleter’ è il riflettere inconsapevole e ‘puro’” - una sorta di ossimorico “riflettere irriflesso” - “(...) dello specchio; ‘réflechir’ è il riflettere del pensiero, che si specchia prima di tutto in se stesso, prendendo coscienza di sé, e acquistando così la possibilità di riflettere, ma criticamente, ciò che ‘vede’ all’esterno” (34). Ecco, allora, che, secondo una prospettiva epocale già chiara all’autore dei Salons e più tardi, e ancor più lucidamente, al Rimbaud delle due Lettres du Voyant, questo tentativo ingenuo ed anacronistico di credere ancora in una società cattolica tanto da “rispecchiarla” nelle proprie opere, appare come inservibile retaggio e ingombrante eredità di una generazione al tramonto, che ora si tratta di superare e “attraversare”, proprio attraverso una lucida, selettiva, finanche, se necessario, cinica e diabolica “riflessione” critica.
E’ ovvio, e si è da tempo sottolineato, che Baudelaire non vuole e non può identificarsi con il Romanticismo di un Hugo, di un Lamartine o di uno Chateaubriand, solare, positivo, eroico, pregno di istanze etiche, di valori morali, di dogmatico “costruttivismo”. Indubbiamente certi aspetti della poetica di Hugo, all’altezza delle Contemplations, offriranno al nascente simbolismo alcune vaghe suggestioni, come l’idea di una parola che, “scaturita dall’oscurità, (...) crea il senso che vuole”, e che è ancora, comunque, il giovanneo “logos di Dio”, limpidamente e serenamente immune dalla strozzata e lacerata afasia che bloccherà i simbolisti alle soglie dell’immane, mistica impresa di “noter l’inéxprimable”. Innegabilmente, però, il “rigore” di un Mallarmé - il rigore del poeta-critico pienamente e consapevolmente moderno - “si discosta notevolmente dalla confusa estaticità di Victor Hugo” (35). A parte certi aspetti secondari e “anomali” di un Hugo “pre-parnassiano” e “pre-simbolista” - si pensi, rispettivamente, alle Orientales e alle Contemplations -, o di uno Chateaubriand idolatrato come mago dello stile, come sublime e sottile enchanteur, quella generazione di poeti, oltretutto aureolati dall’odiosamata Accademia di Francia, poteva dare ben poco al poeta delle Fleurs, il cui primo nucleo, comincia a prendere forma proprio tra il ’45 e il ’46, cioè negli anni delle prime prove critiche. Indubbiamente l’Hugo esule dopo l’avvento al potere di Napoleone III poté per qualche tempo, all’altezza di testi come il notissimo Cygne, incarnare agli occhi del poeta la figura, a lui abbastanza consentanea, del ribelle, del dissidente, del politicamente “vinto”; ma, come è noto, nel 1859 era lo stesso autore dei Misérables a rimarcare come proprio Baudelaire avesse portato, nella poesia francese, “un frisson nouveau”; il giudizio di Hugo si riferiva a Les septs vieillards, testo dall’atmosfera onirica ed allucinata, in cui a possibili e non ben precisabili suggestioni iconografiche si mescola, attraverso ardite ellissi e avventurose associazioni, una probabile “fonte” ravvisabile nello shakespeariano Macbeth - come proprio Baudelaire avesse portato, nella poesia francese, “un frisson nouveau”; Hugo sembrava forse, in tal modo, accennare ad un possibile “passaggio di testimone” al crocevia tra due stagioni letterarie. Si può peraltro sospettare che l’apprezzamento di Hugo fosse, se non insincero, quantomeno non molto profondamente meditato o acutamente penetrante. Come ha sottolineato Eric Auerbach, “un’opera che esprime l’orrore viene capita meglio, nonostante la ribellione, dagli uomini che quest’orrore fa fremere nell’intimo, piuttosto che da chi non dà nulla di se stesso se non qualche esclamazione entusiastica sui prodotti dell’arte. Chi è preso dalla morsa dell’orrore non parla di ‘frisson nouveau’, non grida: ‘bravo!’, né si congratula con il poeta per la sua originalità” (36). Paradossalmente, allora, il timore di un risque de perversion manifestato da Maritain, nelle pagine prima citate, in una prospettiva prettamente etica e forse, in questo, addirittura un po’ ingenua, potrebbe sottintendere una più profonda e sentita partecipazione alle inquietudini e ai fermenti che attraversano la poesia di Baudelaire.
Sul piano storico e sociale, un Hugo o un Lamartine sono, comunque, autori che “ai ‘borghesi’ non hanno alcun bisogno di rivolgersi perché i ‘borghesi’ sono loro, sono, anzi, direbbe Gramsci, gli intellettuali organici della borghesia, coloro che la rappresentano culturalmente e politicamente” (37). Il poeta delle Fleurs, dunque, si dovette porre il problema di “attraversare” Hugo come Gozzano avrebbe poi, con significativo parallelismo, “attraversato” D’Annunzio, o quello di scegliere tra l’alternativa di un Hugo inteso e “letto” come paradigma di poeta “eteronomo” e quella di Gautier, poeta per antonomasia “autonomo”, e quasi incarnazione di quella “impassible beauté” la cui insidiosa tentazione, malgrado gli anatemi dell’ École païenne, avrebbe sempre accompagnato il poeta. E non per nulla sarà proprio l’autore di Émaux et camées a sottolineare, nella Notice premessa all’edizione Calmann Levy delle Oeuvres, il severo e meditato spirito critico che presiedeva alle creazioni baudelairiane: “l’esthéthique de son art l’occupait beaucoup; il abondait en systèmes qu’il essayait de réaliser, et tout ce qu’il faisait était soumis à un plan”. E’ questo l’ideale, levigato, algido “classicismo” - esplicitamente contrapposto ad un altrettanto ideale, astorico, paradigmatico “romanticismo” - che il Valéry di Situation de Baudelaire considererà, a torto o a ragione, come il tratto distintivo dell’esperienza baudelairiana, ricollegandolo strettamente, non a caso, al modello di un poeta che ha “un critique en soi-même”. Questo “classicismo” baudelairiano potrebbe quasi, alla luce di un’altra canonica antinomia, quella tra “classico” e “moderno”, sembrare paradossale, riferito com’è al “poeta della modernità” per antonomasia. Un classicismo che si riconnette strettamente al celebre “problema” che, sempre secondo Valéry, il poeta si dovette porre: quello di diventare un grande poeta senza, però, poter essere Lamartine, Hugo o Musset. Un “classicismo”, dunque, che, nutrito e fortificato dalla riflessione e dallo spirito critico, “attraversa” o “doppia” la prima generazione del grande romanticismo francese, ed apre la strada a quella che non a torto si è potuta definire come “l’inaugurazione della modernità”. Valéry, dal canto suo, con il suo acume di poeta che “ha inventato la sua poetica con la stessa forza con cui ha inventato la sua poesia”, “riuscì a iscrivere tutte le istituzioni del movimento che in senso lato diciamo simbolista in una prospettiva classicistica, nell’idea di una poesia ‘che porta dentro di sé un critico’”, e “diede il chiarimento forse più compiuto del sistema che egli stesso come poeta seguiva, e della tradizione in cui questo sistema si inseriva” (38).
“Le romantisme”, prosegue Baudelaire, “n’est précisement ni dans la choix des sujets ni dans la verité exacte, mais dans la manière de sentir. Ils l’ont cherché en dehors, et c’est en dedans qu’il était seulement possible de le trouver. Pour moi, le romantisme est l’expression la plus récente, la plus actuelle du beau”. Quest’ultima definizione ricalca quasi alla lettera quella data nel paragrafo precedente.
E’ possibile che nell’accennare, poche righe appresso, agli esponenti del “rococo du romantisme, le plus insupportable de tous sans contredit”, Baudelaire avesse in mente un preciso riferimento ad un dato filone dell’arte della sua epoca. “La scuola pittorica francese dell’età romantica”, fa notare ancora la Pegoraro, “è infatti segnata, in linea generale, da una tendenza letteraria nel senso deteriore, da uno spirito aneddotico che la spinge a saccheggiare un non sempre pregevole repertorio letterario, finendo spesso col rimpinzare il pubblico di chincaglierie pseudo-esotiche e di cartapesta medievizzante” (39). Mi pare ovvio che, quando si incontra il riferimento alla “scuola romantica francese”, non si deve certo identificare in essa la grande lezione, poniamo, di un Géricault o soprattutto di un Delacroix. In quest’idea di “rococo du romantisme” si dovrà piuttosto vedere un’allusione a quei numerosi pittori minori che avevano ridotto l’espressione artistica “universale e progressiva”, per eccellenza “recente” ed “attuale” - eternamente “attuale”, tradotta da “potenza” ad “atto”, assurta alla sua più estrema ed imperfettibile compiutezza - a mero poncif, a banalità, luogo comune, chincaglieria pseudoestetica; e il poco lusinghiero riferimento andrà, allora, ai pittori direttamente chiamati in causa da Baudelaire, in primis i famigerati Ary Scheffer e Horace Vernet, ma forse, in modo più tenue ed indiretto, a un “indeciso” come Théodore Chassériau, incapace, almeno nella fase della sua produzione su cui si concentra il giudizio baudelairiano all’altezza del Salon de 1845, di trovare un proprio autonomo percorso creativo tra la lezione coercitiva e classicistica di Ingres e l’irresistibile suggestione di un Delacroix indebitamente “saccheggiato”.
Nell’eclettico ed analogico “canone” tratteggiato da Baudelaire, comunque, anche un pittore come Ingres viene valutato ed apprezzato come artista che, attraverso il limpido e severo rigore di un “disegno che si rifà a un sistema”, riesce a “correggere” e ad “emendare” l’imperfetta e corrotta natura, in un’ottica non lontana dal surnaturalisme cui già si è accennato. Con questo suo penetrante ed indipendente giudizio, Baudelaire prende le distanze da buona parte della critica ottocentesca, che, secondo un cliché smentito solo nel nostro secolo, contrapponeva un Ingres visto come classicista freddo ed accademico ad un Delacroix assunto invece a paradigma della nuova pittura romantica. Analogo apprezzamento spetta a un paesaggista “classico” come Corot, ineffabile “harmoniste de la couleur”, e dunque capace di quella fusione tra visione ed udito che prefigura parte delle grandiose sinestesie - sia poetiche che critiche - messe in opera dal simbolismo. Non sarà dunque del tutto infondato un possibile parallelo con il ruolo di precursore dell’impressionismo che la critica ha potuto, a posteriori, riconoscergli.
Credo che questa breve escursione interdisciplinare possa confermare che, come ha osservato Ezio Raimondi in alcune stupende pagine, la critica baudelairiana è parte e strumento di “una ricerca interiore che non si può confondere con la semplice richiesta di una verità oggettiva e tanto meno con il mito di un’esecuzione impeccabile e di un mestiere perfetto, la cui conseguenza non è altro che un nuovo rococò”, il “rococo du romantisme”, sorta di eco o riverbero del “rococò” propriamente inteso, di quell’analoga degenerazione del barocco contro cui, un secolo prima, aveva già indirizzato i suoi strali Diderot, certamente il maggiore tra i numerosi e spesso oscuri precursori di Baudelaire nella pratica di quel vero e proprio “genere” letterario, del tutto peculiare, che è rappresentato dai Salons. “Alla ‘grande tradizione’ ormai esauritasi e spenta”, scrive Raimondi più oltre, “è subentrato un periodo di rimanipolazioni confuse, di poncifs arbitrari, senza unità e senza ordine, mentre l’individuo è abbandonato a se stesso, con lo sterile sussidio della sua libertà borghese” (40). La critica diventa, allora, momento e presupposto di un discorso e di una riflessione ben più ampi, che, soprattutto nelle notissime pagine del Peintre de la vie moderne, lungi dall’esaurirsi in una riflessione puramente estetica, arriveranno ad abbracciare e a coinvolgere anche il cruciale problema della posizione del poeta e del letterato “deraciné” o “en grève” - espressione, quest’ultima, che si ritrova curiosamente, e attraverso vie del tutto indipendenti, tanto in Rimbaud quanto in Mallarmé - nei confronti della società, incapace di offrirgli, attraverso il denaro e l’almeno apparente indipendenza, altro che uno “sterile sussidio”. Si tratta di una problematica che riveste un’importanza cruciale nelle manifestazioni, tanto creative e poetiche quanto critiche, dell’estetismo europeo.
Alla luce delle affermazioni appena riportate, credo che la nozione baudelairiana di “romanticismo” possa essere intesa anche in un senso più generale, tale da abbracciare anche l’espressione letteraria, e che una gamma più estesa di possibili referenti si possa sostituire all’uso prettamente “storiografico” della categoria, o, quantomeno, ad esso si affianchi e si sovrapponga. Si tratta, come si vede, di un romanticismo inteso in senso assoluto, onnicomprensivo, quasi, schlegelianamente, “universale progressivo”; una categoria, peraltro, che pare svuotata del suo reale contenuto storico, anche e soprattutto visto il tramonto dei grandi ideali che avevano animato il romanticismo nella sua precedente e storicamente determinata manifestazione, e adibita a strumento di una critica innalzata a metafisica, che opera per virtù di analogia, tramite un personale ed “impressionistico” “rapprochement des tempéraments analogues”.
Questo concetto si precisa per via di successive definizioni e delimitazioni, attraverso bagliori ed “illuminazioni” progressive, nel quadro di un pensiero che rifugge da ogni sistematicità rigida e dogmatica, essendo governato, per usare la felice similitudine raimondiana, da “una logica per così dire discontinua, i cui nessi non risultano subito alla superficie del discorso, come in un fiume a tratti sotterraneo”.
2. Il “romanticismo” di Baudelaire è dunque lontanissimo tanto dalle chincaglie di certa pittura di genere quanto dai poeti “aureolati” ed “eteronomi” della prima generazione romantica; sarà, piuttosto, quello che emergerà repentinamente, con fulminea evidenza, nel terzo paragrafo del trattato De l’essence du rire (41): “l’école romantique, ou, pour mieux dire, une des subdvisions de l’école romantique, l’école satanique, a bien compris cette loi primitive du rire”. Questa “legge primordiale del riso”, strutturalmente non molto lontana dalle “leggi psichiche” di cui si è parlato poc’anzi, non viene definita sulla base di un pensiero originale, ma riprende la canonica idea - già aristotelica e poi hobbesiana - del riso come reazione che nasce spontanea dalla consapevolezza o dalla sensazione di una qualche forma di “superiorità” del soggetto che osserva una data scena rispetto all’oggetto dell’osservazione: l’esempio addotto è quello, assai noto, del passante “qui trébuche au bout d’un trottoir”. Ci si può però chiedere, a questo punto, a chi e a che cosa faccia esattamente riferimento il poeta parlando di “scuola satanica” del romanticismo; e resta inteso che egli, scrivendo queste righe nel 1855, provvedeva a delimitare e a circostanziare ulteriormente una categoria di cui un decennio prima, come si è visto, si era già rivelato incline a demistificare e “decostruire” il preciso e specifico contenuto storico, facendola inoltre oggetto di contestazione ideologica e, a un tempo, duttile strumento o “pretesto” per lo sviluppo di un pensiero critico quanto mai aperto ed antidogmatico.
E’ possibile che qui, parlando della “scuola satanica”, il poeta voglia fare allusione all’ala o alla linea “irregolare”, “maledetta” o “malata” di quel vastissimo e quanto mai diversificato orizzonte di autori e di gruppi che può in qualche modo essere ricondotto alla nozione - o alle nozioni - di “romanticismo”: dall’amato Poe, di cui Baudelaire aveva, allora, già dato la sua celebre e “simpatetica” versione, a Hoffmann, con probabili anticipazioni in de Sade, sulla linea di quella letteratura della “cruauté” che, attraverso Lautréamont, arriverà fino ad Artaud. Si tratta di “impressioni” e suggestioni che dovrebbero, certo, essere più approfonditamente documentate e sviluppate (42); ad esse, inoltre, come ha notato ancora il Raimondi, si mescolano anche e soprattutto suggestioni figurative, lungo una peculiare “linea diabolico-grottesca Bruegel-Callot-Hoffmann”. E non si dovrà allora dimenticare, nel quadro di un percorso critico che costantemente illumina, nutre e fa chiaro a se stesso il parallelo cammino poetico, che proprio da suggestioni figurative legate a Callot e a Pieter Bruegel derivano le atmosfere allucinate, straniate e grottesche che popolano alcuni testi delle Fleurs: in primo luogo, ovviamente, sonetti come Les aveugles, che riprende, dilata e trasfigura, attraverso la lente della sinestesia (“Ils traversent ainsi le noir illimité, / Ce frère du silence éternel”), il nucleo figurativo di una notissima tela bruegheliana, o Bohémiens en voyage, che sviluppa il tema iconografico di un’incisione di Jacques Callot. In quest’ultimo testo la parola poetica “anima” e “muove”, quasi conferendo loro vita propria, e dando voce al silenzio dell’immagine, le grottesche figure che dominano l’incisione, quasi conferendo loro vita propria, dando voce al silenzio dell’immagine ed esorcizzandone l’ostinata immobilità: “la tribu”, dice il poeta, accennando allo sviluppo e alle tappe della narrazione che l’immagine reca in sé implicita, “Hier s’est mise en route”; la parola poetica conferisce realtà e vivezza al “falso movimento” che l’immagine congela e cristallizza, pur lasciandolo intuire: “les hommes vont à pied (...) promenant sur le ciel des yeux appesantis” (e qui il segno poetico coglie, enfatizza ed ingigantisce un minimo dettaglio figurativo, portando in superficie e manifestando in modo vivo ed immediato tutta la tensione emotiva che esso contiene); il suono, infine, che l’immagine può solo far intuire o immaginare, trova piena espressione nella musica del verso: “le grillon, / Les regardant passer, redouble sa chanson”. Già nel Salon de 1846 il poeta, come si è visto, aveva affermato che, come la migliore critica è quella “dilettosa e poetica”, così il miglior commento a un quadro potrebbe essere “un sonetto o un’elegia”. Baudelaire si riallaccia, in tal modo, alla tradizione dell’ ut pictura poësis, che dalle tante ekphraseis di argomento figurativo che si incontrano negli autori classici arriva, attraverso certe ardite sperimentazioni secentesche come la Galleria del Marino, fino all’”arcana melodia pittrice” vanamente inseguita dal Foscolo nelle Grazie. Nelle forme di densa ed inquieta scrittura poetico-critica che in tal modo si creano, la distinzione tra critica d’arte e critica letteraria si fa molto tenue, fino a scomparire quasi del tutto; il nucleo ed il fulcro dell’atto critico, decisamente decentrati in direzione e sul versante del soggetto più che dell’oggetto, si riassumono e si sustanziano nell’invenzione retorica, nell’alchimia verbale, nell’incantamento metaforico; i referenti letterari e quelli figurativi si intrecciano e si sovrappongono, stringendosi in un nodo insolubile.
3. E’ certo, al di là di tutto questo, che vari referenti culturali, ben precisi e già da tempo individuati, si sovrappongono alla base della genesi della teoria baudelairiana del comico, a cui, come si è detto, il concetto di romanticismo è strettamente legato. In particolare, l’idea angosciosa, più volte ripresa dal poeta, di un “péché originel” avvertito come marchio indelebile e cifra essenziale della condizione umana, poteva derivare dalla lettura delle Soirées de Saint Pétersbourg di Joseph de Maistre, una delle “fonti” del pensiero dell’autore, la cui suggestione agì su di lui contemporaneamente a quella di Poe; in uno dei “manifesti” del romanticismo, la prefazione al Cromwell di Hugo, veniva poi già esplicitamente instaurato un legame tra lo spirito cristiano e lo sviluppo del comico. Se la critica può elevarsi alle altezze della metafisica e “sconfinare” in essa, allora non ci sarà da stupirsi se, in casi come questo, “theology shows the way to criticism” (43), come dimostrano, pur se in un diverso contesto, anche i passi di Maritain prima citati. Attraverso la “verticalità” di questi referenti culturali, la teoria del comico viene trasposta su di un piano speculativo e conoscitivo più alto ed universale, quasi sub specie aeternitatis; in tal modo anche la teoria del comico - come la concezione del romanticismo, ad essa strettamente connessa - si estende, implicitamente, anche al dominio della letteratura e della critica, sebbene il titolo completo del saggio alluda agli “arts plastiques”.
Ci si deve soffermare, innanzitutto, sull’accezione latamente “cristiana” - non, si noti, “cattolica”, giacché non era più possibile “credere in una società cattolica” - in cui Baudelaire intende il riso: visione cristiana che però, si badi, varrà solo a condizione che ci si voglia “mettre au point de vue de l’esprit orthodoxe”. Secondo questo “spirito ortodosso”, che l’autore sembra comunque accettare con quel “gusto del luogo comune” e quel “mimetismo ironico di effetto straniante” di cui ha parlato Raimondi nel saggio citato, “il est certain (...) que le rire humain est intimément lié à l’accident d’une chute ancienne, d’une dégradation physique et morale”. È da questa quasi archetipica “caduta”, da questa “decadenza” da una primitiva e primigenia condizione di purezza e di beatitudine edenica, che deriva la consapevole e dolorosa “science du bien et du mal” di cui è sustanziata l’idea stessa del comico; non per nulla, “le rire et les larmes ne peuvent pas se faire voir dans le paradis de délices”. Non a caso, allora, la “Beauté” del componimento XVII delle Fleurs - una delle tante più o meno diafane ed evanescenti ipostasi dell’Ideale, della purezza assoluta ed incorrotta, che popolano la raccolta - può proclamare con orgoglio: “Et jamais je ne pleure et jamais je ne ris”. Questo riso e queste lacrime, frutto di un’autocoscienza lucida e insieme tormentata, sono, del resto, tra le più profonde e dolorose stigmate della modernità.
Proprio per questo suo carattere “satanique” il riso è “profondément humain” e, di conseguenza, “essentiellement contradictoire”, segnato e minato da un dualismo lacerato e deformante, che sembra quasi preludere, alla lontana e in via del tutto indiretta, a quello che sarà il pirandelliano “sentimento del contrario”. “Signe de supériorité relativement aux bêtes, et je comprends sous cette dénomination les parias nombreux de l’intelligence” - e in questi “intoccabili del pensiero” si potrà forse scorgere una delle tante allusioni agli immondi “professeurs jurés d’esthétique” -, “le rire est signe d’inferiorité relativement aux sages, qui par l’innocence contemplative de leur esprit se rapprochent de l’enfance”. Insomma, come dirà un poeta del Novecento, “il saggio non è che un fanciullo / che si duole d’essere cresciuto”; Baudelaire, in una prospettiva non molto lontana da quella di uno Schiller o di un Leopardi, se non addirittura di un Vico (44), sembra qui vagheggiare, proprio al cuore di una modernità ormai matura, una sorta di nostalgico “ritorno alle origini”, in un anelito di palingenesi e di purificazione.
III - FINE DELL’INFANZIA
1. La critica di ispirazione psicoanalitica e quella di orientamento esistenzialista hanno già ampiamente analizzato l’impulso di “regressione” all’infanzia che sembra accompagnare il percorso di Baudelaire, sul piano delle dottrine estetiche non meno che dell’esperienza biografica, in una sorta di ontogenesi, intesa come processo virtualmente reversibile, che ricapitola, per così dire “a ritroso”, la filogenesi; più interessante sarà, ai fini di questa ricerca, vedere quali ripercussioni tale esasperata sensibilità possa aver avuto sul versante dell’esercizio critico.
Conviene, forse, prendere le mosse da alcune densissime ed illuminanti pagine di Georges Bataille (45), in cui l’autore intesse un fitto dialogo con il Sartre del famoso saggio baudelairiano, apparso nel 1947. Scrive Bataille, in un passo che pone al traduttore problemi terminologici difficilmente sormontabili: “la poésie, en un premier mouvement, détruit les objets qu’elle appréhende, elle les rend, par une destruction, à l’insaisissable fluidité de l’existence du poète, et c’est à ce prix qu’elle espère retrouver l’identité du monde et de l’homme. Mais en même temps qu’elle opère un dessaisissement, elle tente de saisir ce dessaisissement. Tout ce qu’elle pût fut de substituer le dessaisissement aux choses saisies de la vie réduite: elle ne pût faire que le dessaisissement ne prit la place des choses”. Nel momento stesso in cui l’io lirico o il soggetto poetante tentano, attraverso l’aurorale ed arcano rito della nominazione, di “impossessarsi” del reale o addirittura, quasi idealisticamente, di “porlo” e di fondarlo, proprio allora essi esperiscono l’impossibilità di ricomporre pienamente quella “synthèse de l’immuable et du périssable, de l’être et de l’existence, de l’objet et du sujet, que recherche la poésie”; quest’ultima, allora, si definirà e delimiterà proprio come “royaume de l’impossible, de l’inassouvissement”. Dunque “la poésie, voulant l’identité des choses réflechies par la conscience, qui les réfléchit, veut l’impossible”; ma Baudelaire ha perseguito “jusqu’au bout” quest’impossibile scopo, fermandosi solo un breve passo prima di precipitare nell’abisso dell’ineffabile, dell’indicibile, del fuori-idioma, che avrebbe invece inghiottito ed affogato la voce di Rimbaud e di Mallarmé, forzando il primo ad ammutolire e il secondo a prorompere talora, come dirà Croce, in “suoni rotti e vaghi”. In quell’ossimorico, inesauribile, ricorsivo gioco di specchi che è la poesia della poesia, la poesia che “riflette” se stessa e su se stessa, resta imprigionata anche la condizione esistenziale del poeta: “il se chercha, (...) il ne se perdit, (...) il ne s’oublia jamais, (...) il se regarda regarder”. Ecco manifestarsi, nella critica di Bataille non meno che nei versi dei simbolisti, l’insanabile ed ineludibile contraddizione in cui e di cui vivono un poeta e un uomo che - proprio come in uno specchio, o forse già nell’“eau froide (...) gêlée” e nella “glace au trou profond” in cui Hérodiade contemplerà le sue vergini e perfette membra - “si vedono vedere” o “si impossessano di uno spossessamento”, lo “spossessamento” di un reale che si sottrae, nell’ironica irrealtà dell’immagine riflessa, ad ogni sensibile e soggettiva “appercezione”.
E’ proprio in questo senso che, secondo Bataille, noi incontriamo “une difficulté semblable à celle de l’ enfant, libre à la condition de nier l’adulte, ne pouvant le faire que sans devenir adulte à son tour et sans perdre par là sa liberté”. Da ciò derivano, di tanto in tanto, la tentazione di un ritorno all’infanzia, l’anelito ad una rinnovata purezza edenica, l’aspirazione alla perduta “innocenza” o naïveté. Già in limine al Salon de 1846, del resto, Baudelaire aveva affermato che agli occhi del critico “raziocinante e appassionato” il miglior artista doveva essere quello capace di unire “le plus de romantisme possible” proprio alla rara ed invidiabile dote della naïveté: dote che è, forse, già piuttosto prossima a quella che sarà la post-simbolista e luziana “naturalezza del poeta”, riconquistata attraverso la riflessione e l’artificio.
Nonostante tutto, però, il poeta delle Fleurs “jamais n’assuma les prérogatives de ses maîtres”, degli Hugo e dei Musset, cui pure resta in qualche modo legato, almeno per certi aspetti del suo stile; la sua “libertà” gli impose di “rivaliser avec ces êtres qu’il avait refusé de remplacer”. E questi “esseri”, o forse questo Essere, possono assumere i contorni tanto delle cose che il soggetto poetante cerca invano di introiettare e di far proprie attraverso l’atto lirico, quanto dei “maestri” e dei “padri” del romanticismo, che continuano ad incombere sul poeta con le loro ombre ingombranti e ineludibili, ma che egli deve in qualche modo, freudianamente, “uccidere”. Ai fini di questo “attraversamento” o “deromanticizzazione” del romanticismo lo spirito critico riveste, com’è evidente, un’importanza cruciale; alla naïveté e all’”innocence contemplative” vagheggiate dal poeta farà allora da controcanto e da “disturbo” l’”esprit analytique” che è proprio della critica.
Indicazioni illuminanti si trovano, a questo riguardo, nel terzo paragrafo (46) del famoso Peintre de la vie moderne, che sotto questo aspetto integra, a otto anni di distanza, e con molto più smaliziata sottigliezza di pensiero, le affermazioni del saggio De l’essence du rire. Come suggerisce già il titolo del paragrafo, questa ideale figura di artista moderno dovrà assommare in sé i tratti, apparentemente inconciliabili, dell’”enfant” da un lato, dell’”homme du monde” dall’altro; ed è già chiaro che si tratta di una condizione ossimorica, in sé contraddittoria, sospesa in una ironica ed irrisolta ambiguità.
“Supposez un artiste qui serait toujours, spirituellement, à l’état de du convalesecent, et vous aurez la clef du caractère de M. G. Or, la convalescence est comme un retour vers l’enfance. Le convalescent juit au plus haut degré, comme l’ enfant, de la faculté de s’intéresser vivement aux choses, même les plus triviales en apparence. (...) L’enfant voit tout en nouveauté; il est toujour ivre”. E si pensi, a questo punto, all’importanza che i concetti di enfance e di ivresse, a un tempo campi semantici e condizioni esistenziali, assumeranno nell’opera di Rimbaud: un’ enfance, beninteso, che sarà legata più alla perversione, alla ribellione e alla “malattia” che all’incanto e all’innocenza, e un’ ivresse che sarà tale da conciliare l’impeto pulsionale e lo sfrenato dérèglement propri del “corps merveilleux” e dell’estasi oppiacea con il severo e spietato rigore di una “méthode” - a un tempo stile di vita e scelta letteraria - “affermata” e perseguìta con eroica e militante coerenza (47). Questa foga militante e già quasi avanguardistica, in Rimbaud, non sarà disgiunta da una sorta di nostalgia, sempre, peraltro, soffocata e dissimulata, per una primigenia condizione di purezza e di “romantico” candore ispirativo: rievocando i tempi delle Lettres du Voyant, all’altezza della limpida ed illuminante autocritica affidata ad Alchimie du verbe, il poeta confessa di avere, allora, invidiato “les chenilles, qui représentent l’innocence des limbes, les taupes, le sommeil de la virginité !”. Una sorta di rimpianto per una specie di “stato di minorità” tale, però, da preservare la purezza e l’equilibrio del pensiero e della sensibilità.
“Rien”, prosegue il testo del Peintre, “ne ressemble plus à ce qu’on appelle l’inspiration, que la joie avec laquelle l’enfant absorbe la forme et la couleur”. Ma questa inspiration dev’essere, come Baudelaire raccomandava già, quasi vent’anni prima, ai “jeunes littérateurs” (48), sostenuta da “une nourriture très substantielle, mais regulière”, e coltivata e alimentata da un meticoloso, flaubertiano “travail journalier”; un’”ispirazione” che, in quelle pagine, era addirittura ridotta, quasi positivisticamente, a un processo fisico vincolato a bioritmi governabili e “programmabili”: “l’inspiration obéit, comme la faim, comme la digestion, comme le sommeil”. Se, come dirà Rimbaud, le pulsioni e le sensazioni che agitano il “corpo meraviglioso” possono essere ricondotte ad un “metodo”, allora non c’è da stupirsi se anche questo metodo ha in sé qualcosa di corporeo. “La scrittura”, come nota Maurice Nadeau, “crea lo scrittore passando attraverso il suo corpo”, un corpo che reca su di sé le stigmate del dérèglement de tous les sens, e che, dunque, non può più essere naturalmente e genuinamente puro ed innocente. E i “sensi” che sono oggetto di questo “sregolamento” potranno certamente essere intesi, d’accordo con i commentatori, come “sensazioni”, come percezioni sensoriali, ma, forse, anche come “significati” della scrittura, valori semantici sulla cui ambiguità e arbitrarietà il simbolismo francese fondò gran parte delle sue rivoluzionarie e rigorosamente programmate e consapevoli sperimentazioni. “Il faut aussi que tu n’ailles point / choisir tes mots sans quelque méprise”, raccomandava Verlaine nell’ Art poétique. Quando Valéry arriverà a dire: “mes vers ont le sens qu’on lui donne”, non farà che radicalizzare e portare alle estreme conseguenze questo principio di poetica.
Nel Peintre, per asserire questa corporeità e corporalità dell’”ispirazione” e della scrittura, Baudelaire arriverà a “falsificare” e ad “umanizzare”, per usare espressioni sveviane, i princìpi della frenologia, che erano trovava enunciati negli studi di Franz Joseph Gall. L’opera del Gall, come la critica delle fonti e le ricerche degli eruditi misero in luce molto per tempo (49), non era ignota al poeta delle Fleurs; negli anni sessanta del secolo i prìncipi in essa esposti, ormai largamente divulgati, potevano già interagire con il nascente determinismo positivista. Secondo Baudelaire “l’inspiration a quelque rapport avec la congestion, et (...) toute pensée sublime est accompagnée d’une secousse nerveuse, plus ou moins forte, qui retentit jusque dans le cervelet. L’homme de génie a les nerfs solides, l’enfant les a faibles”. Ecco dunque all’opera quelle “lois psychiques” a cui fa riferimento il passo citato all’inizio del capitolo. Esse vengono qui chiamate in causa ed “usate” in via del tutto pretestuosa, ad illustrare un processo mentale che ben difficilmente, dato quel carattere di “sorcellerie évocatoire” che Baudelaire, precursore della “magie” mallarmeana, continua ad attribuire ad esso, potrebbe essere inquadrato in toto nei rigorosi paradigmi e nei principi di una scienza sperimentale; si direbbe, inoltre, che anche tali leggi vengano menzionate ed assunte sotto l’egida del consueto “mimetismo ironico”.
A questo punto si può chiudere un primo cerchio: “le génie n’est que l’ enfance retrouvée à volonté, l’enfance douée, pour s’exprimer, d’organes virils et de l’esprit analytique qui lui permet d’ordonner la somme des matériaux involontairement amassée”. Questo “esprit analytique” non è che la critica, cui è demandata la preziosa funzione di mettere ordine, nel “cumulo dei materiali involontariamente ammassato”, tra le percezioni sensoriali e i dati della coscienza: il buon critico infatti deve, secondo alcune note formulazioni baudelairiane, “ériger en lois ses impressions personnelles” e “transformer la volupté en connaissance”. E per il poeta è “motivo di tedio e di sorpresa insieme che per quanto un individuo accresca via via con l’età il distacco critico (anche verso se stesso) non per questo esaurisce mai l’incanto felice e tormentato di quel continente perduto. La catena delle immagini moltiplicantisi per analogia, (...) le immagini-emozioni privilegiate divengono l’oro su cui lavorare instancabilmente di cesello”, con un’acribia e una protervia a tratti quasi parnassiane. “(...) In Baudelaire il tratto lucidamente critico coesiste con una sensibilità-sensualità emozionale che l’opera costantemente ritornante sui propri passi (...) pone in equilibrio letterariamente rilevante” (50).
Lo stesso concetto appariva, in termini molto simili, già tre anni prima, a conclusione del sesto capitolo della seconda parte dei Paradis artificiels, intitolato Le génie enfant (51): “le génie”, vi si legge, “n’est que l’enfance nettement formulée, douée maintenant, pour s’exprimer, d’organes virils et pouissants. (...) Cependant je n’ai pas la prétention de livrer cette idée à la la physiologie pour quelque chose de mieux qu’une pure conjecture”. Ecco, ancora una volta, il riferimento alla scienza; e ad essere “falsificati” e “umanizzati” sono, stavolta, i princìpi della fisiologia, scienza che proprio intorno alla metà del diciannovesimo secolo si afferma in modo concreto e decisivo. Baudelaire, in qualche modo, assume e relativizza le sue leggi, che di fronte al fenomeno, non privo di ripercussioni sul piano corporeo, dell’ispirazione e della creazione poetica, non possono che precipitare nel dominio della “congettura”. Egli, com’è evidente, “non intende scrivere trattati scientifici, bensì raccogliere le sue esperienze personali e ‘morali’, per estrarne se mai quintessenze poetiche, con le sue scelte, le sue distinzioni” (52). Il personaggio che domina Un mangeur d’opium, sezione conclusiva dei Paradis, è, com’è noto, Thomas de Quincey, che viene presentato come “un vieillard qui raconte son enfance, un vieillard qui, rentrant dans son enfance, la raisonne toutefois avec subtilité”. “Cette enfance”, prosegue l’autore, “principe des rêveries posterieures, est revue et considérée à travers le milieu magique de cette rêverie, c’est-à-dire les épaisseurs transparentes de l’opium”. Il genio inteso come “infanzia ritrovata tramite la volontà” vede il mondo attraverso il velo delle “trasparenti densità”, ossimoriche e surreali, procurate dagli stupefacenti; in una prospettiva che anticipa decisamente la rimbaudiana ivresse, lo “spirito analitico” della critica si confonde e quasi si identifica con il “metodo” - cinico, amorale, inflessibile - del poeta che alimenta la vena creativa ed “espande” le facoltà percettive del soggetto lirico per mezzo dell’oppio. “La forza immaginativa dell’infanzia è paragonabile all’esaltazione prodotta dall’oppio o dall’hascisc, e anche alla forza, alla lucidità dell’artista nella sua ‘semplice ispirazione giornaliera’” (53). Ed è, allora, spontaneo e naturale, anche se nascosto in fondo ad una nota a pie’ di pagina, il riferimento alla critica letteraria propriamente detta: solo l’”animo invidioso e bisbetico di un critico moralista” potrebbe trovare qualcosa di errato e di disdicevole nel “metodo” teorizzato e perseguito dagli “assassini”, dai “mangiatori d’oppio”, dai “criminali” (54).
Questo percorso di lettura conferma, dunque, che per Baudelaire “l’ingenuità dell’artista non è una verginità ancora intatta, ma una verginità riconquistata e consapevole” (55): una sorta di verginità artificiale, ricomposta e “ricucita” dopo le cruente lacerazioni della modernità, lacerazioni di cui essa continua, peraltro, a serbare e quasi ad esibire le tracce. Il sogno romantico di una poesia capace di dar voce al “sospiro” e al “bacio” “emessi dal bambino-poeta in un canto spontaneo” è ormai lontanissimo e improponibile. Si tratta di una “verginità” di cui il post-strutturalismo, prendendo le mosse proprio da alcuni aspetti dell’ermeneutica “estetizzante” del secondo Ottocento, ha riscoperto l’autentica natura e l’innegabile importanza. Geoffrey Hartman, ad esempio, accetta “il presupposto che in quanto moderni ricerchiamo una seconda innocenza nella riflessione critica e attraverso di essa, e anche che i concetti di immediatezza e di sacro (‘l’immediatezza del simbolo’) siano identici e che scopo della critica restaurativa sia di svelare questa identità” (56). Questa “seconda innocenza”, che non può più essere quella innata ed irriflessa dei primi uomini “di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie”, è proprio l’ innocence baudelairiana, filtrata e turbata dal tarlo roditore dello “spirito analitico”; allo stesso modo, la “metafisica” continuamente intravista o “sfiorata” dalla critica non potrà più essere la “metafisica poetica”, “sentita e immaginata”, che una certa tradizione culturale, di matrice vichiana, considerava come prerogativa delle “età giovani”. I “concetti di immediatezza e di sacro” a cui Hartman allude sono legati all’ambiguo, torbido, artificioso e raziocinante “misticismo” che tanta parte ha nella sensibilità della décadence; sul problema dell’”immediatezza del simbolo”, e sulla funzione e la posizione del critico in rapporto alla simbolicità dell’arte, si concentrerà, nell’àmbito di un estetismo certo non esente da suggestioni romantiche, l’attenzione di Angelo Conti, intento ad edificare, intorno alla sua teoria della critica, quella che si potrebbe definire come una vera e propria “mistica dello stile”. Peraltro il simbolo, proprio a partire da Baudelaire, tende a perdere la sua naturalezza e la sua spontaneità “goethiane”, e finisce per essere sussunto nel dominio “arbitrario”, straniato e lacerato dell’”allégorie”. E risulta evidente, a questo punto, la distanza che separa la teorizzazione del Fanciullino pascoliano dall’idea di “enfance” presente in un Baudelaire, un Rimbaud, un Mallarmé - fermo restando, beninteso, che, per altri aspetti, tra Pascoli e il Simbolismo europeo esistono legami ben più stretti di quanto si sia creduto in passato, e che, visti i fitti ed eclettici referenti culturali abilmente dissimulati dietro l’”apparente ingenuità” del “Fanciullino”, il “recupero memoriale” pascoliano si traduce in un “sogno infantile vissuto (...) con coscienza adulta. (56bis). Mentre per l’autore del Peintre il “genio” dell’artista si identifica con un’infanzia “dotata d’organi virili” e di “nervi solidi”, con un’innocenza che si fonde con lo “spirito analitico” e ne trae alimento e vigore, nel poeta di San Mauro innocenza e ragione, intuizione ed analisi sono ancora - almeno sul piano della poetica, che qui più mi interessa, se non proprio su quello della poesia - viste e presentate come facoltà antitetiche ed escludentisi a vicenda, come inconciliabili opposita: “noi cresciamo”, si legge nel primo capitolo, ed il fanciullino “resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo ed arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello”. Certo, anche Pascoli ipotizza, proprio in apertura del suo trattato di poetica, un’”armonia” tra fanciullezza e stato adulto. “L’uomo riposato” ama parlare con il fanciullino, “e udirne il chiacchiericcio e rispondergli a tono e grave; e l’armonia di quelle voci è assai dolce ad ascoltare, come d’un usignuolo che gorgheggi presso un ruscello che mormora”. Quest’armonia è certo la stessa che pervade e innerva la rete di onomatopee, di assonanze e di sinestesie che attraversa tutta la poesia pascoliana, e non manca di riverberarsi anche sulle pagine di poetica, sulla loro “prosa ondeggiante di suoni” - si pensi al “tinnulo squillo come di campanello”, tipicamente pascoliano - “e trasalimenti”, come la definisce lo studioso appena citato. Ma nel definire questa “armonia”, Pascoli non fa, a ben vedere, che riprendere il classico e in qualche modo rassicurante topos del “puer senex”. Nulla, dunque - almeno a livello di poetica, di esplicita e ponderata concettualizzazione metaletteraria, al di là di tutti i pur acutissimi e proficui scandagli che possono essere compiuti, da una prospettiva antropologica o psicoanalitica, sui testi poetici -, che possa essere paragonato alla “strained self-consciousness” e alla tormentosa e lacerata “science du bien et du mal” che affliggono la “critica demonica” di un Baudelaire o di un Wilde, su cui la mia indagine è prevalentemente incentrata.
“Per cantare il male”, dice Pascoli più oltre, “bisogna fare uno sforzo continuo su se stesso, a meno che non si tratti di pazzia”. Uno “sforzo su se stessi” è, per l’appunto, quello dovuto all’intervento dello spirito critico, di cui si alimenta, da Baudelaire a Rimbaud a Wilde, il furioso, battagliero individualismo dell’artista “criminale” e “assassino”; e quanto alla “pazzia”, paradossalmente essa si lega, nei simbolisti, alla razionalità della critica, in un nodo gordiano in sé contraddittorio e nondimeno inscindibile, generando quella condizione esistenziale e creativa ossimorica e schizofrenica che si sustanzia emblematicamente nei “sophismes de la folie” della rimbaudiana Alchimie du verbe. “Aucun des sophismes de la folie (...) n’a eté oublié par moi: je pourrais les redire tous, je tiens le système”. Questo “sistema”, con la sua implicita ed intrinseca natura “critica”, rappresenta forse la più compiuta e matura applicazione del “sistema” - aperto, duttile, sempre mutevole e rivedibile - già teorizzato da Baudelaire, così come del “metodo” - lucido, cinico, paradossalmente e spietatamente coerente, fino all’autolesionismo e al martirio - del “mangeur d’opium”; e in questo stesso àmbito si colloca la rigorosa e spietata “méthode” di cui parla Matinée d’ivresse, e che con il suo eterodosso rigore, il suo paradossale e blasfemo ascetismo, governa e disciplina le perverse e polimorfe pulsioni che agitano il “corps merveilleux”.
A differenza di quella del “bambino-poeta” primoromantico, non molto distante, a ben vedere, da quello che sarà il “fanciullino” pascoliano, la verginità dell’artista baudelairiano, per così dire “demi-vierge”, a un tempo fanciullo e uomo di mondo, o addirittura quasi dandy, non è lontana da quella dell’Erodiade di Mallarmé, che, proprio nel quadro e nel sistema di una grandiosa rappresentazione allegorica della riflessione e del rispecchiamento autocritico, “ama l’orrore di essere vergine”, pungolata e insieme atterrita dalle ansiose esortazioni della nutrice, che cerca di rompere la cortina del suo narcisistico e quasi autoerotico culto di sé stessa. L’”enfance” e la “virginité” dell’artista baudelairiano non sono, per l’appunto, troppo diverse da quelle di Hérodiade: la fanciulla ricorda i tempi di un’infanzia che è ormai, nel suo candore e nella sua purezza, irrimediabilmente perduta: ciò che i suoi “capelli” vedono e “riflettono”, sostituendosi agli occhi tramite una vertiginosa assimilazione analogica in absentia, sono “joiaux du mur natal, / Armes, vases depuis ma solitaire enfance”. Al termine della sua algida ed insieme accorata monodia, immediatamente prima che essa si spezzi e ammutolisca, soverchiata dall’ossessivo e straniante Cantique de Saint Jean, Erodiade ha ancora modo di esortare la nutrice ad erompere nei “sanglots suprèmes et meurtris / D’une enfance sentant parmi les rêveries / Se séparer enfin ses froides pierreries”. La “disumanizzata” purezza a cui Erodiade anela dovrà essere recuperata, o artificiosamente ed illusoriamente simulata, per mezzo del rispecchiamento autocritico.
Ancora Bataille parlava, già per Baudelaire, dell’”onanisme d’une poésie funèbre”, di una poesia che agognava all’”immuabilité de la pierre”. Sono, queste, espressioni che ancor meglio si attaglierebbero ad Hérodiade, che resterebbe uccisa da un bacio se la bellezza non fosse la morte, e si trova segregata “sous la lourde prison de pierres et de fer”; e già la baudelairiana “Beauté” poteva proclamarsi bella “comme un rêve de pierre”. In questa bellezza parnassianamente pietrificata, marmorea, impassibile, non c’è più traccia della serenità apollinea ed olimpica, della “nobile semplicità” e della “compatta grandezza” winckelmanniane e canoviane. Al sereno e radioso sorriso di Venere si è ora sostituita, attraverso la mediazione parnassiana, la solenne, sfingea, quasi minacciosa monumentalità di questa “Beauté” che impone ai suoi “dociles amants” le logoranti fatiche delle “austères études”, cioè della riflessione critica e dell’elaborazione retorica; gli occhi della Bellezza sono “Des purs miroirs qui font toutes choses plus belles”, che intervengono sulla realtà alterandola e falsandone la percezione, e rientrano, dunque, nell’armamentario dei gelidi ed infallibili strumenti della disumanizzazione e del surnaturalismo. “La Bellezza di questo sonetto”, lontanissima dalla beata ed immacolata “ingenuità” propria di mitiche e remote “età giovani”, “non è la serena bellezza classica, o almeno, non è solo quella”. L’intento di Baudelaire era quello di “esprimere un’idea di bellezza che fosse insieme armonia di forme e mistero, ricollegabile alla doppia influenza di Poe”, dal cui racconto Ligeia il poeta francese mutua proprio l’immagine degli occhi, “e dell’impeccabile parnassiano Gautier” (57).
L’autore delle Fleurs, dunque, preparando in tal modo il terreno al Valéry di Situation de Baudelaire, e secondo le linee di un percorso tortuoso, tormentato, quanto mai difficile da seguire in tutte le sue fasi, e che verrà portato a compimento solo con Rimbaud e con i parnassiani, mette in crisi i concetti di classicismo e romanticismo, sovrapponendoli ed incrociandoli, e contaminandoli con la nozione, in lui così forte e pregnante, di modernité. La sua “infanzia”, che pure il poeta rimpiange e quasi idoleggia, non può più identificarsi con il “canto spontaneo” del “bambino-poeta” schlegeliano e primoromantico; allo stesso modo, il “romanticismo” è, sì, “la manifestazione più recente e più attuale del bello”, ma è nel contempo messo in crisi e soffocato dal “classicismo” di cui parlerà Valéry, il classicismo del poeta che contiene in sé un critico, che è sovrano delle parole e dominatore dei sentimenti, e che proprio attraverso il classicismo - un classicismo che, come ogni classicismo, “presuppone un romanticismo precedente” - riesce a superare o a eludere il problema di essere un grande poeta senza più poter essere Lamartine, Hugo o de Musset.
IV - UNA CRITICA DEMONICA
1. Proprio l’estemporaneo riferimento a Poe, fatto poc’anzi a proposito del sonetto alla Beauté, offre un altro interessante spunto. Come scrive Geoffrey Hartman in quel “vangelo” della decostruzione che è La critica nel deserto, “a partire da Wilde (con anticipazioni in Poe e Baudelaire), la teoria dell’arte ha cercato di comprendere l’artista demonico, perfino l’artista criminale, non tanto come un fenomeno empirico e sociale ma come una finzione che alimenta la teoria e che possa rivelare la profondità problematica della persona e dell’ intenzione” (58). E’ davvero un peccato che lo studioso americano, nella sua scrittura segmentata e desultoria, non abbia dato a questo pensiero un più ampio e documentato sviluppo. Del resto il suo dettato critico pullula, come nota il traduttore italiano, di “allusioni”, “arguti malintesi”, “ambiguità” e “sottintesi poco rassicuranti”, e in questo è davvero vicino alla misura “aforistica” e “dialogica” di un Mallarmé e ancor più di un Wilde.
Non a caso, quando nel Peintre Baudelaire definisce l’artista moderno come “homme des foules”, oltre che come “homme du monde” e “enfant”, ha certo in mente il racconto di Poe The man of the crowd, L’homme de la foule, ritratto, ricchissimo di intuizioni, della metropoli moderna, già tradotto, meno di due anni prima, nelle Nouvelles histoires extraordinaires. E certo nell’M. G. baudelairiano è rimasto qualcosa del personaggio poesco, che arriva a identificarsi con i molteplici, cangianti aspetti della caotica realtà metropolitana moltiplicando indefinitamente la propria identità attraverso una sorta di frammentaria ed onnicentrica diffrazione dell’ego. Si delineano, in tal modo, le origini di quella critica “demonica” che si svilupperà sulla linea Poe-Baudelaire-Wilde tracciata da Hartman. Artista “demonico” e artista “demoniaco” possono facilmente coincidere: il “satanismo” e il “prometeismo” dell’”école satanique du romantisme” non sono, infatti, che forme di rivendicazione della libertà dell’io, dell’individuo, del soggetto, della persona di fronte alle angustie del reale e alle coercizioni della società. Un’eroica e titanica affermazione dell’assolutezza e dell’autarchia di quel daimon che sta a mezza via tra la terra e il cielo, che partecipa dell’umano e del divino, e nel contempo, nelle vesti del “nume tutelare”, incarna e difende l’assolutezza e l’incondizionatezza del soggetto dalle insidie e dalle contaminazioni del reale e del sociale; quel daimon in cui, etimologicamente, già il Nuovo Testamento poté intravedere il sardonico ghigno del Demonio. Demonismo e dandysmo, credo, possono qui incontrarsi, presentandosi come i due aspetti di una stessa condizione, quella del fiero ed ostentato individualismo di una figura di intellettuale che è stata la società stessa, per prima, ad emarginare; e allora non so fino a che punto lo studio di questo clima culturale e di questa sensibilità possa prescindere, come Hartman sembra suggerire, da un’attenta considerazione dei suoi risvolti “empirici e sociali”.
Si tratta di qualcosa di simile al demonismo in cui Oswald Spengler, non ignaro di Baudelaire, poté scorgere l’estrema esasperazione postromantica dell’”anima faustiana” (59), di “un Io sperduto nell’infinito, fatto tutto di forza ma impotente fra una infinità di più grandi forze; tutto volontà ma pieno di angoscia per la sua libertà”, e dunque forzato a far evolvere, o involvere, l’individualità in individualismo. E per liberare l’Io dai vincoli che lo stritolano, qualunque mezzo è buono, Inferno o Cielo, poco importa: “il mito di Maria” - accostabile alle non rare, salvifiche ipostasi angeliche che illuminano, a tratti, le Fleurs - “e il mito del diavolo si sono formati insieme, e l’uno è inconcepibile senza l’altro. (...) Vi fu un rituale mariano delle preghiere e un rituale demonico degli scongiuri e degli esorcismi”: il “rituale demonico” che il poeta celebra nelle Litanies de Satan. “Anche il diavolo può fare miracoli”. La devozione a Satana libera dai doveri della milizia nel nome di Dio; il sacrificio di Cristo e la redenzione dei peccati, per contro, liberano l’uomo dal Peccato; il daimon, nell’ironica, bifida ambivalenza della vox media, può celarsi, a seconda, dietro la maschera dell’angelo e del nume tutelare come dietro quella delle potenze ctonie e del Diavolo cristiano. Anche le forze del bene non fanno che promettere, per altra via, la libertà dell’Io. “Poter volere liberamente, questo è, in fondo, l’unico dono che l’anima faustiana invoca dal cielo. I sette sacramenti (...) non hanno che questo significato”. Nell’ostia consacrata “il credente sente la presenza di Colui che si è sacrificato per assicurare ai suoi la libera volontà”.
In questa luce si può, forse, leggere anche il mallarmeano “demone dell’analogia”, sia che questo “demone” si identifichi, come qualcuno ha creduto, con lo stesso Mallarmé, sia che, com’è più plausibile, esso personifichi una particolare inclinazione, sensibilità o “indole” poetica. Esso è, comunque, una precisa dichiarazione di poetica, la difesa di un’audace scelta letteraria, anche una sorta di “manifesto tecnico” volto a definire le modalità e le leggi di una data prassi stilistica: in altre parole, una fiera e risoluta affermazione di individualità. In tal modo l’individualità perseguita, affermata e difesa dalla critica “satanica” e “demonica” si risolve e si ricollega essenzialmente alla dimensione stilistica e concretamente linguistico-retorica dell’esperienza letteraria.
Inteso nell’accezione che prende faticosamente forma nella fase più matura del pensiero baudelairiano, “il romanticismo”, come si legge nel Salon de 1859, “è una grazia, celeste o infernale, alla quale noi dobbiamo delle stigmate eterne” (60). Si configura una categoria in cui l’individualismo e il demonismo romantici giungono alla loro massima esasperazione e, nel contempo, vengono sintetizzati e trascesi, venendo a precisarsi come condizione esistenziale e “metafisica” e, nel contempo, affilatissimi strumenti di un metodo critico immaginoso ed analogico. Per questa via il critico confuta e respinge l’applicazione all’analisi dei fatti artistici dell’idea di progresso, tipica dell’utilitarismo borghese. “L’artiste ne relève que de lui-même. Il ne promet aux siècles à venir que ses propres oeuvres. Il ne cautionne que lui-même. Il meurt sans enfants. Il a été son roi, son prêtre et son Dieu”. Ecco perché la critica deve comprendere la natura e le prerogative dell’”artista demonico”, penetrare, per via empatica, nel cuore e nel nucleo della persona, spogliandosi di ogni forzosa sovrastruttura, di ogni dogmatico e necessitante modello storiografico tale da presupporre che un dato artista “contenga” in sé o “generi” un artista successivo.
Il romanticismo - questo romanticismo - è una dimensione esistenziale e conoscitiva che può essere “celeste o infernale”, poco importa, purché abbia la facoltà di liberare l’io dai limiti e dalle catene in cui è costretto; e le “stigmate” da cui resta segnato chi è partecipe di questa condizione sono “eterne”, radicate in una dimensione che, proprio nel quadro di una polemica “storiografica” decisamente rivolta contro il romanticismo “cattolico” e “borghese”, prescinde dalla concreta realtà storica, e istituisce un perenne ed imperituro strumento di mediazione tra il soggetto e l’oggetto dell’atto critico.
Questa critica, demoniaca e demonica, coglie, come dice Hartman, la persona dell’artista, la sua intima ed ineffabile individualità, al di fuori di ogni schema precostituito e di ogni sclerotica tassonomia storiografica. Persona è, però, anche personaggio, maschera, prosopon che nasconde e dissimula le vere fattezze; sublime finzione, quasi gorgiana apate, in cui chi inganna e più giusto di chi non inganna, e chi viene ingannato più saggio di chi non si lascia ingannare. E si è da tempo sottolineato quanto proprio l’antica Sofistica, col suo artificio suasorio sottile e sleale, abbia dato a questo modo di fare critica. “Finzione”, continua Hartman, “che alimenta la teoria”; Wilde, elogiando la paradossale, antifrastica “Truth of the Masks” e lamentando, per contro, “the Decay of Lying”, “lacera il volto o la maschera, mentre la moderna teoria della persona cerca di riparare la breccia”. Ed anche il “Masque” baudelairiano, sublime e terribile allegoria dell’esistenza umana, atteggiato a un “long regard sournois, langoreux et moqueur”, non è che “blasphème de l’art”, “surprise fatal”, “décor suborneur” che cela, al di là del suo bifronte infingimento, “un mal mystérieux”.
2. Come spesso accade, l’ideale discendenza Baudelaire-Wilde, non priva di radici in Poe, intravista, intuita o suggerita dall’ingegno del critico creativo, può essere puntualmente verificata e riscontrata anche sul piano storico e comparativo. D’altro canto, come lo stesso Hartman ha altrove dichiarato, in certi casi “solo procedendo per giustapposizioni abrupte si arriva a meglio cogliere certe essenze del fenomeno poetico” (61).
L’aspetto “criminale”, “satanico” e insieme “sofistico” e “ironico-mimetico” di Baudelaire agì ed esercitò il proprio influsso in misura rilevante sul sistema culturale dell’estetismo inglese (62). Nel 1862 Swinburne, reduce dal soggiorno parigino dell’anno precedente, scrisse il primo articolo sull’autore delle Fleurs apparso in Inghilterra, sottolineandone soprattutto l’aspetto “diabolico” e “ribelle”, e citando significativamente, a tale proposito, il marchese de Sade: “la virtù è una cosa essenzialmente sterile, impotente, limitata, mentre il vizio fa germogliare e fiorire”. I Poems and Ballads pubblicati da Swinburne quattro anni dopo pullulano di riferimenti e di intertesti baudelairiani, e anch’essi, come le Fleurs, furono colpiti dalla censura. E sarà ancora sull’aspetto satanico - unito a quello “sofistico”, tecnico, “critico”, legato all’arte della menzogna, al sortilegio della parola, alla capacità di cristallizzare in bifide e taglienti ambiguità semantiche gli aspetti incongrui, contraddittori e grotteschi del reale - che si concentrerà, nel primo dopoguerra, l’attenzione del Clapton, in uno studio in cui Baudelaire viene definito come “Tragic Sophist”. Per quanto riguarda il campo specifico dell’esercizio della critica intesa stricto sensu, Baudelaire non mancò di esercitare un qualche influsso - finora, che io sappia, non rilevato - sulla concezione wildiana dell’ independent criticism, che, unito alla conoscenza diretta dei simbolisti francesi, potè offrire, come si vedrà più diffusamente in séguito, una qualche suggestione al concetto di critica maturato nell’àmbito dell’estetismo italiano.
Proprio questa indole “demonica” della critica può, forse, aiutare a cogliere un altro aspetto di quella natura “metafisica” che Baudelaire attribuisce ad essa. Come nota ancora Raimondi, per l’autore dei Salons la critica deve “rifarsi al principio originario dell’individualità, della forza nativa e sincera del temperamento, esigendo anche dalla critica ciò che essa è chiamata a riconoscere nel museo delle immagini, secondo la forma che le è propria di una sensibilità appassionata e di una acutezza riflessiva, in un certo senso addirittura ‘metafisica’, poiché colui che fa critica prende atto della propria finitudine e costruisce su di essa l’ipotesi provvisoria e parziale di un universo di relazioni che lo trascende”. La critica “touche à chaque instant à la métaphysique” grazie alla sua capacità di unire soggetto ed oggetto dell’atto critico nell’acronia della letteratura; un’acronia che, peraltro - e l’uso baudelairiano del concetto di romanticismo lo mostra chiaramente -, non cessa un istante di confrontarsi dialetticamente con una diacronia diveniente ed irrequieta. Le due dimensioni della modernità - “le transitoire, le fugitif, le contingent” da un lato, “l’éternel et l’immuable” dall’altro, secondo la notissima definizione del quarto capitolo del Peintre (63) - si incontrano nello spazio magico della pagina, nell’istante assoluto, fulmineo e insieme imperituro, dell’intuizione critica. Proprio nel momento in cui l’individualità del critico incontra quella del poeta, si assimila ad essa ed in essa, per così dire, si aliena, proprio allora si manifesta in tutta la sua pregnanza e in tutta la sua ineludibilità un “universo di relazioni che lo trascende”. E in quest’ultimo si può, forse, intravedere qualcosa di simile a quella che sarà la serriana, perennis humanitas, che, lungi dal risolversi in una forma di anacronistica ed infeconda contemplazione del passato, rappresenta invece il mezzo e il tramite privilegiato attraverso cui il critico “sente”, percepisce e “vive” il testo al di là dello spazio e del tempo, salvo poi tornare alla realtà storica e sociale per renderla partecipe delle proprie scoperte e per agire su di essa, “sfondando” la letteratura. Soggetto ed oggetto dell’operazione ermeneutica vivono allora “una temporalità concreta ed empirica del tutto diversa, ad esempio, dalla storia dialetticamente ordinata nel disegno totalitario dello spirito hegeliano. Ecco perché la critica non deve essere né algebrica né eclettica, ma razionalmente tendenziosa” (64). In questa luce si potranno meglio interpretare alcune provocatorie affermazioni poste in limine al Salon de 1846: “pour être juste, c’est-à-dire pour avoir sa raison d’être, la critique doit être partiale, passionnée, politique, c’est-à-dire faite à un point de vue exclusif, mais au point de vue qui ouvre le plus d’horizons”. Abolendo le distinzioni categoriche e i rigidi schematismi della “critique froide et algébrique” il critico potrà meglio cogliere le individualità dei singoli artisti e, nel contempo, “aprire i più vasti orizzonti”, dischiudendo e svelando innanzi agli occhi del lettore l’”universo di relazioni”, la fitta rete di segrete corrispondenze ed analogie che si cela dietro la superficie delle singole opere. E’, come nota ancora Silvia Pegoraro, “una critica (...) immersa a tutti gli effetti nella vita sociale, attenta ai suoi fermenti e alle sue reazioni, e insieme disposta a mettersi in gioco, a mettere a nudo le proprie idee e a scommettere su di esse, a combattere per esse”.
V - BAUDELAIRE CRITICO E IL SISTEMA DELL’ANALOGIA.
È ancora alla particolare nozione baudelairiana di romanticismo - a un tempo condizione esistenziale e scelta letteraria - che si può forse ricondurre la prima pietra miliare della “storia dei modi diversi con cui fu intesa l’analogia come criterio di giudizio nel suo uso critico”; una storia che, secondo la formulazione anceschiana citata nell’introduzione, è “ancora tutta da scrivere”.
Si tratta di un perfetto esempio di come la poesia, per citare ancora Anceschi, possa “dare nuove strutture alla critica” (65). E’ davvero un peccato che l’autore di Autonomia ed eteronomia dell’arte non abbia dato a questa osservazione più ampio sviluppo; si tratta di una fenomenologia che pone al teorico della letteratura e della critica notevoli problemi (66).
Ad ogni modo, è possibile seguire, per grandi linee, i passaggi attraverso cui si edifica, nel pensiero critico dell’autore dei Salons, un “sistema dell’analogia”, simile a quello, non meno vasto e a suo modo rigoroso, che sarà sviluppato da D’Annunzio, e che anche in D’Annunzio - pur se in proporzioni e con risultati innegabilmente inferiori - non sarà privo di implicazioni sul versante del metodo critico.
Il primo luogo che richiama l’attenzione in tal senso è nel già più volte citato capitolo introduttivo del Salon de 1846. La critica “dilettosa e poetica” ma, nel contempo, “appassionata e politica”, soggettiva, “esclusiva” ma capace, nondimeno, di aprire “i più vasti orizzonti”, si contrappone a quella “fredda ed algebrica”, priva sia di odio che di amore, anche perché quest’ultima “se dépuille volontairement de toute espèce de tempérament”. Ciò esclude a priori ogni forma di “collaborazione” alla poesia, ogni possibile simbiosi o legame “simpatetico” tra soggetto ed oggetto dell’atto critico. Per Baudelaire, invece, “la critique doit accomplir son devoir avec passion; car pour être critique on n’est pas moins homme, et la passion rapproche les tempéraments analogues, et soulève la raison à des hauteurs nouvelles”. Ecco spuntare, per la prima volta, il concetto di analogia, in un orizzonte teorico e terminologico di cui ben si ricorderanno i “nobili spiriti” dell’estetismo italiano; e l’estetismo riprenderà da Baudelaire, con suggestive implicazioni, anche l’abolizione della distinzione, tipica della critica accademica, tra disegnatori e coloristi, con un intento polemico che nel testo baudelairiano è confinato in una nota a piè di pagina. “La critique actuelle (...) recommandera toujours le dessin aux coloristes et la couleur aux dessinateurs”; l’autore propende, invece, per una critica attenta ai “moyens et procédés tirés des ouvrages eux-mêmes”, ai vari aspetti, anche materiali e tecnici, di una “razionalità estetica” sempre immanente all’opera e al suo farsi, non ipostatizzata in rigidi sistemi normativi. Si preciserà, nel dominio di questo pensiero analogico che si traduce e si esprime, con assoluta naturalezza, in un metaforismo denso e immaginoso, la nozione di un colore che può, a seconda dei casi, “circoscrivere” ma anche “circonfondere” masse e contorni, definirli e scandirli attraverso campiture nette e ben distinte ma anche attenuarli, eluderli, sfumarli (67). Potrà esistere, allora, un colore che “disegna”, e che è lecito attendersi possa suscitare nel professeur-juré un disappunto simile a quello di Winckelmann davanti al manufatto cinese.
Baudelaire lascia intendere poi un altro aspetto di questa critica analogica, prendendo a pretesto un’affermazione stendhaliana: “Stendhal a dit quelque part: ‘la peinture n’est que de la morale construite!’ - Que vous entendiez ce mot de morale dans un sens plus ou moins libéral, on en peut dire autant de tous les arts”. Un pretestuoso riferimento al concetto di morale, diventa strumento per profilare, un ventennio prima dell’inizio del grande fenomeno del wagnerismo letterario, il grande sogno simbolista della sinergia delle arti. Ci si cala, dunque, in una dimensione che coinvolge anche il dominio della letteratura, e in cui il concetto di “critica” tende ad estendersi ai più vari àmbiti, abolendo ogni specificazione e ogni distinzione specialistica. Poiché le arti “sont toujours le beau exprimé par le sentiment, la passion et la rêverie de chacun, c’est-à-dire la varieté dans l’unité, ou les faces diverses de l’absolu, - la critique touche à chaque instant à la métaphysique”. Ci si riallaccia così, con le implicazioni cui già si è accennato, al concetto di critica come metafisica, e all’idea, espressa poche righe dopo, di un grande artista che, al cospetto di questa “critica analogica”, deve essere in grado di esprimere “le plus de romantisme possible”.
Si è già accennato ai caratteri che contraddistinguono, sul piano concettuale, questa categoria e quest’idea di romanticismo “assoluto” e “metafisico”; ed è un evidente processo analogico, legato sempre a un’idea di espressione artistica “totale” o “sinestetica”, quello attraverso il quale vengono accostati ed esposti i caratteri di questo romanticismo: “intimité, spiritualité, couleur, aspiration vers l’infini, exprimées par tous les moyens que contiennent les arts”. Associando condizione emotiva, percezione sensoriale e tensione anagogica attraverso l’accostamento asindetico e abrupto dei sostantivi, l’autore rivela già, in parte, di essere animato da quel “génie de l’improprieté” che prima Brunetière poi Auerbach gli riconosceranno, e che si manifesterà soprattutto nella scrittura poetica. “Il suit de là qu’il y a une contradiction évidente entre le romantisme et les oeuvres de ses principaux sectaires”, degli esponenti di quell’insopportabile “rococo du romantisme” di cui già si è parlato. Non per nulla, in uno scritto quasi coevo al Salon de 1846, Le Musée classique du Bazar Bonne-Nouvelle, l’autore contrappone all’”austère filiation du romantisme, (...) qui vit surtout par la pensée et par l’âme”, la “fausse école Romantique”, che si trastulla tra “poncif” e “rococo”.
È poi interessante, poche righe dopo, vedere come l’uso dell’analogia si estenda dal campo del giudizio critico a quello, per così dire, “storiografico”: è l’impressione visiva ed immediata del colore, pittorico e naturale, unitamente all’attenta considerazione, di ascendenza vagamente illuminista, degli influssi che l’ambiente geografico e il paesaggio possono esercitare sull’ispirazione dei pittori, a presiedere alle assimilazioni e alle distinzioni che la mente del critico è in grado di compiere, definendo i diversi àmbiti tramite l’accostamento dei “tempéraments analogues” e prescindendo dalle suddivisioni delle scuole pittoriche nazionali: “le romantisme est fils du Nord, et le Nord est coloriste; les rêves et les féeries sont enfants de la brume. L’Angleterre, cette patrie des coloristes exaspérés, la Flandre, la moitié de la France, sont plongées dans les brouillards; Venise elle-même trempe dans les lagunes. Quant aux peintres espagnols, ils sont plutôt contrastés que coloristes”. Ed è il colpo d’ala della metafora, imperniata su di una suggestiva ed immaginosa “icona parentale” (“i sogni e gli incantesimi sono figli della bruma”), a sintetizzare il nucleo argomentativo di tutto il ragionamento.
E’ poi ancora il pensiero analogico, supportato sempre dall’impressione cromatica, ad agire sul piano “storiografico”, muovendosi stavolta nel dominio del tempo, più che dello spazio: “Raphael, quelque pur qu’il soit, n’est qu’un esprit matériel sans cesse à la recherche du solide; mais cette canaille de Rembrandt est un puissant idéaliste qui fait rêver et deviner au delà. (...) Cependant Rembrandt n’est pas un pur coloriste, mais un harmoniste; combien l’effet sera donc nouveau et le romantisme adorable, si un puissant coloriste nous rend nos sentiments et nos rêves les plus chers avec une couleur appropriée aux sujets”. L’accostamento avviene tra due pittori appartenenti a tradizioni nazionali e anche a secoli diversi, per quanto Baudelaire colga un’ideale continuità realmente esistente tra il rinascimento italiano e i fiamminghi. Rembrant viene comunque definito come “armonista del colore”, su di una linea metaforica che già associa immagine e suono, secondo un processo che culminerà, intorno al 1855-6, nella fase più matura della grande dottrina delle corrispondenze e delle sinestesie. Come nota ancora Silvia Pegoraro, “nel pensiero dell’uomo, che si estrinseca essenzialmente come linguaggio”, l’analogia “si realizza essenzialmente come sinestesia, metaforico scambio intersensoriale, per cui ad un oggetto percepibile con determinati sensi vengono attribuite qualità percepibili con sensi diversi”. Così la musica può tradurre il colore, e il colore la musica.
Ad agire e “funzionare” sul piano storiografico è poi ancora la categoria del “romantisme”, ideale e quasi metastorico trait d’union tra Raffaello e Rembrandt, al di là o al di sopra degli influssi specifici e documentabili e delle precise determinazioni cronologiche. Sembra, dunque, che il pensiero critico di Baudelaire ruoti, in larga parte, intorno a questa categoria, opportunamente decontestualizzata, “decostruita” e rifunzionalizzata, come già si è visto.
Il “sistema dell’analogia” si precisa ulteriormente nell’àmbito della “méthode de critique” definita nelle pagine introduttive del Salon de 1855; non a caso, come si è accennato, proprio nel 1855-6 si definisce nel modo più ampio e più maturo la poetica delle correspondances. “Il est peu d’occupations aussi intéressantes (...) pour un critique, pour un rêveur dont l’esprit est tourné à la generalisation aussi bien qu’à l’étude des détails, (...) que la comparaison des nations et de leurs produits respectifs”. Si può trarre di qui, innanzitutto, un altro tassello per comporre i contorni della definizione baudelairiana della critica e del critico: un critico “sognatore”, le cui fervide facoltà immaginative possono procedere, in tutta libertà, al “paragone” fra le singole individualità e i singoli “dettagli”, procedendo alla “generalizzazione”. Proprio sotto la spinta di queste “instigations de l’immense analogie universelle”, si può essere portati a credere che “certaines nations (...) aient été préparées et éduquées par la Providence pour un bout déterminé”; a muovere i fili di questa sorta di “storia ideale eterna” è Dio, “CELUI qui est indéfinissable”, e tutte le nazioni, in questo disegno universale, prestano l’una all’altra “un miraculeux secors (...) dans l’harmonie de l’univers”. Non è facile districare e distinguere tutte le diverse suggestioni culturali che possono avere influito sull’autore nella definizione di questo concetto di Provvidenza. L’idea di una universale pronoia che governa e indirizza i destini degli uomini era presente già nel pensiero greco, in particolare negli Stoici; suggestioni più immediate e più prossime potevano giungere all’autore dei Salons dallo storicismo dei romantici tedeschi, o, com’è ancor più probabile, del pensiero di de Maistre.
Ma il concetto che più interessa a Baudelaire, anche in vista dei suoi usi in sede critica, è quello di “immense analogie universelle”, specchio e conseguenza dell’”harmonie de l’univers”. Segue, poche righe dopo, l’esempio, poi divenuto famoso, del “Winckelmann moderno”, assunto a paradigma di teorico “classicista”, ostile in tutti i modi all’universalistico e metafisico “romanticismo” di Baudelaire: incapace di cogliere le segrete corrispondenze e le profonde risonanze dell’”armonia universale”, che accomuna tutti i popoli e tutte le nazioni nel supremo disegno della provvidenza, egli non saprebbe comprendere il fascino e l’incanto di un “prodotto cinese”, “produit étrange, bizarre, contourné dans sa forme, intense par sa couleur, et quelquefois délicat jusqu’à l’évanouissement”. E’ sempre la visione che coglie ed assapora l’incanto di questo immaginario manufatto, “intense par la couleur”. Il colore, come si è visto poc’anzi, funge quasi da elemento mediatore ed unificante della sintesi analogica; ed è l’immaginazione poetica, più che l’analisi critica, a prospettare la possibilità che l’oggetto “svanisca”, con un effetto già quasi surrealista. Il manufatto cinese è “un échantillon de la beauté universelle”; il Winckelmann moderno non riesce a scorgerne il bagliore perché obnubilato dalle sue stesse certezze di “professeur-juré d’esthétique”. “La scoperta di un concetto dell’arte tendeva inevitabilmente ed immediatamente, secondo una ben nota dialettica, ad ipostatizzarsi, ad universalizzarsi, ad assumere una validità obbiettiva che gli desse l’apparenza di un valore eterno, come difesa di fronte al continuo flusso della vita, che presto svaluta il significato di quei concetti stessi” (68). Il pensiero analogico, invece, in sintonia con l’”immensa analogia universale”, cerca di cogliere proprio il “continuo flusso della vita”, con tutte le infinite, variegate ed imprevedibili epifanie del bello. E’ necessario, a tal fine, che il critico “opère en lui-même une transformation qui tient du mystére, et que, par un phénomène de la volonté agissant sur l’imagination, il apprenne de lui-même à participer au milieu qui a donné naissance à cette floraison insolite”; l ’interpretandum agisce o reagisce sull’ interpretans calibrandone o mutandone, di volta in volta, gli schemi percettivi e i parametri di valutazione e di giudizio. Il critico deve, per questa via, essere toccato dalla “grâce divine du cosmopolitisme”, così da superare l’indole nazionale, se non nazionalistica, di certo storicismo romantico; un cosmopolitismo che in qualche modo prefigura il Nuovo Ellenismo e il Socialismo di Wilde. “Nel 1846 Baudelaire aveva considerato in particolar modo le variazioni della bellezza nel tempo; la difesa del beau moderne è incentrata su questo. Qui con il suo cosmopolitisme egli pone l’accento sulle variazioni della bellezza nello spazio. Sia la cronologia che la geografia contribuiscono ai caratteri, perennemente mutevoli, del bello” (69). Questa critica, nelle sue implicazioni “storiografiche”, è capace di superare ogni rigida suddivisione spazio-temporale, cogliendo d’un balzo l’essenziale.
Nel passo appena citato compare poi la nozione di “imagination”, che è, com’è noto, centrale nell’estetica baudelairiana. Si può, forse, integrare questo luogo con un passo delle Notes nouvelles sur Edgar Poe. “L’ imagination”, vi si legge, “est une qualité quasi divine qui perçoit tout d’abord, en dehors des méthodes philosophiques, les rapports intimes et secrets des choses, les correspondances et les analogies”. Questa critica, che usa spregiudicatamente la facoltà dell’immaginazione, opera “al di fuori dei metodi filosofici”. Il critico-poeta si contrappone dunque nettamente al critico-filosofo, che rappresenta, al contrario, “l’esempio più evidente di Critico Assoluto che fonda la propria assolutezza sulle garanzie del sistema speculativo” (70).
La bellezza universale - continua il testo del Salon de 1855 - può essere pienamente assaporata soprattutto dai “voyageurs solitaires”, figure, forse, ancora alonate da qualche superstite traccia di un sentimentalismo romantico un po’ evanescente ed oleografico; ad ogni modo, “aucun voile scolaire, aucun paradoxe universitaire, aucune utopie pédagogique, ne se sont interposés entre eux et la complexe verité”. Il dogmatismo cocciuto e miope della cultura accademica viene significativamente affiancato alle “utopie pedagogiche”, agli intenti moralistici e alle strumentalizzazioni propagandistiche da cui l’arte autonoma, e la critica che la fiancheggia e la accompagna, vogliono mantenersi rigorosamente immuni. “Si, au lieu d’un pédagogue, je prends un homme du monde” - e si noti che “uomo di mondo”, oltre che “homme des foules” e “enfant”, dovrà essere anche il Peintre de la vie moderne -, egli sarà in grado di istituire, tra sé e la “complessa verità”, un rapporto di “sympathie”, di relazione stretta, immediata, “simpatetica”; una sympatheia intesa in senso etimologico, che sarà “si vive, si pénétrante, qu’elle créera en lui un monde nouveau d’idées, monde qui fera partie intégrante de lui-même, et qui l’accompagnera, sous la forme des souvenirs, jusqu’à la mort”. Accanto all’idea di un rapporto “simpatetico” con la realtà e con il bello, è già accennata, qui, e proprio in riferimento alla “relazione critica”, la particolare concezione baudelairiana dei processi mnemonici ed anamnestici, che, com’è noto, per molti aspetti anticipa quella che sarà la proustiana “mémoire involontaire”, altra forma del pensiero analogico. Si può forse andare oltre, giungendo a scorgere, in queste “ricordanze” strettamente legate agli echi e ai riverberi di una forte impressione sensoriale, uno dei possibili fondamenti teorici della critica intesa come autobiografia, secondo la definizione teorica che si svilupperà poi alla fine del secolo, tra l’Anatole France della Vie littéraire e il Wilde della prefazione a The Picture. Se l’esperienza e la percezione del bello restano legate, nella memoria individuale, ad una particolare situazione o ad un dato evento, allora la rievocazione e la rappresentazione del bello potranno coincidere od accompagnarsi alla narrazione o alla descrizione di quella situazione e di quell’evento, in tutto il loro carattere di soggettiva, biografica contingenza. Non per nulla, poche pagine oltre, Baudelaire loderà provocatoriamente l’assoluto soggettivismo critico di Balzac, che ha offerto, checché se ne dica, “une excellente leçon de critique”: “il m’arrivera souvent d’apprecier un tableau uniquement par la somme d’idées ou de rêveries qu’il apportera dans mon esprit”. E si arriva, anche in questo modo, ad una forma di analogia: “Je ne connais pas de problème plus confondant pour le pédantisme et le philosophisme, que de savoir en vertu de quelle loi les artistes les plus opposés par leur méthode évoquent les mêmes idées et agitent en nous des sentiments analogues”. Il colpo d’ala dell’analogia, abolendo le fallaci distinzioni dogmatiche, sgombra il terreno da ogni forma di pedantismo. In questo senso il bello universale è toujours bizarre, perché sempre smentisce i filosofemi e i dogmi dei “sophistes trop fiers qui ont pris leur science dans les livres”, e non dalla realtà, sempre cangiante ed eternamente mutevole, dei fenomeni e delle sensazioni.
La percezione di questo bello, che coinvolge tutte le facoltà sensoriali e mnemoniche del soggetto percipiente, non può che identificarsi con una sorta di “sinestesia totale”. Non appena il “viaggiatore solitario”, che prima l’autore aveva identificato con il critico ideale, si porrà in sintonia o in “simpatia” con la multiforme varietà del reale, “(...) ces fleurs mystérieuses dont la couleur profonde entre dans l’ oeil despotiquement, pendant que leur forme taquine le regard, ces fruits dont le goût trompe et deplace le sens, et révèle au palais des idées qui appartiennent à l’ odorat, tout ce monde des harmonies nouvelles entrera lentement en lui, le pénétrera patiemment (...); toute cette vitalité inconnue sera ajoutée à sa vitalité propre; quelques milliers d’idées et de sensations enrichiront son dictionnaire de mortel”; ed è addirittura possibile che egli, in un impeto di militante furia iconoclasta, “brûle ce qu’il avait adoré, et qu’il adore ce qu’il avait brûlé”. Le impressioni strettamente sensoriali, legate alla natura materiale dell’oggetto percepito e pertinenti a vista, gusto, odorato, si mescidano indistintamente alle attività e alle facoltà che riguardano l’intelletto. Il “gusto” rivela al “palato” delle idee che appartengono all’odorato, in un processo di associazione sinestetica da cui non restano esclusi neppure i concetti astratti, i prodotti e i materiali del pensiero; si crea un “mondo di nuove armonie”, a cui non sono estranee suggestioni metaforiche che pertengono all’àmbito della musica. Si dice, inoltre, che la vasta gamma di sensazioni offerta dalla natura darà al poeta e al critico un più ricco “vocabolario”, si tradurrà cioè in parole, in immagini, in metafore; è in questo senso, forse, che si dovrà intendere, nel quasi coevo, celebre sonetto Correspondances, l’immagine dei “vivants piliers” che “Laissent parfois sortir des confuses paroles”. La sinestesia è una forma di conoscenza del reale che si traduce, in modo molto naturale, in linguaggio, e che del linguaggio condiziona e determina forme e modi: “il compito del poeta sarà (...), secondo il senso divinatorio che è in lui, di percepire le analogie e le corrispondenze che assumono l’aspetto letterario”, la veste stilistica “della metafora, del simbolo, del paragone e dell’allegoria” (71). Il linguaggio, dal canto suo, è in tal modo investito, proprio nell’ottica e ai fini della sua funzione critica, di una profonda missione e di un assoluto valore conoscitivo. Poche righe dopo il passo appena citato, questa linea metaforica sfocia in un’immagine di un’intensità e di un’arditezza che fanno assumere alla pagina del critico il tono e lo spessore espressivo del “poème en prose”: il pedantismo dei professeurs-jurés è “science barbouillée d’encre, goût batard, plus barbare que les barbares, qui a oublié la couleur du ciel, la forme du végétal, le mouvement et l’odeur de l’animalité, et dont les doigts crispés, paralysés par la plume, ne peuvent plus courir avec agilité sur l’immense clavier des correspondances!”. Sono, letteralmente, le anchilosate “dita della scienza” che non possono più correre sull’”immensa tastiera delle corrispondenze”; metafora, quest’ultima, che sviluppa ed amplifica quella precedente dell’”armonia” tra le percezioni e le idee. Un libero e sfrenato metaforismo, inteso a dare evidenza materiale e spessore sensoriale a concetti teorici. Anche la sintassi - caso raro in un prosatore solitamente impeccabile come Baudelaire - finisce per subire una violenza quasi “mallarmeana”, visto che da un soggetto al plurale (scienza e gusto “plus barbares que les les barbares”) viene fatto dipendere un verbo al singolare (“a oublié”).
E la metafora del “clavier”, unita a quella del “dictionnaire”, lascia intendere che il surnaturalisme è sempre all’opera, e che l’estasiata contemplazione del bello naturale non mette affatto in dubbio e non indebolisce la funzionalità e l’efficacia degli strumenti dell’artificio umano. Da un lato le dita del critico devono essere abbastanza agili per poter correre sull’”immensa tastiera delle corrispondenze”; dall’altro le sensazioni offerte dalla natura si traducono in linguaggio, diventano linguaggio, vocaboli, espressioni, figure di pensiero e di parola, così da “arricchire il dizionario” tanto dello spettatore che ammira uno scenario naturale quanto del fruitore di un’opera d’arte. La grandiosa immagine mallarmeana del “pianoforte delle parole” intreccerà e fonderà queste due linee di metaforizzazione, avviando nel contempo la “lingua mortale” del poeta e del critico verso il limitare del “désastre obscur”, della totale ed irrimediabile evanescenza, dell’inesorabile dileguo, dell’ammutolimento e dell’annichilimento.
Proprio l’immagine dell’”immensa tastiera delle corrispondenze” introduce il famoso passo sulla definizione di un “système” aperto, duttile e cangiante, che il poeta cerca incessantemente di definire e di cui egli stesso sembra, nel contempo, avere timore. “L’insensé doctrinaire du Beau (...), enfermé dans l’aveuglante forteresse de son système, (...) blasphémerait la vie et la nature”. Il “petit temple scientifique” in cui vengono concepite le “règles utopiques” che il “dottrinario del bello” cerca assurdamente di applicare alla realtà, si contrappone, implicitamente, a quel “temple” che è la natura, e i cui “viventi pilastri” emettono le “confuse parole” che vanno a costituire la “tavolozza” o la “tastiera” di cui si avvalgono tanto il critico quanto il poeta. Il sistema di questi ultimi “est une espèce de damnation qui nous pousse à une abjuration perpétuelle; il en faut toujours inventer un autre, et cette fatigue est un cruel châtiment. (...) Pour échapper a l’horreur de ces apostasies philosophiques, je me suis orgueilleusement résigné à la modestie: je me suis contenté de sentir; je suis revenu chercher un asile dans l’impeccable naïveté”. Questa “naïveté”, elevata a condizione necessaria per l’indagine, la speculazione e il giudizio estetico, andrà forse già intesa nei termini che si preciseranno nel Peintre, e a cui si è fatto riferimento nelle pagine precedenti: una “naturalezza” e una “spontaneità” profondamente intrise di “spirito analitico”, e un’infanzia ritrovata per mezzo della volontà; una “naiveté” legata all’idea di “enfance” e a quella di “imagination”, la quale ultima, come si è visto, si erge a strumento principe dell’esercizio del pensiero analogico, e dunque della critica. All’ideale di una critica “piacevole e poetica” fanno riscontro una “naturalezza” e un’”innocenza” ricostruite attraverso la volontà e l’artificio; e il critico-poeta prospettato da Baudelaire, insieme “fanciullo” e “uomo di mondo”, non è, in questo, molto dissimile da quello che sarà il pirandelliano “critico fantastico” (72).
“Si les chargées d’exprimer le beau se conformaient aux régles des professeurs-jurés”, continua Baudelaire, “le beau lui-même disparaîtrait de la terre, puisque tous les types, toutes les idées, tous les sensations se confondraient dans une vaste unité, monotone et impersonnelle, immense comme l’ennui et le néant”. Basta soffermarsi per un attimo sull’espressione che conclude il passo appena citato, e considerare l’importanza, il peso e la pregnanza espressiva che parole e concetti come “ennui” e “néant” rivestono nella poesia delle Fleurs, per comprendere il legame strettissimo che unisce la poesia alla critica, scandite da uno stesso duplice ed unitario movimento. Proprio tra il 1855 e il 1856, non a caso, la dottrina delle correspondances raggiunge la piena maturazione teorica. La realtà, sotto gli occhi indifferenti del pedante, apparirebbe come una “vasta unità”; quest’ultima immagine richiama in modo lampante la “ténébreuse et profonde unité / Vaste comme la nuit et comme la clarté” di cui il poeta parla nel suo testo più famoso. Ma l’”unità” di Correspondances rappresenta la suprema coincidentia oppositorum, la sublime conciliazione, nella sintesi analogica, delle antinomie archetipiche, e la fusione sinestetica di profumi, colori e suoni; l’”unità” a cui i filosofemi dei professeurs-jurés costringono e forzano i proteiformi e cangianti aspetti della realtà e del bello è, invece, “monotona ed impersonale”: una diversa e contraria risposta, assolutamente inadeguata e riduttiva, ad una medesima esigenza di sintesi suprema, di totalizzante unità della conoscenza.
In questo senso il professeur-juré appare all’autore come una “espèce de tyran-mandarin, (...) un impie qui se sostitue à Dieu”. Questo concetto può forse essere meglio chiarito ricorrendo ad una definizione data dall’autore quattro anni dopo, nel terzo capitolo del Salon de 1859 (73). Si è già visto come sia proprio l’”imagination”, nella peculiare accezione baudelairiana, a costituire lo strumento conoscitivo che è in grado di cogliere le segrete analogie; essa, proprio per questo, si attesta qui come “reine des facultés”, non solo facoltà percettiva e conoscitiva per antonomasia, ma addirittura strumento o potenza attraverso cui il mondo è stato creato: “comme l’imagination a creé le monde, elle le gouverne”. L’analogia e l’immaginazione sono lo strumento attraverso cui il pensiero divino si è manifestato, all’alba dei tempi, nella creazione; attraverso di esse, specularmente, il pensiero umano può riflettersi nel creato. Il pedante, il professore-giurato, il Critico Assoluto “si sostituiscono a Dio” in quanto, con la rigidità dei loro schemi di percezione e di interpretazione dei fatti artistici così come della realtà, occultano e velano la fitta rete di analogie e di corrispondenze che permea ed innerva il creato così come l’ingegno umano.
Come scrisse Ortega Y Gasset, “la metafora è la forza più grande che l’uomo possiede. Essa confina con l’incantesimo ed è come uno strumento dimenticato da Dio dentro le sue creature, come lo strumento che il chirurgo distratto dimentica nel corpo del paziente”. In queste parole sono descritte molto efficacemente quelle prerogative che fanno della metafora il più naturale ed efficace strumento espressivo per fare emergere alla luce della coscienza, attraverso linguaggio, le analogie che giacciono, ancora latenti, nel cuore delle cose. “Forma linguistica della universalis analogia, eclissi, ma anche metamorfosi provvisoria e mascherata della comparazione, la metafora è, della lingua poetica” - così come della “critique poétique” -, “il corpo desiderante, l’intermittenza, di memoria e d’oblio, che trova un varco di parole, lo scintillio d’una superficie marina il cui fondo (...) si sottrae allo sguardo” (74).
In questo senso, e attraverso queste soluzioni formali, “la critica, ossia lo sguardo che sollecita le cose per intenderne il senso misterioso e interpretarne le corrispondenze e gli antagonismi, diventa”, come ha sottolineato Fausto Curi, “(...) scrittura che si impossessa delle cose e sostituisce al loro corpo opaco e silenzioso il loro riverbero, la traccia netta e luminosa di una presenza abolita e intensificata. Qui nasce la grande critica moderna, l’ermeneutica (...) che analizzando un testo, una musica o un dipinto, un’emozione o un paesaggio, un fatto o un volto, si fa carne delle parole e vita del linguaggio” (75). Attraverso il consapevole e lucido incantesimo dell’analogia, e l’occulta, impalpabile alchimia verbale della metafora, la parola del critico coglie il “senso misterioso delle cose”, il segreto gioco, la quasi alchemica energia di attrazione e repulsione che ne governa “corrispondenze” e “antagonismi”; ed è attraverso l’analogia e l’immaginazione, “regina delle facoltà”, e attraverso il lampo della reminiscenza che le impressioni sensoriali e le emozioni estetiche si fanno “carne” e “vita”, vengono profondamente assimilate ed interiorizzate dal soggetto dell’atto critico: “la sympathie (...) créera en lui un monde nouveau d’idées, monde qui fera partie intégrante de lui-même, et qui l’accompagnera (...) jusqu’à la mort”. “Le spectateur opère en lui-même une transformation qui tient du mystère”, e che ha luogo “par un phenomène de la volonté agissant sur l’imagination”. L’immedesimazione simpatetica tra il soggetto e l’oggetto dell’esperienza estetica, che qui finisce per coinvolgere il dominio della “percezione” su di un piano generale, investe l’individuo in modo totalizzante, provocando un intrinseco e sostanziale mutamento nel soggetto percipiente, e facendo sì che la critica, e più in generale la percezione e l’esperienza, possano veramente diventare “carne delle parole” e “vita del linguaggio”, una volta squarciato ogni “velo scolastico”, e abbattute le “règles” concepite ed artificiosamente elaborate “dans un petit temple scientifique”; un “piccolo tempio” che, come si è detto, sembra implicitamente contrapporsi a quel ben più vasto affascinante “tempio” che è, in Correspondances, la Natura stessa, e i cui “viventi pilastri” emettono a volte “confuse parole”. Per quanto a Baudelaire - come, prima di lui, a Poe - non siano ignoti, come si è accennato, il mesmerismo, la frenologia, la fisiologia, è chiaro che la scienza, per potersi conciliare e per poter anzi supportare la sua concezione della letteratura e della critica, deve spogliarsi di ogni “velo scolastico”, di ogni “paradosso universitario”, di ogni dogmatica sclerotizzazione.
La “vitalità sconosciuta” insita nella natura va ad assommarsi a quella innata del critico e dello spettatore e a farne parte integrante, lasciando una traccia indelebile. Tutto ciò accade, comunque, grazie ad un “fenomeno della volontà che agisce sull’immaginazione”: questo superiore controllo della volontà “ragiona” il “dérèglement de tous les sens”, e garantisce l’equilibrio e la lucidità della conoscenza; e sorge spontaneo il richiamo alla definizione del genio come “enfance retrouvée à volonté”. Sei anni dopo, nel saggio su Hugo (76), il poeta, forse alludendo vagamente, almeno sul piano concettuale, all’antichissima topica della “leggibilità del mondo”, definirà il poeta come colui al quale l’umanità demanda il compito di tradurre i già quasi mallarmeani “geroglifici” di cui è gremita ed ornata la superficie delle cose, e di decifrare i simboli, che “ne sont obscurs que d’une manière relative”. “Qu’est-ce qu’un poète (je prends le mot dans son acception la plus large), si ce n’est un traducteur, un déchiffreur?”. Già i pilastri del tempio-Natura emettevano “parole”, per quanto “confuse”, non ancora pienamente decifrate: una sorta di messaggio in codice o segnale criptato, di natura, comunque, essenzialmente linguistica, e dunque intrinsecamente aperto ad ogni possibile “decifrazione” o formalizzazione verbale, da parte del poeta e del critico, nel linguaggio, per mezzo del linguaggio e della riflessione su di esso.
Per avere chiara l’idea della natura essenzialmente linguistica del sistema delle corrispondenze - sorta di “parola implicita” a cui il verso del poeta e la pagina del critico danno piena e compiuta espressione - si potrà ricorrere alle stupende pagine in cui Huysmans, nel decimo capitolo di À rebours, si sofferma sulle inebrianti “strofe aromatiche” di alcune Fleurs: l’artista della profumeria è capace di “decifrare” la “lingua variata” delle impressioni olfattive, di “studiare la grammatica, comprendere la sintassi degli odori”; il poeta, specularmente, riesce a restituire, attraverso l’”odorante orchestrazione del poema”, tutta l’inebriante pienezza della sinestesia.
La “larga accezione” in cui, nel luogo prima citato, Baudelaire intende ed usa il termine ed il concetto di poeta sembra suggerire che per “poeta” si possa intendere anche il critico, purché ovviamente la sua critica sia “poetica”. “Chez les excellents poètes il n’y a pas de métaphore, de comparaison ou d’épithète qui ne soit d’une adaptation mathématiquement exacte (...), parce que ces comparaisons, ces métaphores et ces épithètes sont puisées dans l’inépuisable fonds de l’universelle analogie”. Quest’ultima enunciazione rivela, innanzitutto, una lucida e profonda consapevolezza di come il linguaggio letterario, inteso nei suoi peculiari e concreti strumenti tecnici e retorici (“epiteti”, “metafore”, “similitudini”), possa “decifrare” e “tradurre” per tutti gli uomini le segrete analogie che si celano nel cuore oscuro della natura; e si è da tempo sottolineata l’importanza rivestita, nel pensiero estetico dell’autore, dal concetto di “traduzione” di un dato messaggio o di un data sensazione da un linguaggio a un altro, e soprattutto dai linguaggi - suoni, colori, profumi - al linguaggio verbale, letterario, poetico e critico. Nel contempo, il poeta riafferma, su tutti i processi di percezione e di espressione, il dominio della volontà, il controllo della “razionalità estetica”, stavolta sotto forma di una “adaptation mathématiquement exacte” non ben specificata, ma evidentemente riferita alla “sintonia”, “matematicamente” rilevata e programmata, tra le parole e le cose, e alla capacità che il linguaggio ha di cogliere la segreta essenza del reale tramite la metafora, la similitudine e tutte le altre “forme linguistiche della universalis analogia”.
Il corso tortuoso ed imprevedibile del baudelairiano “fiume a tratti sotterraneo” riesce, impercettibilmente, passo dopo passo, attraverso arditi ma efficacissimi passaggi argomentativi, a condurre per mano il lettore dal campo specifico della critica (“il est peu d’occupation aussi intéressants (...) pour un critique”, esordisce il primo capitolo del Salon de 1855) a quello più generale della percezione, dell’esperienza e della conoscenza, con l’esempio, o quasi l’apologo, del “viaggiatore solitario” posto innanzi al multiforme e cangiante spettacolo di una natura bizzarra, esotica, gravida di sollecitazioni e di misteri. Anche per questa via la critica sfiora la metafisica.
VI - BAUDELAIRE E POE. FENOMENOLOGIA DI UN’IDENTIFICAZIONE
1. “J’ai trouvé un auteur américain qui a excité en moi une incroyable symphathie”. Così scriveva Baudelaire in una lettera alla madre nel 1852 (77), alludendo ovviamente a Poe. L’incontro con le opere dello scrittore americano era avvenuto, per esplicita indicazione dello stesso Baudelaire, nel “1846 ou 1847”, ed era stato inizialmente limitato a “quelques fragments”, tali però da suscitare immediatamente “une commotion singulière”; in seguito, la conoscenza delle opere di Poe si sarebbe ampliata ed approfondita, fino a sfociare nella famosa serie di traduzioni, apparse tra il ’49 e il ’57. Si è sottolineato che una cospicua parte del “sistema” dell’estetica baudelairiana aveva, a quella data, già preso forma; erano infatti già apparsi i Salons del 1845 e del 1846. La fondamentale concezione di una “critique amusante et poétique”, affidata per la prima volta al proemio del Salon de 1846, si sviluppò, nella mente del giovane critico, indipendentemente dal’incontro con gli scritti teorici di Poe; non è peraltro da escludere, come si vedrà tra breve, che questi ultimi possano aver influito sull’evoluzione e sulle successive articolazioni teoriche della sua idea di critica.
L’identificazione di Baudelaire con Poe nasce e si manifesta, in primo luogo, nell’opera di traduzione compiuta dal poeta francese. L’epistolario rivela in modo assai efficace le ansie, le trepidazioni, l’inesauribile passione e dedizione che contraddistinsero il lavoro, coinvolgente e gratificante malgrado le tante “lacunes” e i tanti “passages littéralement intraduisables” in cui il poeta, di tanto in tanto, s’imbatteva.
La traduzione - specialmente se, come appunto quella baudelairiana, amorevole ed appassionata ma, nel contempo, laboriosa e meditata - appare come un atto intrinsecamente ed essenzialmente “critico”, in quanto consapevole, assidua e dinamica operazione che nasce e si sviluppa da e attraverso una forma di riflessione e di azione sulle lingue e sul linguaggio. E’ proprio attraverso la traduzione che trova la più compiuta espressione quella “symphathie” di cui parla la lettera alla madre, “simpatia” che si può forse intendere in senso pregnante, etimologico, come sympatheia che unisce soggetto ed oggetto in una fusione intima e totalizzante: quella stessa “symphathie”, “si vive, si pénétrante”, che nel passo citato del Salon de 1855 unisce l’”homme du monde” alla “complessa verità”. Non per nulla, come scriveva Andrew Lang nelle fittizie Letters to Dead Authors, a Poe era toccato “il successo più alto”: quello di una “perfectly symphatetic translation”.
“Riottenere - nel movimento linguistico - foggiata la pura lingua, è il grande ed unico potere della traduzione. In questa pura lingua, che più nulla intende e più nulla esprime, ma come parola priva di espressione e creativa è l’inteso in tutte le lingue, ogni comunicazione, ogni significato e ogni intenzione pervengono ad una sfera in cui sono destinati ad estinguersi” (78). Il sogno benjaminiano di una lingua pura, assoluta, meta e miraggio di quella “redenzione” del testo tradotto di cui il traduttore deve farsi tramite, fu già genialmente profetizzato proprio dai poeti della tradizione simbolista. Scriveva Rimbaud nella lettera a Paul Demeny: “toute parole étant idée, le temps d’un langage universel viendra! Il faut etre académicien, - plus mort qu’un fossile, - pour parfaire un dictionnaire”. La polemica contro la cultura accademica, che agli occhi di Rimbaud aveva già i nomi dei Taine e dei Sainte-Beuve, assumeva anche questa forma, quella del “mistico” vagheggiamento di una lingua universale e pura. Mallarmé, di lì a pochi anni, avrebbe scritto che il verso, pur se contorto e devastato dalla “crisi” che lo scuote e lo tormenta, “da molti vocaboli fa una parola totale, nuova, estranea alla lingua e come incantatoria”, e in tal modo completa “l’isolamento della parola” - quella “parola singola” che anche per Benjamin è, in luogo della proposizione, “elemento originario del traduttore”, e che diverrà, per altra via, la “parola” luminosa e limpida di tante poetiche postsimboliste, da Ungaretti a Luzi.
Piace pensare - anche se solo per un’ipotesi teorica - che qualcosa di simile a questa lingua pura e redenta abbia costituito il medium dell’identificazione simpatetica - una testimonianza di Asselineau parlava addirittura di “possessione” - tra Poe e Baudelaire. Quest’ultima, peraltro, non si annulla e non sfuma nell’assoluta, mistica ineffabilità della “sfera” in cui tutti i significati “sono destinati ad estinguersi”; essa è, al contrario, profondamente legata al rapporto tra due posizioni storiche diverse, ma sotto vari aspetti speculari.
2. Continua Andrew Lang nella sua fittizia missiva ultramondana: “Charles Baudelaire (...) condivise assiduamente la vostra opinione su Emerson e i Trascendentalisti, e (...) si oppose con forza a tutte quelle idee di ‘progresso’ che ‘vengono dall’Inferno o da Boston’”.
A suscitare l’avversione di Poe e di Baudelaire è l’idea di un progresso inteso in senso piattamente utilitaristico, molto diverso dall’universale ed utopica palingenesi che verrà invocata da Rimbaud, secondo il quale il poeta, “énormité devenant norme, absorbée par tous, (...) serait vraiment un multiplicateur de progrès”. Si tratta, piuttosto, di uno dei cardini dell’ideologia borghese nella prima metà del secolo, al di qua e al di là dell’oceano; quell’ideologia borghese, spesso contraddistinta da un superficiale ottimismo e da un moralismo facile e greve, a cui Baudelaire e Poe opponevano fieramente le “maschere” del dandy e del southern gentleman. La condizione di Baudelaire era, sotto questo aspetto, “senza una reale via d’uscita, un po’ come era stata quella di un letterato (...) che gli divenne assai caro: Edgar Allan Poe, affondato nei gorghi di una società borghese priva tra l’altro delle risorse di un passato (non borghese) quale l’Europa (...), come crepuscolo attardantesi, offriva ancora” (79). Come scrive il Parrington (80), “Poe fu un esteta e un artista, il primo scrittore americano che si occupò della bellezza pura: i suoi ideali contrastavano con tutti i maggiori interessi della primavera letteraria del New England: l’elemento mistico, ottimistico del trascendentalismo, la coscienza sociale che voleva riformare il mondo secondo l’idealismo (...); il moralismo invadente che non voleva ammettere altri criteri di giudizio sulla vita e la letteratura. (...) Il tecnico alle prese con le sillabe lunghe e brevi trovava pochi spiriti congeniali in un mondo di cose più concrete”; e qui l’autore allude, ovviamente, al Poe metricista “barbaro” di The Rationale of Verse, saggio che si fonda, certo, su un essenziale equivoco tra metrica accentuativa e metrica quantitativa, ma rivela e testimonia comunque un’assidua e logorante riflessione sui mezzi strettamente tecnici e “artigianali” del poetare (81). “E così (...) Poe naufragò sugli scogli del materialismo americano”.
Le parole del Lang e del Parrington consentono già di delineare, in generale, le fasi di un’evoluzione in virtù della quale una data condizione sociale, una certa posizione storica, un conseguente atteggiamento di critica o di rifiuto dell’esistente si traducono, coerentemente, in un dato modo di intendere e di praticare la letteratura: una fenomenologia da cui, com’è ovvio, la critica non può restare esclusa, e di cui anzi essa costituisce uno dei principali fattori.
Come scrive proprio Baudelaire nelle Notes nouvelles sur Edgar Poe, “un semblable milieu social”, dominato cioè dall’utilitarismo e dall’idea di progresso, contro la quale l’autore già si era scagliato due anni prima, nel saggio sull’ Exposition universelle de 1855, “engendre nécessairement des erreurs littéraires correspondantes”. Il “milieu social” dell’America utilitarista e ipocritamente puritana poteva trovare un qualche riscontro nella Francia di Baudelaire, dove la società era sempre più “américanisé”, dove l’”américanomanie” era divenuta “presque une passion de bon ton”.
L’autore dei Salons poteva agevolmente mutuare da Mme de Staël l’idea che la letteratura fosse legata alle istituzioni sociali da rapporti stretti e decisivi; e di lì a sette anni il Taine, nella Préface dell’ Histoire de la littérature anglaise, avrebbe applicato allo studio e all’analisi dei fatti letterari il determinismo positivista, individuando proprio nei tre fattori della “race”, del “milieu” e del “moment” gli elementi che “determinano” la forma e i contenuti dell’opera letteraria. E può essere interessante notare che, ancora nell’ Exposition universelle de 1855, Baudelaire aveva sottolineato come le diverse, particolari e più o meno “bizzarre” espressioni del “bello universale” fossero legate, anzi “dipendenti” da vari fattori: “des milieux, des climats, des moeurs, de la race, de la religion, et du tempérament de l’artiste” Termini e concetti come race e milieu si trovavano, del resto, già in Montesquieu e in Mme de Stäel.
Il contesto in cui si inserisce l’uso baudelairiano di questi termini e di questi concetti è, comunque, ben diverso, e del tutto peculiare; il riferimento alla stretta e quasi “necessitante” connessione istituita tra il “milieu social” e gli “errori letterari” che nascono da esso e su di esso, resta strumentalmente subordinato all’intento di edificare, su fondamenti in parte offerti o almeno rafforzati dagli scritti del Poe critico e teorico, una rigorosa e quasi ascetica concezione dell’autonomia dell’arte e, specularmente, dell’autonomia della critica.
3. L’”eresia del Didascalico” ossessiona, con la medesima assiduità, entrambi gli scrittori, prefigurando in tal modo le altrettanto assillanti “hérésies artistiques” che saranno stigmatizzate da Mallarmé. La mente corre, a questo punto, alle notissime pagine di The Poetic Principle (82). Una prima eresia, dice Poe, sembra sia stata finalmente sconfessata: quella “epic mania”, quella coazione alla “prolixity” che compromettono in modo irrimediabile la possibilità, per il poeta, di salvaguardare l’”unità d’effetto”, ai fini della quale la poesia non può essere che breve; per Poe, “a long poem is a paradox”, secondo la formulazione del saggio su Hawthorne, o, secondo quella contenuta nello stesso Principio Poetico, “simply a flat contradiction in terms”. Si può forse avvertire, in queste parole, una fioca eco della poetica callimachea, quella del poeta oligostichos, “di pochi versi”, animato dall’avversione per il “poema ciclico” e incline a forme di poesia concise ed eleganti, finemente e sottilmente elaborate e cesellate. E’ ovvio che il concetto di “unità d’effetto o impressione”, di origine settecentesca, non può ancora essere presente nell’orizzonte culturale di Callimaco; per Poe, inoltre, “fonte” diretta del concetto della brevità necessaria alla poesia può essere stato Coleridge, secondo cui “un componimento di una qualche lunghezza non può, né dovrebbe, essere poesia pura” (83). Ma queste idee, di remota origine ellenistica, giungeranno, forse non senza la mediazione di Poe, fino a Wilde, in cui il riferimento alla poetica alessandrina sarà esplicito e dichiarato.
A quella prima eresia, dice Poe, ne è succeduta un’altra, non meno perniciosa: alla “epic mania” è subentrata l’”heresy of The Didactic”. Secondo i suoi settari, “the ultimate object of all Poetry is Truth. Every poem (...) should inculcate a moral; and by this moral is the poetical merit of the work to be adjudged”. La morale diviene, allora, fine della poesia e nel contempo, e di conseguenza, criterio di “giudizio” critico; una prassi di scrittura poetica che si traduce in metodo di valutazione e strumento per la formazione di un “canone” che divide le opere in “buone” e “cattive”. In base a questi presupposti, “to write a poem simply for the poem’s sake, and to acknowledge such to have been our design, would be to confess ourselves radically wanting in the true poetic dignity and force”. Nelle Notes nouvelles Baudelaire riprende testualmente il concetto e la definizione di “heresy of The Didactic”, applicandola, significativamente, a Hugo, quell’Hugo che egli, in quel giro di anni, stava faticosamente “attraversando”: “Victor Hugo serait moins admiré s’il était parfait ... il n’a pu se faire pardonner tout son génie lyrique qu’en entroduisant de force et brutalement dans sa poésie ce qu’Edgar Poe considérait comme l’ hérésie moderne capitale, - l’enseignement”. Il poeta che si rivolge ad un pubblico borghese cercando di compiacerlo, che anzi è quasi organico alla classe borghese, può farsi “perdonare” dal suo pubblico moralista le geniali, fulminanti illuminazioni liriche delle preparnassiane Orientales e delle presimboliste Contemplations solo introducendo nella propria poesia, quasi per forza di coazione, “de force et brutalement”, elementi che soddisfino un’esigenza pedagogica - The Didactic, l’enseignement. Dall’intrusione dell’elemento pedagogico derivano, fatalmente, pecche formali e cadute di stile; non per nulla Mallarmé, in Crise de vers, potrà attribuire ad Hugo la funzione storica di aver dilatato, stravolto, quasi fatto esplodere l’alessandrino introducendovi, anzi “riducendo” ad esso la prosa, la filosofia, l’eloquenza, la storia - filosofia, eloquenza, le forme più consone a dare espressione a ideali e imperativi di ordine etico. Ecco perché, se Hugo fosse perfetto - se fosse, come Poe, “maître de sa mémoire”, “souverain des mots”, “registre des propres sentiments” - e avesse dovuto, per ciò stesso, eliminare o almeno limitare l’elemento pedagogico, didascalico, oratorio, egli sarebbe meno amato, meno “organico”, meno “in chiave”, meno in sintonia con le aspettative del suo pubblico borghese, che più difficilmente potrebbe riconoscersi in lui.
Agli occhi di Poe, invece, non c’è nulla di più nobile e di più degno di attenzione e rispetto che “this very poem - this poem per se - this poem which is a poem and nothing more - this poem written solely for the poem’s sake”.
La dimostrazione si sviluppa poi sulla base della famosa distinzione - mutuata da un Kant liberamente contaminato con la frenologia (84) - tra Intelletto Puro, Gusto e Senso Morale, le tre facoltà in cui può essere suddiviso “the world of mind”. La vita psichica è, per così dire, spazializzata: il Gusto è collocato “in the middle”, e “holds intimate relations with either extremes”. Al dominio del Gusto pertiene la Bellezza, che è l’unico fine della poesia; quest’ultima è, dunque, autonoma dalla Morale. In questo senso e sotto questo punto di vista si può forse intendere il riferimento alla frenologia che si trova all’inizio del saggio su Longfellow: essa, secondo Poe, ha offerto gli strumenti necessari per operare una “analysis of the real principles, and a digest of the resulting laws of taste”. La scienza, o pseudoscienza, opportunamente fraintesa, falsificata, adattata all’inesauribile, proteiforme varietà delle esperienze estetiche, può offrire al critico gli strumenti per individuare ed isolare le componenti del “world of mind”, e, conseguentemente, elaborare un sistema di “leggi del gusto” tale da sovvertire, per ciò che concerne i pregiudizi sulla finalità pedagogica della poesia, ogni erronea “given public idea”, per quanto sostenuta dal “clamour of the majority”. Accanto alla teologia e alla metafisica, anche la frenologia può indicare la via alla critica, consentendo ad essa, come ha sottolineato Ludovica Koch nel contributo citato, di “frugare indiscretamente nelle magagne ragionative di tutti e dimostrare l’intollerabilità generale del solido buonsenso, del solido buongusto, del solido rigore, dei solidi pregiudizi”. Anche per questa via la critica della letteratura evolve, in senso lato, in critica dell’esistente. Ci si può chiedere, a questo punto, come la critica possa svolgere questa funzione di strumento di una più vasta e decisiva critica dei costumi, dei pregiudizi e dell’ideologia dominante senza divenire eteronoma, senza perdere la sua peculiare e prevalente attenzione per i valori squisitamente estetici della poesia. Qualche utile indicazione in tal senso può essere offerta da un luogo dei Marginalia tradotto da Baudelaire nelle Notes nouvelles. “Genus irritabile vatum! Que les poètes (nous servant du mot dans son acception la plus large et comme comprenant tous les artistes) soient une race irritable, cela est bien entendu. (...) Un artiste n’est un artiste que grâce à son sens exquis du Beau, - sens qui (...) enferme un sens également exquis de toute difformité et de tout disproportion. (...) Ainsi las fameuse irritabilité poétique n’a pas de rapport avec le tempérament, compris dans le sens vulgaire, mais avec une clairvoyance plus qu’ordinaire relative au faux et à l’injuste. Cette clairvoyance n’est pas autre chose qu’un corollaire de la vive perception du vrai, de la justice, de la proportion, en un mot du Beau”. Qui, innanzitutto, Poe - come poi farà Baudelaire, memore forse di questa traduzione, nel luogo del saggio hughiano prima citato - si serve del concetto e della definizione di poeta “nella sua accezione più larga”, così da suggerire che, forse, in questa accezione possa essere fatto rientrare, in quanto cultore del bello, anche il critico “puro” ed “estetico”. Sulla citazione oraziana da cui prende le mosse il ragionamento, totalmente decontestualizzata e, del resto, passata in proverbio già da secoli, si era precedentemente soffermata l’attenzione di Coleridge, autore ben noto a Poe. All’inizio del secondo capitolo della Biographia literaria (85), l’autore prende rapidamente in considerazione l’”antico sarcasmo di Orazio sugli scribacchini del suo tempo”; ma mentre Poe pone la presunta irritabilità dei poeti - dei poeti veri - in relazione con il loro senso estetico, secondo Coleridge sono “debolezza e offuscamento della capacità immaginativa, con conseguente necessità di affidarsi alle impressioni immediate dei sensi”, a rendere la mente “soggetta (...) a superstizione e fanatismo”, e a spingere i mediocri versificatori a cercare spasmodicamente successi e consensi.
Ad ogni modo, nell’ottica di Poe, la critica e la poesia possono, e forse devono, se vogliono realmente cercare di “agire” sulla società e sulla storia combattendo i pregiudizi, gli ideali strumentali e pretestuosi e i moralismi rigidi ed esasperati, assumere a proprio oggetto anche la verità e la giustizia. Ma la verità e la giustizia di questa poesia e di questa critica non possono essere pensate e vissute che all’interno di un valore estetico, in cui si riassumono e si sintetizzano e con cui si identificano in toto: la “clairvoyance” del poeta, “chiaroveggenza” rafforzata e resa ancor più limpida e penetrante dall’intervento dello spirito critico, deriva dalla percezione “del vero, della giustizia, della proporzione, in una parola del Bello”. L’immortalità e l’ingiustizia percepite e condannate, sub specie Pulchritudinis, dal poeta e dal critico, si riassumono, per contro, nell’obbrobrio della “difformité” e della “disproportion”, nell’ottica di un ideale estetico in senso lato “classico” o già quasi parnassiano, esemplificato, nell’opera poetica di Poe, da testi come To Helen.
Un passaggio di The Poetic Principle può chiarire ancor meglio questo concetto: per quanto concerne il Senso Morale e il Dovere, la Coscienza ci indica gli obblighi, la Ragione ci indica ciò che è conveniente, ma il Gusto (Taste) si limita a combattere l’abiezione del Vizio “solely on the ground of her deformity - her disproportion - her animosity to the fitting, to the appropriate, to the harmonious - in a word, to Beauty”. Ecco, dunque, come l’”ira” contestativa, demistificante, antiborghese del poeta critico può tornare alla più rigorosa e completa autonomia ed incondizionatezza del valore estetico dopo aver solo sfiorato il rischio o l’equivoco della strumentalizzazione, dell’ideologizzazione - o, che può essere lo stesso, negazione ed antitesi di un’ideologia dominante -, insomma dell’eteronomia. E si sarebbe, a questo punto, quasi tentati di scorgere in questa Idea del Bello una traccia del trascendentismo primoromantico, se l’autore non si preoccupasse, da scaltrito virtuoso della forma e dello stile, di affiancare al concetto di autonomia dell’arte dalla morale la messa al bando della prima “eresia”, quella della “epic mania”, che compromette, sul piano della materiale e tecnica prassi compositiva, la possibilità di conseguire l’”unità d’effetto”.
In questo senso, risultano quanto mai opportuni i riferimenti del Parrington a The Rationale of Verse: un testo strettamente e prettamente “tecnico”, “professionale”, legato alla dimensione pratica e concreta del fare poetico, al sofisticato armamentario dell’”artiere”, finisce indirettamente, e attraverso i riferimenti, che vi sono impliciti, ad altri scritti teorici dello stesso autore, per sottintendere una presa di posizione decisamente polemica nei confronti di un sistema sociale ed economico che non era per nulla interessato alle sottili disquisizioni specialistiche sulle sillabe lunghe e brevi, e tendeva piuttosto, come Poe lamentava nel saggio su Dickens, a giudicare le opere “solely by result”, in termini di circolazione e di vendite, in spregio della “critical art” - espressione, questa, in cui sembra già abbozzata la concezione wildiana del critico come artista -, dei “critical precepts” e delle “critical rules”.
4. Si è già accennato all’illuminante passo delle Notes nouvelles in cui Baudelaire istituisce una stretta connessione tra il “milieu social” dell’America di Poe e le “erreurs littéraires” che esso genera. “C’est contre ces erreurs”, continua Baudelaire, “que Poe a réagi aussi souvant qu’il a pu et de toute sa force”. Di conseguenza, “les écrivains américains (...) ont toujours voulu infirmer sa valeur comme critique”. Attraverso la critica il poeta si oppone alle ipocrisie e ai dogmatismi della mentalità corrente e dell’ideologia dominante; è allora inevitabile che il “clamour of the majority” cerchi in tutti i modi di soffocare la sua voce, liberandosi delle insidie che essa reca. “Dans un pays où l’idée d’utilité, la plus hostile du monde à l’idée de beauté, prime et domine toute chose, le parfait critique sera le plus honorable, c’est-à-dire celui dont les tendances et les désirs se rapprocheront le plus des tendances et des désirs de son public, - celui qui, confondant les facultés et les genres de production, assignera à toutes un but unique, - celui qui cherchera dans un livre de poésie les moyens de perfectionner la conscience. (...) Edgar Allan Poe, au contraire, divisant le monde de l’esprit en Intellect pur, Goût et Sens moral, appliquait la critique suivant que l’objet de son analyse appartenait à l’une de ces trois divisions”. Il luogo appena citato mostra come già l’autore dei Salons, rifacendosi palesemente a The Poetic Principle e, nel contempo, amplificando ed approfondendo le affermazioni di Poe, fosse perfettamente cosciente della dinamica, non infrequente nei poeti-critici, in virtù della quale una poetica e una teoria estetica possono evolvere in metodo critico, e trovare sul versante della scrittura critica un perfetto corrispettivo. Lo stesso Poe, all’inizio del saggio, dichiara esplicitamente che nelle pagine che seguiranno verrà enucleato il “principio” che abitualmente orienta la sua personale “critical estimate of the poem”, ancor prima che la sua posizione estetica o la sua prassi creativa.
Il critico honorable, “in chiave” con il suo tempo, asseconderà supinamente le aspettative del suo orizzonte d’attesa, i princìpi etici e gli ideali estetici fissati ed accettati dalla mentalità corrente, laddove il critico “militante” e indipendente cercherà, al contrario, di usare la critica come mezzo per destabilizzare e mettere in crisi quei princìpi e quelle idee; il critico honorable fonderà e confonderà in un tutto indistinto i generi e i modi della produzione letteraria, assegnando a tutti un “fine unico”, quello dell’ammaestramento morale, mentre il critico ideale vagheggiato da Poe e da Baudelaire sarà in grado, attraverso la suddivisione del “world of mind” nelle sue diverse facoltà e funzioni, di distinguere chiaramente autonomia ed eteronomia, valore estetico, valore gnoseologico, valore etico; il critico honorable, infine, attribuirà alla poesia una finalità esterna di tipo didascalico, mentre quello che potremmo definire “critico puro” sarà interessato soprattutto ai valori propriamente estetici e tecnici della letteratura, alla “sobriété cruelle” che deve mantenerla immune dagli eccessi e dai turgori del sentimentalismo e dell’oratoria, allo “style (...) serré, concaténé” che deve garantirne la solidità e la coerenza interna sul piano formale, all’”unité d’ impression” e alla “totalité d’ effet” - definizioni, queste, che sdoppiano e precisano ulteriormente quella di “totality of effect or impression” data dal poeta americano - che ne costituiscono il pregio maggiore. Da Poe, come si vede, Baudelaire mutua, accanto e insieme a molti fondamentali nodi e nuclei di pensiero, anche una peculiare terminologia, già avviata verso una qualche forma di specializzazione e quasi di tecnicizzazione.
Il metodo del “critico puro” sarà, inutile dirlo, analogico; poche righe dopo il passo appena analizzato si trova la famosa definizione dell’immaginazione come “reine des facultés”, capace di cogliere “les rapports intimes et secrets des choses, les correspondances et les analogies”, che possono essere più agilmente e liberamente còlte da uno sguardo libero da ogni velo scolastico e da ogni preoccupazione pedagogica. All’analogia si affianca, già nella riflessione di Poe, la sinestesia: nel più volte citato Principio poetico, il “senso della Bellezza” è presentato come una superiore facoltà che “administers to his delight in the manifold forms, and sounds, and odours, and sentiments amid which he exists”. Alla sinestesia si affianca poi un altro concetto chiave, quello di riflessione: “just as the lily is repeated in the lake, or the eyes of Amaryllis in the mirror, so is the mere oral or written repetition of these forms, and sounds, and colours, and odours, and sentiments, a duplicate source of delight”. Quello che sarà l’”artifex additus naturae” o “artifici” dell’estetismo è già lontanamente prefigurato, qui, dalla “repetition” che riprende e “doppia” l’espressione o la realtà naturale, offrendo così non già, come ci si potrebbe aspettare, una sorta di sbiadita e smorta “copia della copia della copia”, ma una “duplice fonte di piacere”, amplificata e potenziata attraverso la riflessione, attraverso un re-flectere che si manifesta e si esplica i tutte le sue molteplici forme ed accezioni, letterali e traslate.
5. Siamo, dunque, in presenza di una poetica che passa attraverso la critica, che coinvolge ed assume in sé la critica come momento ed elemento sostanziale, come sostegno e strumento imprescindibile, insomma di una “poetica critica” - per avvalerci della funzionale categoria introdotta da Adelia Nòferi in un volume assai noto - che della poesia è, a un tempo, figlia e nutrice, in un rapporto mutuo ed inesauribile. Secondo un’ormai nota prospettiva storiografica, delineata con grande efficacia da Eliot, ha inizio proprio con Poe quella profonda “penetration of the poetic by the introspective critical activity”, che verrà “carried to the limit”, fino ad una soglia critica, ad un punto di non ritorno, da Mallarmé, e soprattutto da Valéry (86).
Si dovrà però esaminare anche e soprattutto la vera e propria, ancorché frammentaria, teoria della critica sviluppata da Poe, nelle sue concrete e specifiche enunciazioni e, in particolar modo, in relazione ai diretti influssi che essa può aver esercitato sulla concezione baudelairiana della critica.
L’opposizione al pedagogismo e all’ottimismo dei Trascendentalisti trova immediato riscontro nel campo specifico della concezione della critica (87). Emerson conosce, in teoria, “il rischio che la didattica uccida la poesia”; in pratica, però, “il vero filosofo coincide col vero poeta e scopo d’entrambi è la verità che è bellezza e la bellezza che è verità”; questa “critica trascendentale” finisce, come talora nei primi romantici, per svaporare e dissolversi nell’astrazione dell’Assoluto, per identificarsi in toto con la poesia o, in alternativa, divenire un’assurdità e una contraddizione in termini. “La legittimazione della critica”, scrive Emerson, “è nella fede intellettuale che vede nelle poesie una versione corrotta di qualche testo della natura con cui esse dovrebbero esser fatte combaciare”. Lo specifico della letteratura finisce, in questo modo, per scomparire, per annullarsi nella totale identificazione del bello artistico con il bello naturale, anzi nell’asserzione della superiorità di quest’ultimo rispetto al primo; l’ empathy che deve, nonostante tutto, unire il soggetto e l’oggetto dell’atto critico, non avviene nel linguaggio e attraverso il linguaggio, in relazione ad una letteratura intesa e considerata nella sua specificità stilistica e testuale, ma attraverso la comune condivisione, tanto da parte del poeta quanto da parte del critico, di una dimensione trascendentale ed assoluta. E’ così esclusa a priori quell’idea d’”artificio” che sta alla base della poetica critica di Poe e di Baudelaire, e che, come si è visto, conduce il poeta francese a fare della critica uno strumento del surnaturalisme e dell’allegoria.
Anche sotto questo profilo Poe si oppone ai trascendentalisti. Per Poe la critica è, come la poesia, cui è strettamente legata, qualcosa di ben definito, perfettamente determinato, tutt’altro che evanescente, o idealisticamente “trascendentale”; essa è, inoltre, strettamente legata alla creazione letteraria intesa nei suoi valori specificamente formali. Si può, per rendersene conto, far riferimento ad uno scritto non troppo noto, che tra l’altro non figura tra quelli tradotti da Baudelaire. Non è comunque da escludere che il poeta francese potesse conoscerlo: in una lettera del 1858 egli ebbe a scrivere che, fin dal 1846 o ’47, aveva avuto “la patience de se lier avec des Américains vivants à Paris, pour leur emprunter des collections de journaux qui avaient été dirigés par Edgar Poe”. Anche se Baudelaire dice di aver trovato in quelle riviste “poesie e novelle”, c’è da credere che la sua attenzione sia stata catturata anche dai numerosi articoli di critica - oltre duecento, di ineguale valore - che vi erano via via apparsi.
In uno di questi articoli, apparso sul “Graham’s Magazine” nel 1842 (88), si trovano affermazioni illuminanti. “We would wish (...) to limit literary criticism to comment upon Art. A book is written - and it is only as the book that we subject it to rewiew”. Sembra quasi di scorgere, qui, un’anticipazione della provocatoria affermazione wildiana secondo cui non esistono libri morali e libri immorali, ma solo libri scritti bene e libri scritti male; il “vigorous criticism” di cui la letteratura ha bisogno, con la sua attenzione per il dato formale e stilistico, sottrae l’arte ad ogni pericolo di censura moralistica e di condizionamento ideologico. E nel contempo si può, in certa misura, comprendere per quale ragione, fondatamente o meno, gli strutturalisti e i New critics abbiano potuto scorgere in Poe un precursore della nozione, in senso lato, di centralità del testo. “Whit the opinions of the work, considered otherwise than in their relation to the work itself, the critic has really nothing to do. (...) Criticism is thus no ‘test for opinion’. For this test, the work (...) is turned over for discussion to the public at large - and first to that class which it especially addresses - if a history, to the historian - if a methaphisical treatise, to the moralist”. Al teologo o al moralista in senso stretto compete l’analisi delle opere dal punto di vista morale; “the journalist”, invece, “is ‘critical’ only in so much as he deviates from his true province not at all”. Ed è ovvio che la “metafisica” che, secondo Baudelaire, viene costantemente “sfiorata” dalla critica è qualcosa di ben diverso dalla metafisica, fideistica e ingenua, dei trascendentalisti. E largamente anticipatrice di certi orientamenti della critica letteraria successiva sembra essere anche l’idea che ogni opera intrattenga un particolare legame con “quella classe sociale a cui essa specificamente si rivolge”. Più che su Baudelaire, questa idea sembra aver influito su Mallarmé, suggerendogli la definizione della critica come attività da considerarsi “du point de vue strictement littéraire”.
Indicazioni ancor più illuminanti possono giungere da un altro testo fondamentale, ancorché meno noto di altri e, a quanto risulta, mai tradotto in italiano. Alludo alla Letter to B, scritta nel 1831 a West Point, dove il poeta stava invano tentando di addestrarsi come ufficiale dell’esercito, e pubblicata nello stesso anno come prefazione ai Poems. La lettera non figura tra gli scritti tradotti da Baudelaire; essa, tuttavia, venne ripubblicata sul Southern Literary Messenger nel luglio 1836, e piace pensare che anche quel prezioso fascicolo facesse parte delle “collections de journaux” chieste in prestito agli amici americani.
La lettera sembra avere in qualche modo influito sulla genesi, o almeno sullo sviluppo, della teoria baudelairiana della critica. “I feel to be false”, confida Poe all’anonimo e misterioso corrispondente, “the less poetical the critic, the less just the critique, and the converse”. Il poeta respinge la convinzione, superficiale ed irriflessa, ancorché assai diffusa, secondo cui il “poetical criticism” porterebbe ad alterare e ad invalidare il criterio e l’equità del giudizio. L’opinione acriticamente accettata dal profanum vulgus dev’essere, anche in questo caso, respinta: “a poet, who is indeed a poet, cannot fail of making a just critique”. L’”equità di una critica sulla poesia” si deve misurare proprio “in proportion to the poetical talent” di cui il critico è in possesso. Espressioni come “poetical critic” e “just critique” sono molto vicine alle definizioni di “critique poétique” e di “critique juste” - “juste”, paradossalmente, proprio perché “appassionata e politica” -, che si trovano nel già esaminato capitolo introduttivo del Salon de 1846. Poiché il nome di Poe apparve per la prima volta in Francia nel 1845, e Baudelaire cominciò ad interessarsi del poeta americano “en 1846 ou 1847”, non credo sia totalmente da escludere che già al momento di scrivere quelle pagine la Letter to B gli fosse nota - per quanto possa trattarsi di casuali coincidenze, e sebbene gli studiosi abbiano sottolineato come non siano documentabili influssi di Poe sul poeta francese prima del 1847-48. Più chiare tracce la probabile lettura della Letter sembra aver lasciato sul famoso passo del saggio wagneriano del 1861: come per Poe “a poet, who is indeed a poet, cannot fail of making a just critique”, così per Baudelaire “tous les grands poètes deviennent naturellement, fatalement, critiques”. Il grande poeta, il poeta che è “davvero” un poeta, deve inevitabilmente, immancabilmente divenire anche critico, prendere coscienza dei modi e delle interne leggi della propria arte. Baudelaire e, ancor prima di lui, Poe, prendono in tal modo coscienza dell’ossessiva e ineludibile “coazione alla teoria” che caratterizza la modernità letteraria. Questa forma di riflessione critica, questa critica “giusta” proprio nella misura in cui è “poetica”, in cui si sottrae ad ogni pretesa di dogmatica e scientifica oggettività e assolutezza, è strettamente legata alla creazione poetica, e a ben vedere si risolve, in primo luogo, in una forma di autocritica. Per Poe l’equità e l’equilibrio del giudizio critico sono direttamente connessi al grado di “poetical talent” di cui è in possesso chi lo esercita; specularmente, “a bad poet would (...) make a false critique and his self-love would infallibly bias his little judgement in his favour”. Il cattivo poeta, sprovvisto della nitida, disincantata “self-consciousness” del poeta autentico, non potrebbe che dare - innanzitutto, com’è implicito, su se stesso - un giudizio iniquo e tendenzioso, e la sua presunzione “condizionerebbe in suo favore le sue ridotte capacità di giudizio”. Allo stesso modo, per Baudelaire la (auto) critica dei grandi poeti nasce quando - “infailliblement”, inevitabilmente, per forza di ineludibile coazione - si crea “une crise” - e non mi risulta che sia finora stato còlto questo velato e assai pregnante gioco etimologico - che li spinge a non accontentarsi degli estemporanei barlumi dell’ispirazione, e a cercare di “découvrir les lois”, mutevoli e latenti, “en vertu desquelles ils ont produit”. Come la teoria della letteratura ha chiarito in questi ultimi decenni, “la lettura comincia con quella del proprio testo, in quanto l’autore è anche il proprio lettore e quindi il proprio critico. L’idea (...) identifica di fatto l’atto letterario con l’atto critico. La parabola baudelairiana del lettore complice (mon semblable, mon frère) prefigura appunto questa situazione” (89). Si delinea, così, una delle tante possibili interpretazioni del componimento proemiale delle Fleurs. Al risvolto morale del rapporto fra il poeta “scandaloso” e il lettore “ipocrita”, che simula disappunto e contrizione, se ne sostituirebbe, o almeno affiancherebbe, un altro, strettamente metaletterario: il lettore è “semblable” e “frère” del poeta in quanto l’atto, intrinsecamente critico, della lettura dei testi, sia propri che altrui, concorre non meno di quello della scrittura a costruire nel suo complesso il processo della significazione, a determinarne modalità, forme e, in definitiva, esiti e contenuti.
E nella Letter subentra poi, assai significativamente, un nuovo attacco contro l’”heresy of The Didactic”, che stavolta prende la forma dell’”heresy of what is called (...) the Lake School”, la corrente dei poeti “laghisti”, di Coleridge, Southey, Wordsworth. Quest’ultimo, in particolare, sembra credere che “the end of poetry is, or should be, instruction”. Segue, poi, una delle tante e sempre variate articolazioni dell’ ut pictura poësis, che può aver esercitato un qualche influsso su Baudelaire, e sull’idea, che arriverà fino all’estetismo italiano, di una scrittura poetico-critica che si ponga come reduplicazione o copia verbale dell’immagine. “Poetry, above all things, is a beautiful painting whose tints, to minute inspection, are confusion worse confounded, but start boldly out to the cursory glance of the connoisseur”. La pittura-poesia, già posta al riparo dalle rivendicazioni del didattismo, viene così definita come appannaggio esclusivo di pochi cultori ed esperti, e come sistema di segni di cui solo i “rapidi movimenti dell’occhio” del connoisseur possono cogliere l’ordine e la segreta struttura - la spietata ed inverosimile razionalità che si cela dietro la superficie della “confusione peggio che confusa”, di quello che diverrà poi il “raisonné dérèglement” dei simbolisti.
VII - MALLARMÉ E LA COSTRUZIONE DEL “POÈME CRITIQUE”
1. A proposito dell’evoluzione della teoria della critica in Baudelaire, si è avuto modo, riprendendo una felice similitudine di Raimondi, di paragonare l’evoluzione a cui quella teoria va incontro con i tratti di un “fiume sotterraneo” il cui percorso appare solo di tanto in tanto, fugacemente. Questa immagine ancor meglio si attaglierebbe alla critica mallarmeana, perennemente attraversata ed agitata da quello stesso “demone dell’analogia” che pervade ed innerva i versi del poeta, e dunque del tutto refrattaria ad una definizione univoca e perentoria.
E’, comunque, possibile ricostruire e riassumere, a grandi linee, le fasi del movimento argomentativo attraverso cui prende forma, partendo proprio da alcune riflessioni sulla poesia baudelairiana, il concetto di critica in Mallarmé; concetto su cui si soffermerà, significativamente, il giovane D’Annunzio, e che non sarà, in generale, privo di echi e di risonanze nella critica novecentesca, da Valéry alla critica ermetica.
Si tratta di una forma di scrittura poetico-critica che procede, spesso, per giustapposizioni abrupte, e che si evolve attraverso agganci e consonanze che uniscono prima la parola che il pensiero, o, meglio, che innervano e sustanziano un pensiero strutturato eminentemente come linguaggio e come riflessione sul linguaggio. Si potrebbe, forse, riferire già alla critica di Mallarmé quello che è stato autorevolmente osservato a proposito di quella di Valéry (90): la “coordinazione del discorso critico (...) a volte si effettua unicamente grazie all’aggancio del tutto fortuito d’un vocabolo, o di un’immagine estranea al contesto, cui l’autore dà ascolto, e che porta a ulteriore sviluppo”. In tal modo, ovviamente, “la conoscenza risulta tradita nel momento stesso in cui se ne postula, obiettivamente, la necessità; (...) i termini a contatto mascherano semplicemente urgenza espressiva di carattere individuale, che rovescia in una dimensione di tipo ‘creativo’ quello che all’origine si dà come ‘scienza’ dell’uomo e dei fenomeni”. Una scrittura critica di questo tipo è, nel caso di Mallarmé, la più adeguata e compiuta espressione della lucida coscienza del “désastre obscur” a cui il linguaggio va incontro nel suo perpetuo e straniante scontro con l’ineffabile, nella sua tragica ed irrisolta lotta con l’ impuissance, con l’indicibile, con il “fuori-idioma”; e allora il disordine e la casualità delle associazioni e dei nodi del discorso critico saranno, paradossalmente, calcolati e “ragionati”, configurandosi quale frutto di una profonda e tormentata riflessione.
Le origini più remote di questo modo di strutturare il discorso critico per sciolte associazioni e per transizioni audaci e repentine, si possono ravvisare forse proprio nel Poe dei Marginalia, il cui modello arrivò al mondo culturale francese ed europeo attraverso la mediazione della traduzione baudelairiana. Per Poe, che in limine ai Marginalia provvede a fissare, con grande lucidità, i fondamenti teorici di questo audace modo di fare critica, le “note a margine”, le rapide annotazioni, gli appunti frammentari ma proprio per questo illuminanti, “have a rank somewhat above the chance and desultory comments of literary chit-chat”, delle più frivole e superficiali cronache letterarie; infatti “the marginalia are deliberately pencilled, because the mind of the reader wishes to unburthen itself of a thought”. Il “marginalic air” che spira dalle pagine di questo tipo di critica, di cui, forse, offre un esempio più perspicuo la citata Letter to B che i canonici “tre saggi”, è la più consona a riprodurre e ad esprimere le volute tortuose e le immaginose transizioni del pensiero analogico; e poco importa che Poe menzioni, come esempio eminente di “logical analogist” - di “principe della logica analogica”, come traduce la Koch -, Joseph Butler, oscuro predicatore settecentesco. Anche gli antichi, del resto, conoscevano, e praticarono, soprattutto nei secoli della decadenza, una forma di “desultory comment”, uno “scientiae desultoriae stilus” capace di passare disinvoltamente, con brusche giustapposizioni, da un nucleo di pensiero a un altro; e nella prose mallarmeana, forma eminentemente consona al pensiero poetico-critico, il modello poesco potrà sovrapporsi, ecletticamente, al “latin mystique” che Huysmans e Remy de Gourmont stavano facendo emergere all’orizzonte culturale del simbolismo europeo.
Una critica, dunque, intesa come “divagazione”, come “nota a margine” - magari “EN MARGE (...) D’UN BAUDELAIRE”, come recita uno dei titoli delle Divagations -, come “rapsodia” che riunisce e cuce insieme elementi eterogenei, o come “crayonné”, come rapido appunto, “impressionistico” abbozzo o fugace pennellata - senza che questa solo apparente fragilità possa compromettere la forza del pensiero, la vertiginosa, tragica profondità della riflessione. E già nelle scritture del Baudelaire “privato”, nei Journaux intimes, dietro il carattere apparentemente episodico, casuale, frammentario, impressionistico delle annotazioni, si cela spesso, specie nei Fusées e in Mon coeur mis à nu, una meditata e sofferta profondità di pensiero, e vengono toccati alcuni dei più stretti e problematici nodi della riflessione metaletteraria condotta dal poeta delle Fleurs, dall’astiosa e velenosa polemica contro la cultura accademica al superamento e all’”attraversamento” della cultura romantica, si trattasse delle “mauvaises écritures” dei romanzi di George Sand o del didattismo talora greve ed oratorio dell’odiosamato Hugo.
La particolare forma del discorso critico che si viene delineando soprattutto a partire dai Marginalia di Poe, forse con parziali anticipazioni nei tipici “frammenti” della Frühromantik, si rivela essere la più consona e naturale per una critica intesa - come preciserà la definizione wildiana - quale “mode of autobiography”.
2. Il concetto mallarmeano di critica comincia vagamente a prendere forma molto per tempo, nella mente del poeta ventiduenne, che si è lasciato alle spalle i primi ma già significativi esperimenti in versi, si è appena avvicinato alla prosa critica e si accinge a concepire il grande disegno di Hérodiade, che lo accompagnerà, a più riprese, per l’intera vita.
Il primo testo che cattura l’attenzione è la Symphonie littéraire, del 1864 (91). Si tratta di tre inni in prosa dedicati ad altrettanti poeti, che acquisivano, agli occhi del giovane Mallarmé, la statura e la dignità di modelli da emulare. Baudelaire, nell’ottica di quell’attraversamento del romanticismo di cui si è parlato, viene significativamente accostato a Gautier e de Banville, esempi paradigmatici di quei “deuxièmes romantiques”, “très voyants”, di cui parla Rimbaud della seconda Lettre du voyant.
Nei tre elogi è già notevole l’intento d’immedesimazione e di penetrazione simpatetica nell’oggetto dell’atto critico, unitamente all’enfasi posta sull’elemento soggettivo e creativo della scrittura saggistica. Mallarmé tentò, in quel primo, acerbo esperimento, “le prime interazioni fra livello critico e livello liricamente fantasticato” (92), tanto che il Lefébure, in una lettera del maggio dello stesso anno, ebbe a notare come il poeta, “dipingendo” i tre poeti elogiati, avesse “dipinto se stesso”, mettendo “quatre poètes dans trois”. E quest’idea della critica - critica, in questo caso, specificamente letteraria - come “pittura” del proprio oggetto, oltre a suggerire l’accostamento sinestetico tra parola e colore, resta uno degli aspetti fondamentali della cosiddetta “critica estetizzante” del secondo Ottocento, che attenuò le distinzioni tra i diversi àmbiti della critica fino a farli svanire, e configurò, a partire da Baudelaire e soprattutto da Mallarmé, una forma di Critica totale, per di più strettamente legata a tutte le più diverse e profonde dimensioni del poiein.
E’ probabile che, nella Symphonie, vi sia un implicito riferimento alla poesia baudelairiana Les Phares. Quello che Mallarmé ci offre, come notava ancora Lefébure, è un “Baudelaire en paysages”, cioè evocato indirettamente, e in via soggettiva, attraverso i paesaggi interiori, le sensazioni, le impressioni che la lettura delle Fleurs suscita nel poeta-critico. Mallarmé, alla lettura del “suo” Baudelaire, si sente “attiré dans un paysage surprenant qui vit au regard avec l’intensité de ceux que crée le profond opium”. La prospettiva è quella di un assoluto soggettivismo gnoseologico: il paesaggio, letteralmente, “vive nello sguardo”, le cose sembrano trarre colore e consistenza dallo stesso occhio che vi si posa. La forma della percezione è, anche qui, quella dell’analogia, della sinestesia, della corrispondenza: osservando i rami degli alberi spogli, il poeta ode “une plainte déchirante comme celle des violons, qui, parvenue à l’extrémité des branches, frissonne en feuilles musicales”; il tramonto - forse lo stesso “coucher du soleil romantique” cui Baudelaire assisteva in un tardo sonetto... - è “une singulière rougeur, autour de laquelle se répand une odeur enivrante de chevelures secouées”. L’oggetto dell’atto critico, e insieme lo stesso testo che ne scaturisce, divengono una sorta di “paysage emblématique”, come l’autore preciserà poi nella Bibliographie posta in coda alle Divagations, alimentato dal “souhait (...) de transposition mentale”. Les Phares baudelairiani rappresentano, per Giovanni Macchia, un esempio emblematico di “critica in versi”; come nota lo studioso, intuendo con grande acume quel “principio di reciprocità” che è stato posto più compiutamente in luce dai decostruzionisti, “dal far del poeta il migliore di tutti i critici” deriva “una concezione della critica (...) personale, soggettiva, appassionata” (93). Questa poesia rientra in un gruppo di testi, isolabile nelle Fleurs, diversi per datazione, collocazione e importanza, ma accomunati dal fatto che in essi e con essi il poeta volle dare concreta attuazione alla sua variante dell’ ut pictura poësis, incentrata sull’idea che “la miglior critica di un quadro” potesse essere “un sonetto o un’elegia”: si vedano, ad esempio, oltre ai prima citati e più noti Bohémiens en voyage e Les aveugles, anche liriche come Duellum, Une martyre (variazione o commentario in versi su un inquietante “disegno di maestro ignoto”, dominato dalla folgorante, “surnaturale” metafora del “sang rouge et vivant, dont la toile s’abreuve / Avec l’avidité d’un pré”), o, ancora, Sur “Le Tasse en prison” d’Eugène Delacroix, che partendo dal referente figurativo sviluppa il mito del vittimismo romantico, attraverso la rievocazione delle sventure del “génie enfermé dans un taudis malsain”.
I Phares si snodano secondo uno schema metrico-sintattico attentamente calcolato. Ad ogni quartina corrisponde uno dei pittori di volta in volta evocati dal poeta; al nome del pittore, posto all’inizio del primo verso, fanno seguito, accostati in forma appositiva ed asindetica, gli epiteti e le immagini che questo nome suggerisce attraverso le reminiscenze visuali che vi possono essere associate, secondo il consueto processo analogico: “Rubens, fleuve d’obli, jardin de la paresse, / Oreiller de chair fraîche où l’on ne peut aimer, / Mais où la vie afflue et s’agite sans cesse, / Comme l’air dans le ciel et la mer dans la mer”. Mi sembra evidente l’affinità che esiste tra l’operazione qui compiuta da Baudelaire e la critica di “paesaggi emblematici” e di trasposizioni analogiche tentata da Mallarmé nella Symphonie. Come le immagini analogiche inanellate in quest’ultima non sottintendono precisi richiami intertestuali alle Fleurs, così è assai difficile rintracciare precisi referenti figurativi per tutte le immagini che i nomi amati e venerati suggeriscono al poeta, che qui rivela, più compiutamente che altrove, quel “génie de l’impropriété” che la critica gli ha riconosciuto. Il dettato lirico si snoda e si sviluppa attraverso libere associazioni analogiche, suggestioni foniche, inusitate concatenazioni di sostantivi e di immagini; la solidità della struttura sintattica rappresenta la manifestazione e la concretizzazione, sul piano tecnico e retorico, di quel “calcul” che, nelle Fleurs, costantemente governa e disciplina gli slanci della “rêverie”. Ed è interessante notare come la forma sintattica qui assunta dall’associazione analogica - accostamento asindetico di sostantivi, a loro volta, poi, ulteriormente specificati e determinati da complementi e proposizioni - sia simile a quella che assumeranno le rimbaudiane Voyelles, ugualmente attraversate ed innervate dalle reazioni a catena di associazioni analogiche innescate, con ogni probabilità, da una primaria suggestione visiva: “A, noir corset velu des mouches éclatantes / Qui bombinent autour des puanteurs cruelles, // Golfes d’ombre; E, candeurs des vapeurs et des tentes, / Lances des glaciers fiers, rois blancs, frissons d’ombelles...”. Ed è, qui, appena il caso di accennare all’influsso che simili forme di scrittura analogica ed immaginifica possono aver esercitato su certe tecniche messe a punto dalle avanguardie storiche, dal paroliberismo dei “sostantivi disposti a caso” all’”écriture automatique” dei surrealisti. Peraltro la “casualità” delle associazioni baudelairiane e rimbaudiane è comunque dominata, trascesa, quasi “ragionata” e veicolata dalla solenne, parnassiana solidità dell’impianto metrico e sintattico, peraltro più solido e coerente in Baudelaire che non Rimbaud, costretto dalla stessa scelta della forma chiusa ad una maggiore condensazione e concentrazione dei nuclei concettuali ed immaginativi, e, di conseguenza, ad un più frequente utilizzo dell’ enjambement e, soprattutto, ad una una maggiore varietà e irregolarità nel rapporto tra le strutture sintattiche e la distribuzione delle cesure.
Les Phares, testo chiave e tappa fondamentale nella genesi del “poème critique” simbolista, arriva a Mallarmé passando anche attraverso la mediazione di uno dei rarissimi e preziosi autocommenti del poeta delle Fleurs: in un noto luogo del paragrafo dedicato a Delacroix (94) nell’articolo sull’ Exposition universelle de 1855, Baudelaire, in preda alla “crise” che spinge i grandi poeti ad interrogarsi sui princìpi in virtù dei quali hanno creato, esercita su di sé quella “just critique” di cui aveva parlato Poe in un luogo ripreso, come si è visto, nel saggio wagneriano, e richiama la nozione di surnaturalisme a proposito del “lac de sang, hanté des mauvais anges”, evocato nei Phares, senza alcun preciso referente iconografico, a proposito di Delacroix. L’archetipica icona sacrificale del “sang rouge, vivant”, fortemente connotata in senso visivo, ricorre, come si è accennato, anche in Une Martyre; e a proposito dell’immagine del “lac de sang” che compare nei Phares il Baudelaire dell’ Exposition universelle chiosa puntualmente “Lac de sang: le rouge”. Di questo “lac (...) hanté”, con la sua palese quanto studiata incongruenza semantica, che fa slittare sull’oggetto dell’osservazione la condizione emotiva dell’osservatore, Mallarmé si sarà forse ricordato - in un diverso contesto, ma sempre in chiave metaletteraria - anche nel celebre sonetto del Cigno, ove il poeta rappresenta la sua ossessionante impuissance attraverso il correlativo oggettivo del lago ghiacciato, “lac dur oublié que hante sous le givre / le transparent glacier des vols qui n’ont pas fui”, dei versi mai scritti, dei canti che non hanno avuto voce; e l’immagine stessa del Cigno è di ascendenza baudelairiana, richiamando il cigno “esule” nel tormentato ed allegorico scenario urbano della Parigi che cambia. Il Baudelaire critico di se stesso ricorre anche, significativamente, alla più tipica delle sinestesie, definendo l’ardita, ineffabile metafora del “soupir étouffé de Weber” come “idée de musique romantique que réveillent les harmonies de sa couleur”, delle intense e scintillanti modulazioni e variazioni cromatiche di Delacroix. Le nozioni di “romanticismo” e di “colore” - un colore che, nelle tele del maestro del romanticismo francese, addirittura “pensa” - saranno, anche qui, cariche di tutti i valori analogici ed evocativi a cui si è accennato nelle pagine precedenti.
Nei Phares, e nella genesi del “poème critique” che vi è strettamente connessa, finiscono per incontrarsi e sovrapporsi - per usare le categorie proposte da Lorenzo Greco (95) - il testo inteso come “soggetto culturale”, di cui l’autocommento dell’ Exposition universelle cerca in qualche modo di fissare ed esplicitare valori e contenuti, e il testo inteso come “oggetto culturale”, “sottoposto” ad una “ricca possibilità di mutamenti e reinterpretazioni”, e dunque tale da assumere il significato che viene attribuito al testo dall’”uso”, lucidamente e fecondamente strumentale, che ne fa il Mallarmé della Symphonie littéraire. Come nota Francesco Piselli, “di qui si sfocia a questa particolare metodologia critica: il fruire dell’arte tramite un effet suo squisito e proprio comporta (...) che la critica non possa farsi fruizione se non come poema critico (...), o arte sull’arte, posizione di un analogo artistico dell’opera, atto a riferire su di essa senza irrigidirne (...) gli stilemi in sintagmi, le strutture poetiche in relazioni logiche” (96). Questa assenza di “relazioni logiche” e “sintagmi” precostituiti e sclerotizzati non comporta, com’è ovvio, che questa critica si risolva in un’operazione ingenuamente e superficialmente irrazionalistica; al contrario, la solida struttura metrico-sintattica dei Phares, così come, in diverso modo, il “ragionato disordine” della sintassi del Mallarmé prosatore, è specchio e strumento di una intrinseca e profonda razionalità estetica, peraltro problematica, aperta, sempre disposta a mettersi in discussione e in forse.
Questa concezione della critica come attività che si sustanzia nel “fruire dell’arte tramite un effet suo squisito e proprio” si può collegare alla “poetica dell’ effet” che fu alla base di Hérodiade, forse in assoluto il più grandioso esempio di “poesia della poesia”; la poetica dell’ effet rivela, in questa luce, anche la sua intrinseca natura e le sue potenzialità di “poetica critica”. E’ appena il caso di rinviare alla notissima lettera a Cazalis dell’autunno 1864, in cui Mallarmé enuncia il proposito di scrivere un testo in cui il fine del poeta sia “peindre non la chose, mais l’effet qu’elle produit”. Il riferimento d’obbligo va, a questo punto, a Poe, il “grande maestro” di cui parla una lettera del gennaio dello stesso anno, e alle cui “sévères idées” l’autore di Hérodiade vuol mantenersi ligio. L’idea mallarmeana di “effet” può forse essere ricondotta alla già menzionata “unity of effect or impression”, che il poeta deve ottenere tramite il ricorso alle “critical rules”, alle “sévères idées” che devono guidarne e governarne il lavoro. Questo principio di unità d’effetto può convertirsi o evolvere in metodo critico in virtù della specularità o “reciprocità” esistente tra l’effetto che il poeta, nella prospettiva di Poe, cerca di sortire sul suo lettore attraverso opportuni accorgimenti ed artifici formali, e l’analogo, speculare “effetto” che la realtà suscita sul poeta e sull’artista e, in pari grado, l’opera d’arte o il testo letterario, in qualità di “natura della critica”, sortiscono sul commentatore o l’esegeta. L’unità d’effetto, del resto, è essenzialmente un fatto formale, un risultato ottenuto attraverso particolari accorgimenti messi in opera, sul piano stilistico e retorico, nella “costruzione” del testo, e che concerne essenzialmente “the poem per se”; e basti pensare, al riguardo, alle pagine, peraltro di controversa interpretazione, della Philosophy of Composition, con la minuziosa, lucida descrizione del modus operandi del poeta - così minuziosa e lucida da sembrare a qualcuno un’astuta ma palese mistificazione - e il riferimento al refrain, il celeberrimo nevermore di The Raven, come strumento formale che meglio di ogni altro poteva consentirgli di ottenere, come “effect”, quel “tone of sadness” a cui egli tendeva.
“Le vers”, prosegue la lettera a Cazalis, “ne doit donc pas, là, se composer de mots; mais d’intentions, et toutes les paroles s’effacer devant la sensation”. Questa “sensazione” davanti alla quale le “paroles”, significativamente distinte dai “mots”, devono “cedere il passo”, “farsi da parte”, non deve certo far pensare ad un superficiale, mimetico, irriflesso “sensismo”. Come già aveva scritto Baudelaire nelle più volte citate Notes nouvelles, per Poe “dans la composition tout entière il ne doit pas se glisser un seul mot qui ne soit une intention, qui ne tende, directement ou indirectement, à parfaire le dessin prémedité”. L’”intention”, la precisa e determinata “volontà d’arte” - tipica, nell’accezione benjaminiana, delle “epoche di decadenza” -, prende il posto della trasognata ispirazione o del divino invasamento del Genie primoromantico, a un tempo elemento e strumento inconsapevole della Natura o dell’Assoluto. Tale “intenzione” si annida e agisce segretamente, ma in un modo di cui il poeta è perfettamente consapevole, dietro il “mot”, il concreto, particolare “termine”, materia grezza che dev’essere sbozzata e plasmata dagli affilati strumenti dell’officina poetica, e che proprio in questo senso resta distinta dalla più eterea, sentimentale, emotivamente connotata “parole”; ed è, forse, proprio in quest’ottica che la “parole” deve “s’effacer” davanti alla sensazione che il poeta - così come il critico - si propone, a un tempo, di registrare, razionalizzare, trasmettere. “L’opera diventa una questione di elaborazione ‘interna’, e ‘dipingere l’effetto e non la cosa’ significa preparare un sistema adiabatico perfettamente al riparo dalle ‘impressioni del di fuori’. (...) In definitiva, la poetica dell’effet giunge alla proposta d’un sistema dove le parole si riferiscono l’una all’altra, quindi organizzate in pura sintassi e senza un rimando semantico esterno al sistema” (97). La presenza, alla base della creazione artistica, di una precisa, lucida, perfettamente determinata ed agguerrita “intenzione” e “volontà”, è tipica della letteratura moderna; e non sarà casuale che il concetto e il termine di “intenzione” rimbalzino, significativamente, dal titolo dell’unica raccolta di scritti estetici di Wilde a quello della famosa “intervista immaginaria” montaliana. E proprio intorno a questo concetto ruota, in gran parte, l’incomprensione crociana della poesia moderna. “In poesia”, scrive il filosofo, con esplicito riferimento a Mallarmé, “il ‘voglio’ non vale”; del resto, la “sentenza (...) che nell’arte sia ‘immanente la critica’” riduce “l’arte ad un atto logicamente contraddittorio e imperfetto che s’invera nell’atto filosofico al quale vanamente aspira, così insidiando e in effetto abolendo l’autonomia della forma fantastica e intuitiva dello spirito” (98).
Indubbiamente, sulla base di questa poetica, la poesia diventa “una questione di elaborazione interna”. Non si deve, con questo, credere che questa poetica conduca la poesia ad una sorta di eburneo e claustrale isolamento rispetto alla società. Proprio l’idea di un “effetto” che il poeta deve consapevolmente e studiatamente perseguire, cercando di ingenerarlo nei suoi lettori, si ricollega al problema, certo più pressante per Poe che non per Mallarmé, del rapporto - anch’esso guidato e mediato dalla critica - tra l’autore e il suo pubblico, tra lo scrittore e l’”orizzonte d’attesa” in cui la sua opera deve, in qualche modo, inscriversi. Già il Baudelaire delle più volte citate Notes nouvelles aveva sottolineato come l’unità d’effetto, ottenuta dallo scrittore soprattutto nel genere “breve” della “Nouvelle”, improntata ad una “sobriété cruelle” e sostenuta da uno “style serré, concatené”, fosse il requisito più atto a venire incontro alle esigenze di una “lecture brisée”, frammentata, singhiozzante, accordata e sintonizzata sui frenetici ritmi produttivi della metropoli borghese ed industriale, e perfettamente consona ad un pubblico immerso nel “tracas des affaires” e nel “soin des intérêts mondains”. Il poeta-critico, per di più, è in grado di eliminare dalla sua opera “les vices de fabrication”. Un particolare, questo della composizione poetica intesa come “fabbricazione”, che sembrerebbe avvicinare la razionalità estetica implicita nel “fare” poetico a logiche di tipo industriale e commerciale, prefigurando quasi, alla lontana, quell’assimilazione delle tecniche della creazione letteraria ai processi produttivi propri dell’attività industriale e della catena di montaggio che diverrà totale solo con le avanguardie storiche, in cui segnerà il passaggio della condizione dell’arte dall’autonomia all’eteronomia.
Ma proprio la disciplina formale e la sapienza stilistica che sono necessarie per conseguire la “unity of effect or impression” fanno sì che il rapporto con l’orizzonte d’attesa e l’ossequio alle sue esigenze non diano adito ad un’operazione volgarmente e banalmente commerciale e paraletteraria: perseguendo e raggiungendo l’unità d’effetto, lo scrittore - come Poe sottolinea, riferendosi retrospettivamente all’esperienza di The Raven, nella Philosophy of Composition - può comporre una poesia capace di “suit at once the popular and the critical taste”. Le esigenze del tanto disprezzato vulgus, della tanto vituperata majority, possono essere conciliate con le “critical rules” e i “critical precepts” proprio grazie al principio di unità d’effetto, che dunque rivela un altro aspetto della sua grande funzionalità di poetica critica. Un elemento tipicamente eteronomo - l’osservanza e l’ossequio accordati alle leggi del mercato e alle aspettative del pubblico - viene in tal modo ricondotto entro il dominio dell’autonomia dell’arte.
Proprio la “poetica dell’ effet” può, forse, invitare a ripensare e rivisitare anche la nozione dell’”impressionismo” di Mallarmé (99). Scriverà, nel 1893, Gauguin, chiarendo - in una prospettiva, forse, ormai polemicamente postimpressionista - come la sua opera fosse “frutto di calcolo e di riflessione”: “accostando linee e colori, col pretesto di un soggetto preso a prestito dalla vita dell’uomo o della natura, ottengo delle sinfonie, delle armonie che non rappresentano nulla di assolutamente reale nel senso volgare della parola” (100). Questa poetica avrebbe dato vita, due anni più tardi, al dipinto Nevermore, direttamente ispirato, non a caso, al poemetto di Poe The Raven, ascoltato dalla viva voce di Mallarmé alla vigilia della partenza per i Caraibi. Nella lucida enunciazione di Gauguin - in cui confluiscono, tra suggestioni poetiche e fascinazione visiva, l’esempio di Poe e quello di Mallarmé - si ritrovano molti elementi della poetica dell’ effet, e delle sue implicazioni critiche. Il fatto che il “soggetto” sia “preso a prestito” dalla natura o dalla vita in via strumentale e pretestuosa trova riscontro in una poesia che deve “dipingere” - e già l’uso di questo verbo è altamente significativo - “non la cosa, ma l’effetto che essa produce”. Le “sinfonie” e le “armonie” che Gauguin, come prima di lui Delacroix, sostiene di essere in grado di comporre ed orchestrare per mezzo dei colori, lasciano intendere quanto il problema della sinestesia e della sinergia tra le arti fosse vivamente sentito nel contesto culturale dell’impressionismo e del simbolismo; contesto di cui, anche sotto questo profilo, la scrittura critica, che già nel 1862 il giovane Mallarmé poteva concepire come “sinfonia letteraria”, era parte integrante e componente fondamentale. A questa idea della scrittura poetico-critica come “peinture” si può ricondurre anche la concezione del “compte-rendu” critico come “paesaggio mentale”, immaginosa trasposizione, trasfigurazione metaforica e sinestetica dell’oggetto d’osservazione, e, nel contempo, “paesaggio dell’anima”, soggettiva introspezione, interiore processo anamnestico, autobiografia. Già Poe, del resto, nella citata Letter to B —, aveva definito la poesia come “beautiful painting” i cui colori sono, apparentemente, “confusion worse confounded, but start boldly out to the cursory glance of the connoisseur”: era, in tal modo, già chiaramente enunciata la stretta analogia tra l’atto critico compiuto sul testo poetico e l’attenta e competente fruizione di un’opera d’arte figurativa.
Un’ulteriore tappa, seppur isolata e non molto appariscente, del percorso evolutivo compiuto dalla concezione mallarmeana della critica, si trova in una lettera a Cazalis del tre marzo 1871 (101). La lettera appartiene ad un periodo piuttosto difficile e cupo dell’esperienza mallarmeana. Si tratta di quello che si potrebbe definire, con Piselli, “periodo di transizione”, segnato dal definitivo abbandono della provincia e dal trasferimento a Parigi, motivato da pressanti necessità economiche, da una “vraie et bonne misère” che ha indotto il poeta ad “épuiser les vilenies et les mécomptes des choses extérieures”. Mallarmé, nel momento in cui scrive, si è appena lasciato alle spalle “un supreme hiver d’anxietés et de lutte”. Erano, del resto, “gli anni del grande disastro della Francia, ed è notevole constatare come la svolta nella vita del suo paese corrisponda ad una svolta nella vita di Mallarmé” (102). Già questo dato può indurre a rifiutare la stereotipata visione di un Mallarmé rinchiuso ed arroccato nella turris eburnea, protetto ed isolato dalla stessa dorata prigione della sua Erodiade. Sono, anzi, le circostanze della vita, unitamente agli accadimenti storici, a condizionare, in una certa misura, l’evoluzione delle idee estetiche e delle concezioni teoriche del poeta. Anche in questa luce può e deve essere presa in considerazione l’idea di una critica come “autobiografia”; idea che, già presente, in una diversa luce, alla base della concezione stessa della coleridgiana Biographia literaria, verrà fatta propria dall’estetismo europeo, e che non ha in sé nulla di frivolo, di evasivo, di superficiale. Le circostanze della vita si intrecciano assai strettamente, e secondo libere regole, con i caratteri e le ragioni del “poetical criticism”, che anche per questo rifiuta le prerogative e le istanze di ogni dogmatica e “scientifica” assolutezza.
Proprio questo terribile inverno induce Mallarmé a tornare “un letterato puro e semplice”. “Je redeviens un littérateur pur et simple. Mon oeuvre n’est plus un mythe. (Un volume de Contes, rêvé. Un volume de Poésie, entrevu et fredonné. Un volume de Critique, soit ce qu’on appelait hier l’Univers, considéré du point de vue strictement littéraire). En somme, les matinées de vingt ans”. Questi “volumi”, per il momento non più che “sognati”, “intravisti” o addirittura “canterellati”, vedranno poi la luce, in diversi tempi e forme: se fino al 1871 di Mallarmé era apparso il solo volume Scies, pubblicato nel 1862, negli anni successivi saranno via via dati alle stampe, in limitatissime tirature, Les Poésies, l’ Album de vers et de prose, il libro Vers et prose e finalmente, per quanto concerne la critica, le Divagations, apparse nel 1897 con il corredo della riepilogativa Bibliographie, tra le cui dense righe si celerà la definitiva fissazione teorica dei princìpi e dei caratteri del “poème critique”.
Per il momento, abbiamo un’utile, anche se fugace, indicazione: la critica - anzi il singolo e concreto “volume di Critica”, che quasi trent’anni dopo prenderà corpo con le Divagations - è una forma di pensiero e d’espressione che dev’essere “considerata da un punto di vista strettamente letterario”, ossia, come si è più volte sottolineato, nei suoi peculiari e specifici valori formali ed estetici; e già il “vigorous criticism” di Poe non doveva mai allontanarsi, almeno direttamente, dal sicuro terreno, dalla “true province” del valore letterario considerato in sé e per sé. Forse è proprio da questa concezione della critica come attività autosufficiente ed incondizionata, libera dalla morale e dall’utile, che deriva l’uso, mai più abbandonato dall’autore, di indicarla con l’iniziale maiuscola, “la Critique”: essa è, per così dire, personificata ed ipostatizzata, come un’entità in sé assoluta, una monade, un eone, forse quasi una laica ed immanente divinità o feticcio, frutto di una concezione della letteratura e di una visione del mondo che hanno ucciso Dio e il Cielo, e arrivano quasi a divinizzare la riflessione metalinguistica e metapoetica. Può darsi, poi, che in questo supremo ideale di Critica si possa scorgere una delle tante idealizzazioni e astrazioni, uno dei tanti eidola estetici da cui, secondo la definizione del Thibaudet, il “platonicien” Mallarmé era ossessionato; eidola evanescenti e fragili, che, come si vedrà, si risolvono anch’essi, essenzialmente - e si è parlato addirittura di “cratilismo” -, nella sfera del linguaggio.
La Critica, scrive Mallarmé, solo “ieri veniva chiamata l’universo”: un’espressione densa e brachilogica fino all’oscurità, quale non è raro incontrare in questo autore, e che nasconde, forse, un’ironica allusione alle ambiziose e generose, ma spesso un po’ oratorie e vacue, implicazioni metafisiche ed etiche insite nel concetto di critica sviluppato dal primo romanticismo. Per Baudelaire, pur se nel peculiare contesto messo precedentemente in luce, la critica poteva ancora sfiorare la metafisica, elevare l’intelletto ad “altezze nuove”, cogliere l’essenza del reale ed abbracciare l’universo con il colpo d’ala dell’analogia e l’alchimia delle corrispondenze. Per la critica mallarmeana - che pure a sua volta non trascura, anzi sfrutta a fondo le risorse offerte dall’analogia, dalla metafora, dalla sinestesia - “le Ciel est mort”, la poesia è l’estremo, superstite, pietrificato regesto del “désastre obscur”, della “vuota trascendenza”, e la voce del poeta reca testimonianza del “bluff del cielo”, del “naufragio della metafisica”, ed è espressione di una “coscienza atea che ha ucciso e Dio e il sentimento” (103). Ecco perché la Critica, per così dire, si china e ripiega sulla letteratura, sul testo, diventa un fatto “esclusivamente letterario”.
Ma, come la lettera a Cazalis e le circostanze storiche e sociali a cui essa fa velatamente riferimento mostrano abbastanza chiaramente, tale concezione della Critica non esclude e non elude necessariamente il confronto con la realtà esterna e contingente; sono, anzi, proprio le drammatiche circostanze dell’”hiver d’anxieté et de lutte” che inducono e quasi forzano il poeta a “ridiventare un letterato puro e semplice”, a rivivere “les matinées des vingt ans”, a cercare e ad inseguire, dopo il tramonto delle certezze metafisiche e, insieme, degli ideali nazionali, una ritrovata e rinnovata fede nella letteratura intesa come valore assoluto ed incondizionato, e, forse, anche come consolazione e ristoro sul piano esistenziale. Queste “mattinate dei vent’anni”, che nel 1871 la primavera fa credere a Mallarmé di scorgere ancora innanzi a sé in tutto il loro fiducioso splendore, torneranno più volte a balenargli davanti agli occhi. Scriverà il poeta nel 1898, nella lettera aperta Sull’ideale a vent’anni (104): “quale fosse il mio ideale a vent’anni, non è molto improbabile che io lo abbia, seppur debolmente, espresso, poiché l’atto, da me scelto, è stato scrivere”. Un “ideale”, dunque, che non ha più nulla di generoso, di epico, di romantico, ma che si risolve e si sustanzia nell’atto della scrittura; un atto, quest’ultimo, che è intrinsecamente pervaso dal marginalic air della scrittura critica, e che per questo si riassume, letteralmente, nello “spolverare, dalla mia nativa illuminazione”, dall’intuizione balenante e geniale del poeta-critico, “l’apporto casuale esteriore, che si raccoglie, piuttosto, sotto il nome di esperienza”. Una letteratura che, come Erodiade, “non vuole nulla di umano”, e che tende non già ad eludere o ad abolire, ma certo a “spolverare”, a trasfigurare e sublimare in Verso e Verbo l’”esperienza” e la “sensazione”, sviluppandosi sulla scia di una “casualità” governata e calcolata.
Ma questa fede, profonda e totalizzante, nella letteratura e nella scrittura, non si tradurrà in forme di umanistica e classicistica fiducia nella funzione e nella dignità della letteratura, ma sarà, al contrario, sempre cupa, indecisa, contrastata, perennemente oscillante tra l’entusiasmo dell’illuminazione geniale e l’ossessione della pagina bianca. Come avverrà poi soprattutto, pur se con diverse modalità ed esiti, in D’Annunzio, e com’è, in generale, tipico dell’estetismo europeo nella sua fase più matura e più estenuata, “tutto si compie all’interno dell’atto poetico. (...) L’universo possibile e il gesto impossibile non eccedono lo spazio del Verbo”. “La poesia non può ormai essere che poesia del proprio essere poesia o meglio” - questo limitatamente al caso specifico di Mallarmé - “della propria impossibilità di essere poesia” (105). Come è stato osservato, “la decadenza”, sorta di vastissimo, multiforme, epocale “metalinguaggio”, “non può parlare, si direbbe, che della decadenza” (106). In virtù di quel “principio di reciprocità” che si è già più volte invocato, ad una poesia che si fa, che è forzata a farsi poesia del proprio essere poesia e, dunque, critica di se stessa, “poème critique”, fa riscontro una “critique poétique”, una “critical art” intesa come fatto “esclusivamente letterario”, incentrata su valori prettamente ed eminentemente estetici, formali e stilistici. Ma è proprio su questo versante “esclusivamente” o precipuamente “letterario” che il poeta registra e rispecchia la crisi che attanaglia tanto la sua personale vicenda esistenziale quanto la condizione storica propria della sua epoca: alla “violazione radicalmente eversiva del sistema retorico-ideologico” dominante fa riscontro una speculare, ed altrettanto eversiva, violazione “della norma etico-sociale” fissata dalla classe egemone (107). Solo cinque anni dopo la lettera a Cazalis, ancora in pieno “periodo di transizione”, Mallarmé stesso getterà luce su questo aspetto, nel Tombeau d’Edgar Poe (il nome di Poe ricorre, come si vede, con una frequenza non casuale). “Eux” - i Borghesi, i Trascendentalisti, i fautori dell’idea di Progresso e dell’eresia del Didascalico -, “comme un vil sursaut d’ydre oyant jadis l’ange / Donner un sens plus pur aux mots de la tribu / Proclamèrent très haut le sortilège bu / Dans le flot sans honneur de quelque noir mélange”. “Dare un senso più puro alle parole della tribù”: così, proprio dal suo “punto di vista esclusivamente letterario”, attraverso il linguaggio e dall’interno del linguaggio, senza varcarne, almeno apparentemente, i confini, e agendo sulla materia verbale con un assiduo, strenuo e latente lavorìo, il poeta interagisce con la società e con la storia, scuotendo, logorando e rinnovando dall’interno il “sistema retorico-ideologico” istituito dalla classe dominante. Quella stessa classe, tra ipocrisia e spavento, offre poi al poeta un postumo riconoscimento del suo valore e finanche della sua funzione storica, adempiuta in virtù dell’oscuro e profondo “sortilège” della parola. Questo “sortilegio”, altra forma della già baudelairiana “sorcellerie évocatoire”, è ottenuto, anzi, analogicamente, “bevuto / nel flutto senza onore di qualche nero miscuglio”: l’azione che il poeta compie, criticamente, sul linguaggio, è corroborata dal ricorso a “quelque noir mélange”, che - di qualunque sostanza si tratti - consente al poeta di raggiungere l’ ivresse, l’estasi etilica, l’”espansione” dell’io, l’amplificazione delle facoltà percettive e creative, e, insieme, delle capacità espressive e linguistiche; il ricorso a questo “nero miscuglio”, nel contempo, rende il poeta “diverso”, “sans honneur”, lo pone ai margini della società, lo priva di prestigio e rispettabilità, e, dunque, ribadisce e rafforza il legame esistente tra la violazione della norma “retorico-ideologica” e quella della norma “etico-sociale”.
3. Arrivati all’altezza di Crayonné au théâtre, pubblicato nel 1887, si incontra un tentativo di definizione più ampio e più compiuto di quelli finora incontrati. Si è già accennato alle sottili implicazioni teoriche e metodologiche insite nella definizione stessa di uno scritto di critica come “crayonné”, “appunto”, “schizzo”, segno fugace e “marginale”, rapida ma, oltre l’apparenza, profonda e illuminante annotazione di un’”impressione” di lettura, di visione, di ascolto. Il Crayonné procede e si snoda, tenendo fede al titolo, come una sorta di “rapsodia” critica, che si struttura attraverso la sutura e la giustapposizione di diverse porzioni testuali, corrispondenti a differenti nuclei di pensiero, che sottili legami analogici connettono l’uno all’altro.
Uno dei più rilevanti tra questi nuclei è incentrato proprio sulla critica (108), nella fattispecie critica teatrale, ma comunque sussunta nell’ideale di Critica che Mallarmé, tra le righe, sta costruendo, e considerata soprattutto nei suoi rapporti con la poesia. “La Critique, en son intégrité, n’est, n’a de valeur ou n’égale presque la Poésie à qui apporter une noble opération complémentaire, que visant, directement et superbement, aussi les phénomènes ou l’univers”. La Critica viene dunque còlta e considerata nei suoi rapporti con la Poesia - ugualmente e specularmente personificata ed ipostatizzata -, alla quale essa apporta una “nobile operazione complementare”. Quest’ultima “operazione” è, certo, molto di più che un semplice corollario, un commentario erudito e cattedratico o una scontata e pleonastica precisazione a posteriori, se è vero che proprio attraverso quell’”operazione” la Critica gareggia con la Poesia fino ad “eguagliarla”, tanto per tensione intellettuale quanto per spessore formale. La Critica consegue questo superbo risultato, letteralmente, “vedendo (...) i fenomeni o l’universo”; essa sembra, dunque, quasi trent’anni dopo la lettera a Cazalis prima citata, tornare come fino a “ieri” ad “essere chiamata l’universo”, varcando lo spazio del testo, della pagina, della letteratura, per assurgere ad una suprema finalità conoscitiva. Ma è lo stesso Mallarmé ad affrettarsi a precisare che questa funzione conoscitiva si identifica, o quantomeno si confonde, con una “qualité de primordial instinct placé au secret de nos replis (un malaise divin)”. Proprio quello che dovrebbe essere o che cerca di essere un supremo, solidissimo strumento di conoscenza, si identifica, si aliena e si declina in un “primordial instinct” insito nelle “pieghe” dell’animo e dell’interiorità dell’uomo e dell’intellettuale, o, cosa ancor più significativa, in una “divina malattia” che affligge non solo il singolo poeta, ma, sembra di poter intuire, un intero sistema culturale, e una globale condizione storica. Proprio “perché muove da una situazione di mancanza d’assoluto, ecco la critica diventare il disagio sentimentale di tale condizione, ‘primordial instinct’ o ‘malaise divin’, orientato al discoprimento teoretico” (109). Proprio questa immanenza della critica alla poesia, questa irrisolta e problematica tensione intellettuale attraverso cui l’una cerca di “eguagliare” l’altra, costituiscono la cifra essenziale di una cultura e di una sensibilità segnate da una condizione inguaribilmente, anche se divinamente, “malata” e “schizofrenica”, sospesa ed oscillante in un lacerante contrasto. Da un lato, qualcosa ancora sopravvive degli slanci sentimentali primoromantici e della idealistica fiducia nei “fenomeni”, nell’”universo” e nella possibilità di una solida ed assoluta conoscenza di essi; dall’altro, l’assiduo e logorante lavorìo della riflessione critica divide e frantuma il reale, e insieme contrasta e reprime gli impulsi e i trasalimenti della sensibilità. Mallarmé, sotto questo profilo, respira pienamente la temperie di una cultura che, attraverso il naturalismo, il positivismo, il trionfo vero o presunto della razionalità scientifica, ha ucciso il Cielo, Dio, il sentimento (110), ha infuso ed insediato nelle “pieghe” degli animi una gelida coscienza atea che si trova, peraltro, sgomentata ed ossessionata dalla “mancanza d’assoluto”, dal vuoto di una trascendenza spersonalizata, disanimata, annichilita, e cerca disperatamente, proprio attraverso la Critica, di colmare quella mancanza e quel vuoto. La Critica è, dunque, tipica di una letteratura e di una società “malate di nervi”, lacerate da un insanabile contrasto, affette da una cronica condizione schizoide; la diagnosi crociana, opportunamente decontestualizzata, e privata di ogni implicazione e connotazione spregiativa, si rivela, a suo modo, illuminante.
Quel “malaise divin”, quella divina malattia che è, per il poeta di Hérodiade, lo spirito critico, può poi, forse, essere retrospettivamente accostata alla “malinconia” di Baudelaire, intesa nell’accezione benjaminiana: l’”ingegno allegorico”, “nutrito di malinconia”, è certo il più consentaneo al “grande rimuginatore”, al poeta-critico cogitabondo, cerebrale, tormentato, la cui allegoria segmentata e lacerata divide e seziona il reale, l’”universo” e i “fenomeni”, senza più riuscire a ricomporne i frammenti se non nel linguaggio, attraverso il sortilegio dell’analogia.
La “mentale situation” si configura, nella sua profondità abissale e labirintica, “comme des méandres d’un drame”, contraddistinto da un’irresolubile “inextricabilité”. Questa peculiare ed originalissima spazializzazione e, per così dire, drammatizzazione dell’universo intellettuale, in cui si sovrappongono e si confondono le metafore, quasi archetipiche, del teatro e del labirinto, si ricongiunge a sua volta, per altra via, al concetto di Critica. Quest’ultima, seguendo e rispecchiando i “meandri della mente”, si sente offesa e svilita da un umiliante “paradoxe” quando si trova ad avere, come proprio oggetto, un “théâtre contemporain” ormai ridotto a mero e superficiale intrattenimento, o, peggio ancora, viene impiegata per “marquer les fluctuations d’un article d’esprit ou de mode”. “Je n’allais que rarement au théâtre”, confesserà il poeta, non senza una punta di snobismo intellettuale, nella tarda nota bibliografica posta in calce alle Divagations, e su cui si tornerà tra breve; questa ostentata indifferenza deriva dallo sdegno e dall’avversione per l’”Usage actuel du théâtre”, e si inserisce nella più vasta e globale condanna dell’”hérésie de l’art pour tous”, stigmatizzata con la stessa energia con cui Poe combatteva l’aborrita “heresy of The Didactic”. L’”inestricabilità” della “situazione mentale” “veut qu’en l’absence de (...) la Vision même” - della Visione in assoluto e in astratto, del supremo, ideale Spettacolo, speculare alla Critica, esperito dalla mente nell’atto del conoscere - “quiconque s’aventure dans un théâtre contemporain et réel soit puni du Châtiment de toutes les compromissions” ... Questo particolare aspetto della concezione mallarmeana della critica si inscrive, del resto, nel quadro delle vaste e complesse teorie sul teatro - teatro assoluto, fatto di “essenze”, di “temi eterni”, di “Culto” - sviluppate dal poeta nella fase più matura della sua riflessione (111). La stessa Hérodiade, “poème critique” per eccellenza, era del resto stata concepita, secondo quanto emerge a più riprese dall’epistolario, come “tragédie”, e successivamente come “scena drammatica” (112). Autenticamente e profondamente “tragico” è, in effetti, il dialogo tra Erodiade e la Nutrice - figura, quest’ultima, già presente nell’ Ippolito di Euripide così come nella Phèdre di Racine, che forse ha potuto esercitare sull’autore una più vivida e prossima suggestione -; dialogo che rappresenta ed illustra il contrasto tra l’allegorica fanciulla, che contempla nell’acqua gelata le proprie perfette ed immacolate membra, emblema di una bellezza che si vuole e si immagina imperitura, e la vecchia, semplice donna che cerca invano, con le sue interlocuzioni ruvide e smozzicate, di richiamarla alla realtà, alla fisicità, al concreto, umano fluire del tempo, con l’idea della caducità delle cose - “mais cette tresse tombe” - che vi è strettamente connessa. Dovrebbe, certo, essere ripreso più ampiamente altrove quest’ultimo spunto interpretativo, indirizzato verso una lettura di Hérodiade in chiave teatrale e tragica, magari intendendo la tragedia, secondo alcune autorevoli indicazioni, come “conflitto di linguaggi”, linguaggio umano e linguaggio divino, o, nella fattispecie, da un lato il linguaggio della purezza e dell’eternità, dall’altro quello della caducità e del tempo; non è comunque casuale che Critica e Teatro, intesi quasi come forme a priori o modelli archetipici - comunque recuperati attraverso un’operazione meditata e consapevole - del pensiero e della conoscenza, confluiscano e si abbraccino proprio nel più vasto e denso dei “poèmes critiques”, emblema e monumento del pensiero che pensa se stesso, della poesia che si fa critica di se stessa. “Ma pensée s’est pensée, et est arrivée à une conception pure”, scrive il poeta al solito Cazalis in una famosa lettera del 1867, su cui Piselli, Luzi e molti altri hanno giustamente richiamato l’attenzione. Egli ha bisogno di “se regarder dans cette glace pour penser”; e questo ghiaccio prefigura, nella sua densa e pregnante valenza simbolica e metaletteraria, tanto l’”eau gêlée” in cui si contempla Erodiade quanto il “lac dur, oublié” in cui è imprigionato il Cigno. Non a caso in quella stessa lettera, poche righe dopo, Mallarmé annuncia la gestazione di “trois poèmes en vers, dont Hérodiade est”, con una metafora musicale, “l’Ouverture”. E si ritrova puntualmente, in relazione a quell’autorispecchiamento ontologico e speculativo di cui la Critica è fondamentale strumento, la nozione di Universo: “l’Univers retrouve, en ce moi, son identité”; l’”Univers spirituel” ha “une aptitute (...) à se voir et à se developper, à travers ce qui fut moi”. La Critica, qui non espressamente nominata, e che solo quattro anni più tardi sarebbe stata “considerata da un punto di vista strettamente letterario”, a questa altezza veniva ancora “chiamata l’Universo”, poiché, almeno in parte, il Genio creatore era ancora, idealisticamente, lo strumento inconsapevole attraverso il quale l’Assoluto, rivestito dalla forma artistica, si fa presente a se stesso.
4. Gli spunti e le indicazioni, non molto appariscenti, utili per mettere più chiaramente a fuoco la concezione mallarmeana della critica, si infittiscono, almeno relativamente, tra il 1893 e il 1896, anno, quest’ultimo, in cui si avrà, con la Bibliographie, il sintetico quanto illuminante consuntivo metodologico di un percorso critico iniziato più di trent’anni prima.
Una fugace, ma tutt’altro che superflua indicazione giunge da Magie, uno scritto del 1893 (113). Lo scritto trae occasionale spunto e pretesto da un fatto di cronaca degno, di per sé, degli stiracchiati, scandalistici “remplissages” che dominavano la “massa oziosa” della stampa periodica: la scoperta di riti magici e satanici in cui pareva fossero stati coinvolti anche alcuni ecclesiastici. Un fatto del genere non poteva non suggerire a Mallarmé - lettore e ammiratore, come già Huysmans, del Baudelaire di testi come le Litanies de Satan - acute e profonde divagazioni letterarie.
L’argomentazione, concisa e serrata, prende le mosse proprio dall’autore di À rebours. “HUYSMANS se plut, dans une oeuvre de portée infiniment autre que fournir des documents même extraordinaires (...) à dénoncer le bizarre attardement, dans la Paris actuelle, de la démonialité”. L’”oeuvre” a cui fa riferimento Mallarmé non è, come si potrebbe pensare, À rebours, ma più verosimilmente un’opera del periodo della conversione, Là-bas, apparsa nel 1891. In questo vero e proprio studio sul satanismo “lo scrittore cede più che non creda e non voglia al fascino di quel che vi è di magico e di sadico nella sua concezione del cristianesimo cattolico” (114). Già nel dodicesimo capitolo di À rebours, del resto, Huysmans aveva sottolineato quanto “incerto” fosse il “combattimento fra l’inferno e il cielo”, quanto in sé contraddittoria “la fede in due entità contrarie, Satana e Cristo”, e quanto impreciso il confine tra “i due fossati della religione cattolica che finiscono per riunirsi: il misticismo e il sadismo”, quest’ultimo “figlio bastardo del cattolicesimo che per secoli ha esso stesso applicato sotto tutte le forme, con i suoi esorcismi e con i suoi roghi”. Quella stessa ambigua commistione tra satanismo ed angelismo, tra carnalità e misticismo, tra l’”idée catholique” e la seduzione del male, che ho già cercato di mettere in luce, scomodando Spengler, a proposito di Baudelaire, e che ha oggettivo riscontro in vari luoghi delle Fleurs, si ritrova in Mallarmé e in Huysmans; questi, com’è noto, per primo portò l’autore di Hérodiade alla ribalta della scena letteraria europea, elogiandone, tra le altre cose, proprio la “malinconica magia”. Questa “magia” e questa “malinconia” - “sorcellerie évocatoire” e “malaise divin” - si potranno, forse, intendere anche, con riferimento alla critica, nel senso più pieno e pregnante, letterario, linguistico, quasi “tecnico”; e come in Baudelaire, così anche, e in modo ancor più esplicito, in Mallarmé, si ritrova quella “critica demonica” di cui parla Hartman, e a cui già si è fatto riferimento: quella capacità, da parte della critica, di cogliere ed apprezzare la natura dell’artista demonico e dell’artista criminale, capacità di cui il wildiano Pen, pencil and poison offre l’esempio più clamoroso. Si delinea, in tal modo, una concezione che “usa” il demonismo, il satanismo, la magia e l’alchimia non solo come fattore di protesta e di ribellione nei confronti della società, ma anche e soprattutto come fatto stilistico - la già rimbaudiana “alchimie du verbe” - e come oggetto, e insieme strumento, della critica. Tramite e medium di questa coincidentia oppositorum, di questa schizofrenica, stridente, in sé contraddittoria fusione tra cristianesimo e satanismo, tra misticismo e sensualità, saranno sempre i valori letterari e stilistici: anche per il Wilde contrito e penitente del De profundis - ma anche questo pentimento è, forse, non meno artefatto e letterario di quello del Verlaine di Sagesse e della Bonne Chanson, o del D’Annunzio del Poema paradisiaco - i Vangeli continueranno ad essere “quattro poemi in prosa su Gesù Cristo”; e nello stesso contesto possono forse essere inserite le rimbaudiane Proses johanniques, parodistico e spregiudicato incubatoio stilistico e formale di quella che sarà poi la prosa poetica delle Illuminations.
Non è casuale - tornando al testo di Magie - che il concetto di satanismo venga poi direttamente fatto interagire con la nozione, tipicamente baudelairiana, di modernité, che nel quarto capitolo del Peintre assumeva già la pregnanza e la funzionalità di una categoria storiografica. “Le moyen age, incubatoire: tout depuis, alliage, avec l’antique, pour composer cette vaine, perplexe, nous échappant, modernité - outre la législation pétrifiée romaine stagne une religion, celle des cathédrales, parallèlement”. Già Baudelaire quasi si scusava con i suoi lettori per aver introdotto il termine e la categoria di modernità: M. G., il pittore della vita moderna, “cherche ce quelque chose qu’ on nous permettra d’appeler la modernité...”. Non credo si possa essere concordi con René Wellek quando, nelle pagine dedicate all’autore dei Salons nella sua Storia della critica moderna, parla di una “modernità (...) ancora incerta e timorosa”, appoggiandosi alla condanna del concetto di progresso e all’affermazione della sua inapplicabilità all’”histoire des arts”; si è già visto come l’accezione - tutt’altro che “moderna” - del concetto di progresso contro cui Baudelaire si scagliava fosse quella, biecamente utilitaristica e goffamente meccanicistica, propria di certa borghesia così come di certa critica. Nell’attraversamento del romanticismo, nella sfida al labirinto della nuova realtà urbana e industriale, e, soprattutto, nella fondazione del primo nucleo critico-teorico da cui poi si dirameranno le varie e diversificate espressioni ed evoluzioni, critiche e poetiche, dell’”idea simbolista”, la mano del poeta - si rivela tutt’altro che “incerta e timorosa”, anzi quanto mai vigorosa e decisa. La categoria di modernità, già attiva in sede critica, e già quasi anche sul piano storiografico, viene tuttavia trattata e maneggiata da questi autori ancora con una certa cautela, anche se già con grande perizia e piena, militante consapevolezza. Si tratta, certo, di una categoria ancora in fieri, in movimento, in evoluzione, che rappresenta un paradigma quanto mai dinamico, duttile, funzionale, com’è, del resto, pienamente consono anche all’oggetto stesso che essa designa: “le transitoire, le fugitif, le contingent”. Ecco perché questa modernità può essere “perplessa” o addirittura - nei momenti dello sconforto, dello sgomento, dell’ impuissance, della disperante nostalgia dell’assoluto - “vana”; essa è comunque, per certi aspetti, “échappant”, “sfuggente”, e tende a sottrarsi ad ogni univoca definizione, e rischia addirittura, talvolta, di sfumare in una dimensione di volatile e fluttuante atemporalità, tale da risucchiare e sussumere sotto di sé addirittura un medioevo fosco, pittoresco, da romanzo gotico: il medioevo delle cattedrali, dei “sabba”, dei “gargouilles” raffiguranti sataniche “figure infami”, di tutto un patrimonio culturale, e anche specificamente letterario, che “refuse de choir”, radicato com’è nella memoria storica e nell’immaginario collettivo. Un concetto di modernità, si potrebbe aggiungere con qualche cautela, che proprio per questo sembra - almeno se ricondotto al concreto humus storico e letterario da cui germinò e su cui crebbe - uscire piuttosto falsato e deformato da certi dogmatici e forzosi irrigidimenti a cui è stato talvolta sottoposto da certo pensiero marxista.
L’immagine della “bande restaurée”, con le fosche raffigurazioni che vi si succedono, suggerisce al poeta alcune riflessioni sui rapporti - così importanti per le poetiche simboliste e postsimboliste, e, forse, non ancora adeguatamente indagati - tra poesia e magia.
Scriveva Baudelaire nel saggio su Gautier, del 1859: “il y a dans le mot, dans le verbe, quelque chose de sacré qui nous défend d’en faire un jeu de hasard. Manier savamment une langue, c’est pratiquer une espèce de sorcellerie évocatoire”. I concetti e i termini di Verbe e Hasard assumevano, in questo luogo baudelairiano, una valenza già non molto distante da quella che avrebbero acquistato nel pensiero di Mallarmé, come si vedrà meglio tra breve.
Queste enunciazioni si inserivano nel contesto di una concezione della poesia come “sortilegio evocatorio”, come sottile e sapiente malia; si trattava, comunque, di una concezione ricondotta anch’essa al dominio del linguaggio, e all’esercizio tecnico e materiale dell’arte poetica, del “maneggiare” le parole: una “magia”, dunque, intesa più come scaltrito e raffinato gioco di prestigio che come fosco e mistagogico rituale. Ed è puntualmente e significativamente verificata e applicata, anche riguardo ai versi dell’impeccabile parnassiano, la corrispondenza tra le profonde strutture analogiche che innervano e pervadono il reale e la loro compiuta, perfetta espressione stilistica: un’”immense intelligence innée de la correspondance et du symbolisme universels” si traduce, in modo del tutto naturale, nel “répertoire de toute métaphore” che il poeta riesce sapientemente a padroneggiare e mettere in opera.
Il nesso tra poesia e magia è strettamente legato alla convinzione - spontanea ed “ingenua”, come nel caso dei riti tribali e primitivi, o, al contrario, recuperata artificiosamente e strumentalmente attraverso una consapevole mediazione culturale, come nel caso delle poetiche simboliste - che esistano, all’interno della natura, forze e legami arcani e numinosi, e che la formula, il carmen, la parola ritmicamente e retoricamente organizzata e scandita, abbiano in sé il potere di incarnarli e di rivelarli. Tale nesso, dunque, non nasce con il simbolismo; esso è anzi, per certi aspetti, strutturale ed archetipico. E si sarebbe, a questo punto, tentati di scomodare, con un consapevole arbitrio, Lévi-Strauss e le sue teorie sul “pensiero selvaggio”, su quella “scienza del concreto” che assume la forma di “espressione metaforica” o corrispettivo analogico e trasposizione immaginifica del sistema costruito dalle scienze esatte; un “pensiero selvaggio” fondato sulla convinzione, in fondo non lontanissima dalle implicazioni gnoseologiche della poetica simbolista, che al desiderio di “soddisfare”, attraverso analogie o “equivalenze”, il “sentimento estetico”, corrisponda “una realtà oggettiva”. E qualcuno potrebbe, forse, chiamare in causa anche le ipotesi di un Lévy-Bruhl sulla magia come conoscenza “mistica”, regolata da una “legge di partecipazione” che stabilisce tra oggetti ed esseri connessioni emozionali - forse non del tutto dissimili dalla baudelairiana “symphathie” -, e si traduce in una forma di conoscenza che assume il dato reale nelle sue valenze simboliche ...
Esiste un sottile filo che connette, a distanza di secoli, gli antichi carmina della latinità arcaica, che vogliono, con la loro cupa e solenne ritualità e il loro formulismo ciclico e scandito, rinsaldare e rinnovare, tramite la forza segreta delle parole, la primordiale e profonda comunione tra l’uomo e la natura, agli charmes di Valéry, in cui si fondono, con l’apporto della lucida razionalità del poeta-matematico e la mediazione della poetica simbolista, i due aspetti - quello latamente “magico” e quello specificamente letterario - della nozione di poesia come “carmen”.
Questa mediazione simbolista, che assume, razionalizza e trasforma in legge il sostrato profondo di un nesso archetipico, coinvolge strettamente il concetto e la funzione della critica. Prosegue il passo di Magie prima citato: “Hébétude fouettée de blasphème, cette messe-noire mondaine se propage, certes, à la littérature, un objet d’étude ou critique. Quelque déférence, mieux, envers le laboratoire exteint du grand oeuvre, consisterait à reprendre, sans fourneau, les manipulations, poisons, refroidis autrement qu’en pierreries, pour continuer par la simple intelligence”. Gli elementi offerti dalla magia vengono assunti nel laboratorio del poeta come “oggetto di studio o critica”, come strumento o anello intermedio di un processo che deve essere sorvegliato e portato a compimento dalla “simple intelligence”, tramite l’intervento della strumentazione tecnico-retorica attraverso cui il poeta - come diceva già il passo baudelairiano - “manipola” le parole, con un elegante, superbo atto di prestidigitazione. Il poeta deve “évoquer, dans une ombre exprès, l’objet tu, par de mots allusifs, jamais directs”. Nel 1891, rispondendo all’”inchiesta sull’evoluzione letteraria” promossa dall’ Écho de Paris, Mallarmé aveva chiarito come fine della poesia fosse non “nommer un objet”, ma “suggérer”, “évoquer petit à petit”, indurre il lettore a “deviner peu a peu” gli sfumati contorni del reale; in ciò consisteva il quasi religioso e mistico “mystère” che “constitue le symbole”... Questa è - sia detto per inciso - una delle paradossalmente rare ed isolate definizioni teoriche del concetto di simbolo che ci siano state date dai simbolisti francesi. Questo sortilegio - spiega l’autore in Magie - è operato dal poeta, “enchanteur de lettres”, per mezzo del verso, strumento della magia, “trait incantatoire”. E allora il “cercle que perpétuellement ferme, ouvre la rime” presenta un’evidente analogia con “les ronds, parmi l’herbe, de la fée ou du magicien”: il “cerchio magico” dello stregone, lo spazio fisico in cui lo sciamano può esercitare i suoi poteri sulla materia, e porre le movenze della sua danza in sintonia con i ritmi arcani dell’universo, viene ora letteralmente a coincidere con lo spazio del testo, con l’immateriale e ideale circonferenza descritta dal verso - quello stesso verso che di lì a poco sarebbe entrato in “crisi” - per mezzo del ciclico e ricorsivo ritorno della rima.
Magie parla in modo specifico del “grand oeuvre”, dell’ Opus Magnum perseguito dagli alchimisti, della profonda trasmutazione e del completo dominio della materia attraverso una sapienza arcana, a mezza strada tra scienza e magia; ancora più esplicito era il riferimento al sapere arcano e remoto degli alchimisti in una lettera a Cazalis del maggio 1867: l’”oeuvre” del poeta era “L’Oeuvre, le Grand’Oeuvre, comme disaient les alchimistes, nos ancêtres...”. Sarebbe, forse, suggestivo accostare il fondamento gnoseologico del sapere alchemico - “obscurum per obscurius, ignotum per ignotius” - al proverbiale e spesso impenetrabile obscurisme mallarmeano, al tratto fondamentale e distintivo di una poesia - e di una critica - spesso oscura, paradossalmente, per eccesso di significazione, o per una densità di pensiero che arriva fino all’implosione e all’annichilazione.
Già in Hugo si profilava, tra le Contemplations e la Fin de Satan, una concezione del poeta come mage, come veggente che riesce a scorgere e a rivelare all’umanità il significato profondo del reale e gli arcani disegni della storia, prima sepolti sotto “ténèbres d’années” e “couches de jours, de mondes, de néants”. Ma nel poeta della Légende des siècles quest’idea finiva ancora per rarefarsi e smarrirsi, oltre che nella “confusa estaticità” di cui parla Friedrich, anche in una concezione della funzione del poeta in chiave oratoria e pedagogica: i “mages”sono anche i “vati”, le guide, i “condottieri” di un’umanità illuminata e redenta. Il sopraggiungere dell’”étude ou critique” mallarmeani, riprendendo e portando a compimento la baudelairiana “sorcellerie évocatoire” e la rimbaudiana “alchimie du verbe”, “raffredda” ed “estingue” il laboratorio dell’alchimista, terminando e rendendo definitiva la trasformazione dell’estatica e vaticinante “magia” di Hugo in concreta, tecnica operazione eseguita “a freddo” sulla materia verbale. Proprio in questo contesto la “critica” perde temporaneamente, insieme all’iniziale maiuscola, l’aura di distinzione, di assolutizzazione, quasi di sacralità che in Mallarmé sovente la circonfonde: la critica, fatto “esclusivamente letterario”, si identifica con la “simple intelligence” che deve sopraggiungere a razionalizzare e dominare la magia e l’incantesimo verbale. Sotto questo particolare profilo l’evoluzione a cui il concetto di “magia” va incontro nelle poetiche simboliste e postsimboliste, fino alla poesia come charme nell’accezione rigorosamente “matematica”, calcolata e fredda, di un Valéry, conferma che “la tecnica”, di cui il poeta, grande artiere, si avvale per signoreggiare i sentimenti e manipolare le parole, “è una forma moderna e demistificata di magia. (...) Essa naturalizza il mistero creandone un’immagine estremamente chiara” (115).
Questa paradossale “chiarezza” permea di sé, sovrasta e sottende l’”obscurisme” mallarmeano, che è a sua volta, circolarmente, figlio proprio dell’assiduo, esasperato, ascetico lavorìo formale e retorico cui Mallarmé sottopone la materia verbale. E proprio in questo senso e in questi termini, nell’ottica cioè di una magia che si sposa con la critica e che, data la sua natura prettamente verbale, non può essere disgiunta dalla critica, si potrebbero forse ripensare anche certe nozioni ormai abusate, come quella del “misticismo” e del “platonismo” - o meglio “neoplatonismo” - mallarmeani. Che la visione di Dio, del Bene, dell’Uno, si identificasse conuna epifania o parusìa che finiva, in virtù del suo stesso supremo, “sovrasostanziale” fulgore, per sottrarsi alle facoltà percettive dell’uomo, era noto ai mistici; e l’ obscurisme del poeta di Hérodiade non è forse troppo lontano, ad esempio, dall’ hyperphotos gnophos, dalla “luminosissima tenebra” di cui parla Dionigi l’Aeropagita. Allo stesso modo i mistici erano ben consci dell’inadeguatezza dei divina nomina ad esprimere l’essenza dell’ alienatio mentis, a restituire anche solo una minima parte della suprema Visione, e dell’irrimediabile relatività ed aleatorietà degli hypothetikoi logoi in cui si frammenta e si disperde la lingua mortale quando urta contro le barriere dell’ineffabile. Queste parole parziali ed infinitamente inadeguate, non più confortate e riscaldate nemmeno dalla generosa fiducia in un’alterità e in una trascendenza positive e “piene”, ancorché inattingibili ed innominabili, sono, nella loro materiale, sillabica nudità, tutto ciò che resta al poeta dopo la morte del cielo; ed è su queste parole - vuote, disanimate, addirittura ribelli e ingovernabili - che il poeta deve instancabilmente lavorare di cesello, forte della sua perizia tecnica e della sua autocoscienza critica. Le parole, private della trascendenza, abbandonate alla pagina, allo scrittoio del poeta, alla loro concreta e materiale immanenza - perse, direbbe Luzi, “nel cuore dell’orfanità” -, non possono più veicolare e partecipare la conoscenza di un assoluto e di un ignoto che oramai, inesorabilmente, si negano; le parole, divenute esse stesse eoni, emblemi, sostanze, “fondano” esse stesse la realtà - esse stesse, da ultimo, sono la realtà. A ben vedere si tratta, come sottolinea il noto teorico dell’”estetica della mente”, di una “concezione mistica che” - non risolvendosi certo in un’estatica ed irriflessa alienatio mentis, ma offrendosi, piuttosto, come “objet d’étude ou critique” - “ha condotto Mallarmé a riflettere fino in fondo sulla natura della propria arte. (...) Qui le rime, le allitterazioni, le figure, i tropi, le metafore” non sono solo artifici stilistici - pur mantenendo tutta la sottigliezza e la raffinatezza dell’artificio nel senso più alto e nobile -, ma acquisiscono, come già la metafora e l’analogia nel Baudelaire critico, la funzione di penetranti ed efficacissimi strumenti conoscitivi, così da divenire “proprietà sostanziali dell’opera. (...) Nel recupero di certa ritualità misterica propria della onomanzia magica (...)” - basti pensare all’enigmatico “idolo Anubi” del Tombeau de Charles Baudelaire, o al “grimoire” e agli “erbari, atlanti e rituali” della Prose pour Des Esseintes - “può cogliersi un cifrario di segno analogo a quello della geroglifica e della emblematica, capace di svelare, per via problematica, riflessa, mediata, ‘significazioni’ sempre nuove” (116), sempre Già Novalis scriveva: “Magia: scienza mistica del linguaggio. Simpatia del segno con il designato” (fr. n. 137). La cultura del primo romanticismo fondeva, in tal modo, scienza, magia, alchimia e mistica, unendoli in un nodo strettissimo, che però rischiava di sciogliersi nella più rarefatta ed evanescente astrazione. Nei simbolisti, invece, l’”alchimia della parola” è sempre dominata e controllata dalla razionalità del parfait chimiste, e risolta nell’esercizio della tecnica e della retorica; “la tecnica”, come ha evidenziato Geoffrey Hartman, “è una forma moderna e demistificata di magia” (117). In questo senso, l’ Opus Magnum degli alchimisti viene continuato e portato a compimento “par la simple intelligence”.
Si è già visto come per Baudelaire ci fosse, nel verbe, “qualcosa di sacro”, che diffidava il pur scaltro e smaliziato “chimiste” dal fare delle parole un “jeu de hasard”. In lettera a Villiers de l’Isle-Adam del settembre ’64, Mallarmé riprendeva, in termini abbastanza simili, il concetto di Hasard, sostenendo di voler trarre la poesia “du Rêve et du Hasard et de la justaposer à la conception de l’Univers”: erano, quelli, i tempi in cui la Critica “era chiamata l’universo”. Ma proprio in quella stessa lettera il poeta si diceva consapevole di dover “commencer (...) par où notre pauvre et sacré Baudelaire” - “sacré” proprio come il verbe - “a fini”. Mallarmé, mentre scriveva queste righe, si accingeva ad intraprendere la composizione di Hérodiade. La sua missione, però, sarebbe stata portata a compimento solo con il Coup de dés: là il poeta, dopo aver definitivamente liberato la materia verbale dalla cortina protettiva di una “sorcellerie évocatoire” ormai demistificata, razionalizzata, ridotta ad “oggetto di studio e di critica”, poté davvero fare delle parole “un gioco d’azzardo”, una colossale e perpetua disconferma, un “ragionato disordine” immenso e inesorabile, una simultaneità assoluta ed onnicentrica, e tuttavia innervata e governata da un ironico, sillogistico disegno logico.
5. Un’altra utile indicazione, sempre per quanto concerne l’evoluzione del concetto di critica, si può trovare raschiando, per così dire, il palinsesto delle prime righe di Crise de vers (118). I primi tre paragrafi di questo fondamentale scritto, nato dall’assemblaggio di testi pubblicati precedentemente, apparvero sulla Revue Blanche - il notissimo organo del movimento simbolista - il primo settembre del 1895, sotto il singolare titolo di Averses ou Critique. Questo titolo scomparve poi, annullato dalla fusione dei diversi testi e rimpiazzato da quello definitivo, nel volume Divagations.
Il sottile gioco delle “soglie”, e la complessa storia della genesi e della formazione dei saggi, offrono, qui, un’utile indicazione. La variazione del titolo da Averses ou Critique a Crise de vers rende evidente che il concetto di critica si lega, per Mallarmé, a quello di “crisi”; la “exquise crise, fondamentale” che sta attanagliando la letteratura europea può essere compresa ed affrontata in modo creativo e costruttivo solo grazie alla critica. Già Baudelaire, nel famoso passo del saggio wagneriano, aveva chiarito che tutti i grandi poeti “deviennent inévitablement, fatalement critiques” proprio perché, presto o tardi, “une crise se fait infailliblement”, crisi a causa della quale i poeti sono costretti ad interrogarsi sui princìpi in virtù dei quali hanno creato. Ha scritto Roland Barthes: “critiquer veut dire: mettre en crise”. Questo illuminante gioco etimologico non mancò di affascinare i simbolisti.
Il nesso, apparentemente incomprensibile, tra “temporali” e “critica” viene chiarito proprio dal folgorante esordio di Crise de vers. “Tout à l’heure, en abandon de geste, avec la lassitude que cause le mauvais temps désespérant une après l’autre après-midi, je fis retomber, sans une curiosité mais ce lui semble avoir lu tout voici vingt ans, l’effilé de multicolores perles qui plaque la pluie, encore, au chatoiement des brochures dans la bibliothèque. Maint ouvrage, sous la verroterie du rideau, alignera sa propre scintillation: j’aime comme le ciel mûr, contre la vitre, à suivre des lueurs d’orage”.
La Biblioteca è, nell’immaginario della décadence, un luogo quasi archetipico, un simbolo pregnante e ricchissimo di valenze e di sfumature. Era, quella, un’epoca dai nervi stanchi, malata di cultura, oppressa da secoli di tradizione letteraria; una tradizione di cui ora, dopo i clamori e gli entusiasmi della prima generazione romantica, si avvertiva l’esaurimento, il declino, la lontananza, e di cui nel contempo si arrivava, attraverso gli “austères études” e la riflessione critica, a scandagliare e vagliare la reale consistenza. “La chair est triste, hélas! et j’ai lu tous les livres”, cantava Mallarmé in Brise marine; la figura del letterato che fissa i volumi della sua biblioteca e a cui “sembra di aver letto tutto da vent’anni” pare riprendere, e quasi parodiare, l’immagine affidata ai versi di trent’anni prima.
La biblioteca, si è detto, ha un posto di prim’ordine nell’ imagery del simbolismo e dell’estetismo. Scriveva Rimbaud in Enfance, testo che si è già avuto modo di citare: “je suis le saint, en prière sur la terrasse, - comme les bêtes pacifiques paissent jusqu’à la mer de Palestine. Je suis le savant au fateuil sombre. Les branches et la pluie se jettent à la croisée de la bibliothèque”. L’immagine del santo, del mistico, e quella dell’erudito assiso “sulla poltrona scura”, e circondato da misteriosi volumi, si fondono e si sovrappongono nella figura del poeta, a conferma di quanto si è prima detto a proposito di un misticismo che si risolve tutto nel dominio della letteratura; nelle minute di Alchimie du verbe, del resto, il poeta associava esplicitamente gli “élans mystiques” alle “bizarreries de style”. Ad ogni modo, quello che qui più importa è la presenza dell’immagine della biblioteca, e del temporale e del vento che “si gettano” contro le vetrate, anche se non è ancora presente, o almeno non facilmente identificabile, una valenza simbolica analoga a quella che tale immagine acquisisce in Mallarmé.
Per avere un altro esempio, forse ancor più prossimo e più consentaneo al poeta francese, si può pensare alla biblioteca di Des Esseintes, in cui la disposizione stessa dei volumi assume una marcata valenza simbolica ed analogica, venendo ad esprimere e a visualizzare una già chiara coscienza della possibile sincronia e simultaneità della tradizione letteraria, tutta presente nel punctum temporis della lettura e dell’atto critico. Sugli scaffali si trovano i tomi del Glossarium del Du Cange e della Patrologia del Migne, in cui Des Esseintes trova, rispettivamente, il fascino torbido ed estenuato della tarda latinità e quello ambiguo e sottilmente morboso di una mistica letta nella peculiare ottica, essenzialmente linguistica e stilistica, di cui si è parlato poc’anzi. Accanto ad essi, sugli scaffali, si trovano le opere di Baudelaire, Verlaine, Mallarmé: “con un formidabile salto di secoli, i libri si allineavano sugli scaffali sopprimendo la transizione dei tempi, arrivando direttamente alla lingua francese del nostro secolo” (cap. III). La stessa disposizione della biblioteca, con le sue scintillanti “brochures”, riflette e visualizza una concezione della letteratura e dell’atto della lettura; i rapidi, variegati, ammalianti riflessi che i bagliori della tempesta, rifratti dai vetri, proiettano sui dorsi dei volumi, possono alludere alla mobile ed insinuante intelligenza del critico, che accosta diverse opere tra loro, le fa contrastare l’una con l’altra, ne fa risaltare il colorito e le sfumature. Certamente il Libro e la Biblioteca hanno, come simboli, una valenza quasi archetipica; ad ogni modo questa valenza acquista nell’àmbito dell’estetismo una sfumatura particolare, legata anche all’importanza del libro come manufatto raffinato e ricercato, quasi fatto oggetto di un feticistico culto, e contrapposto - lo si vedrà tra breve - alla “masse oisive”, volgare e mercificata, del commercio librario e, dunque, della mercificazione della cultura e della perdita dell’”aura”.
Il temporale, assimilato alla critica, rappresenta allegoricamente la “tempesta” della crisi che attanaglia e attraversa il mondo letterario; una tempesta i cui bagliori infiammano e fanno risaltare le decorazioni sui dorsi dei volumi, e dunque, fuor di metafora, una crisi che mette in luce ed esaspera le individualità e le “intenzioni” di autori le cui opere sono l’una “nemica mortale dell’altra”, che, affiancate sulle scansie, sembrano rivaleggiare in visibilità e lucentezza; e si ha, nel contempo, una possibile analogia tra i bagliori e i riflessi dei lampi e le geniali, folgoranti illuminations che la mente del critico può offrire, nella temporalità tutta peculiare, a tratti sincronica o acronica, dell’atto critico.
Nel notissimo séguito di Crisi di verso vengono poi riprese, e amplificate rendendone esplicite le valenze teoriche, almeno due immagini legate a questo “temporale”. Mallarmé, a un dato punto, enuncia il famoso principio della “disparition élocutoire du poète”, in virtù del quale il poeta deve “lasciare l’iniziativa alle parole”, al linguaggio nella sua natura materiale e sensibile, eludendo e tacendo ogni concreto e determinato referente. Per dare evidenza sensibile e consistenza materiale a questo principio, il critico riecheggia, alla lontana, l’immagine dei “lueurs d’orage” che si sovrappongono e si rincorrono sui dorsi dei volumi: le parole, còlte ed assaporate nella loro propria ed intrinseca valenza acustica ed evocativa, “si accendono di riflessi reciproci come una virtuale scia di fuochi su delle gemme”. Poche righe prima, gli “sconvolgimenti” apportati dalla “squisita” e “fondamentale” crisi che agita la letteratura europea erano stati rappresentati, per via visuale ed evocativa, come “un’inquietudine del velo nel tempio, con significative pieghe e in parte con la sua lacerazione”. La valenza archetipica dello “svelamento”, paragonabile agli strappi e alle lacerazioni che l’avvento del verso libero e del poème en prose provocano nel tessuto della prosodia classica, può forse, qui, sovrapporsi al valore simbolico che è rivestito, nelle prime righe del saggio, dalla “verroterie du rideau”, dalle decorazioni dei tendaggi che nascondono, a tratti, gli scintillìi dei volumi, e che sembra cerchino invano di reprimerli o di oscurarli.
E per quanto concerne il concetto di critica si giunge infine, sempre seguendo l’ordine cronologico - peraltro quanto mai ingannevole, aleatorio, non vincolante - fino ad ora osservato, alla sua formulazione più vasta ed organica. Essa venne affidata alla Bibliographie posta in calce alle Divagations e datata Novembre 1896 (119). Questa lunga nota bibliografica elenca le diverse pubblicazioni e le diverse circostanze in cui avevano precedentemente visto la luce gli scritti poi raccolti nel volume; ed è noto come la forma definitiva di molti dei saggi critici mallarmeani - basti pensare alla genesi del più famoso di essi, Crise de vers - fosse raggiunta attraverso l’accorpamento e la fusione di passi tratti da articoli e scritti precedentemente apparsi, dal che deriva, in parte, anche il marginalic air, il carattere divagante, desultorio, rapsodico, che sono propri della prosa del Mallarmé critico.
Ed è certamente, sul piano teorico, assai interessante, e pienamente “moderno”, che un’ampia formulazione teorica, per di più sostenuta, sul versante stilistico, da una densità e da una complessità di elaborazione perfettamente degne di un “poème en prose”, si incontri proprio tra le righe di una bibliografia, in tal modo assunta nel dominio della letteratura, concepita e realizzata come vero e proprio genere letterario. In seno all’idea stessa di Letteratura, e in ragione dell’intrinseca “circolarità” che è propria di quell’idea, “il passaggio diretto, precoce, dalla bibliografia alla storia letteraria, seguito dalla combinazione o dall’amalgama delle due nozioni, (...) è del tutto naturale. (...) Anche la critica letteraria ha la stessa ascendenza bibliografica (...). Le operazioni bibliografiche, storico-letterarie e critiche (...) sono inizialmente solidali”. Si può giungere, per questa via, ad “una vera e propria identificazione tra critica e bibliografia, tra critico, bibliotecario e bibliografo” (120). Nel particolare caso di Mallarmé, poi, la bibliografia è approntata dallo stesso autore, che per mezzo di essa provvede a dare preziose notizie sulla genesi, la formazione e l’originaria destinazione degli scritti raccolti nel volume; essa è dunque, per così dire, una auto-bibliografia, in cui trova espressione la già baudelairiana e poesca auto-critica, o, addirittura, una forma di metacritica, poiché è sulla propria critica, sul proprio modo di concepire e di praticare la Critica, non solo letteraria, che qui l’autore si interroga. La Bibliografia, dunque, come genere della letteratura, e come struttura in cui inserire riflessioni teoriche ed elaborazioni metacritiche.
Mallarmé, giunto al termine del suo excursus bibliografico e, insieme, tanto del suo libro quanto, cronologicamente, del percorso intellettuale di cui esso è testimonianza, si rivela innanzitutto preoccupato di dare, a posteriori, una chiarificazione e una giustificazione teorica del criterio rapsodico con cui è avvenuto l’assemblaggio degli scritti raccolti nel volume, e che la stessa bibliografia mostra in modo evidente. “Raison des intervalles, ou blancs - que le long article ordinaire de revue, ou remplissage, indique, forcément, à l’oeil qui les prélève par endroits, cependant, quelques écailles d’intérêt pourquoi ne pas le restreindre à ces fragments obligatoires où miroita le sujet, puis simplement remplacer, par l’ingénuité du papier, les transitions, quelconques?”. La “ragione degli intervalli, o bianchi”, che il poeta-critico si propone di spiegare, si accampa in modo già perentorio fin dall’inizio del passo, con un nominativus pendens tipico del Mallarmé prosatore. La spiegazione che Mallarmé ha promesso è introdotta da un altro stilema tipicamente mallarmeano, ma già presente nel Poe critico e teorico, dalla Letter to —- ai Marginalia: il trattino che, marcando lo strappo e la lacerazione di una forte pausa logico-sintattica, finisce per acquisire quasi un valore semantico suo proprio, introduce la spiegazione che Mallarmé ha promesso, e che si snoderà, nel resto del periodo, in forma anacolutica; e si è giustamente notato che “l’anacoluto e la sillepsi non sono figure retoriche, ma la condizione stessa di questo stile” (121), seguendo e assecondando fedelmente le movenze di un pensiero tormentato, problematico, insofferente di schemi e di dogmatici irrigidimenti. Il volgare “articolo ordinario di rivista” - e qui riemerge il dédain del poeta, il rifiuto della mercificazione editoriale e della comunicazione strumentalizzata e orientata a vasto raggio - non è o rischia di non essere altro che un goffo, posticcio “remplissage”. E tra le preziose funzioni che la critica può adempiere vi è, non ultima, proprio quella di setacciare, vagliare, filtrare la fluviale e indiscriminata produzione editoriale che viene proposta al pubblico: il libro di Critica è una “publication vive” il cui “sommaire”, con la sua classificazione lucida e rigorosa, segna il “milieu, exact, entre des articles écoutés de journal et la masse oisive où flotte maint périodique”. Il critico, dunque, filtra, media, screma e, per così dire, “scheda” e “cataloga” - non è casuale che questa formulazione si trovi proprio in una Bibliografia - la produzione letteraria, intesa anche in senso editoriale e commerciale; egli la metabolizza, la rende fruibile, cercando, forse, anche di depurarla, decantarla, sublimarla, o, quantomeno, di operare una fondamentale distinzione rispetto alla enorme, informe mole di carta che invade il mercato, alla “massa oziosa in cui fluttuano periodici innumeri”.
Queste immagini e questi concetti richiamano un passo (122) degli Etalages, del 1892, che del resto precede la Bibliographie di meno di quattro anni, ed appartiene dunque anch’esso alla fase più matura dell’evoluzione del pensiero mallarmeano. Anche il passo degli Etalages si sofferma sull’immagine del “lançage ou (...) diffusion annuelle de la lecture”, “lancio” che avviene attraverso le normali vie della distribuzione e del mercato librario; e le librerie non sono, agli occhi del poeta, che squallide “cordonneries du livre”, in tutto assimilabili alle “modernes épiceries”, e in cui l’esposizione dei volumi non è che una “construction de piles et de colonnades avec leur marchandise”. La quasi fatata “main pour le lointain gântée” di un’anonima, fine “acheteuse” elegge, in questo mare di carta, “une brochure”. L’immagine della mano inguantata della donna suggerisce un repentino passaggio analogico, che il testo stesso segnala con una sorta di didascalia (“Interception, notez -”), sapientemente isolata tra due “bianchi”, e corredata del caratteristico, enfatico trattino. Si accampa, nella pagina critica, il simbolo del ventaglio, tipico dell’ imagery del Mallarmé poeta; un ventaglio che, “infiniment et sommaire en son déploiement, cache le site pour rapporter contre les lèvres une muette fleur peinte comme le mot intact et nul de la songerie par les battements approché”. Il sonetto Eventail (de Madame Mallarmé), del 1887, ruota tutto intorno ad un’immagine molto prossima a questa, e la cui valenza letteraria è, se possibile, ancora più esplicita; la fusione tra critica e poesia è, in questo caso, tanto stretta che è il testo poetico che aiuta a chiosare quello critico. “Avec comme pour langage / Rien qu’un battement aux cieux / Le future vers se dégage / Du logis très précieux”. Indubbiamente nella poesia manca, né sarebbe conciliabile con l’atmosfera rarefatta e idealizzata che la caratterizza, ogni diretto e concreto riferimento alla “diffusione annuale della lettura”; ma è evidente che ai “battements” che, nel passo delle Variations, letteralmente “avvicinano alle labbra” il “vocabolo intatto e nullo della fantasticheria” fa riscontro, nel sonetto, il “battement” che designa, per metonimia, il ventaglio nominato solo nel titolo, e che orienta ed innalza fino al cielo il “verso futuro”, la poesia ideale, perfetta, immateriale, mai scritta. L’immagine delle “labbra” - investita, qui, tanto di una squisita e limpida valenza metaletteraria quanto di una lieve ed elegante nota di sensualità - si ritroverà anche in un testo non intitolato del 1895, Toute l’âme résumée: “Ainsi le choeur des romances / A la lèvre vole-t-il // Exclus-en si tu commences / le réel parce que vil”. Analogamente, nelle Variations, il ventaglio “cache le site”, elude o “nasconde” temporaneamente la realtà materiale e, con essa, le meschine esigenze del mercato librario, e reca a fior di labbra una “parola intatta”, assoluta, che peraltro rischia, nel contempo, di restare “nulla”, impronunciabile, “abolita” come Erodiade; e il “muto fiore” raffigurato sul ventaglio potrà, forse, essere accostato al famosissimo fiore “assente da ogni mazzo”, idealizzato, astratto, reso ieratica icona o immateriale emblema. Ma il “battito”, il “colpo d’ala” del ventaglio è, nel contempo, strumento ed emblema del “déploiement”, della dissipazione, della dispersione, della “deriva” e della “disseminazione” dei valori semantici, a cui va inevitabilmente soggetta una poesia che, programmaticamente, si allontana, per traiettorie onnidirezionali e centrifughe, da ogni saldo e rassicurante “centro”, da ogni concreto e stabile referente. Nel simbolo del ventaglio, pur se richiamato per vie trasversali, si riassume e si concreta una delle principali funzioni che la teoria mallarmeana assegna alla letteratura e alla critica: rifare o ricreare una “parola pura”, decantata, mondata, immune da contaminazioni con la realtà “vile” ed impura e con le volgari istanze del mercato; tuttavia questa concezione nasce, paradossalmente, proprio dall’ormai ineludibile confronto con quelle istanze, con le quali non poteva mancare di fare i conti uno scrittore che, nonostante tutto, nutrì sempre il “sogno” di “vivre de sa plume”.
Torniamo alla Bibliographie. Tra i “fragments obligatoires”, forzati e posticci, in cui scintillò di tanto in tanto, nonostante mercificazioni e mistificazioni, “le sujet”, il nucleo vivo e profondo della riflessione metaletteraria, occhieggia “l’ingénuité du papier”. I “bianchi” hanno, tra le loro numerose e paradossali valenze semantiche, anche quella di alludere, forse, agli echi e ai riflessi di una “ingenuità”, di una purezza e di un candore fanciullesco che proprio la riflessione critica ha spietatamente dissipato e violato: tale ingenuità continuerà di tanto in tanto, per frammenti e barlumi, ad emergere, pur se schiacciata ed eclissata, anche visivamente e tipograficamente, dalla fitta e greve presenza del testo critico. Ma nel bianco della pagina sembra riemergere, insieme alla perduta verginità”, anche l’”impuissance” del poeta; impotenza che l’esercizio critico attesta, razionalizza e, insieme, tenta di esorcizzare.
“Les cassures du texte, on se tranquillisera, observent de concorder, avec sens et n’inscrivent d’espace nu que jusqu’à leurs points d’illumination”. Gli spazi bianchi che s’insinuano nel tessuto del discorso critico non compromettono quella sorta di suprema e indefettibile “metaunità” che affianca l’uno all’altro e cementa i frammenti, apparentemente eterogenei per contenuto e destinazione originaria, che vanno a costituire gli scritti delle Divagations. I “bianchi”, inoltre, marcano ed enfatizzano le fugaci ma vitali illuminations di cui il poeta-critico è capace: più che in un saggio organico ed unitario, che le imbriglierebbe e le soffocherebbe, tali illuminazioni possono risaltare nella tessitura divagante e rapsodica del “poème critique”. Ed è sufficiente pensare all’importanza che l’”illuminazione”, intesa come rara, penetrante, iniziatica forma di approccio gnoseologico al reale, riveste nelle poetiche simboliste, per capire quanto stretti siano i legami che, nel simbolismo, uniscono la poesia alla critica, e quanto viva, coerente ed operante sia la “poetica critica” che vi è sottesa. L’idea dell’atto critico come illuminazione si ritroverà in seno all’estetismo italiano, dove starà alla base del concetto di critica come “collaborazione” tra poeta e critico attraverso l’interpretazione del simbolo.
Ed ecco, finalmente, l’esplicita, illuminante definizione della critica come genere della letteratura, e come intima e solidale fusione di verso e prosa, tale da influenzare profondamente, e permeare di sé, sia l’uno che l’altra. “Une forme, peut-être, en sort, actuelle, permettant, à ce qui fut longtemps le poème en prose et notre recherche, d’aboutir, en tant, si l’on joint mieux les mots, que poème critique”. Il “poema critico” è dunque associato e connesso al “poème en prose”, alla forma letteraria che, a partire dal baudelairiano Spleen de Paris, rappresenta la più tipica e più consona espressione di un sistema letterario che nella seconda metà dell’Ottocento, progressivamente, attenua e fa quasi svanire i confini tra prosa e poesia; tali confini, del resto, non erano mai stati del tutto stabili e perentori, se già Quintiliano poteva definire il genere storiografico come carmen solutum. Il “poème en prose” fa entrare nella prosa i ritmi, le movenze, le sfumature della poesia. La genesi di questa forma letteraria passa attraverso la critica; ed è, del resto, una riflessione metaletteraria profonda e meditata, ancorché non sistematica, che pone le basi di queste ardite sperimentazioni. Nel già citato Crayonné au théâtre, la critica veniva definita, in modo un poco enigmatico, come “genre littéraire créateur de quoi la prose relève”. La Bibliographie, esplicitando i legami esistenti tra l’assiduo lavorio dello spirito critico e la genesi del poème en prose e del verso libero, può, anche sotto questo profilo, fornire qualche delucidazione. E si può, forse, gettare maggior luce, in questo modo, anche sulla definizione di Prose che Mallarmé dà di alcuni suoi testi poetici, dalla giovanile Mysticis umbraculis - indicata enigmaticamente, nel sottotitolo, come Prose des fous - alle due più note Proses, quella “pour Des Esseintes” e quella “pour Cazalis”, che sembra parodiare la prima. Vero è che, come si è da tempo segnalato, il concetto di prosa rimanda, in questo caso, al contesto di quella letteratura tardolatina, postclassica e mistica che suscitò largo interesse negli scrittori della décadence, da Huysmans a Rémy de Gourmont; e può darsi che Huysmans abbia mutuato proprio da Mallarmé questo interesse per il “latin mystique”, se è vero che Mysticis umbraculis precede À rebours di più di vent’anni. E l’enigmatica fanciulla che domina quest’ultimo testo, con la sua “amétiste”, la sua “batyste” e, soprattutto, con la sua verginità ambigua e malata, sembra addirittura prefigurare e preparare la grandiosa personificazione allegorica e metaletteraria di Erodiade.
Per questo concetto di prosa, che viene ad intrecciarsi e a sovrapporsi, secondo una dinamica non del tutto chiara, a quelli di poesia e di critica, bisogna rifarsi a remoti archetipi mediolatini, di cui la décadence, da Huysmans a Gourmont a Mallarmé. Del resto, già le baudelairiane Franciscae meae laudes mutuavano dal dictamen prosaicum altomedievale la prosodia accentuativa, la struttura strofica ternaria, l’uso delle rime; e sarebbe interessante studiare lo straordinario latino di Baudelaire, che - al di là dell’evidente suggestione francescana, che sembra quasi anticipare certe movenze dannunziane - mescola motivi mistici e reminiscenze salmistiche (“Novis te cantabo chordis”) ad echi del latino goliardico e maccheronico (“In fame mea taberna”) ed allusioni erotiche (“Meos circa lumbos mica”)... E accanto all’operazione erudita e retorica compiuta dal poeta arrivava, immancabile, la riflessione del critico e del teorico: la nota che accompagnava la poesia elogiava proprio “la lingua dell’ultima decadenza latina”, “particolarmente adatta a esprimere la passione così come l’ha intesa e vissuta il mondo poetico moderno”. Mallarmé, poi, nel giovanile poemetto in prosa Plainte d’Automne, si rivelerà a sua volta aperto alla suggestione stilistica e formale offerta da una lingua agile, duttile, ricca di sfumature chiaroscurali e di intime risonanze, indecisa e sospesa al crocevia tra due mondi, oscillante tra “la poésie agonisante des derniers moments de Rome” e “les premières proses chrétiennes” (123). Fu proprio il remotissimo esempio offerto da queste ultime - legato all’epoca che vide, come illustrò Curtius in alcune stupende pagine, l’”origine” del dictamen prosaicum, della “prosa d’arte”, “dallo spirito della musica”, la musica esile e ieratica delle litanie e delle antifone (124) - a suggerire a Mallarmé di denominare Proses alcune sue poesie. Anche Mario l’Epicureo, all’inizio del capitolo settimo (Una fine pagana) del Bildungsroman pateriano, era intento a scrivere sotto dettatura “una specie d’inno nuziale”, “uno degli ultimi (...) esemplari della poesia classica latina”, che celebrava una sorta di unio mystica tra l’uomo e la natura. Anche l’inno di Mario l’Epicureo si muoveva in una regione limbica tra prosa e poesia, tra prosodia classica e metrica accentuativa; una lingua còlta nel momento del suo declino, o della sua evoluzione - o forse, per riprendere una linea metaforica, forse sgradevole ma assai efficace, non infrequente in Huysmans, della sua “marcescenza”, della putrefazione della “carne delle parole”, che potrà però dare nuova e feconda humus alla letteratura a venire. “Con l’ultimo splendore della lingua classica”, che si stava oramai spegnendo in un lungo crepuscolo, “il suo lavoro racchiudeva un presagio della nuova vita che avrebbe animato le rime medievali, prossime ad apparire”.
La nozione di “decadenza” ovviamente perdeva, agli occhi degli esponenti del simbolismo e dell’estetismo, ogni precisa delimitazione cronologica e consistenza storiografica, che finivano per essere attenuate, o quasi annullate, dal “salto di secoli” della biblioteca di Des Esseintes. Nell’acronia - e sincronia - dell’atto poetico e critico, le due décadences potevano saldarsi.
Ad ogni modo, anche in Huysmans la mistica è còlta essenzialmente nei suoi valori stilistici e formali: i “misteriosi concetti” e le “enigmatiche impressioni” che pervadono il “latino mistico” sono esplicitamente assimilati alla “malinconica magia” e alla “melodia inebriante” dei poèmes en prose mallarmeani. Il confronto - fondamentale nell’esperienza mistica - con l’ineffabile, con il fuori-idioma, con il totaliter aliud, si traduce in una riflessione sul linguaggio e sulle sue umane e tecniche potenzialità espressive.
Ma torniamo ancora alla Bibliographie: l’atto critico deve, nella forma del “poème critique” che gli è propria, “Mobiliser, autour d’une idée, les lueurs diverses de l’esprit, à distance voulue, par phrases”. La scrittura poetico-critica, con la sua armonia di pieni e di vuoti, con la sua sapiente compenetrazione di “frammenti” e di “bianchi”, visualizza e spazializza le irradiazioni e le diffrazioni - quanto mai centrifughe, ancorché sapientemente coordinate - del pensiero critico. E torna, con una puntuale corrispondenza lessicale, l’allegoria dei riflessi e dei bagliori, già vista in Crise de vers: ai “lueurs diverses de l’esprit” che il critico deve riprodurre e giustapporre sulla pagina fanno riscontro i simbolici “lueurs d’orage” che si riverberano e si rincorrono sui dorsi dei volumi. E sempre in Crise de vers troviamo, riguardo ai concetti di “blancs”, “fragments” e “poème”, termini molto simili a quelli della Bibliographie, anche se riferiti esplicitamente ad un ideale modello di “livre de vers” - il che conferma, tra l’altro, quanto stretti siano i legami tra la poetica da un lato e la teoria della critica dall’altro. L’”ordonnance” del libro può ancora, in Crise de vers, “éliminer le hasard”, cosa che nel Coup non sarà più possibile; ma la ragione sopravvivrà anche in quelle estreme pagine, pur se soltanto in forma di relitto, lacerto, sostrato latente e sottaciuto - sillogismo ellittico, incompiuto, dissimulato e sommerso da un frenetico pullulare di frammenti. “Un coup de dés jamais n’abolira le hasard”; “Toute Pensée émet un Coup de Dés”; dunque il Pensiero - questa la sottintesa e sottaciuta conclusio - non può abolire il Caso. E si noti, nondimeno, come le due premissae di questo sillogismo monco, corrispondenti al titolo e all’ultimo verso, incornicino, inglobino, quasi sorveglino l’apparentemente disarticolato e centrifugo snodarsi del poemetto. Il Coup rompe e frantuma la superficie o la maschera del sillogismo, facendo studiatamente emergere quel caos verbale e concettuale che sta, per così dire, dietro il sillogismo, e che proprio attraverso quest’ultimo la ragione argomentativa e dimostrativa occulta e rimuove; e, nondimeno, la più tipica e classica forma della “ragione ragionante” è, nel testo, conservata, e quasi esibita e ironicamente ostentata.
“Des motifs”, continua Crise de vers, “(...) s’équilibreront, balancés, à distance, ni le sublime incohérent de la mise en page romantique ni cette unité artificielle, jadis, mesurée en bloc au livre. Tout devient suspens, disposition fragmentaire, (...) concourant au rythme total, lequel serait le poème tu, aux blancs”. C’è, anche qui, un’allusione alla poesia come alchimia della parola, alla “tecnica” letteraria - direbbe Hartman - come “forma moderna e demistificata di magia”: “en poésie où s’impose une foudroyante et harmonieuse plénitude, bégaye le magique concept de l’Oeuvre”. Proprio queste stesse pagine parlano, poco prima, riprendendo argomentazioni già presenti in Magie, del “primato incantatorio” che la tradizione letteraria francese accorda alla “rima”. Il “sublime incoerente”, degenerazione od esasperazione in senso sentimentalistico di uno dei concetti fondamentali della poetica del romanticismo, deve essere superato e trasceso dalla severa “ordonnance du livre”; quest’ultima non deve, d’altro canto, identificarsi con una struttura ingombrante, coercitiva, “artificiale”, con un sistema di regole e di schemi che pretenda di imporre, dall’esterno e dall’alto, un’unità o un’organicità estranee a quelle di per sé insite nel libero fluire, pur apparentemente incontrollato e caotico, del pensiero, e che si manifestano nella “sospensione”, nell’”alternanza” e nella “disposizione frammentaria” che concorrono al “ritmo totale”, all’ordine interno ed immanente tracciato e scandito dai “bianchi” della pagina, che “ordinano una prosodia”.
Proprio quest’idea di prosodia e di ordine ci conduce al cuore dell’argomentazione. Grazie a questo modo di concepire e praticare la scrittura poetico-critica “y a-t-il moyen, (...) pour un poète qui par habitude ne pratique pas le vers libre, de montrer, en l’aspect de morceaux compréhensifs et brefs, par la suite, avec expérience, tels rythmes immédiats de pensée ordonnant une prosodie”.
Queste enunciazioni sembrerebbero offrire, per bocca dello stesso autore, indicazioni tali da accreditare l’immagine, data da Thibaudet, di un Mallarmé prose-libriste, da contrapporre al “fervent du vers regulier”; un poeta, insomma, che demanderebbe alla scrittura prosastica lo sfrenato esercizio di quelle libertà espressive che, sul versante della scrittura poetica, gli erano precluse dalla metodica, rigorosa, “parnassiana”, quasi ascetica osservanza del metro. In realtà, come ha finemente precisato Luzi, “sotto la regolarità del verso mallarmeano” si agita lo stesso insofferente e rivoluzionario “demone dell’analogia” che anima le pagine di prosa; si tratta di un processo “sempre più pronunziato fino al Coup de dés” (125). E proprio alla genesi del Coup de dés, scritto a pochi mesi di distanza dalla Bibliographie, e alla nascita del verso libero deve essere chiaramente ricondotto, nella sua formulazione più matura, il concetto di “poème critique”. Il Coup, come chiarì lo stesso Mallarmé nella nota che accompagnava la prima pubblicazione del testo sulla rivista Cosmopolis (126), e come balza immediatamente agli occhi anche dalla lettura, è governato ed innervato dai “blancs”, quegli stessi “intervalles, ou blancs”, di cui Mallarmé, nella Bibliographie, si preoccupa di spiegare la “raison”. “Le papier” - l’”ingénuité du papier” - “intervient chaque fois qu’une image, d’elle-même, cesse ou rentre”; si creano, in tal modo, “subdivisions prismatiques de l’Idée”, di quell’Idea che già in Baudelaire, persa tutta la sua idealistica assolutezza, si alienava e si declinava nell’autarchica e legiferante individualità del dandy, definito come “suprème incarnation de l’idée du beau transportée dans la vie materielle”, in una caotica, frammentaria e tutta immanente “modernité”, e come una sorta di arbiter elegantiarum che “dicte la forme et règle les manières”. La centrifuga diffrazione e spazializzazione prismatica a cui l’Idea viene sottoposta nel Coup lascia intendere chiaramente come la vera natura del “platonismo” e del “misticismo” mallarmeani sia essenzialmente materiale, linguistica, testuale - quasi, qui, “tipografica”. “Le tentative”, come dichiara lo stesso Mallarmé, “participe, avec imprévu, de poursuites particulières et chères à notre temps, vers libre et poème en prose”.
Proprio a questa fusione tra versi e prosa rimanda il concetto di “prosodie”, una prosodia “ordinata” da “ritmi immediati di pensiero”. Il concetto di “prosodia” trova, negli scritti critici dell’ultimo Mallarmé, vari riscontri; una prosodia che il poeta del Coup de dés intende, attraverso una libera e quanto mai duttile etimologizzazione, come quell’insieme di princìpi e di artifici che “marca il canto”, che caratterizza e connota profondamente l’esperienza della scrittura poetica ma anche, nel contesto mallarmeano, prosastica e critica. Di “prosodia”, definita come insieme di “règles si brèves, intraitable d’autant”, parlava già Crise de vers, proprio in riferimento a quella mistione di verso e prosa che è condizione necessaria ai fini tanto del verso libero quanto del poème en prose; all’inizio della conferenza inglese su La Musique et les Lettres, compaiono concetti e definizioni analoghe. “I governi cambiano, la prosodia rimane”; la prosodia, questa prosodia, come indice e insieme strumento di un sapiente lavorio metaletterario, critico e retorico, può preservare la poesia dai rivolgimenti della storia e dalle incertezze della vita pubblica. Tanto il poema in prosa quanto il verso libero sono poi “modulazioni individuali”, poiché “ogni anima è un nodo ritmico”; ed anche il passo della Bibliographie parla di “ritmi del pensiero”, cui la prosodia, liberamente e duttilmente, si accorda. Il pensiero si fa Verbo, e si esplica su di una pagina che deve raccoglierne, in forma sintetica e simultanea, tutti i diversi aspetti, e i più remoti ed oscuri risvolti. La duplice dimensione - orizzontale e verticale, lineare e tabulare - della partitura testuale del Coup, cerca di venire incontro a questa ambizione.
Quella “vision simultanée de la Page” - a sua volta legata all’ eidolon del “Vers ou ligne parfaite”, della Parola pura, “totale, nuova, straniera alla lingua”, già delineato in Crise de vers - che Mallarmé cercò di attuare attraverso il Coup de dés, e che resta una delle più sconvolgenti esperienze di tutta la modernità letteraria, è strettamente connessa al legame esistente tra la poesia e la critica, e alle prerogative di “genere letterario creatore da cui la prosa discende” assunte da quest’ultima.
6. Il legame tra poesia critica, ovviamente, non finisce con i simbolisti, anche se è con essi che riceve la sua prima e forse, a tutt’oggi, più limpida e decisiva articolazione teorica, dalla “critique amusante et poétique” di Baudelaire al “poème critique” di Mallarmè, con tutte le sfumature, le oscillazioni, gli echi e i rimandi, intratestuali ed intertestuali, che accompagnano, come si è visto, questa difficile evoluzione.
Dopo il simbolismo, l’interazione tra creazione poetica e riflessione critica - la “coazione alla teoria” o “necessitazione all’estetica” che accompagna ogni vero poeta - resterà come uno degli elementi e dei dati costitutivi e strutturali della modernità, di quella modernità che riceve, proprio con i simbolisti francesi, la sua prima e più rigorosa sistemazione teorica.
La lucida e smaliziata self-consciousness del poeta troverà immediata eco nelle esperienze dell’estetismo inglese e italiano, grosso modo coeve a quella di Mallarmé e di poco successive a quella di Baudelaire, e da essa influenzate in modo diretto e determinante. Credo sia a queste esperienze - ricondotte all’esempio di alcune figure emblematiche - che lo studioso dell’estetismo e del simbolismo deve far riferimento per mettere meglio a fuoco i complessi problemi storico-teorici posti dal rapporto tra creazione poetica e riflessione critica nel secondo Ottocento. La décadence potrà rivelare, se guardata da questa angolatura, la sua natura di immenso, epocale “metalinguaggio”: essa, in virtù di questa sua natura, non può che riflettere (su) se stessa, non può pensare che se stessa, e non può parlare che di se stessa.
SECONDO CAPITOLO VERSO UN NUOVO ELLENISMO. RIFLESSIONI SULLA CRITICA WILDIANA
I - ENTUSIASMO, GUSTO, IMMAGINAZIONE
1. “Du temps de La Harpe, on était grammarien; du temps de Sainte-Beuve et de Taine, on est historien. Quand sera-t-on artiste, rien qu’artiste, mais bien artiste? Où connaissez-vous une critique qui s’inquiète de l’oeuvre en soi, d’une façon intense? (...) Il faudrait pour cette critique-là une grande imagination et une grande bonté, je veux dire une faculté d’enthousiasme toujours prête, et puis du goût, qualité rare, (...) si bien qu’on n’en parle plus du tout” (1).
Queste righe flaubertiane, risalenti al febbraio del 1869, possono efficacemente introdurci nel vivo di uno dei più complessi ed affascinanti problemi che la cultura dell’estetismo europeo si trovò ad affrontare. Vi era, in molti letterati, una profonda insoddisfazione tanto per il determinismo del Taine quanto per il biografismo di Sainte-Beuve; quest’ultimo, per di più, dopo l’iniziale connotazione in senso sentimentale e romantico, aveva assunto quelle implicazioni di taglio determinista (“Tale l’albero, tale il frutto”) che, com’è noto, avrebbero poi suscitato, nel nostro secolo, l’insofferenza di Proust (2).
Si avvertiva, da più parti - e Flaubert, sensibile termometro, non faceva che registrare e dare voce ad uno stato d’animo diffuso -, l’esigenza di una concezione della critica che facesse del critico un artista; questa precisa formulazione, registrata da Flaubert, si ritrova, non per nulla, tanto nella teorizzazione wildiana affidata a The Critic as Artist, quanto nella concezione del critico come artifex additus artifici maturata in seno all’estetismo romano e fiorentino della fine del secolo. A Flaubert la critica appariva tutt’altro che prossima a sparire, come voleva la sua corrispondente George Sand, ma, al contrario, “tout au plus à son aurore”. “La critique littéraire me semble une chose toute neuve à faire”, scriveva altrove lo stesso Flaubert; “la critica” - avrebbe ripetuto un cinquantennio dopo De Robertis, anch’egli, per molti aspetti, artifex additus artifici - “è tutta da creare”. I critici “scientifici” e “positivi” potevano, sì, cogliere ed analizzare “l’anatomie d’une phrase”, ma non erano in grado di penetrare “la physiologie du style” (3). E basta rammentare i passi precedentemente citati del Baudelaire dei Conseils aux jeunes littérateurs e dei Paradis artificiels per capire quale particolare valore avesse questa “fisiologia dello stile”, e quanto essa fosse legata alla straordinaria scoperta della fisicità e della corporeità dell’atto della scrittura. Una scrittura così concepita non poteva che essere assai strettamente legata alla persona, all’individualità dello scrittore, ed esigere, dunque, una critica che, attraverso l’approfondimento e l’accentuazione della sua componente “creativa” e “artistica”, arrivasse ad assumere quel carattere “demonico” tale da consentirle di cogliere e rendere esplicite le valenze più recondite dell’”oeuvre en soi”, “la poétique insciente”, le profonde, ma lucide e metodiche alchimie della “composition” e dello “style”; riuscendo, infine, a disvelare “le point de vue de l’auteur”, l’ intenzione di cui parla Hartman, e che darà il titolo all’unica raccolta di scritti critico-teorici wildiani apparsa vivente l’autore.
L’idea che un critico debba essere “artista” non nasce, propriamente, con l’estetismo; peraltro è con l’estetismo che il legame tra poesia e critica, con la conseguente accentuazione dell’elemento creativo che è intrinsecamente e strutturalmente insito nell’atto critico, si intensifica in modo particolare, fino a divenire una componente ineludibile ed irrinunciabile, ed è con Baudelaire che questi problemi e questi concetti ricevono la loro decisiva, e più lucida ed agguerrita, definizione teorica.
Vari esempi e varie parziali anticipazioni di questa concezione si potrebbero comunque trovare in autori precedenti. Così scriveva Voltaire a conclusione della voce Critique del suo Dictionnaire philosophique (4): “Un excellent critique serait un artiste qui aurait beaucoup de science et de goût, sans préjugé et sans envie. Cela est difficile à trouver”. Questo ideale critico dovrebbe essere dotato di “conoscenza” e di “gusto”; non per nulla, nella lettera a George Sand, Flaubert faceva esplicito riferimento al concetto di goût, concetto tipicamente settecentesco, e di cui oramai “non si parlava più per niente”. E si può pensare, allora, al Taste di cui parla Poe in The Poetic Principle, nell’àmbito di una sistemazione teorica che sarà poi fatta propria sia da Baudelaire che, in parte, da Wilde: il Taste, distinto kantianamente dall’Intelletto e dal Senso Morale, e assimilato ad una delle accezioni aristoteliche di pathos, si identifica con quella facoltà inventiva che coinvolge, a un tempo, la sfera della creazione e quella del giudizio e della valutazione. Il concetto di gusto, abilmente decontestualizzato, viene assunto quale tramite e termine medio dell’identificazione tra facoltà creatrice e attività critica. Flaubert - in un testo che si rivela, dunque, di grandissima ed illuminante profondità teorica, a dispetto della sua originaria destinazione privata - fa riferimento, significativamente, anche alla nozione di “imagination”. Potrà, certo, trattarsi dell’”imagination” distinta dalla “fancy” nel pensiero di Coleridge, e prima ancora nelle estetiche settecentesche, così come dell’”immaginazione produttiva” dell’idealismo romantico; ma è assai più probabile che dietro questa immaginazione, in virtù della quale il critico è in grado da un lato di rendersi artista, di accentuare la componente creativa che è presente nell’atto critico, dall’altro di cogliere, proprio grazie a questa sua capacità creativa, la persona e l’ intenzione che si celano nell’oggetto del suo studio, vi sia la baudelairiana “reine des facultés”, che riesce a percepire e ad esprimere gli intimi legami tra le cose e le segrete analogie che attraversano e innervano il reale, che “come ha creato il mondo”, così “lo governa”, e per mezzo della quale il critico sviluppa ed articola il suo affascinato ed affascinante itinerario, accostando “i temperamenti analoghi” al di là delle scuole, delle classificazioni, delle “derivazioni” e degli “influssi”. Nello stesso testo flaubertiano, che finisce per sintetizzare mirabilmente buona parte dei referenti teorici che animano, tra simbolismo ed estetismo, la genesi della concezione del critico come artista, viene menzionato, tra le qualità richieste ad un critico di questo genere, anche l’”entusiasmo”: un termine, questo, che sarà forse da intendere nel senso forte, pregnante, quasi tecnico, del platonico enthousiasmos. Non a caso questa nozione, indicata volta a volta come “entusiasmo”, “fervore” o, brunianamente, “furore”, tornerà, anche in riferimento al concetto di critica, nella teoresi di Conti e di D’Annunzio; teoresi, certo, un po’ trasognata e a tratti incoerente, ma comunque, per questo come per altri aspetti, pienamente partecipe di una dimensione europea.
A torto, dunque, il Croce vedeva, nella pagina flaubertiana, una sorta di preconizzazione della grande critica di De Sanctis (5). A tentare di venire incontro alle aspettative di Flaubert sarà soprattutto proprio quella che Croce bollò spregiativamente come “critica estetizzante”, semplicemente ignorando Pater e Wilde, travisando e forzando arbitrariamente Poe e Baudelaire per puntellare le fondamenta del proprio intuizionismo, e condannando aspramente Conti e D’Annunzio. E’, per contro, quantomeno significativo, come si vedrà a suo luogo, che tra i bersagli dell’estetismo militante, tra Il Convito e Il Marzocco, vi fosse - accanto a Taine, Sainte-Beuve, certe degenerazioni “frenologiche” della scuola storica ... - proprio l’autore della Storia della letteratura italiana - peraltro giustamente ammirato ed emulato per le sue ambizioni di “critico possente”. Ma di ciò si parlerà più diffusamente nel prossimo capitolo.
2. Veniamo, ora, alle teorizzazioni wildiane, che si sono scelte come modello esemplificativo e paradigma esemplare di questo modo di intendere la critica.
La genesi della concezione wildiana della critica - non certo priva di semplificazioni, di banalità e di “plagi”, ma in realtà più ricca e più complessa di quanto non possa a prima vista sembrare - può essere, pur se con qualche difficoltà, ricostruita nei suoi antecedenti più immediati e prossimi e nelle diverse fasi del suo sviluppo. Esso mostra come dalla famosa definizione arnoldiana del fine della critica come “to see the object as in itself it really is” si arrivi, attraverso la cauta, rispettosa, “accademica”, ma non per questo meno decisiva, mediazione pateriana della prefazione agli Studies in the History of the Renaissance, alla concezione di Wilde, che semplicemente ribalta, nella forma, a lui tanto congeniale, dell’aforisma, del paradosso, dell’antilogia, la definizione data da Arnold: fine della critica è, per il terribile, velenoso Gilbert - alter ego dello stesso Wilde - di The Critic as Artist, “to see the object as in itself it really isn’t”. L’atto critico si presenta dunque - per fare comodamente ricorso a certa terminologia decostruzionista, che peraltro riposa su di un retroterra teorico che molto deve a Wilde, come pure a Mallarmé - come perenne, inesauribile ed incoercibile “disconferma” o misreading, o come superfetazione o palinsesto che trae fondamento e alimento dall’”indecidibilità” e dalla “deriva” dei contenuti testuali e dei valori semantici. Un testo critico, dunque, che arriva a sopravanzare, sottomettere, “eccedere” e “coprire” quello creativo; un atto critico che riduce il testo a “traccia”, a gramma o, per usare il termine wildiano, “suggestion”, a spunto o a pretesto per l’autonoma creazione del critico. Questa concezione della critica, peraltro, non si risolverà affatto in una forma di “estetismo” nel senso deteriore del termine, di ozioso e bellettristico compiacimento metaletterario; il critico non sarà affatto, come pure è stato detto, un “parassita”, o addirittura “una scimmia che rifà il verso al poeta”. Al contrario, ad una critica creatrice ed autonoma farà riscontro la ferma e rigorosa “self-consciousness” dell’artista, secondo quel “principio di reciprocità” - già chiaramente enunciato nel dialogo wildiano - che si è chiamato più volte in causa nelle pagine precedenti. Infine, questo “critical spirit”, questo “intelletto critico” capace, come scrive Richard Ellmann, di “dissolvere (...) ogni concetto di peccato e di colpa” (6), viene ad essere strumento di una serrata e militante critica dell’esistente, dei pregiudizi, delle ipocrisie e del bieco utilitarismo celati dietro la maschera dell’ideale della earnestness, tipico del moralismo vittoriano; e proprio facendo riferimento alla coerente e battagliera demistificazione dell’ideale della earnestness si può spiegare perché il personaggio di Ernest - dal nome chiaramente etimologizzato e “parlante” - si trovi sia nel dialogo The Critic as Artist che nella commedia The importance of being Earnest, che non contiene, per il resto, alcun riferimento agli scritti critici (se non forse, indirettamente, per l’arguto e sottilmente dialettico polifonismo di certi segmenti dialogici).
II - ARNOLD, O LA LUCE DELLA VERITA’
1. Bisogna, dunque, partire da Arnold. La formulazione prima citata - parodisticamente ribaltata da Wilde nel famoso dialogo del 1890 - si trova, per la prima volta, in una delle conferenze On translating Homer tenute ad Oxford poco dopo il conferimento della “Professorship in Poetry”, avvenuto nel 1857. “Of the literature of France and Germany, as of the intellect of Europe in General, the main effort, for now many years, has been a critical effort; the endeavour, in all branches of knowledge, theology, philosophy, history, art, science, to see the object as in itself it really is”. Proprio nel quadro di un’aspra polemica contro alcuni accademici e paludati traduttori dei poemi omerici, Arnold coglieva l’occasione per dare corpo al primo nucleo del suo generoso tentativo di sprovincializzare la cultura inglese, di rompere la cortina dello “splendido isolamento” di cui si compiaceva l’orgoglio nazionale vittoriano, per aprire il mondo culturale britannico ai fermenti che giungevano dall’estero. E si può già intravedere, da questo primo e ancor generico accenno, come la visione arnoldiana della relazione critica (“vedere l’oggetto in se stesso come realmente è”) non sfoci, propriamente, nel “role-playing” di cui ha parlato Hillis Miller, cioè in un’”adesione emotiva all’opera d’arte, allo scopo di rivivere (...) lo slancio creativo dell’artista” (7), in un pieno straniamento, in un quasi attoriale mutamento d’identità del critico ai fini dell’immedesimazione con l’autore studiato. La concezione arnoldiana è, invece, parte integrante e componente fondamentale di un superiore e preciso programma culturale, che - pur opponendosi, anzi proprio per l’intento di opporsi alla falsità e all’ipocrisia dei Philistines e dell’ideologia liberale - finisce per sacrificare l’autonomia e l’incondizionatezza del fatto estetico in nome di intenti ideologici e pedagogici; peraltro Eliot, fraintendendo il principio arnoldiano della disinterestedness necessaria all’atto critico, poté poi imputare all’autore degli Essays in Criticism proprio l’”original sin” di avere indirettamente e preterintenzionalmente spalleggiato “the doctrine of ‘art for art’s sake’”. Questa istanza di presunta “oggettività”, imparzialità, obiettività, finirà per sfociare - come può accadere, e spesso accade, in qualsiasi percorso intellettuale - nell’astrazione, nel didattismo, nel dogmatismo, da cui riesce invece a tenersi immune una critica che, come quella di Baudelaire, confessi fin dall’inizio, e anzi sostenga e giustifichi sul piano teorico, la propria natura “parziale”, “appassionata”, “politica”. L’irriverente parodia wildiana, il coraggioso “attraversamento di Arnold” compiuto dall’autore di Intentions, non farà che mettere impietosamente in evidenza questo aspetto.
Nella più vasta e famosa conferenza The Function of Criticism at the Present Time, il passo viene ripreso testualmente (8), ed ampiamente discusso e sviluppato. La critica può, secondo Arnold, esercitare - a dispetto di questa istanza di “objectivity”, anzi proprio in virtù di essa - una forma di quella che De Robertis chiamerà “collaborazione alla poesia”. La critica “oggettiva” “tends (...) to make an intellectual situation of which the creative power can profitably avail itself. It tends to establish an order of ideas (...), to make the best ideas prevail. Presently the new ideas reach society, the touch of truth is the touch of life, and there is a stir and growth everywhere; out of this stir and growth come the creative epochs of literature” (9). La critica, qui, è ancora lungi dall’essere, come sarà poi in Wilde, una dinamica e problematica forma di “self-consciousness” o di “critical spirit” immanente alla creazione ed invigilante su di essa; essa resta qualcosa di separato, distinto, a cui viene demandata, tutt’al più, una funzione propedeutica o prodromica all’atto poetico, ad una possibile, futura fioritura delle “epoche creative”. E si è potuto notare, non a caso, che in Arnold, anche sul piano cronologico e biografico, il critico nacque laddove morì il poeta - così come, in quel Sainte-Beuve che Arnold tanto ammirava, il poeta e il romanziere morirono laddove nacque il critico.
La critica è posta, nella conferenza arnoldiana, quale centro ordinatore della conoscenza, che deve, con piglio quasi militaresco o, quantomeno, con accademico e “scientifico” rigore, “stabilire un ordine di idee” e “far sì che esse prevalgano”. Alla base di questa operazione vi è poi un principio etico, per cui - in un contesto che sembra quasi riecheggiare espressioni evangeliche - “the touch of the thruth” si accompagna a “the touch of the life”, la Verità e la Vita, poste a priori come valori assoluti, si offrono, o meglio si impongono alla critica, come oggetti statici e ineludibili.
Peraltro neppure Arnold è insensibile alle istanze della modernity, di quella modernity che Wilde, lettore di Baudelaire - laddove Arnold, per quanto aperto potesse essere al confronto con la cultura europea, non andava oltre un Joubert e un Guérin, o al massimo un Sainte-Beuve -, riuscirà a cogliere in tutta la sua mobile e variegata inquietudine, in tutto il suo “fuggitivo” e “transitorio” fermento. “Life and the world being, in modern times, very complex things, the creation of a modern poet, to be worth much, implies a great critical effort” (10). Il mondo moderno è - se non proprio “fuggitivo”, “transitorio”, aggrovigliato nella caotica concitazione di quella vita urbana e metropolitana che in Francia aveva fatto irruzione già da diversi anni tanto nella poesia quanto nella prosa - quantomeno “complesso”. Questa “sfida della complessità” viene però affrontata e - almeno così Arnold presume - risolta attraverso quel centro ordinatore ed organizzatore del pensiero e della conoscenza che è la critica. Il “disinteresse” di quest’ultima si traduce, allora, non già in una giustificazione teorica dell’”art for art’s sake”, o quantomeno in una preminente attenzione accordata ai valori prettamente formali e stilistici, ma in una forma - comunque, nel caso di Arnold, innegabile e lodevole - di chiarezza, coerenza, rigore, di intellettuale e culturale earnestness.
In forza di questo “disinteresse”, la critica deve mantenersi immune da condizionamenti di natura ideologica, specie se provenienti dal vuoto ed opportunistico liberalismo dei Philistines; il fine della critica sarà, secondo un’altra delle indubbiamente efficaci e pregnanti formulazioni arnoldiane, “simply to know the best that is known and thought in the world, and by in its turn making this known, to create a current of fresh and new ideas” (11); “disinterested endeavour” (12), questo, a cui la critica deve sottoporsi animata da una delle nobili e sane virtù vittoriane, “inflexible honesty”.
Sebbene alla critica, nel quadro di un sistema letterario dai caratteri solidamente e nitidamente definiti, venga accordata questa funzione paideutica e propedeutica nei confronti della creazione letteraria, Arnold tiene a precisare che “the sense of creative activity belongs only to genuine creation” (13); all’esercizio critico è demandata, dunque, una funzione pedagogica e preparatoria.
Il principio di reciprocità sembra, peraltro, essere presente, almeno in parte, già in Arnold, pur se in forma ancora aurorale e frammentaria. Siamo in presenza di un movimento argomentativo e speculativo che può essere ricostruito solo attraverso un richiamo intratestuale, a dispetto della chiara ed ostentata sistematicità degli Essays arnoldiani, che sviluppano, chiarificano e rafforzano, autore dopo autore, saggio dopo saggio, la concezione della letteratura e della critica espressa con categorica lucidità nell’introduzione, The Function of Criticism at the Present Time, cui si è già fatto riferimento. Nel saggio su Joubert, verso la fine, l’autore si sofferma sulla differenza che pone gli autori sommi - Omero, Dante Shakespeare ... -, la cui fama dura eterna ed imperitura, al di sopra di altri, la cui fama, invece, non sopravvive alla loro epoca. Scrive Arnold: “What makes this difference? The work of the two orders of men is at the bottom the same, - a criticism of life. The end and aim of all literature, if one considers it attentively, is, in truth, nothing but that”. Ma ciò che distingue le opere dei “men of genius”, e rende imperitura la loro fama, è che la “critica della vita” insita nei loro scritti “is permanently acceptable to mankind”; quella dei semplici “men of ability”, degli artieri scaltri e smaliziati, ma incapaci di farsi animare dalla scintilla del genio, “is transitorily acceptable”. “The acceptableness of Shakespeare’s criticism depends upon its inherent truth” (14). La particolare “modernità” di Arnold - peraltro, come si è visto, innegabile, ricca e “complessa”, e già limpidamente autocosciente - è, dunque, quanto mai lontana dalla modernité baudelairiana, che esalta ed enfatizza proprio il contingente e il “transitorio”; “transitorio” che Arnold esorcizza e “rimuove” con la sua idea di una Verità che, per quanto “inerente” ed immanente all’opera, resta, nondimeno, assoluta ed incondizionata, e per questa via si erge e si ipostatizza quale assoluto ed infallibile criterio di valutazione critica. Fine dell’arte è, anche per il Baudelaire del Peintre, “trarre l’eterno dal transitorio”; senza, però, che quest’ultimo sia occultato od eluso, o che si pretenda di schiacciarlo sotto il peso di una Verità assoluta e metastorica. Il transitorio diventa, invece, una “moitié de l’art” che resta comunque, dell’arte stessa, materia vitale ed irrinunciabile ed onnipresente elemento. Arnold si abbevera alle “great abounding fountains of truth, whose criticism of life is a source of illumination and joy to the whole human race for ever” (15), forse memore dell’ Endymion di Keats, in cui si legge che “a thing of beauty is a joy for ever”. E tornano, anche nelle pagine su Joubert, toni e sfumature che sembrano quasi rimandare ad un contesto evangelico, catartico, iniziatico: un misticismo che, come si vede, è ancora fiducioso, a differenza di quello dei simbolisti, in una trascendenza viva e “piena”. Arnold parla di “vital truth” - “what the french call the vrai vérité” -, di una Verità che rinfranca, rinnova, vivifica; “truth illuminates and gives joy, and it is by the bond of joy, not of pleasure, that men’s spirit are indissolubly held”; questa Verità reca addirittura “the mark of the children of light” (16). Nulla, dunque, dell’ obscurisme mallarmeano, sempre sulla scia di quell’archetipica dialettica di luce e tenebre a cui si è fatta allusione nel precedente capitolo; per Arnold la critica può essere immanente alla creazione - e quest’ultima può identificarsi con la critica, con una forma di “critica della vita” - solo in presenza e alla luce di una Verità assoluta e rassicurante, una Verità che “illumina” il percorso creativo dello scrittore, e che la critica deve custodire e diffondere. E si può facilmente capire quale e quanta fosse la distanza, e l’incolmabile divergenza, che si poneva tra simili proposizioni e il pensiero di Wilde. Per quest’ultimo, come si legge a conclusione di The Truth of the Masques, “una verità universale non esiste nell’arte”, e, addirittura, “una verità, in arte, è quella di cui anche il contrario è vero”. “Un ‘saggio’ rappresenta soltanto un punto di vista artistico”. Per Wilde l’essenza e la forma del saggio non si sustanziano e non si risolvono, come per Arnold, in un comodo banco di prova e in un’occasione di quasi scontata conferma dell’efficacia di un metodo critico già definito ed affermato a priori, ma, al contrario, concorrono a costituire lo scenario di un’assidua schermaglia di diverse prospettive e posizioni, di una continua, inesausta, provocatoriamente antidogmatica “disconferma” di princìpi, asserzioni, valori. “Come soltanto nella critica d’arte noi possiamo cogliere la teoria platonica delle idee, così soltanto nella critica d’arte si può realizzare il sistema hegeliano dei contrari” (17). E’ però ovvio che, in Wilde, l’idea del Bello non può giovarsi dello statuto ontologico assoluto ed incondizionato di cui gode in Platone, né le antitesi hegeliane possono placarsi e ricomporsi in una suprema Sintesi, o rigenerarsi e reiterarsi nella indefettibile e rassicurante ricorsività del movimento triadico. “Le verità della metafisica sono le verità delle maschere”, soggiacciono alla stessa paradossale, e in sé contraddittoria, legge di simulazione, intercambiabilità, mutevolezza. I vasti, rassicuranti, assertivi e positivi “sistemi” del pensiero occidentale, non appena li si applica all’incessante evoluzione e alla perenne mutevolezza dei fatti artistici, ricadono fatalmente nel dominio, multiforme e caleidoscopico, del relativo e dell’opinabile, e in esso si disgregano e si sfaldano. Anche il mistico, dirà l’autore in The Critic as Artist, “è sempre un antilogista”. Un misticismo risolto, come già nei simbolisti, essenzialmente in una gamma di opzioni e di risorse sul piano stilistico e formale, non può non soggiacere alle regole dell’arte, e dunque alla legge di un inquieto, onnicentrico relativismo; e tra il mistico e il sofista non si porrà, allora, che un sottilissimo e assai labile discrimine. E va da sé che Wilde - come poi D’Annunzio - avrebbe preferito, a differenza di Arnold, farsi stringere dai “lacci del piacere” piuttosto che da quelli della “verità”.
2. I presupposti della critica arnoldiana - che la disinterestedness doveva, almeno negli intenti, salvaguardare dalle insidie del dogmatismo - finiscono, inevitabilmente, per cadere nell’eteronomia. A questa forma di critica non è, propriamente, estraneo il giudizio morale; un libro di critica, per Arnold, deve essere prima di tutto non “un ottimo libro di prosa”, come vorranno gli estetisti italiani, ma “a book to stimulate the better humanity in us”, come l’autore scriveva alla madre nel gennaio del 1865, poco dopo l’uscita della prima edizione degli Essays; proprio questo intento etico-pedagogico, prima di ogni globale disegno strutturale e di ogni costante stilistico-formale, garantisce “the sort of unity that (...) the volume has” (18). Il critico deve perseguire “the ideal of a human perfection complete on all sides”. E’ proprio su basi etiche, inoltre, che per Arnold l’intellettuale deve confrontarsi con il pubblico ed essere giudicato: egli cita e condivide il detto di Sainte-Beuve - e già la grande ammirazione per l’autore delle Causeries du Lundi non è priva di significato - secondo cui “la plus grande gloire du critique est dans l’approbation et dans l’estime des bons esprits” (19).
Ancor più interessante è il rapporto di Arnold con le istituzioni culturali, da cui non può certo prescindere il suo ideale di una critica intesa come organo ordinatore e sistematizzatore del sapere. Nella Preface all’edizione del 1875 della prima serie degli Essays, Arnold si presentava, non senza una punta di autocompiacimento, come “a plain citizen of the republic of letters”, ostentando per di più “reverential attachment” e “genuine devotion” nei confronti dell’Università di Oxford (20). In un altro scritto incluso nel volume, The Literary Influence of Academies, la funzione di centro ordinatore della cultura e del sapere che, come abbiamo visto, deve essere svolta dalla critica, viene identificata con l’utile servigio che può essere reso da istituzioni culturali come le accademie: l’Accademia è, nella vita culturale di una nazione, una sorta di “center” che rischiara la “sfera intellettuale” come quella “morale” con la “lucidity of a large and centrally placed intelligence”, sorta di pirandelliano “lanternone” che illumina e guida gli ingegni e le coscienze; l’Accademia è “a sovereign organ of the highest literary opinion, a recognised authority in matters of intellectual tone and taste” (21). Il “gusto”, che per Poe, come per Flaubert, è l’elemento a cui sono più che ad ogni altro legati tanto il carattere creativo della critica quanto l’autonomia dell’arte dalla morale, in Arnold è o dovrebbe essere, come si vede, subordinato ad una superiore autorità, ad un supremo “centro” ordinatore. Un “centro” che Arnold cerca, nella più totale buona fede, di individuare e additare invocando istituzioni come l’Università e l’Accademia, o facendo ricorso alla nozione, tipicamente umanistica, di respublica litteraria; idea, quest’ultima in particolare, che finisce, attraverso la sua lunga storia e le sue diverse occorrenze, per andare a costituire una delle strutture e degli strumenti fondamentali dell’eteronomia della letteratura (22).
E qui Arnold sembra sottovalutare il pericolo che questa sovrana ed onniveggente “centrally placed intelligence” finisca per essere qualcosa di non troppo dissimile da quel “fanal obscur” che era, per il Baudelaire dell’introduzione all’ Exposition Universelle de 1855, l’idea di progresso: una “lanterne moderne” che finiva, ossimoricamente, per gettare - ancora la dialettica luce-tenebre - “des ténèbres sur tous les objets de la connaissance”.
Il “centro” che in tal modo si definisce non può non coinvolgere pesantemente anche l’arduo problema dello stile della critica, a sua volta strettamente legato, come si è visto per Mallarmé, al concetto di prosa. Al superiore controllo di quel “centro” ordinatore che è l’Accademia corrisponde, letteralmente, una “prosa del centro”, classicamente equilibrata e normativamente regolata, che il critico dovrebbe adottare: un ideale di “classical prose, prose of the center”. E si torna, esplicitamente, alla più tipica forma di classicismo: “the true prose is Attic prose”. Una prosa “true”, “vera”, veritiera, “onesta”, illuminata e vivificata da quella superiore, assoluta vraie vérité da cui devono trarre alimento tanto la critica letteraria quanto quella forma di “criticism of life” che è la scrittura creativa; una “prosa del centro”, sia detto per inciso, che è perno e cardine di quell’annoso “concordato arnoldiano” su cui hanno gustosamente ironizzato i decostruzionisti. Il concetto di critica - in Arnold come poi, in una luce del tutto diversa, in Mallarmé - passa attraverso il concetto di prosa, e in relazione ad esso, per larga parte, si precisa e si articola.
E basta leggere la dedica - che tanto affascinerà D’Annunzio - del baudelairiano Spleen de Paris, con il vagheggiamento di “une prose poétique”, “musicale”, “souple”, “heurtée”, “lyrique”, per rendersi conto di quale distanza separasse un Arnold o un Sainte-Beuve dai fermenti che in quegli stessi anni agitavano, alle porte del simbolismo e dell’estetismo, la frangia più vigile ed inquieta della letteratura europea. Quando, nel Critico come Artista, Wilde - impegnato proprio in una radicale sovversione dei presupposti della critica arnoldiana - elogerà la “prosa perfetta” dei francesi, avrà forse in mente proprio il modello dei “poèmes en prose” baudelairiani, arditamente emulato tanto nei Poems in prose apparsi nel 1894 sulla Fortnightly Review, quanto in quegli scorci di The picture of Dorian Gray che hanno indotto certa critica a parlare di “spleen de Londre”.
E sarà proprio per evitare o per superare l’irrigidimento e la sclerotizzazione insiti in un ideale stilistico di stampo classicista come quello profilato da Arnold, che Huysmans e Mallarmé - ma anche, in certe pagine, il Pater del settimo capitolo di Marius the Epicurean - recupereranno, in modo forse un poco artificioso, certi remotissimi modelli tardolatini: si trattava di un’operazione del tutto funzionale all’esigenza di rivitalizzare e rifunzionalizzare l’esempio di una prosa che, come nota Luzi, “avesse le movenze ingenue e fresche che aveva avuto prima delle rigorose sistemazioni umanistiche”, prima della definizione di un modello e di un canone di “classical prose” e di “Attic prose”, “e traducesse il pensiero nella libertà del suo nascere, con tutte le simultaneità e le occorrenze; (...) una prosa (...) non convenuta o ridotta, (...) fuori dai moduli mentali che potessero già prevederla, riscattata dalla sua forza d’inerzia” (23). E va da sé che l’”ingenuità” e la “freschezza”, del tutto artificiose e volute, che caratterizzano le “movenze” di questa prosa, non si identificano con una forma di primordiale ed irrazionalistico spontaneismo, finalizzate come sono a seguire e a riprodurre le “simultaneità” - concetto-chiave, questo, come si è visto, per l’ultimo Mallarmé - e le “occorrenze” di un pensiero dinamico, complesso, tortuoso. Come emerge in modo evidente dal capitolo terzo di À rebours, la tradizione canonica della prosa classica appariva anche, agli occhi dei nuovi letterati, la più atta ad offrire la forma espositiva ideale per i rigidi e paludati precetti di ordine morale e pedagogico insiti in quello che Curtius avrebbe poi spregiativamente denominato “umanesimo da liceo”; sciogliere e violare la rigidità e la staticità proprie di quella prosa “limitata, dai modi misurati, (...) senza morbidità di sintassi, senza colori, senza sfumature”, chiaramente antitetica alla “malinconica magia” e alla “melodia inebriante” che contraddistinguevano le proses mallarmeane, equivaleva anche ad affermare le superiori istanze dell’autonomia dell’arte a dispetto di ogni tipo di coercizione di natura etica e didascalica.
In Italia, come si vedrà, D’Annunzio, negli stessi anni in cui insegue, sotto palese suggestione baudelairiana, l’ambizioso disegno di “un ideal libro di prosa moderno”, sviluppa la sua concezione del libro di critica come “ottimo libro di prosa”, da contrapporre sia alla “cattiva prosa volgarissima” del Chiarini e di altri carducciani, sia - e ben più arditamente - alla critica desanctisiana, priva, a suo dire, di “quella resistente virtù che è lo stile”. Il concetto di prosa - strettamente legato a quell’inesauribile, vitale “genre littéraire créateur de quoi la prose relève” che è la critica - sembra attraversare e congiungere, come un sottile filo rosso, le diverse esperienze e teorizzazioni che, nella seconda metà del secolo, cercano in vario modo di affermare un ideale di critica autonoma, creativa, collaboratrice.
III - OLTRE IL SISTEMA: PATER
1. Si è avuto modo di citare, poco sopra, Walter Pater. Proprio Pater, nell’introduzione agli Studies in the History of the Renaissance (24), corregge ed incrina, velatamente, la famosa definizione arnoldiana del fine della critica. “‘Vedere l’oggetto com’è realmente in se stesso’, è stato giustamente detto essere il fine d’ogni vera critica”. La definizione arnoldiana viene, dunque, almeno in linea teorica, ripresa e confermata; del resto Pater, docente ad Oxford, non poteva smentire direttamente e clamorosamente le proposizioni del suo illustre collega. L’operazione che Pater conduce è, piuttosto, quella di una correzione, se non di un capovolgimento, condotti in modo astuto, latente, graduale; insomma un consapevole, voluto, abile fraintendimento o misreading. Vero è che il critico deve “to see the object as in itself it really is”, come raccomandava Arnold; ma, precisa Pater, “nella critica estetica il primo passo per vedere l’oggetto quale è realmente, è conoscere quale sia realmente la propria impressione, discriminarla, rendersene conto distintamente”. L’ objectivity del fatto estetico - comunque non ancora radicalmente ribaltata e negata, come avverrà invece in Wilde - viene in tal modo, paradossalmente, disoggettivata, soggettivizzata, trasferita dall’oggetto al soggetto della percezione, dall’ interpretandum all’ interpretans; l’oggettività dell’opera d’arte, nel suo valore e nel suo significato, si invera, si completa, si manifesta pienamente non tanto nell’”object in itself”, quanto nel soggetto che lo percepisce e cerca di interpretarlo; ciò che il critico deve “realmente” riconoscere e vedere, è “la propria impressione”. Ne viene che il processo di significazione artistica e letteraria, se ne inferisce, non può prescindere dall’intervento creativo dell’esegeta, che integra e completa, con l’intervento della propria soggettività, il contenuto dell’opera. E si deve peraltro rimarcare che già in Pater, come poi nell’estetismo italiano, la “critica estetizzante” - si può ancora ricorrere, per pura comodità, alla definizione crociana - non si risolve e non sfuma, come si è invece affermato, in una forma di rarefatta ed evanescente evasione misticheggiante - l’”invasamento” su cui ironizzava ancora Croce -, o in un “cattivo soggettivismo” ispirato da un irrazionalismo indiscriminato e rinunciatario: il critico deve comunque, una volta giunto il momento di condensare la propria sintesi ed affidarla alla pagina, “discriminare” le proprie primarie, “ingenue” impressioni, “rendersene conto distintamente”, cercare in qualche modo di ordinarle e di razionalizzarle, pur senza alcuna pretesa di dogmatica sistematicità. E sembra quasi di sentir riecheggiare, qui, nel solco di quella fenomenologia, già delineata, per cui una poetica può farsi metodo critico, la definizione wordsworthiana del’atto poetico come “emotion recollected in tranquillity”.
Il concetto, in Arnold tanto centrale e pregnante, di “truth”, viene decisamente, anche se non dichiaratamente, sconfessato, o quantomeno rimosso ed ignorato: il “problema astratto di quel che sia la beltà in se stessa, o quale sia la sua esatta relazione con la verità o l’esperienza”, rientra nel novero delle “questioni metafisiche, tanto vane qui che altrove”. Come Poe e Baudelaire avevano usato e “falsificato” la frenologia, la fisiologia, il mesmerismo, come l’estetismo italiano si servirà di Darwin, di Taine, di Moleschott, di quello stesso materialismo e determinismo positivista contro cui si proponeva di reagire, così Pater non esita a fare ricorso, in modo forse un po’ generico, alla cultura scientifica della sua epoca: lo “scopo” del critico “è raggiunto quand’egli ha sceverato” la “virtù” in grazia della quale un quadro o un’opera letteraria hanno suscitato in lui un’”impressione” così vivida da stimolare e sollecitare il suo personale senso estetico, “e ne ha preso nota, a quel modo che un chimico prende nota, per sé e per gli altri, di qualche elemento naturale”. Non so fino a che punto si possa davvero parlare di “evasività”, “soggettivismo”, “arbitrarietà”, “puri motivi di gusto” e via dicendo, se è vero che, per “discriminare” e “distinguere” le proprie impressioni e sensazioni, il critico estetico non esita a prendere a prestito, pur se temporaneamente e in modo del tutto autonomo, il metodo delle scienze esatte.
Questo tipo di critico “ricorderà sempre che la bellezza esiste in molteplici forme”, senza farsi fuorviare da una dogmatica, accademica “definizione astratta della bellezza”; sembra, qui, di sentir riecheggiare la polemica baudelairiana contro il “petit temple scientifique” dei “professeurs-jurés”, e il suo appello ad un senso estetico aperto e duttile, capace di cogliere e di apprezzare tutte le più diverse e singolari manifestazioni di un bello che è “sempre bizzarro”. E così in Baudelaire come in Pater le modalità della fruizione estetica e dell’atto critico vengono estese, con una transizione repentina ed abrupta, all’intera e globale sfera della percezione e della conoscenza: già l’introduzione accostava, forse in modo un po’ generico, “il quadro, il paesaggio, l’attraente personalità che si presenta nella vita o in un libro” sono, per il critico estetico, “preziosi per le loro virtù, come diciamo parlando di un’erba, d’un vino, di una gemma”. Analogamente, per Baudelaire, il critico, come si è visto, deve essere capace di godere tanto di un oggetto d’arte insolito ed inusitato - il famoso “ninnolo cinese”, che susciterebbe il fastidio e il disappunto del “Winckelmann moderno” - quanto della “floraison insolite” e degli abnormi e mostruosi frutti di una natura selvaggia ed esotica. Anche il paesaggio, il vino, le gemme, gli infiniti e infinitamente variati aspetti materiali e sensibili del reale, sono comunque, per così dire, “parola implicita”, pronti ad essere unificati e vivificati dalla maestrìa verbale del critico, a tradursi in espressione verbale, virtuosismo stilistico, fascinazione metaforica; e qui basti pensare alla celeberrima ekphrasis sulla Gioconda leonardesca, fedele e insieme immaginosa “copia verbale” della figurazione pittorica.
2. Nel saggio The school of Giorgione, che eserciterà una grande e determinante suggestione su Conti e D’Annunzio, Pater riafferma e riarticola, con una formula divenuta celebre, il principio della sinergia tra le arti, che circola ampiamente e diffusamente nella cultura fin de siècle, tra simbolismo, estetismo, wagnerismo. Per Pater, beninteso, “una giusta comprensione delle differenze fondamentali delle arti è il principio della critica estetica”; e di lì a pochi anni Mallarmé, in La Musique et les Lettres, sarà impegnato proprio a difendere la specificità della letteratura, cercando di chiarire in che modo essa possa, con i mezzi, verbali e stilistici, che le sono propri, mimare e ricreare l’impalpabile incanto e le eteree suggestioni evocative che sono proprie di quella musica che il poeta deve, come voleva Verlaine, cercare “avant toute chose”. La letteratura sarà anzi, per Mallarmé, anche superiore alla musica, perché capace, molto più di quest’ultima, di arrivare “jusqu’à la source”, fino alle radici prime, al nucleo profondo delle cose e dei misteriosi rapporti che le uniscono. La parola poetica, sostituendo alla concretezza e alla fisicità dei suoni l’eterea, sublimante idealizzazione dei fonemi, riesce alle sollevarsi fino alle più impervie, siderali altezze del pensiero.
Per Pater le arti possono, in forza di quell’ Anders-streben di cui già parlavano i critici romantici, fermi assertori, a partire almeno da Wackenroder, della superiorità della musica rispetto alle altre arti, “non certo prender l’una il posto dell’altra, ma reciprocamente prestarsi nuove forze” (25). “All arts constantly aspire towards the condition of music”: questo assiduo e totalizzante “sforzo” e reciproco “superamento” garantisce, nel contempo, la sinergia e l’unità delle arti. Più oltre, specularmente, l’ ut pictura poesis viene ripreso quasi alla lettera: le creazioni di Giorgione, per il loro carattere eminentemente decorativo, autoreferenziale, per così dire di peinture pure, sono “poemi dipinti”, e nonostante ciò “appartengono a una sorta di poesia che si racconta senza narrazione articolata”, che cela in sé, implicito, il nucleo essenziale di un potenziale sviluppo diegetico; un movimento narrativo prossimo, forse, a quello che, in testi baudelairiani come Bohémiens en voyage, la parola poetica riesce a estrarre dall’immobilità e dai confini dell’immagine, evocandolo e facendolo balenare per vaghi, sibillini, abilmente stemperati accenni, e comprimendo, nell’istantaneità dell’atto poetico e critico, la sua temporalità graduale e distesa.
Questo concetto, con la formula, divenuta celebre, a cui esso resta soprattutto legato, sarà ripreso alla lettera, tra gli altri, tanto da Conti e D’Annunzio quanto, un po’ scolasticamente, dal Wilde delle illuminanti conferenze americane, edite postume e, a quanto risulta, non ancora tradotte in italiano: “music”, si legge in The english Renaissance of art, tenuta a New York nel gennaio del 1882, “is (...) the art which most completely realises the artistic ideal, and is the condition to which all the other arts are constantly aspiring” (26); la duration form, nella ripresa wildiana, sembra ulteriormente accentuare l’intensità e la tensione dell’ Anders-streben, dello “sforzo” e del “superamento”. Lo stesso concetto si ritroverà poi nella prefazione al Ritratto: “from the point of view of form, the type of all the arts is the art of musician”.
La musica esprime, con il suo perpetuo, ineffabile, impalpabile fluire, quella stessa “corrente” e quel medesimo “flusso” da cui, come ora si vedrà, la realtà è, nella visione di Pater, perennemente attraversata, e che la critica deve cogliere e ritrarre, al riparo da ogni rigido schematismo e da ogni sistematicità dogmatica e greve.
3. Credo che la genesi del metodo critico di Pater, e l’”attraversamento di Arnold” da lui compiuto, possano essere messi un po’ più chiaramente in luce facendo riferimento alla Conclusione degli Studies (27). E’ interessante, per molti aspetti, la stessa storia editoriale della Conclusione. Essa, presente nella prima edizione dell’opera, del 1873, fu espunta nella seconda, apparsa quattro anni dopo, per poi riapparire in tutte le edizioni successive. Come chiarì, nella terza edizione, una nota a piè di pagina dello stesso Pater, la Conclusione fu espunta “perché forse avrebbe potuto fuorviare alcuni dei giovani nelle cui mani poteva capitare”; peraltro, come osserva Ellmann, i giovani, primo fra tutti Wilde, “si precipitarono in massa a farsi fuorviare dalla prima edizione” (28). Nel suo difficile superamento di Arnold, Pater, che pure ha già disgregato e destabilizzato - con un’abile, cauta, graduale erosione argomentativa - il concetto arnoldiano di Verità come centro ordinatore della conoscenza ed assoluto, inequivocabile parametro di giudizio critico, deve ancora, in certa misura, fare i conti con i propri princìpi etici - quegli stessi princìpi che lo indurranno poi a lamentare, nel capolavoro wildiano, la perdita del “senso morale”, del “senso dell’onestà e del peccato” (29) - e, soprattutto, con la propria funzione istituzionale e pedagogica, che gli fa avvertire, vivo ed incombente, il pericolo di un “traviamento” delle giovani menti.
Il sinuoso ed avvolgente sviluppo argomentativo della Conclusione prende le mosse, ancora una volta, da un concetto scientifico; e questo stesso testo chiarirà, poi, come il sapere scientifico sia, nell’accezione pateriana, del tutto immune da ogni irrigidimento dogmatico. Gli “elementi naturali ai quali la scienza dà nome, (...) fosforo e calcio e delicate fibre, non son presenti soltanto nel corpo umano: li scopriamo in posti che ne son remotissimi. La nostra vita fisica è un perpetuo moto di essi”. “A prima vista l’esperienza sembra seppellirci sotto una fiumana d’oggetti esterni, che premono su di noi una cruda e importuna realtà”; l’oggetto proprio della critica sembrerebbe, allora, dover essere qualcosa di ancor più freddo, impersonale ed eteronomamente imposto dell’”object in itself” arnoldiano. Sennonché “quando la riflessione”, la riflessione critica, “comincia a esercitarsi su quegli oggetti, essi si dissolvono sotto il suo influsso; (...) ogni oggetto si risolve in un gruppo d’impressioni - colore, odore, consistenza - nella mente dell’osservatore. (...) L’analisi (...) ci assicura che quelle impressioni della mente individuale, alle quali per ciascuno di noi si riduce l’esperienza, sono in perpetua fuga”. Si crea, allora, tanto nella realtà quanto all’interno della coscienza che la percepisce, un incessante “flusso”, un “continuo svanire”, uno “strano e perpetuo intessere e stessere di noi medesimi”. Osserva Ellmann che il concetto di “flusso”, destinato ad ispirare ricche e profonde speculazioni a filosofi come Bergson e William James, “è una creatura oxfordiana degli anni ’70" (30); tale nozione, per molti aspetti archetipica, affonda del resto le sue radici nel cuore del pensiero greco. Non per nulla Pater cita, in esergo alla Conclusione, il celeberrimo frammento eracliteo (o a parere di alcuni pseudo-eracliteo) in cui si dice che panta chorei kai ouden menei, che il reale è attraversato ed agitato dall’assiduo ed inarrestabile fluire del perenne divenire; più oltre, Pater sembra indirettamente richiamare, nel suo agile ed immaginoso eclettismo, i paradossi di Zenone, alludendo alla divisibilità ad infinitum dello spazio e del tempo: ogni “impressione della mente individuale” è, secondo l’autore, “limitata dal tempo, e (...) siccome il tempo è infinitamente divisibile, ciascuna di esse è anche infinitamente divisibile”. Ed è evidente, anche qui, la deliberata e tagliente intenzionalità del misreading di Pater, che sembra voler illustrare e rafforzare la sua variante della nozione di perenne divenire riprendendo e “falsificando” argomentazioni, sviluppate dall’eleatismo, che approdavano, al contrario, alla negazione della possibilità stessa del movimento. E si può notare, sempre in questa luce, che l’immagine pateriana del “fiume”, del “flusso”, dell’incessante ed incerta evoluzione e fruizione del sapere e dell’esperienza estetica, sembra quasi riprendere e parodiare quella arnoldiana della “current of fresh and new ideas” che la critica dovrebbe immettere e far circolare nel sistema culturale e sociale in cui opera e con cui interagisce; una “corrente” che in Pater non è né può più essere illuminata e guidata dalla calda e vivificante luce di una Verità assoluta e sacra, ma è, al contrario, abbandonata al proprio incessante fluire, e destinata ad essere recepita e raccolta da una soggettività scissa, lacerata, smarrita.
Ad ogni modo, dell’esperienza in senso lato ed etimologico “estetica” qui delineata e descritta da Pater sono ugualmente partecipi “passione”, “visione” ed “eccitazione intellettuale”, in quella fusione di passione e razionalità che perseguiva anche la critica dei simbolisti, con l’ideale di un critico “raisonnable et passionné”; e il “flusso” pateriano si risolve, a ben vedere, nella più tipica forma di sinestesia: l’”eccitazione dei sensi”, affiancandosi e sommandosi ad “opera di mano d’artista”, procura l’inebriante percezione di “strane tinte, strani colori, e odori curiosi”. E anche il “sistema” pateriano sarà, come il “sistema” vagheggiato da Baudelaire, quanto mai aperto, duttile, mutevole, soggiacente al “cruel châtiment” del cambiamento, del rinnovamento, della perenne falsificazione e messa in crisi. “Quel che abbiamo da fare è andar sempre con curiosità saggiando nuove opinioni e ricercando nuove impressioni, senza acquietarci mai nella facile ortodossia di un Comte, di un Hegel, o di noi stessi. Le teorie o le idee filosofiche, come punti di vista, come strumenti di critica, possono aiutarci a raccogliere ciò che altrimenti potrebbe sfuggire alla nostra attenzione”.
Appare in modo evidente, qui, uno degli aspetti fondamentali della letteratura europea a cavallo tra i due secoli. Scriverà Svevo: “noi scrittori usiamo baloccarci con grandi filosofie ma non siamo certo atti a chiarirle. Le falsifichiamo, ma le umanizziamo”. Questa affermazione, opportunamente decontestualizzata, potrebbe certo attagliarsi anche all’operazione che Pater sta compiendo; un’operazione in cui, come risulta evidente, la critica riveste un ruolo centrale, e che è anzi, a ben vedere, finalizzata eminentemente alla definizione di un metodo critico: le teorie filosofiche dovranno essere usate “come strumenti di critica”. Già Baudelaire, come si è visto, aveva fermamente asserito la necessità di superare il pedantesco e cadaverico rigore degli “insensati dottrinari del bello”, dei “tiranni-mandarini” che “si sostituiscono a Dio”, ignorando ed occultando la fitta, profonda rete di corrispondenze e di analogie per mezzo della quale l’immaginazione - “regina delle facoltà” quasi personificata ed elevata a laica divinità, ad oggetto di una sorta di neopagano e puramente estetico culto - ha “creato il mondo” e “lo governa”. I non ben determinati e non ben specificati “professeurs-jurés” baudelairiani potevano identificarsi, tutt’al più, con critici come un Désiré Nisard o un Saint-Marc Girardin, partecipi di un clima culturale oscillante, come scrive il Wellek, tra “neoclassicismo mummificato” e “romanticismo emozionalistico”; critici in cui “il conservatorismo e il classicismo letterario hanno motivazioni politiche e morali” (31); agli occhi di Pater, i “professori-giurati” hanno ormai i nomi, ben più roboanti e minacciosi, di Hegel e di Comte. L’apparentemente incongruo accostamento proposto da Pater, che affianca l’artefice della più vasta e compatta sistematizzazione dell’idealismo tedesco all’autore della prima coerente ed organica enunciazione della filosofia del positivismo sociale, rivela, al di là dell’ingenerosa e sommaria definizione di “facile ortodossia”, una già chiara coscienza - pur se manifestata e contrario e per negazione - della sostanziale continuità esistente, per molti aspetti, tra idealismo e positivismo, e che è stata poi evidenziata dagli storici della filosofia. Tanto l’idealismo romantico quanto quel “romanticismo della scienza” che è il positivismo “sono portati a concepire ciò che esiste mediante una medesima categoria di base, che è quella della totalità processuale necessaria”, dello “sviluppo necessario” e del “divenire ascendente” (32). Sia il Progresso di Comte che l’epopea dello Spirito degli idealisti si configuravano come superiori disegni metastorici, pervasi da una forte tensione escatologica, ed inclini a configurare un “processo ascensionale e cumulativo” che ordinava gli eventi in vista del raggiungimento di una suprema meta finale. Un superiore disegno metatemporale che era chiaramente inconciliabile con quella peculiare temporalità dell’atto critico - messa in evidenza da Raimondi, come si è visto, già a proposito di Baudelaire - che è prospettata anche in Pater. E’ ovvio che la temporalità della fruizione estetica e dell’operazione ermeneutica, identificandosi, così per l’autore degli Studies come per il poeta francese, con l’”intermittenza del cuore”, il lampo dell’analogia, l’illuminazione subitanea e cursoria, l’immedesimazione vitale e simpatetica con l’oggetto dell’analisi, non poteva essere in alcun modo ridotta entro le solide ma forzose strutture di un superiore disegno storiografico o di una sistematicità obbligante e in sé conclusa. L’atto critico inerisce, per riprendere le parole di Raimondi, ad “una temporalità concreta ed empirica del tutto diversa (...) dalla storia dialetticamente ordinata nel disegno totalitario dello spirito hegeliano” (33).
In questa temporalità, non già dissipata o abolita, ma condensata, ritratta, raccolta nel punctum temporis, nell’istante della folgorazione estetica, dell’illuminazione gnoseologica, della “sinestesia critica”, “tutti i periodi, tutti i tipi, tutte le scuole del gusto sono in se stesse uguali”. Ed è ancora, forse, il rinvio a Baudelaire che può, in certa misura, rendere ragione di questa formulazione, apparentemente generica e semplicistica: nella peculiare temporalità dell’atto critico, nella sua dimensione all’occorrenza intemporale ed astorica, il critico “rapproche les tempéraments analogues”, facendosi beffe di correnti, categorie storiografiche, tradizioni nazionali, “derivazioni” ed “influssi”. Il concetto di progresso, tipico dell’ideologia borghese e dell’imperante “americanomania”, appare, agli occhi dell’autore dei Salons, inapplicabile alla storia dell’arte; il sovrano principio d’analogia si muove ed opera liberamente così nello spazio come nel tempo. In questo contesto Pater può riprendere e citare l’affermazione di Blake: “i tempi son tutti eguali, (...) ma il genio è sempre al di sopra del suo tempo”. L’artista, aveva già detto Baudelaire, “è il proprio maestro, il proprio sacerdote e il proprio Dio”, e “non dipende che da se stesso”. Uno dei princìpi dell’estetica romantica - per certi aspetti già decaduto a luogo comune - veniva recuperato e ricontestualizzato ai fini della definizione e della difesa di un metodo critico che operava per via di giustapposizione analogica e associazione sinestetica.
“La teoria, l’idea, o il sistema che ci chiede il sacrificio d’una porzione qualsiasi di questa esperienza (...)”, dell’esperienza in senso lato “estetica”, “non ha alcun diritto su di noi”. Si era, con queste affermazioni - di cui lo stesso Pater avvertiva, e si preoccupava di segnalare, l’audacia e la “pericolosità” -, ormai ad un passo dai velenosi paradossi e dalle irridenti antilogie di Wilde.
IV - WILDE E L’ATTRAVERSAMENTO DI ARNOLD
1. “E’ certo che la critica sia di per sé un’arte. E proprio come la creazione artistica comporta l’opera della facoltà critica e, in realtà, senza di essa non può neppure dirsi esistente, così la critica è veramente, e nel più alto senso della parola, creativa. La critica è, infatti, sia creativa che indipendente” (34).
Il passo di The Critic as Artist appena riportato può, meglio di altri, mettere in luce il nodo argomentativo fondamentale intorno a cui ruota e si articola, nel dialogo wildiano, il pacato ed affascinante scambio di battute tra il pungente e spregiudicato Gilbert, portavoce delle idee dello stesso Wilde, e l’ingenuo Ernest, che appare, con il suo limpido “nome parlante”, paradigma e personificazione della earnestness vittoriana, della povertà intellettuale e del goffo moralismo che affliggevano larga parte del ceto borghese. Il personaggio di Ernest, com’è noto, si ritrova, con il nome alterato in Earnest, così da rendere ancor più esplicito il già evidente ammiccamento etimologico, anche nella più nota commedia wildiana, in cui, peraltro, alla critica non è dedicato che un breve, ma comunque significativo accenno. Dice, a un certo punto, Algernon: “la verità è pura di rado e semplice, mai. Altrimenti la vita moderna sarebbe assai tediosa, e la letteratura moderna, totalmente impossibile!”, per poi soggiungere, rivolto allo sprovveduto Jack: “la critica letteraria non è il tuo forte, caro mio. Non cimentartici. Lasciala a chi non è stato all’università” (35). La riflessione su di una “modernità” complessa, problematica, contraddittoria, e quella, assai prossima, sul problema di una critica spregiudicata, autonoma, antiaccademica, che operasse al di fuori e in contrasto con le più solide istituzioni culturali, si insinuava, pur se in modo cursorio e quasi impercettibile, anche nell’alato, scintillante, a tratti quasi vacuo tessuto dialogico di una pièce solo apparentemente frivola e disimpegnata; e c’è da credere, del resto, che quella stessa spietata, centrifuga mise en abîme - da un lato legata alla scuola del nonsense, dall’altro, per certi aspetti, addirittura anticipatrice del grande teatro novecentesco dell’assurdo - della normale comunicazione sociale e della “conversazione istruttiva” tipica dei salotti vittoriani, fosse strettamente legata ad un preciso e determinato intento critico di logoramento e disgregazione delle convenzioni sociali, e di conseguenza linguistiche, su cui si fondava il compromesso borghese. Proprio per questo “conoscere il germe teorico di quest’arte” - come doveva ammettere, pur se nel quadro di un giudizio sostanzialmente negativo, il Borgese di un remoto e dimenticato elzeviro del ’12 (36) - “è senza dubbio di massima importanza per intenderla ed apprezzarla”. Tuttavia, per un Borgese non del tutto privo di scorie crociane, nell’”artista critico” Wilde “l’anima (...) era contratta in una spinosa solitudine, rattrappita in una frigida sensibilità intellettuale”.
Non è casuale, ad ogni modo, che - a conferma dello stretto legame che connette, nell’estetismo, arte e critica - “è nel critico militante degli anni 1885-90 che si affermano per la prima volta, e spesso in modo non superato in seguito, le migliori qualità della maturità artistica di Wilde” (37). Proprio al 1890-’91, vale a dire al compimento di questo periodo di “militanza” culturale, corrisponde il periodo di più fertile e ricca attività creativa di Wilde, il periodo in cui vedono la luce sia The picture che Intentions.
2. Un metodo critico tanto arditamente innovatore, e una militanza culturale così rigorosa e meditata, ancorché celata dietro la maschera effimera e frivola del dandy, necessitavano certamente di un’adeguata fondazione teorica; essa può essere ricostruita nelle sue fasi essenziali, pur se affidata all’indole - spesso desultoria, frammentaria, rapsodica - del dettato dialogico.
Una critica, dunque, “both creative and independent”. La nozione, o almeno la definizione di “independent criticism” non nascono, propriamente, con Wilde. Esse rientrano nell’àmbito di quei concetti e di quelle definizioni che Wilde, come già Pater, riprende e mutua da Arnold, sottoponendoli però ad una decontestualizzazioni e forzature che sfiorano la parodia o, forse, il “falso consacrante”. Lo stesso titolo (The true Function and Value of Criticism) della prima versione del dialogo, apparsa sulla rivista The Nineteenth Century nel luglio e nel settembre del 1890, ammiccava in modo evidente, e non senza una punta d’ironia, a quello della più famosa conferenza arnoldiana; e il tono solenne ed accademico del titolo era poi smentito e corretto da quello più dimesso, e quasi goliardico, del sottotitolo: “with some remarks upon the importance of doing nothing”. Il sottile, mobile, ammiccante gioco dei palinsesti e delle “soglie” è, come si vede, illuminante per Wilde quasi come per Mallarmé.
Già Arnold, si è detto, parlava di “independent criticism”: “let us have no nonsense about independent criticism, and intellectual delicacy, and the few and the many”, gridavano in coro, in The Function of Criticism, i Philistines, arroccati nell’apparente solidità e negli ingiustificati privilegi del loro liberal party (38). A questi Filistei vittoriani Arnold si oppone con decisione, senza, tuttavia, che vi sia ancora alcuna aperta contestazione o radicale, militante “rottura” nei riguardi della società e delle istituzioni; proprio a queste ultime, anzi, è demandata, come si è visto, la funzione di portare ordine, chiarezza ed onestà intellettuale nel sistema sociale e letterario. Emilio Mariano ha potuto, al riguardo, parlare di una “opposizione legale” nel “parlamento letterario vittoriano”, laddove intellettuali come Swinburne e Wilde rappresentarono, invece, l’”opposizione rivoluzionaria” (39).
Di questa personificazione di tono biblico Wilde si era già ricordato, significativamente, in una delle conferenze americane, The English Renaissance of Art: l’apparire del Preraffaellismo scosse per un momento dalla sua “ordinaria apatia” l’”English Philistine public” (40).
E’ evidente, tuttavia, anche la distanza che separa le due accezioni - quella arnoldiana e quella wildiana - di “independent criticism”. Per Arnold, secondo una fenomenologia che agli occhi dell’autore di Intentions non poteva non apparire inverosimile, la critica tenta o crede, paradossalmente, di riuscire a mantenersi autonoma e indipendente dai condizionamenti del moralismo e dell’opportunismo dei Filistei proprio in virtù di quei caratteri - disinterestedness, funzione sociale e pedagogica, stretti rapporti con le istituzioni culturali - che finiscono, come si è visto, per farla scivolare nell’eteronomia. Wilde, invece, intende l’autonomia e l’indipendenza della critica in termini strettamente letterari, ermeneutici, prettamente legati alla sfera e al dominio della “relazione critica”.
“The critic occupies the same relation to the work of art that he criticizes as the artist does to the visible world of form and colour, or the unseen world of passion and thought”. Torna, qui, in termini solo lievemente differenti, un concetto già presente, fin dal Salon de 1846, in Baudelaire: come un quadro è “natura riflessa dall’artista”, così lo scritto del critico sarà un “quadro riflesso da uno spirito intelligente e sensibile”. L’opera d’arte è, come notava Anceschi, “la natura della critica”; il presupposto teorico del surnaturalisme, l’attraversamento dello spinozismo romantico, l’asserzione, tipica dell’estetismo fin dalle teorizzazioni di Poe, del carattere calcolato, premeditato, artificioso della creazione poetica, passavano attraverso la critica o ad essa erano, quantomeno, strettamente legati. A tale carattere calcolato e cerebrale è da ricondurre, per riprendere le espressioni del primo traduttore francese di Intentions, “le voulu” del “perpétuel paradoxe” (41) che attraversa e vivifica tutto il saggismo wildiano.
E nel passo da cui eravamo partiti era già enunciato, con la stessa chiarezza, anche il principio di reciprocità tra atto poetico ed atto critico: “come la creazione artistica comporta l’opera della facoltà critica, (...) così la critica è (...) creativa”. Più oltre questa sostanzialmente inedita nozione di “autocoscienza” artistica acquisisce, anche sul piano terminologico, connotati più precisi: “believe me, Ernest, there is no fine art without self-consciousness, and self-consciousness and the critical spirit are one. (...) All fine imaginative work is self-conscious and deliberate. No poet sings because he must sing. (...) A great poet sings because he chooses to sing”. Dice Marx da qualche parte che Milton produsse i versi del Paradiso Perduto sospinto da un ineludibile, cogente, quasi fisiologico impulso naturale, “per lo stesso principio per cui il baco da seta produce seta”. Non si potrebbe dire lo stesso della figura di poeta qui delineata da Wilde: il poeta che “vuole” cantare, che “decide” e “sceglie” di cantare, in virtù di un’individuale, precisa, agguerrita “intenzione” o “volontà d’arte” - quest’ultima, ovviamente, priva di ogni connotazione idealistica e metastorica -, si sottrae tanto alla concezione romantica e schellinghiana del poeta come strumento dell’Assoluto e voce della Natura, quanto, e ancor più decisamente, dal determinismo del Taine: “is not the moment” - moment che intenderei, qui, nel senso pregnante e “tecnico” che il termine assunse fin dal materialismo settecentesco - “that makes the man, but the man who creates the age”.
Nella seconda parte del dialogo, in una di quelle dotte digressioni ellenizzanti che in esso non sono infrequenti, lo stadio più alto e più maturo del percorso della paideia dei giovani greci verrà poi additato, con palese e voluto anacronismo, nel momento in cui il “gusto”, il “taste” - concetto, lo si è visto, poesco e flaubertiano, anche se anch’esso di origine settecentesca -, “is to become critical and self-conscius”, dopo essere stato poco alla volta educato e affinato, come una sorta di “seconda natura” abilmente ed artificiosamente infusa. E in questa anonima ed inverosimile figura di giovane greco, tratteggiata dalla penna di Wilde sulla scorta di una scaltra “mislettura” di un luogo della Politeia platonica, non è difficile scorgere i contorni degli Sperelli, dei Des Esseintes, di Mario l’Epicureo, con il loro “senso estetico (...) sottilissimo e potentissimo e sempre attivo”, che sostituisce efficacemente, anche sul piano pedagogico, il “senso morale”, e pone ordine ed esercita il suo dominio razionale così tra i pensieri come tra le sensazioni.
L’attraversamento di Arnold - che si può assumere come punto di vista privilegiato, ancorché pretestuoso, per ricostruire buona parte dei presupposti teorici della “critica estetizzante” - ha lasciato, nella teoresi wildiana, altre non trascurabili tracce. “Arnold’s definition of literature as a criticism of life was not very felicious in form, but it showed how keenly he recognized the importance of the critical element in all creative work”. Si è già accennato alla definizione arnoldiana, affidata al saggio su Joubert. Anche in questo frangente, la stessa definizione è usata dai due autori in due accezioni radicalmente diverse: per Arnold la letteratura è “critica della vita”, e il critico, “al quadrato”, “critic of criticism of life”, per la funzione morale, pedagogica, sociale che viene loro assegnata. Per Wilde, invece, l’immanenza alla creazione dell’elemento critico è finalizzata, come si è detto, all’enfatizzazione della componente “autonoma”, estetica, formale. Ed è significativo, al riguardo, che l’obiezione e l’aggiustamento wildiani siano qui riferiti proprio alla “forma” della definizione arnoldiana; una forma consona, forse, più alla limpida, classica, ginnasiale “prose of the center” dell’autore degli Essays in Criticism che ai brachilogici e letali poisons e alle stridenti ed affilate antilogie del teorico di The Critic as Artist. Già nella conferenza The English Renaissance of art, del resto, il concetto veniva ripreso ed abilmente decontestualizzato, con esplicito riferimento a Baudelaire: “health in art (...) has nothing to do with a sane criticism of life. There is more health in Baudelaire than there is in Kingsley” (42). La valutazione della “sanità” di un’opera veniva, in tal modo, abilmente spostata dal piano etico a quello estetico; un “sane criticism of life” non aveva, in questo contesto, più alcuna autorità. Il “criticism of life”, nell’accezione wildiana, non riguardava che la ferma, spregiudicata, amorale “self-consciousness” del poeta-critico.
Ad un analogo processo di falsificazione e misreading è infine sottoposta, sulla scia della Conclusione pateriana, un’altra affermazione di Arnold, quella - sempre contenuta nel suo scritto più noto - secondo cui compito della critica è vagliare e divulgare “the best that is known and thought in the world” (43). Per il critico estetico e autonomo, aveva argomentato Glibert-Wilde nelle pagine precedenti, la possibilità di esercitare la sua libera e indipendente facoltà esegetica - la sua “appreciation” nel senso pieno, pateriano del termine - è “the reward of consummate scholarship”, “il premio di un’erudizione perfetta”. Il carattere “autonomo” e “collaborativo” della critica non esime il critico dalla necessità dello studio e dell’erudizione: “egli dev’essere capace di collegare la Londra elisabettiana e l’Atene di Pericle” - accostamento, anche questo, già arnoldiano -, “e di imparare la vera posizione di Shakespeare nella storia drammaturgica europea e mondiale”. Wilde sembrava quasi voler confutare in anticipo l’obiezione - invero piuttosto generica ed aprioristica - di “antistoricismo” che è stata poi spesso mossa alla concezione della critica faticosamente maturata tra simbolismo ed estetismo, nonché, quasi per osmosi, a quelle correnti della critica novecentesca che direttamente o indirettamente ne derivano.
Il grande critico è colui “who by fine scholarship and fastidious rejection has made instinct self-conscius and intelligent, (...) and so by contact and comparison makes himself master of the secrets of style and school, (...) and develops that spirit of disinterested curiosity which is the real root, as is the real flower, of the intellectual life”. Alla squisita sensibilità soggettiva e all’assoluta, provocatoria autonomia creativa del critico si affiancano il sottile e limpido discernimento di un senso estetico accuratamente e metodicamente educato e, soprattutto, la “fine scholarship” dell’erudito, non ignaro neppure dei fondamenti metodologici (“contact and comparison”) del grande comparatismo ottocentesco, di quel “comparative method of research” di cui Wilde aveva già dato prova, nella giovanile dissertazione accademica The rise of historical criticism, di essere tutt’altro che ignaro. E riappare, opportunamente decontestualizzato, anche l’ideale arnoldiano della disinterestedness, che in Wilde vorrà indicare non tanto il rigore didascalico o la coerenza ideologica, quanto il “disinteresse”, l’assolutezza e l’incondizionatezza di valori estetici autonomi ed autotelici; la disinterestedness diventa, allora, più modestamente, una soggettiva e creativa “disinterested curiosity” - la “curiositas”, eclettica, vorace, spregiudicata, del critico-saggista. Segue la citazione da Arnold: “the best that is known and thought in the world”... E il sèguito, non riportato, del passo arnoldiano, in cui appare la metafora della “current of fresh and new ideas”, agli occhi di Wilde si trasforma, forse per associazione analogica, nella già osservata icona, eraclitea e pateriana, del perenne divenire. La “contemplative life”, il bios theoretikos, era, per Platone come per Aristotele, “the noblest form of energy”. “Era a questo che la passione per la santità conduceva il santo e il mistico del medioevo”. Si ritrova così anche in Wilde quel particolare “misticismo”, tutto risolto nella sfera, artefatta e cerebrale, dell’esperienza estetica, cui si è avuto modo di accennare nelle pagine precedenti.
Questo ideale di vita contemplativa, che già il sottotitolo della prima parte del dialogo declinava ironicamente in un “doing nothing” da contrapporre all’ideale vittoriano dell’utilitarismo e dell’operosità, si rivela condizione ideale per l’esercizio del libero pensiero e dell’”independent criticism”: questi ultimi hanno poi come fine “not doing but being, and not being merely, but becoming - that is what the critical spirit can give us”. Come già in Pater, alle cui argomentazioni Wilde sembra qui accennare in forma scorciata ed allusiva, lo spirito critico coglie ed evidenzia le impressioni e le sensazioni che, in fugaci momenti di “illuminazione” e “passione intellettuale”, il soggetto riesce a carpire e a mettere a fuoco, per un breve istante, nell’incessante flusso del divenire. E, si intende, a questo spirito critico duttile, aperto, antisistematico, dovrà soggiacere ed essere sussunta anche la “fine scholarship” del critico, il suo sapiente ed accorto addentrarsi nel cuore della storia procedendo per “contact and comparison”, ed attuando, tra gli autori e le opere, una “fastidious rejection”, ossia vagliando, setacciando, decantando la tradizione, così da mediarla e renderla fruibile. In un’epoca che soffriva - direbbe Michel Foucault - di “mal d’archive”, che sentiva di “aver letto tutti i libri”, lo spirito critico e la “self-consciousness” divenivano parte integrante e strumento imprenscindibile di un evoluto e sofisticato senso storico, che, retrospettivamente, emancipava il divenire degli eventi e il susseguirsi delle espressioni culturali e artistiche da ogni forzosa sovrastruttura, da ogni aprioristico modello. Era, questa, la premessa necessaria per una concezione della critica che fosse pienamente e consapevolmente moderna - che, anzi, facesse del concetto stesso, baudelairianamente connotato, di modernità, il proprio fulcro e il proprio nodo fondamentale.
V - WILDE CRITICO E IL CONCETTO DI MODERNITÀ
1. “It seems to me that with the development of the critical spirit we shall be able to realize, not merely our own lives, but the collective life of the race, and so make ourselves absolutely modern, in the true meaning of the word modernity”. Il passo appena citato ci introduce nel vivo di uno dei più ardui problemi con cui dovette confrontarsi la letteratura europea nella seconda metà dell’Ottocento: la definizione e la fondazione, sul piano teorico, della nozione e della categoria di modernità. Si è già visto come Baudelaire, introducendo, del resto con mano già risoluta e sicura, il concetto e il termine - pieno, pregnante, quasi “tecnico” - di modernité, dovesse quasi scusarsi - forse, del resto, dietro la maschera del suo scaltro e straniante “mimetismo ironico” - con il suo pubblico borghese per aver usato un termine che poteva apparire inusitato, se non inquietante: “ce qu’on nous permettra d’appeler la modernité...”. Il Mallarmé di Magie, dal canto suo, prospettava la visione di una modernité “perplessa” e “sfuggente”, che per la propria istituzione critico-teorica abbisognava ancora, in una chiave, peraltro, squisitamente retorica e metapoetica, del medioevo dei demoni, dei sabba, dell’ Opus Magnum, il tutto ridotto, beninteso, ad “oggetto di studio o critica”.
Scrive quello che è forse, nel Novecento, il più lucido e severo teorico di questo concetto: “benché il sostantivo modernitas (...) fosse già stato adoperato (...) fin dalla tarda antichità, (...) le espressioni ‘moderno’ e ‘modernità’, modernité, hanno mantenuto fino ad oggi un centrale significato estetico, improntato all’autocomprensione dell’arte d’avanguardia” (44). Avanguardia, del resto, che - come è noto - nel 1864 ricevette proprio dal poeta delle Fleurs la sua prima chiara definizione sul piano terminologico e teorico, pur se in un’accezione ironica.
È proprio nel senso più pieno e pregnante di “autocomprensione”, autocritica, “self-consciousness”, che Wilde intende qui la modernity; una modernity da prendere “in the true meaning”, nel suo pieno e autentico e profondo valore.
“Don’t be frightened by words”, dovrà raccomandare Gilbert, poche battute dopo, all’ingenuo e spaesato Ernest. Una parola, modernity, che poteva, forse, suonare ancora inquietante ed esecrabile alle orecchie dei Filistei vittoriani, sebbene già Arnold, come si è visto, si fosse mostrato, a suo modo, consapevole della complessità e della problematicità insite nella “modern age”. Eppure, agli intellettuali della fine del secolo, si poneva, ineludibile, il problema di essere, come voleva il Rimbaud della Lettre du Voyant, “absolument modernes”.
Che la modernity di Wilde fosse connotata in senso decisamente e “tecnicamente” baudelairiano è confermato, se mai ce ne fosse bisogno, da un illuminante riscontro presente nel Ritratto di Dorian Gray. “La Vita stessa”, per Dorian, “era la prima e la più grande delle arti”. Non ci si discosta, fino qui, da uno dei più noti e vulgati princìpi dell’estetismo, scaduto quasi a luogo comune. Bisogna comunque precisare che, nel dialogo, questa forma di edonismo estetico è puntualmente ricondotta al concetto di stile, centrale in Pater come, poi, lo sarà nell’estetismo italiano: l’unità e l’autocoscienza del soggetto, di per sé lasciato in balìa del perenne, diveniente fluire del pensiero e della percezione, è garantita dallo stile: “there is no art when there is no style, and no style when there is no unity, and unity is for the individual”. Dove un senso estetico maturo ed equilibrato ha preso il posto di un senso morale debole e confuso, l’unità dell’individuo, lacerata tanto dalla conoscenza scientifica e dal rovello della riflessione - “l’analisi e il sofisma” che inaridiranno il cuore del gozzaniano Totò Merùmeni - quanto dagli abbandoni dell’edonismo, può essere preservata solo in modo artificiale, lucido, autocosciente, per mezzo di uno stile che da un lato è, a un tempo, regola di vita e scelta letteraria, dall’altro fa della vita una propaggine, un supporto, o un sublime nutrimento, della letteratura. Il concetto, com’è noto, si trovava, in termini molto simili, nelle pagine iniziali del Piacere: “bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte”; e l’enfasi posta, anche graficamente, sull’idea del fare, del poiein, della creazione artistica nella sua componente voluta, artificiosa, tecnica e materiale, lascia intendere quanto la vita, l’esperienza, la conoscenza - “l’educazione” dell’esteta era, nonostante tutto, “viva, fatta (...) in conspetto delle realità umane” - non sono che parola implicita, “possibile verbale”, oggetto e materia di una sublimazione letteraria. Si potrebbe dire che nasce qui, con la figura dell’esteta, con questi concetti di stile e di “fare”, quella “letteraturizzazione della vita” che trasforma l’autocoscienza esistenziale in autocoscienza letteraria e, dunque, in critica; letteraturizzazione della vita che avrà, dai crepuscolari a Svevo all’ermetismo, proficui approfondimenti e sviluppi. In questo senso, specularmente, si può, forse, intendere l’enunciazione, anch’essa contenuta nella prefazione a The Picture, che fa della critica “a mode of autobiography”, e del critico “he who can translate into another manner or a new material his impression of beautiful things”. Un concetto affine si ritrova, in una diversa formulazione, anche nel dialogo: “that is what the highest criticism really is, the record of one own’s soul”. Quale importanza Wilde attribuisse, sul piano della poetica e della teoria della critica, alla Preface, risulta evidente se consideriamo che essa, prima della pubblicazione in volume, apparve come testo autonomo sulla Fortnightly Rewiew. La prefazione-manifesto voleva anche, nel contesto delle polemiche suscitate dalla pubblicazione a puntate della prima redazione del romanzo, affermare, con vigoroso impegno militante, una concezione della letteratura e della critica, e insieme della vita, fondata sull’assoluto e indiscutibile primato dei valori estetici: “there is no such thing as a moral or an immoral book. Books are well written, or badly written. That is all”. Anche quest’ultima è formulazione assai nota; ma non è superfluo sottolineare che essa, quasi dieci anni prima, figurava già, in una forma solo lievemente dissimile, in The English Renaissance of Art: “One should never talk of a moral or an immoral poem - poems are either well written or badly written, that is all” (45). Da notare che, nella conferenza del 1882, questa affermazione è limitata alla sfera della poesia; nel Preface, essa viene estesa all’intero dominio dell’attività letteraria, al “libro” che può essere un romanzo come un saggio critico.
L’esperienza di vita si traduce in letteratura e, dunque, in critica; da ciò derivano, specularmente, un soggettivismo e un autobiografismo che poggiano, comunque, su basi teoriche tutt’altro che fragili, e che non si risolvono in una vacua e svagata evasione estetizzante. Come già mostrava la Conclusione degli Studies di Pater, le “impressions of beauty” che sono oggetto della riflessione critica devono essere da quest’ultima vagliate e ordinate, con un lavoro di rielaborazione, perfettamente cosciente e ponderato, da cui non sono aliene neppure la “falsificazione” e l’”umanizzazione” del sapere scientifico.
Proprio perché la Vita stessa era, per Dorian, “la più grande delle arti”, “la moda, che rende universali per un istante le cose più fantastiche, e l’eleganza raffinata, che, a modo suo, è un tentativo di proclamare l’assoluta modernità della bellezza, non avevano mancato di sedurlo” (46). E’, qui, trasparente l’allusione al quarto capitolo del Peintre de la vie moderne: M. G. cerca, appunto, la modernità, strettamente legata al concetto di moda, richiamato anche da Wilde; “il s’agit, pour lui, de dégager de la mode ce qu’elle peut contenir de poétique dans l’historique, de tirer l’éternel du transitoire” (47). Baudelaire sembra addirittura, parlando di “poetico” e di “storico”, di “eterno” e di “transitorio”, riecheggiare la definizione aristotelica - già ampiamente filtrata dalla trattatistica cinquecentesca, ma presente anche, sotto la forma della distinzione tra “vero storico” e “vero poetico”, nelle discussioni romantiche - di una poesia “più filosofica della storia”, attenta più all’”universale” che al “particolare”; lo stesso Wilde, nel dialogo, pur definendo la Poetica “not perfect in form”, farà poi esplicito riferimento al concetto aristotelico di katharsis, spogliandolo di ogni incrostazione etico-pedagogica e cogliendone, sulla scia di Goethe, il valore essenzialmente estetico, definito “not from the moral, but from the purely aesthetic point of view”. Manzoni - e l’avventuroso accostamento si giustifica, per ora, solo per associazione d’idee - aveva scritto che, quando si passa dal vero storico al vero poetico, “tutto ciò che contrassegna i grandi destini, si scopre alle immaginazioni dotate di una sufficiente forza di simpatia”. Che una “fonte” baudelairiana, ovviamente, poi, falsificata e trasfunzionata, non si possa celare proprio tra le righe del Manzoni “francese” della Lettre à M. Chauvet ?
Come che sia, già questi riferimenti - l’uno implicito, l’altro esplicito - ad uno dei primi, forse al primo in assoluto fra i testi-chiave della riflessione metaletteraria nella cultura occidentale, fanno capire quanto il concetto - o questo concetto - di modernità sia maturato in un contesto ancora del tutto alieno da forme di avanguardismo esasperato, di sfrenata iconoclastia, di radicale liquidazione del passato o di terrorismo culturale. E’ però evidente - e Wilde lo apprendeva proprio da Baudelaire - che sopprimere l’elemento “transitorio” e “fuggitivo” della bellezza, rappresentato dalla modernità, equivaleva a cadere “dans le vide d’une beauté abstraite et indéfinissable, comme celle de l’unique femme avant le premier péché” (48). E il peccato originale di cui parla qui Baudelaire è, ovviamente, quello che, già nel saggio De l’essence du rire, dava agli uomini quella “science du bien et du mal” che, traducendosi in spirito critico e razionalità estetica, conferiva alla bellezza moderna un carattere schizoide, lacerato, demoniaco e demonico, “essenzialmente contraddittorio” e proprio per questo “essenzialmente umano”; un carattere che non lasciava più traccia di edenica, primordiale “ingenuità” ed “innocenza”, e che poneva fine a qualunque possibilità e “praticabilità” di una “beauté abstraite”.
2. La modernità di Wilde non elude il confronto col passato. Immediatamente dopo il passo prima citato, in cui viene esplicitato il legame tra “modernity” e “critical spirit”, si legge: “he to whom the present is the only thing that is present, knows nothing of the age in which he ilves. To realize the nineteenth century, one must realize every century that has preceded it and has contributed to its making. (...) There must be no mood with which one cannot sympathize, no dead mode of life that one cannot make alive”. Il concetto appariva, in termini molto simili, nella conferenza The English Renaissance of Art: “intellectual curiosity of the nineteenth century (...) takes from each what is serviceable to the modern spirit”
“La modernità”, scrive Benjamin in un luogo delle Tesi di filosofia della storia, “è sempre una citazione della storia precedente”. La modernità si afferma, e cerca di costruirsi e di fondarsi, attraverso un confronto con ciò che l’ha preceduta; confronto, certo, dialettico, problematico, spesso irriverente, ma, comunque, avvertito come ineludibile, e come tale affrontato. “Il est sans doute” non solo legittimo, ma addirittura “excellent d’étudier les anciens maîtres”; certo, sarebbe assurdo trasformare le “austères études” a cui la Bellezza costringe i suoi incauti amanti in un dogmatico ed idolatrico culto dell’antico; esse sfociano, piuttosto, in una libera e creativa aemulatio, in una spregiudicata contaminazione analogica che sembra quasi giustificare a priori, sul piano teorico, il citazionismo dannunziano, a mezza via tra pastiche, centone, parodia, “falso consacrante”, inventario culturale, museificazione intertestuale ... In un abito antico indossato da una donna moderna “les plis son disposés d’un système nouveau”. Un breve accenno, un dettaglio apparentemente frivolo può, tra i tanti, offrire una delle possibili chiavi d’accesso al cuore della “filosofia dell’abbigliamento” baudelairiana, e all’abissale profondità del pensiero teorico e critico che vi è sotteso; e il lungo, apparentemente fatuo excursus sui costumi shakespeariani che occupa quasi per intero il wildiano The Truth of the Masques può essere visto in una luce non molto diversa, anche tenendo conto del suo folgorante epilogo, prima citato, sulla natura e l’essenza del saggio. Le pieghe dell’abito si dispongono sul corpo della “femme actuelle” - tutt’altro che pura e casta, e non certo immune dal “péché originel” - non semplicemente “d’une manière” o “d’une façon”, ma “d’un système nouveau”. Questo “sistema” è, in fondo, non troppo diverso da quello di cui parla il passo, già più volte richiamato, dell’ Exposition universelle: un sistema che non dà certezza e solidità, ma che è piuttosto “una specie di dannazione che ci condanna ad una abiura perpetua”, che non può mantenersi intatto e solido, ma deve essere perpetuamente “falsificato” e abbattuto per consentire al critico di cogliere “la bellezza multiforme e versicolore”. “Le gest et le port de la femme actuelle donnent à sa robe une vie et une physionomie qui ne sont pas celles de la femme ancienne”.
La “veste” indossata dalla donna potrebbe, forse, essere assimilata alla “veste” letteraria, alla forma artistica, anch’essa aperta, mutevole, soggetta - come, del resto, i princìpi estetici e le concezioni filosofiche - alla legge del divenire e del movimento, della deformazione. E un’opera come il Sartor Resartus di Thomas Carlyle, che agì in vario modo sulla genesi dell’estetismo già a partire da Poe - il quale ascriveva, tra gli altri, anche lo stile di Carlyle ad esempio di “marginalic air” -, insegnava a Wilde, se non già a Baudelaire, che anche i princìpi etici e le concezioni filosofiche potevano, all’occorrenza, essere cambiati e rinnovati come un guardaroba; sul piano dei contenuti, peraltro, l’entusiastico idealismo di Carlyle poteva, oramai, trovare ben pochi proseliti nell’inquieta e “malata” generazione tardoromantica.
L’ aemulatio, la rivisitazione, il vaglio dell’antico operati dalla modernité rinnovano dall’interno le forme della bellezza, insinuandosi in esse, permeandole di sé, scuotendole e rimodellandole; e si pensi, allora, alla lezione del Parnasse, a quel Gautier e a quel Banville che - per quanto, in più luoghi, aborriti ed esorcizzati - non cessano di aggirarsi tra le pagine, scolpite e polite, di Baudelaire, di Huysmans, di Wilde. “Il nuovo”, dice Adorno, “è fratello della morte” (49); alle sue spalle c’è lo stesso Benjamin, a sancire che “ogni opera è nemica mortale dell’altra”. Anche per questo, innegabilmente, il “contenuto di verità delle opere d’arte” - concetto, anche quest’ultimo, che l’autore della Teoria estetica deriva dal Benjamin del saggio sulle Affinità elettive - “è fuso col loro contenuto critico. (...) E’ la critica reciproca, e non la continuità storica delle loro dipendenze, a collegare le opere d’arte fra loro” (50). Si è visto come anche l’”esteta” e “dilettante” Wilde vedesse, implicitamente, la premessa e il fondamento della critica letteraria, e di una letteratura intesa come “critica della vita”, proprio in un “historical criticism” che non tralasciava di “falsificare” e di “umanizzare” né il metodo comparativo né - lo si vedrà tra breve - le teorie evoluzionistiche. Rompere la “continuità storica” delle presunte reciproche “dipendenze” delle opere d’arte era stato, del resto, anche uno dei fini della critica, tutt’altro che retriva o neofoba, mossa da Baudelaire al concetto di progresso; concetto che era, sul piano sociale e politico, legato a forme di “americanomania” biecamente utilitaristiche. Il metodo e i parametri della critica e della storiografia artistiche e letterarie venivano sottratti al dominio di una “continuità storica” solidale, organica, monodirezionale, uniformemente scandita; il passato, tutto il passato, veniva assorbito e fagocitato dal concetto di modernità, rivisitato, rinnovato, falsificato e “misletto” sub specie modernitatis. In tal modo, si aprivano le sconfinate prospettive offerte da una piena applicazione dell’analogismo baudelairiano, dal libero e mobile “rapprochement des tempéraments analogues”, di artisti che, pur se lontani nel tempo e nello spazio, e quantomai “opposés par leur méthode”, “évoquent les mêmes idées et agitent en nous des sentiments analogues”. La categoria del romanticismo, elevata nel Salon de 1846 ad “espressione più recente, più attuale del bello”, poteva, a distanza di decenni, essere assimilata al concetto di modernità; e se il critico doveva, in sede di giudizio valoriale, vedere “il miglior artista” in colui che fosse riuscito ad infondere nella propria opera “le plus de romantisme possible”, allora la nozione di modernité poteva, a buon diritto, assurgere a medium e a strumento per tanto per l’immedesimazione analogica tra soggetto ed oggetto dell’atto critico - partecipi entrambi di una metatemporale modernité assunta quasi come una sorta di dinamica e problematizzata perennis humanitas -, quanto per l’accostamento analogico di autori cronologicamente e tecnicamente lontani. Emancipate da ogni sistematicità chiusa e normativa, da ogni modello storiografico superiore e cogente, le modalità proprie dell’atto critico potevano ora giovarsi e fruire di una temporalità franta, elastica, onnidirezionale, il cui flusso lo spirito critico poteva liberamente percorrere, attraversare, risalire.
“Pur que toute modernité soit digne de divenir antiquité”, scrive ancora Baudelaire, “il faut que la beauté mystérieuse que la vie humaine y met involontairement en ait été extraite” (51). Certo, dalla modernità deve essere “estratta” l’edenica “bellezza indefinibile”, ingenua, immacolata, asessuata, e proprio per questo “misteriosa”, alonata da un’ aura di numinosa, iniziatica sacralità; una bellezza che l’umanità si ostina a riporvi “involontariamente”, cioè sotto la spinta di una sensibilità e di un pensiero spontanei, archetipici, irriflessi, sottratti alla vigile sorveglianza dello spirito critico e all’astuto lenocinio dell’artificio. Ma resta il fatto che, com’è sempre avvenuto, come avveniva anche per gli “antichi maestri”, ogni modernità deve “rendersi degna di divenire antichità”. “L’attualità” dice Habermas, “può costituirsi soltanto come punto d’incrocio fra tempo ed eternità. Con questo contatto diretto fra attualità ed eternità, il moderno non si sottrae certamente alla sua caducità, bensì alla banalità”. E’ proprio “questa concezione del tempo” che “fonda l’ affinità fra il moderno e la moda” (52); e l’arte moderna è perfettamente consapevole della sua natura dinamica, diveniente - “fuggitiva” e “transitoria”. E’, per contro, proprio il rifiuto della banalità, del poncif, del luogo comune vieto e vacuo, che porta sia Baudelaire sia soprattutto Wilde a porre l’accento su quella “perfect scholarship” da cui il critico-saggista, per quanto creativo e autonomo, non può prescindere. Nel contempo la modernità, cercando di rendersi degna di divenire, un giorno, classicità, rivendica e reclama a sé una sorta di “diritto alla museificazione”, alla conservazione, alla memoria dei posteri; la concezione stessa del Salon - a un tempo, letteralmente, istituzione culturale e genere letterario - può rendere in qualche modo l’idea della condizione propria di una letteratura e di un’arte che, pur di sottrarsi all’autodistruzione e all’oblio, imboccano provocatoriamente la strada della museificazione, e danzano sull’orlo di un’eteronomia da cui si mantengono immuni solo celandosi dietro il sottile ma infrangibile schermo del più scaltro mimetismo ironico e di un’intrinseca e autonoma “self-consciousness”. L’”agonismo” e la volontà di autodistruzione che saranno tra i dati essenziali e strutturali delle avanguardie storiche - e che contribuiranno, almeno nel caso del futurismo, a gettarle in pasto all’eteronomia, alla mercificazione, all’ideologizzazione -, sono ancora sostanzialmente estranei all’orizzonte culturale dell’estetismo.
“L’arte moderna”, scrive Adorno, “è astratta in virtù della sua relazione col già esistito” (53). E si noti che, per l’autore della Teoria estetica, questa “astrattezza” dell’opera d’arte viene anche a coincidere con il “codice cifrato di ciò che l’opera d’arte è”, con il darsi dell’arte come arte sull’arte, riflessione su se stessa, critica in atto; un’”astrattezza” che, come oggetto diretto e specifico della poesia - della poesia che, da Baudelaire a Mallarmé al D’Annunzio “metapoetico” delle “stirpi canore”, della “strofe lunga”, dei personaggi-idea, arriva a fare dei concetti estetici effettiva o addirittura esclusiva materia di arte -, finisce, paradossalmente, per ricongiungersi e fondersi con l’antica “mimesi” (54), con l’arcaica, archetipica, illusoria rappresentazione-appropriazione del reale. E’ questo, in fondo, il “feticismo arcaico”, l’inclinazione a suo modo magica ed esoterica della poesia moderna, della poesia che, dopo aver ucciso i Padri, fa della pagina scritta o, al contrario, ossessivamente vuota, dell’alchimia verbale e della “sorcellerie” stilistico-retorica - in sé inerti, disanimate, abbandonate nel deserto dell’immanenza, della contingenza, della più desolata e desolante “orfanità” - gli oggetti di una sorta di culto sostitutivo che rende, per certi aspetti, paradossalmente “regressivo” il “rapporto contemporaneo con l’arte” (55).
Arte moderna, si è visto, “feticistica” e “astratta” “in virtù della sua relazione col già esistito”. “Al nuovo spinge la forza del vecchio che per realizzarsi ha bisogno del nuovo”; un nuovo che, mutualisticamente, ha a sua volta bisogno del vecchio, aspira ad essere riassorbito da esso, a risolversi nell’acronia - sempre dialettica e franta - della letteratura, a divenire, insomma, “antiquité”, classicità, museo. “La riflessione estetica non è indifferente nei confronti dell’intreccio di vecchio e di nuovo. Il vecchio trova rifugio solo nella punta estrema del nuovo; ed a frammenti, non per continuità” (56). La temporalità dell’atto critico - soluta, discontinua, reversibile, tutt’altro che attualisticamente scandita e orientata - trova allora il suo più naturale corrispettivo formale nel marginalic air delle “notes”, della “rapsodia”, del “crayonné”, del frammento.
Il nuovo, dice Adorno, è fratello della morte. La modernità, certo, “uccide” la Bellezza. Ma la uccide, in fondo, con un gesto sacrale e amorevole - quasi un’eutanasia -, e solo per poterla, in nuovi modi e forme, risuscitare.
VI - IL TEMPO DELLA CRITICA
1. “Gilbert, you treat the world as if it were a crystal ball. You hold it in your hand, and reverse it to please a wilful fancy. You do nothing but rewrite history”. Ernest coglie, nella sua ingenuità, uno degli aspetti fondamentali del peculiare e particolarissimo “storicismo” che è sotteso al concetto di critica maturato in seno all’estetismo, e che ne è l’indispensabile presupposto teorico. “The one duty we owe to history is to rewrite it. That is not the least of the tasks in store for the critical spirit”.
“Riscrivere la storia”, vedendola, retrospettivamente, alla luce della multiforme nozione di modernità che si è cercato di esaminare e ricostruire nelle pagine precedenti, è dunque uno dei fini che si propone di raggiungere questa critica. Lo spirito che anima e guida il critico in questa sua ardimentosa avventura intellettuale è indicato come “wilful fancy” (“ghiribizzo intenzionale”, traduce, forse non molto felicemente, Ceni); una “fancy” che non è, in verità, solo un “ghiribizzo”, ma che da un lato sarà da intendere, in senso quasi tecnico, come la “fantasia” di cui avevano discettato, tra gli altri, Coleridge e Poe, dall’altro sarà comunque “wilful”, ragionata, voluta, calcolata, sottratta all’arbitrio del caso, ed inquadrata nella fenomenologia di un metodo critico tutt’altro che privo di meditati supporti teorici, e strettamente legato ed intrecciato all’invenzione creativa e alla “self-consciousness” sottesa all’atto poetico.
Si è già visto il valore simbolico ed analogico che assume, nell’immaginario dell’estetismo, l’immagine del Libro e della Biblioteca. Si è visto quale valore simbolico ed analogico assumano i mobili e screziati riflessi dei lampi e dei fulmini sui dorsi delle “brochures” mallarmeane. E si può aggiungere, qui, il riferimento alla surreale, quasi pre-borgesiana biblioteca universale descritta nell’onirico incipit della baudelairiana Voix: una biblioteca che è, a un tempo, sincronia assoluta, enciclopedia dei generi, implosa compressione spazio temporale e, insieme, infinita, multivoca virtualità di espressione e comunicazione: “Babel sombre, où roman, science, fabliau, / tout, la cendre latine et la pouissière grecque, / Se mêlaient”. Proprio questo babelico groviglio di forme ed espressioni viene, poi, a fagocitare e conglobare in sé, come un destino totalizzante e ineludibile, l’intera esistenza del poeta, che riceve, fin dal “berceau”, la sua irreversibile predestinazione, la sua “existence immense” e la sua “clairvoyance extatique”, ma tutta risolta e compressa entro il dominio della finzione letteraria, che sono, insieme, dono e castigo. L’uomo diventa, letteralmente, e fin dalla nascita, uomo-libro: “j’étais haut comme un in-folio”; e non mi consta che si sia finora notato come, in D’Annunzio, all’”ideal tipo del giovine signore italiano” delineato nelle pagine del Piacere faccia riscontro, a distanza di anni, nella lettera dedicatoria del Trionfo della morte, “l’ideal libro di prosa moderno”. “Ideal tipo” e “ideal libro” - modello umano e modello letterario - tendono, formalmente ed ontologicamente, a coincidere. Nel Libro segreto, guardando, retrospettivamente e metaletterariamente, alla propria esperienza passata, D’Annunzio definirà se stesso “libro vivente”.
In Huysmans, poi, la disposizione dei volumi dell’eclettica ed eletta biblioteca di Des Esseintes visualizza e spazializza il “salto di secoli” che il lettore può compiere, arrivando, se vuole, a trovare in certa prosa mediolatina il più remoto antecedente e modello del “poème en prose” simbolista. Le rigide, canoniche, normative sistemazioni umanistiche, classicistiche, accademiche, possono essere superate, paradossalmente, recuperando - in via mediata e artificiosa, e attraverso un processo di falsificazione e alterazione - proprio ciò che storicamente le precede e che esse, a loro volta, negano e superano. Il nuovo può costruirsi, paradossalmente, proprio recuperando l’antico. Sulla mobile superficie di quella ricorsiva ed onnicentrica “sfera di cristallo” che è la storia, l’antichità può essere doppiata dalla stessa antichità; allo stesso modo la modernità, resasi “digne de devenir antiquité”, viene liquidata e superata dalla modernità stessa, in un ciclico e virtualmente inesauribile alternarsi di senescenza e palingenesi.
Anche in Wilde le immagini della biblioteca e del libro assumono un valore analogico non molto dissimile. Il libro, in particolare, inteso - forse anche per reagire alla perdita dell’ aura e all’incipiente massificazione e mercificazione della cultura - come manufatto elaborato, raffinato, personalizzato, diviene quasi oggetto di un feticistico culto. Basti pensare, a questo riguardo, alle celebri pagine del Ritratto in cui si parla di un enigmatico “libro color ocra” - identificabile secondo alcuni proprio con À rebours - in cui “fantasmi intravisti in sogno si facevano reali”, sotto forma di “metafore mostruose come orchidee”, e “la via dei sensi era descritta coi termini della filosofia mistica”; le “estasi spirituali di un santo medievale” si fondevano con “le confessioni morbose di un peccatore moderno”, e “un greve odore d’incenso”, sinesteticamente, “saliva dalle pagine a turbare il cervello”. Dorian, sull’onda delle analogie e delle corrispondenze che già in Huysmans connettono spesso modulazioni cromatiche e stati psicologici, “si procurò (...) nove copie di lusso della prima edizione, e le fece rilegare in diversi colori, perché si accordassero con il suo umore variabile” e con i “capricci mutevoli” del suo carattere (57).
Anche questo dettaglio - apparentemente un po’ eccessivo e grottesco - può, a ben vedere, essere annoverato tra le premesse teoriche di una critica intesa come autobiografia; una critica in cui il “temperamento” del critico, le sue sensazioni, i suoi stati d’animo, giocano un ruolo determinante nel determinare e scandire modi e tempi dell’operazione ermeneutica. L’opera letteraria - e l’oggetto-libro, quasi alonato da un’aura di feticistico culto - è legata ad un colore e, attraverso di esso, ad una gamma di sensazioni, pensieri e stati d’animo che ne accompagnano e ne condizionano la lettura. La funzione esegetica, esplicativa e valutativa della critica, secondo Wilde, non viene in tal modo esclusa o compromessa; è, anzi, proprio “intensificando la propria personalità” che il critico riesce ad entrare in sintonia con il nucleo essenziale, con l’intima sostanza dell’opera analizzata, e, di conseguenza, a meglio illustrarli e renderli. Esiste, inoltre, come già si è detto, una specularità o reciprocità tra il “critical spirit” che si esplica e si manifesta nella discussione e nell’esegesi e la “self-consciousness” che costantemente sorveglia e guida la creazione.
2. A connotare e supportare questo modo di intendere la critica interviene, come si è detto, un’agilissima ed incoercibile mobilità storiografica, rappresentata e visualizzata, materialmente, dalla disposizione concreta e fisica dei volumi; tale mobilità può consentire alla mente del critico di correre e spostarsi repentinamente nell’acronia - o sincronia - della letteratura, sul crinale di quella inesauribile dialettica di tempo ed eternità, di diacronia e simultaneità, che è l’atto della lettura - atto critico, selettivo, comparativo.
“In uno scaffale della libreria alle tue spalle c’è la Divina Commedia; e io so che se l’apro in un certo punto sarò colmato da un odio feroce per qualcuno che non mi ha mai fatto del male, ovvero agitato da un grande amore per qualcun altro che non vedrò mai. (...) Possiamo scegliere il giorno e l’ora. Possiamo dire a noi stessi: ‘Domani, all’alba, cammineremo col grande Virgilio per la valle dell’ombra e della morte ...”. Segue, in toni un po’ retorici e forzatamente estatici, una breve rievocazione del cammino dantesco; ed è appena il caso di rammentare l’importanza che proprio il modello offerto da certe atmosfere stilnovistiche e dantesche assunse nella poetica del Preraffaellismo, richiamato e lodato più volte da Wilde, spesso accanto al Simbolismo e al Parnasse.
Più importanti sono le implicazioni teoriche. Qui il critico assume, studiatamente, la maschera di un “lettore ingenuo” che, ignorando la distinzione tra auctor ed agens - del resto non ancora ben chiara al dantismo ottocentesco -, si immedesimi totalmente, e in forma “catartica”, nel personaggio-autore, nei suoi sentimenti e nelle sue azioni. Nel caso di Wilde, però, questa temporanea e fittizia immedesimazione è finalizzata alla voluta e ponderata istituzione di un legame simpatetico che unisce, al di là dei secoli, il punto di vista del lettore-critico a quello dell’autore-personaggio.
“Yes, we can put the earth back six hundred courses and make ourselves one with the great Florentine”. In questo “far tornare indietro la terra di seicento rivoluzioni” sta l’essenza del peculiare storicismo wildiano, che non ignora il penetrante acume e il solido rigore dell’ historical criticism, ma che non per questo si preclude la possibilità di muoversi e giostrare, libero da vincoli, lungo la “tastiera delle corrispondenze” e l’ordine dei secoli.
I libri allineati sugli scaffali della biblioteca di Des Esseintes, si ricorderà, passavano repentinamente, “con un brusco salto di secoli”, dai mistici medievali alla poesia simbolista. Allo stesso modo, dice Gilbert, “se ci annoiamo del tempo antico e desideriamo capire la nostra epoca in tutta la sua stanchezza e il suo peccato, non ci sono forse libri che possono farci vivere di più in una sola ora di quanto possa la vita stessa in una ventina di vergognosi anni?”. L’esperienza letteraria, forte della sua superiorità su quella diretta della vita, raccoglie e comprime nel punctum temporis della lettura-scrittura il tempo, o i tempi, del reale e del vissuto. Tanto l’atto poetico quanto l’atto critico sono allora calati in una temporalità anomala, ricorsiva e sfasata, che sembra quasi realizzare, nello spazio, intrinsecamente magico e insieme concreto e materiale, della pagina, quel “punto” a cui, come diceva un antico poeta, “tutti li tempi son presenti”, in cui tempo ed eternità si confondono e si scambiano, per un attimo, modalità e attributi.
Accanto alla Divina Commedia c’è o, meglio, “giace” - tanto sullo scaffale della biblioteca quanto nella memoria del critico, selettivamente stratificata e sedimentata con assiduo lavorìo - “a little volume, bound in some Nile-green skin that has been powdered with gilded nenuphars and smoothed with hard ivory”. Prima ancora che un’opera letteraria, un oggetto raro e raffinato, quasi, si direbbe, circonfuso di un alone di estetizzante sacralità. Il libro è “the book that Gautier loved, it is Baudelaire’s masterpiece”. Baudelaire, il maestro della modernità, è giustapposto, più che contrapposto, al Poeta in cui risuona - secondo la celebre definizione di Thomas Carlyle, che Wilde doveva certo avere in mente - “la voce di dieci secoli silenziosi”, in cui viene a suprema sintesi l’anima tenebrosa e profonda del medioevo. E lo stesso Baudelaire è, prima ancora che direttamente nominato, evocato attraverso una perifrasi che, significativamente, lo pone, in quanto devoto cultore della bellezza pura e disinteressata, in stretta correlazione con il caposcuola del Parnasse.
Segue, appena accennato, l’ incipit di un “sad madrigal” dell’autore delle Fleurs: “que m’importe que tu sois sage? / Sois belle! et sois triste!”. Si tratta, ovviamente, del famoso Madrigal triste, tardo testo in cui vengono evocati, come Wilde sintetizza efficacemente, proprio la “stanchezza”, il “peccato”, la morbosa e malata estenuazione che affliggono una delle tante ipostasi e personificazioni metapoetiche della Bellezza che si incontrano nei versi baudelairiani. Una sensibilità cerebrale e morbosa - sulla scia di testi come Hymne à la Beauté e Les Litanies de Satan -, che l’anonima, dolente figura femminile invocata dal poeta non sarà mai in grado di far proprie interamente, perché tale sensibilità non è ingenua e spontanea, ma reca in sé tutta l’astuzia, il calcolo, l’artificio del male: una coscienza critica che si traduce in “coscienza del male”, e che, per i suoi caratteri di “lucidità”, “sapienza” e “intelligenza”, “resta un primato superbamente maschile” (58). Il wildiano “artista demonico” poteva, certo, riconoscersi e rispecchiarsi in questi versi.
3. Un poeta del Novecento parlerà della “fede letteraria / che fa la vita simile alla morte”. E anche la wildiana critica intesa come autobiografia (“parler de moi à propos de Shakespeare, à propos de Racine, ou de Pascal, ou de Goethe”, come aveva scritto, due anni prima di Wilde, Anatole France, peraltro con assai minore profondità teorica, e avvalendosi, sembrerebbe, di una ancora settecentesca nozione di “gusto”) può finire, paradossalmente, per divenire biografia e resoconto di una morte - quasi, montalianamente, “morte che vive”.
“Un bacio mi ucciderebbe, se la bellezza non fosse la morte”, confida Erodiade alla vecchia nutrice; e si può pensare, volendo, anche alla simbologia funeraria che percorre molta poesia parnassiana - come, poi, certo Valéry. La Bellezza, scrive Pater in Plato and platonism, ha in sé “a touch of the corpse”, qualcosa di cadaverico, di ferale, qualcosa della salma ibernata, o, forse, dell’embrione congelato e suggellato in vitro, della vita fissata e bloccata, per un tempo virtualmente illimitato, allo stato di potenza, di conato, di entelechia soffocata, repressa sul nascere, procrastinata ad infinitum. Tale è, in fondo, la condizione del libro chiuso sullo scaffale, obliato, avvolto da “cendre” e “pouissière”; libro che attende ancora l’intervento del critico, del critico che possa completare, mediare o addirittura, accampando le ragioni dell’”independent criticism”, mutare radicalmente, o fondare ex novo, le potenzialità comunicative dell’opera. Il critico diviene però, in tal modo, anch’egli partecipe di quella che è stata definita la “condizione postuma” della letteratura (59); condizione di cui è partecipe, a maggior ragione, la critica, che è non solo collaboratrice della letteratura, ma anche, per definizione, letteratura della e sulla letteratura, e che respira ancor più profondamente un’aria satura di polvere e di tenebra. Cedendo all’opera parte della propria vita, il critico-autobiografo diviene anche partecipe della sua morte. Il nuovo - quel nuovo che ai fini della propria fondazione teorica non può fare a meno della riflessione critica e, dunque, del confronto con il passato, con la tradizione, con il “museo” - è, anche in questo senso, fratello della morte.
“Il is not”, dice Ernest, “our own life that we live, but the lives of the dead, and the soul that dwells within us is no single spiritual entity. (...) It is something that has dwelt in us in fearful places, and in ancient sepulchres has made its abode. It is sick with many maladies, and has memories of curious sins”.
Athanatoi thnetoi, thnetoi athanatoi, suona il più oscuro dei frammenti dell’Oscuro. “Immortali morti, morti immortali, che vivono la morte di quelli, e muoiono la vita di quelli”. Il divenire si struttura come una successione di brevi esistenze, incastonate e inanellate l’una nell’altra; ognuna trae alimento e sostanza dalla disgregazione di quelle che l’hanno preceduta; l’essere, che è un divenire, è insieme vita e morte. Il frammento è per definizione circonfuso di aree opinabili, di oscillazioni semantiche, di indecidibili sfumature di significato; può ben prestarsi, nel nostro caso, a un fruttuoso esercizio decostruzionista. E nulla impedirà, allora, di credere che le misteriose entità che si celano dietro gli enigmatici ekeinoi del frammento eracliteo possano identificarsi anche con le esistenze e le voci degli scrittori e degli artisti del passato; un passato che si raccoglie, si concentra e rivive - o, meglio, perpetua con rituale ciclicità la paradossale sopravvivenza della sua eterna morte - nella biblioteca e nella mente del critico. L’”eraclitismo” di Pater, a cui si è fatto cenno poc’anzi, può forse essere letto anche in questa luce. Il tempo della creazione letteraria e della riflessione critica è anche il tempo della caducità, dell’oblio, dell’inesorabile senescenza che la Biblioteca e il Libro tentano di esorcizzare, sussumendo l’antico al moderno, congelando l’antico in una metatemporale modernità che lo proietta, indefinitamente, nel tempo a venire. Nella vita e nella parola del critico riprende - forse illusoriamente - corpo e consistenza, dopo aver lungamente “dimorato negli antichi sepolcri”, la “vita dei morti”. L’atto critico ha in sé qualcosa di necromantico, se non di necrofilo.
Anche all’atto e nelle modalità stesse della conservazione e della trasmissione del sapere, la letteratura ha già, come la madre di Cecilia, “i segni della morte in volto”. Le stesse biblioteche non sono, scrisse un filosofo, che “i grandi cimiteri dello spirito umano”.
Ma per Wilde è proprio la “vita dei morti” che “può aiutarci a lasciare l’epoca in cui siamo nati e a passare in altre epoche e a scoprirci non esiliati dalla loro aria”. E Gilbert snocciola, allora, un eclettico e variegato canone di autori tra cui il critico creativo può liberamente spaziare: da Leopardi “craying out against life” a Teocrito, tramite le cui pagine solari e melodiose “ridiamo con le labbra della ninfa e del pastore”; da Peire Vidal ad Abelardo; da Villon a Shelley a Shakespeare, che può farci vivere “le deboli ire e le nobili sofferenze del Danese” ... Si tratta, certo, di definizioni e “medaglioni” piuttosto sbrigativi e anche un po’ stereotipati; e, tra i tanti, già Machiavelli, offrendo la più nota e felice variante del topos umanistico-rinascimentale del “colloquio con i classici”, aveva parlato di nobili intrattenimenti “nelle antique corti degli antiqui uomini”; e, per l’appunto, già nella celebre lettera al Vettori l’atto della lettura - che peraltro non si traduceva ancora compiutamente e coerentemente in scrittura critica - veniva ad identificarsi con una forma di totale identificazione e transfert (“tucto mi transferisco in loro”) e di rievocazione e anàmnesi autobiografica (“leggo quelle loro amorose passioni et quelli loro amori, ricordandomi de’ mia ...”). Il fascino che il Rinascimento italiano, quale “sort of new birth of the spirit of man” maturata attraverso il confronto con l’antico e rivisitata e riletta in senso decisamente e programmaticamente anacronistico e antifilologico, esercitò sull’estetismo europeo, potrebbe, forse, essere indirettamente legato anche a questo aspetto.
Ad ogni modo, il rapido susseguirsi dei riferimenti wildiani vale a rendere l’idea della mobile e libera creatività del critico, del suo ardito e generoso sforzo di adempiere, a beneficio della storia, il dovere di riscriverla, filtrando e cristallizzando il passato alla luce della modernity.
Per puntellare questa ossimorica nozione di una vita universale e sovrapersonale che ha dormito per secoli “in ancient sepulchres”, attendendo di essere vivificata e illuminata dall’invenzione critica, Wilde non esita a fondere confondere le leggi del divenire con quelle dell’evoluzionismo darwiniano; già Pater, come si è visto, aveva potuto, poche righe prima di stigmatizzare la “facile ortodossia” di Comte, concedersi un libero quanto vago riferimento al sapere scientifico dell’epoca.
“Rivelandoci la totale meccanicità di ogni azione (...), il principio scientifico dell’ereditarietà è divenuto, per dir così, la garanzia della vita contemplativa”. “Poetic principle” e “scientific principle” potevano risultare, paradossalmente, alleati. L’evoluzione e la selezione naturale, che pochi anni prima erano divenute, agli occhi di Verga, base di partenza per la costruzione di una “fantasmagoria della lotta per la vita”, in Wilde assolvono, al contrario, la funzione di liberare la vita umana dal “self-imposed and trammelling burden of moral responsability”, e creare in tal modo la condizione ideale tanto per il bios theoretikos quanto, e in modo forse un po’ forzato, per l’ independent criticism. L’uomo, come genere umano, è ora, e in un solo momento, tutto ciò che è stato in tutti secoli, fin dalla preistoria. Sembra, allora, sorgere una stridente contraddizione con quanto l’autore afferma altrove, difendendo le inalienabili prerogative dell’individuo da ogni forma di moralismo e utilitarismo, o rovesciando, in senso radicalmente antideterminista, la formulazione tainiana del rapporto tra l’opera letteraria e il moment in cui è stata concepita e generata. Si è già visto, del resto, come per Wilde la contraddizione, l’antinomia, l’antilogia, la provocatoria e programmatica “disconferma” di concetti, princìpi, proposizioni, rappresentino uno dei tratti fondamentali della forma saggistica. Ad ogni modo, agli occhi del critico l’evoluzione appare “with many gifts in its hands, gifts of strange temperaments and subtles suscptibilities, gift of wilde ardours and chill moods of indifference, complex multiform gifts of thoughts that are at variance with each other ...”. La vita collettiva della razza umana viene allora fatta arbitrariamente coincidere con la globalità e la totalità di tutta quella secolare tradizione letteraria, fatta di “pensieri in conflitto tra loro”, che è simultaneamente raccolta e condensata nella nozione e nella categoria del moderno.
L’evoluzione “ci ha rinchiuso con le reti del cacciatore e ha scritto sul muro la profezia del nostro destino. Possiamo non guardarla, perché è già dentro di noi. Possiamo non vederla, se non in uno specchio che rifletta l’anima. E’ la Nemesi senza la sua maschera. E’ l’utimo dei fati e il più terribile. E’ l’unico degli dèi di cui conosciamo il vero nome”. Un concetto di Evoluzione che, completamente snaturato, diviene, qui, quasi un minaccioso, ipostatizzato eone, o una torva ed irosa divinità ctonia che addita agli uomini il loro ineludibile destino. La tipica “maschera” wildiana, qui, cade inesorabilmente; l’amabile e un po’ smielato dandy rivela il suo volto profondo e tragico.
Ma anche le spietate fauci dell’evoluzione lasciano intatto uno dei più tipici, pregnanti emblemi della décadence: “a mirror that mirrors the soul”, icona e allegoria della riflessione critica e, insieme, di una coscienza esistenziale che si traduce in coscienza letteraria, e che solo in quest’ultima può cercare di preservare la propria precaria unità. Del resto, nelle pagine finali del dialogo, Wilde cercherà di annettere la teoria dell’evoluzionismo al dominio della letteratura, anzi, più specificamente, della stessa critica letteraria, ricorrendo alla plurisecolare topica della “leggibilità del mondo”; topica che peraltro, in Wilde, non ha certo le cupe ed abissali risonanze metafisiche, pur se di una metafisica nichilistica e “vuota”, che ha nell’ultimo Mallarmé. “The nineteenth century”, dice Wilde, is a turning-point in history, simply on account of the work of two men, Darwin and Renan, the one the critic of the Book of Nature, the other the critic of the books of God. (...) It is criticism that leads us. The Critical Spirit and the World-Spirit are one”. Lo Spirito Critico e lo Spirito-del-Mondo (quasi platonica Megale Psyche, nel solco del peculiare, eclettico, impuro platonismo pateriano), ipostatizzati ed assolutizzati come indica, secondo l’uso mallarmeano, l’iniziale maiuscola, vengono a coincidere; e questa fusione avviene attraverso l’icona e nell’emblema del Libro. Anche Wilde sembra cogliere il legame tra cultura scientifica e imperio della Critica di cui De Sanctis, certo con maggior vigore argomentativo, aveva dato conto nell’inquietante epilogo della Storia della letteratura italiana.
Nella pagina wildiana, è solo grazie alla Critica che l’”anima dell’uomo” - per la quale, negli ultimi anni, Wilde cercherà una via di salvezza in una forma, in sé piuttosto vaga e velleitaria, di socialismo anarchico - può ricongiungersi, forse solo fittiziamente, con l’Anima del Mondo; questo a dispetto della Scienza - anzi, ironicamente, proprio attraverso di essa, sebbene di una scienza ricondotta al dominio del Libro, e alla Critica che su di esso si esercita.
L’ Anima del Mondo non è, infine, che la letteratura.
VII - ROMANTICISMO, ELLENISMO, SOCIALISMO
1. “Per Wilde romanticismo, rinascimento, ellenismo, socialismo, individualismo, sono tutt’uno”. Così il Borgese, in un saggio (60) che riprendeva e ampliava, a distanza di anni, l’articolo prima citato, sintetizzava quasi senza volere, e pur se in tono sostanzialmente spregiativo, uno degli aspetti certo più rilevanti del Wilde critico.
Si è già visto come il concetto di modernità venisse all’occorrenza ad identificarsi con una sorta di perenne presente, che raccoglieva in sé, in una totalizzante ed avvolgente simultaneità, tutta la tradizione, tutto il passato. Un passato che, a sua volta, recava in sé le “stigmates éternelles” della modernità, che era stato, a suo tempo, modernità, e che aspirava, come ogni modernità, a divenire antichità; una modernità che chiedeva, paradossalmente, di essere superata e doppiata dalla modernità stessa. Nell’(in)temporalità pluridimensionale e sfasata dell’atto critico, nell’acronia fluttuante ed irrequieta della lettura e della letteratura, il passato trovava la propria essenza e il proprio significato nel nuovo; nuovo come presente immediato, fuggevole, transitorio, ma anche come infinita possibilità, come indeterminata ed illimitata proiezione nel futuro. La temporalità tesa e raccolta dell’atto critico raggruma e comprime in sé il passato - non senza averlo setacciato e vagliato tramite la “fastidious rejection” del critico -, e ne fa strumento e laboratorio per la costruzione del futuro.
La prima delle nozioni richiamate da Borgese è, non a caso, quella di romanticismo. E’ interessante notare che essa si sviluppa, nel pensiero estetico di Wilde, sulla base di un lampante intertesto baudelairiano. Esso si trova all’esordio di The English Renaissance of Art (61), in cui il concetto di romanticismo viene sovrapposto e fatto interagire con quello di Rinascimento, inteso - metastoricamente, e con una connotazione quasi escatologica e messianica - come rinnovamento, palingenesi, universale svolta epocale. “I call it”, dice Wilde, “our English Renaissance because it is indeed a sort of new birth of the spirit of man, like the great Italian Renaissance”; a contraddistinguere questo “rinascimento”, moderno e insieme metatemporale, sono ovviamente “exclusive attention to form” e “seeking for new subjects for poetry, new forms of art, new intellectual and imaginative enjoyments”. “And I call it”, prosegue l’autore, “romantic movement because it is our most recent expression of beauty”. Ed è qui evidente, e altamente indicativa, anche se non dichiarata, la citazione della celebre definizione baudelairiana del romanticismo come “l’expression la plus récente, la plus actuelle du beau”. Riprendendo la “decostruzione” e rifunzionalizzazione del concetto di Romanticismo da dove l’autore dei Salons l’aveva lasciata, Wilde arriva ad incrociare e sovrapporre questo concetto a quello di Rinascimento; un Rinascimento che già Pater aveva snaturato e connotato, sia sul piano dei contenuti estetici che su quello delle sollecitazioni ermeneutiche, in senso risolutamente estetizzante. Il romanticismo viene, in tal modo, spogliato di ogni risvolto e di ogni connotazione politica, nazionale, moralistica, e risolto in categoria estetica - esplicitamente legata all’ideale di un’arte autonoma ed autotelica - e in duttile ed agile strumento critico.
Il tono della conferenza oscillerà poi, con abile mimetismo ironico, tra la smaccata ed opportunistica adulazione dell’uditorio americano (“it is (...) to you that we should turn to complete and perfect this great movement, (...) for you (...) are young”), e l’inquietante, quasi provocatoria evocazione dell’ombra di Poe, spentosi poco più di trent’anni prima, e ricordato proprio per la sua attività di critico e di teorico, per la sua lucida e ponderata “analysis of the workings of his own imagination” - ancora, nella sua più pregnante accezione, la “reine des facultés” - affidata a The Philosophy of Composition, e per la sua funzione, riconosciuta da Wilde con solido e solerte senso storico, di precursore e ispiratore degli “young poets of the French romantic movement”; ove il “romanticismo” appare inteso, all’incirca, nella stessa accezione in cui lo intendeva, un decennio prima, il Rimbaud della Lettre du Voyant, e cioè come scuola dei “deuxièmes romantiques”, seconda generazione romantica, tardo romanticismo, simbolismo. “The entire subordination of all intellectual and emotional faculties to the vital and informing poetic principle” - non sfugga l’evocazione poesca - “is the surest sign of the strenght of our Renaissance”; ciò che massimamente contraddistingue quest’ultima è una forma di “passionate cult of pure beauty”. Non è da escludere che vi fosse, nel riferimento a Poe, un’implicazione provocatoria; del resto Wilde, come già Poe e sulla sua scia Baudelaire, addita nello “spirit of trascendentalism”, “alien to the spirit of art”, il principale avversario del culto estetico della pura bellezza. E si direbbe quasi che Wilde qui voglia, con i suoi arguti ammiccamenti e il suo ostentato sussiego, scoperchiare il “calme bloc ici-bas chu d’un désastre obscur” di cui parlavano i celebri versi commemorativi di Mallarmé; scoperchiare minacciosamente il “bloc de basalte” che, come si legge nella nota che accompagnava il sonetto mallarmeano, “l’Amérique appuya sur l’ombre légère du Poète, pour sa sécurité qu’elle ne ressortit jamais”. Quelle che qui sono soltanto velate allusioni, in The Decay of Lying, pubblicato dapprima nel 1889 e incluso poi in Intentions, diverranno esplicita polemica contro “il rozzo commercialismo dell’America, il suo spirito materializzante, la sua indifferenza al lato poetico delle cose”.
2. Un altro testo che offre notevoli spunti è la prefazione al Ritratto. “The nineteenth century dislike of Realism is the rage of Caliban seeing his own face in a glass. The nineteenth century dislike of Romanticism is the rage of Caliban not seeing his own face in a glass”.
Alle valenze che l’idea e la metafora della riflessione assumono nell’immaginario dell’estetismo si è già accennato; ma si può pensare, a riscontro, anche alla consistenza che il mitologema di Narciso assunse nell’ imagery romantica. Nell’allegoria della riflessione trova mirabile espressione la condizione della letteratura che è specchio di se stessa, e dell’anima dell’uomo che nella letteratura - e solo in essa - può tentare di specchiarsi e riconoscersi. Il “libro color ocra” che affascina Dorian celebra, non per nulla, “il quasi grottesco amore degli specchi e delle superfici polite dei metalli e delle acque stagnanti”. In Des Esseintes “il temperamento romantico e realistico si erano così straordinariamente fusi”, che Dorian poteva rispecchiarsi in lui, vedere in lui “l’immagine simbolica d’un precursore” (62); e qui si fondono due idee certo archetipiche, ma pregne, nella décadence, di un particolare valore, cioè il simbolo e la riflessione.
La figura di Calibano, l’indocile e deforme servo della Tempesta shakespeariana, che già nel dramma era adibita a “simbolo della brutalità terrena” (63), viene assunta da Wilde quale prosopopea delle brutture, delle contraddizioni, del gretto utilitarismo di un’epoca. Un simile valore questa figura assume anche nella parte finale di The Critic as Artist, in cui appare il “poor noisy Caliban”, con i suoi “uncouth distorted lips”; proprio uccidendo Calibano, annullando o rimuovendo il Brutto, si potrà far sbocciare lo “strange Renaissance” di una modernità ancora in progress, non cristallizzata e sclerotizzata in un’assolutezza senza passato.
Nella seconda generazione romantica, così come nell’epoca in cui essa matura, convivono, come nel giovane protagonista del “libro color ocra”, Romanticismo e Realismo. Nel fecondo, ribollente, onnivoro crogiolo della modernità, il realismo come “anti-mito”, come “‘meraviglioso’ d’en bas” (64) - “spleen de Paris” o “de Londre” -, innegabilmente presente, si fonde con l’idea di un Romanticismo che Wilde intende, baudelairianamente, come “l’espressione più recente, più attuale del bello”, e quale metastorico parametro di valutazione e classificazione critica; una nozione di Romanticismo che, come si è visto, l’autore di Intentions non si perita di sovrapporre ed incrociare con quella di Rinascimento, a sua volta contaminata - in quanto espressione di una Bellezza assoluta, marmorea, “archeologica” e insieme segnata, talora, da una purezza livida e ferale - con lo spettro, a più riprese evocato, di Poe, e con la suggestione della poesia parnassiana.
Calibano appare sospeso tra realtà e astrazione, tra la “prosa della vita reale” e l’”alchimia del verbo”, tra la concretezza e la spietata lucidità di un’arte che può, naturalisticamente, “esprimere tutto”, senza moralistiche censure o elusive idealizzazioni, e un assoluto, incoercibile anelito alla trasfigurazione simbolica; l’arte è, a un tempo, “surface and symbol”, e “those who read the symbol do so at their peril”, a rischio di perdersi nella foresta dei simboli, nei meandri dei romanticismi, in un dedalo di trasfigurazioni e di allegorie che sono, modernamente, “orizzontali”, “vuote”, polisense, multivoche, irriducibili ad unum.
Già Baudelaire, in un tardo sonetto, gridava al “coucher du soleil romantique”, che lasciava il mondo immerso in un’”irrésistible Nuit”, “Noire, humide, funeste et pleine de frissons” - forse gli stessi “frissons nouveaux”, irresistibili ma agghiaccianti, della sua poesia? -, una Notte in cui “galleggiava nelle tenebre un odore di tomba”.
Da un lato c’era un Romanticismo come astrazione, idealità, rimpianto, frustrato e sopito anelito alla catarsi e alla redenzione dell’uomo e del mondo attraverso la bellezza - un Romanticismo, peraltro, non privo, in quanto tentativo di liberazione ed emancipazione dell’individuo, di venature demoniche e finanche demoniache -; dall’altro, un Realismo crudo, positivo, raziocinante, spietato, in cui la cultura e la società rifiutavano ancora, in parte, di riconoscersi. Quella che Wilde rappresenta e personifica tanto efficacemente è una condizione lacerata e schizoide - la condizione di chi non si riconosce, di chi non vuole riconoscersi nello specchio. Credo si possa vedere un sottile legame tra l’egotistico, autoerotico narcisismo di Erodiade, che sfocia nella nevrosi dell’ impuissance, e la schizofrenia di Calibano, di fronte alla cui irredimibile ferinità, già nel testo shakespeariano, le sublimi arti del poeta-mago Prospero, probabile proiezione autobiografica dello stesso autore, finiscono per perdere ogni efficacia, per essere “all, all lost, quite lost”.
3. “Qual è”, si chiede Gilbert, “il nostro principale debito nei confronti dei Greci? Proprio lo spirito critico”. Il trasognato Ernest aveva appena rievocato, con toni tipicamente e quasi parodisticamente primoromantici (“in quel tempo l’artista era libero (...); la vita intera (...) gli apparteneva”; “tramite forma e colore egli ricreava un mondo”), l’infanzia mitica in cui il poeta “ingenuo” era la natura, creava spontaneamente, senza il filtro e il disturbo della riflessione critica; Gilbert-Wilde gli oppone uno dei suoi tipici, provocatori paradossi, che oggi, forse, può suonare assai meno inverosimile di quanto dovette apparire al pubblico dell’epoca: “the Greeks were a nation of art-critics”.
Si è già visto come la modernità, proprio nel momento e nella fase della sua più lucida e vigorosa sistematizzazione teorica, avesse in qualche misura bisgno del passato, si proponesse anzi, sostanzialmente, come una rilettura e una riscrittura della storia. Questo “rewriting history” non si arresta al Rinascimento rivisitato, in chiave estetizzante, da Pater, o al mallarmeano medioevo dell’alchimia e dei sabba; esso, sull’onda delle vorticose rivoluzione di quella “sfera di cristallo” che è la storia, non si perita di spingersi fino al cuore dell’antichità classica, fino alle più profonde scaturigini del pensiero greco.
I Greci, dunque, erano una nazione di critici. “Recognizing that the most perfect art is that which most fully mirrors” - ancora, in un contesto metaforico e metaletterario, l’idea della riflessione - “man in all his infinite variety, they elaborated the criticism of language”. Ancora, dunque, la centralità e l’immanenza dei valori formali, considerati “in the light of the mere material of that art”, nella loro concreta e tecnica specificità. La prospettiva è nuovamente focalizzata sul concetto di prosa e, indirettamente, su quello di modernità, nonché su quello della “condition of music” a cui tutte le arti anelano: gli antichi studiarono “the metrical movements of a prose as scientifically as a modern musician studies harmony and counterpoint”. Anche D’Annunzio, che nella lettera dedicatoria del Trionfo della morte si rivela memore dei rétori latini oltre che, ed in misura ovviamente assai maggiore, del Baudelaire di Spleen de Paris, nel Libro segreto parlerà, riferendosi probabilmente al Notturno, dei “numeri della sua prosa recente”, in cui egli “adun ava gli incanti della Magia e quelli della Poesia non dissimili” (65). Ancora, dunque, la poesia come magia, come “alchimie” e come “sorcellerie”; e, quel che ora più conta, il velato riferimento al “numerose concludere” raccomandato dagli antichi rétori, alle istituzioni retoriche dell’”apta et numerosa oratio”, che - pur se in un contesto ancora scolasticamente normativo e precettistico - avvicinavano il tessuto ritmico della prosa a quello della poesia attraverso l’uso delle unità metriche, dei “metrical movements” di cui parla, già a proposito del mondo greco, Wilde. Anche l’antica retorica poteva, insospettabilmente, dare il suo indiretto e mediato contributo all’edificazione di una prosa “moderna”, “musicale” e “lirica”.
Si è gia accennato al concetto aristotelico di catarsi, e all’”uso” che ne fa Wilde. Nell’Aristotele teorico della letteratura l’autore di The Critic as Artist vede, forse in modo non del tutto anacronistico, un precursore dell’Ellenismo, di quell’Ellenismo su cui, più che sull’età periclea, si concentrerà l’attenzione di Wilde. Dopo aver letto la Poetica, “non ci si stupisce più che Alessandria si votasse così generosamente alla critica d’arte”.
“Threre is really not a single form that that art now uses does not come from the critical spirit of Alexandria. (...) I say Alexandria because it was there that the Greek spirit became most self-conscius, (...) but because it was to that city, and not to Athens, that Rome turned for her models”. Non Atene, dunque, ma Alessandria e Roma. La “fastidious rejection” del critico è, qui, pienamente attiva, ed opera, sul piano storico, con vigore e risolutezza. “Technei krinete”, chiedeva Callimaco ai suoi arcigni detrattori, “ten sophien”; “giudicate la mia sapienza secondo l’arte”. Alla Sapienza come principio metafisico e come guida etica si sostituiva ora una sapienza intesa come poesia, come versificazione, come paziente elaborazione formale condotta per virtù d’artificio. La Sophia, per metonimia o slittamento paradigmatico, si faceva poiesis. Analogamente, dovrà essere sostanzialmente identificata con l’arte, assoluta ed autonoma, la “Goddess of Wisdom”, la Dea della Sapienza di cui Wilde parla in The rise of historical criticism, e che “traversed over the whole land and found nowhere a resting-place”; essa ha attraversato senza sosta i secoli, ed è giunta fino a noi dopo infinite peregrinazioni, che non hanno certo mancato di mutarne ed alterarne i lineamenti, fino, forse, ad impedirle di riconoscere la propria immagine riflessa nello specchio.
L’ideale estetico della poesia “avvolta in breve giro”, concisa, contenuta, organica, era già parso, come si è visto, consentaneo a Poe, e prima ancora a Coleridge. Nella poetica alessandrina, soprattutto callimachea, Wilde vede, con una visione storica sostanzialmente verosimile, la prima poetica esplicitamente formalista, e la prima, remota ma già lucida e “militante”, enunciazione teorica dell’autonomia dell’arte. La poesia alessandrina, ha osservato Bruno Snell, “possiede (...) una nuova forma d’ingenuità sapiente; il suo tono leggero viene dalla sovranità di uno spirito cosciente” (66). Proprio questa “ingenuità sapiente” e questo “spirito cosciente” erano, in sostanza, ciò che l’alessandrinismo - lucidamente “allontanato”, isolato, filtrato in modo critico e variamente contaminato con varie altre categorie e mille altre, e assai più prossime, suggestioni culturali - poteva dare alla fondazione teorica della modernità; una modernità in cui il poeta non “era” la natura e neppure più la “cercava”, e poteva recuperare una forma di ingenuità ricostruita, o di “mezza verginità” maliziosa e mendace, solo attraverso la riflessione critica.
La letteratura greca offre uno “spirit of exclusive attention to form which made Euripides often, like Swimburne, prefer music to meaning and melody to morality”. Offrendo la più compiuta ed esemplare attuazione del metodo analogico che veniva teorizzando, Wilde può accostare - in modo, forse, meno inverosimile di quanto sembri - il poeta della morbosa, chiaroscurale Laus Veneris al tragediografo che mostrò mirabilmente la forza devastante di un’istintualità pulsionale, di un’ebbra forza di vita con cui il razionalismo sofistico ingaggiava una strenua, irriducibile, “moderna” lotta. Il medium dell’identificazione analogica era però indicato - stavolta in modo pienamente e lucidamente moderno e, nel contempo, molto meno verosimile - nell’”esclusiva attenzione per la forma”. Il comparatismo storico-linguistico assumeva la forma del pensiero analogico e della divagazione estetizzante; se da un lato esso perdeva il suo rigore e la sua presunta oggettività scientifica, dall’altro diveniva momento e prezioso strumento dell’elaborazione di una poetica.
Il riferimento a Swinburne libera, com’è evidente, questa concezione dell’antico da ogni forma di archeologico recupero della classicità, o di reverente culto del passato. Certo, ad Alessandria lo spirito greco divenne “most self-conscious”. Con l’alessandrinismo, il mito perse, insieme alla sua funzione rituale, pubblica, civile, anche tutte le sue implicazioni religiose e metafisiche, e divenne oggetto di razionalistica ironia e disincantata “leggerezza”; un’ironia, certo, lieve e un poco stucchevole, ben diversa da quella, feroce, contorta, straniata, dei maestri della modernità. All’alessandrinismo mancava “that strained self-consciousness of our age”, l’autocoscienza tesa, tormentosa, artifiziata, che è “the key note of all our romantic art”. La vorace, ma insieme accorta e selettiva “curiosità intellettuale” del diciannovesimo secolo traeva dal mondo classico “its wonder without its worship”. La classicità poteva, una volta spogliata di ogni alone di “worship”, di “adorazione”, “venerazione” e “culto”, di sacra reverenza e di “terrore mitico”, essere fagocitata e metabolizzata dalla nozione di modernità.
Torniamo, per l’ultima volta, alla giovanile dissertazione oxoniense. Se “the Greek spirit is essentially modern”, lo deve al fatto che nel suo seno nacque e maturò l’”historical criticism”, che si rivelerà poi, nel “sistema” costruito, a almeno abbozzato, da Wilde, premessa necessaria e base teorica vitale per la critica analogica.
Questa critica storica è “revolt against authority”, “intolerance of dogmatic authority”; un carattere, questo, che deriva - e il giovane teorico lo indica chiaramente - dallo spirito democratico che animava le istituzioni greche. Ma è certo che, nell’economia del pensiero di Wilde - pensiero che comincia, già in quegli anni giovanili, a prendere gradatamente forma - l’autorità e il dogmatismo hanno contorni ben precisi, calati in una realtà storica che non è più, non può più essere quella del mondo greco. E’, forse, proprio il carattere libertario e antidogmatico dello spirito greco che, più di dieci anni dopo, in The Soul of Man under socialism, consentirà a Wilde di scrivere - abbozzando i tratti di un ancora generico socialismo anarchico o anarcoide, che troverà poi in Shaw un’espressione ben più vasta e coerente - frasi come queste: “il nuovo Individualismo, al cui servizio (...) il socialismo lavora, sarà armonia perfetta. Sarà quel che cercarono i greci ma che non riuscirono a realizzare completamente salvo che nel pensiero. (...) Sarà quel che cercò il Rinascimento ma che non riuscì a realizzare completamente salvo che nell’arte. (...) Sarà completo e per suo mezzo ogni uomo giungerà alla sua perfezione. Il nuovo Individualismo sarà il nuovo Ellenismo” (67). Una modernità che raccoglieva e comprimeva in sé tutto il passato proiettandolo indefinitamente nel futuro, rischiava, di per sé stessa, di assumere toni oracolari ed oratori, di tradursi in un confuso anélito di palingenesi universale. La blasfema cristologia wildiana, che, tra lo stesso The soul of man e il De profundis, farà di Cristo il grande ribelle, la grande vittima, il grande individualista, se non addirittura, almeno nella lunga lettera scritta in carcere, un alter ego dello stesso autore, andrà letta nella stessa luce. Qui la contaminazione e la sovrapposizione dei concetti storiografici giungono all’esito estremo e, insieme, alla conflagrazione e alla dissoluzione.
Ma poco importa che l’”ellenismo” e l’antidogmatismo wildiani, strettamente legati, com’è evidente, allo spirito critico e antiautoritario della sua “critica storica”, non siano andati del tutto immuni da torbidi esiti utopistici e confuse velleità metastoriche. E’ proprio la nozione di “historical criticism” che, come del resto il post-strutturalismo ha da tempo evidenziato (68), consente di collocare Wilde nel cuore della modernità.
Tra il ’73 e il ’76 vedono la luce le nietzscheane Considerazioni inattuali. Piace pensare che qualcuna delle tempestive traduzioni francesi possa essere giunta in qualche modo tra le mani di Wilde.
Nella seconda delle Considerazioni, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Wilde poteva trovare denunciati e stigmatizzati, in un modo certo a lui consentaneo, la staticità e il dogmatismo della storia monumentale, così come il vacuo decorativismo e la “furia collezionistica” (69) in cui rischiava di degenerare la storia antiquaria. Certo il vitalismo di Nietzsche, orientato verso una storia “che serva la vita” e sia presupposto per l’ azione, non poteva trovare riscontro nell’esaltazione wildiana - peraltro polemica e sottilmente ironica - della “vita contemplativa”; e la figura di critico estetico tratteggiata da Wilde rischia piuttosto di identificarsi, in qualche caso, con l’”ozioso raffinato” sbeffeggiato dall’autore della Nascita della tragedia, e che si aggira, discettando in modo amabile e vacuo, “nel giardino del sapere”. Ma neppure la storia critica, quella caldeggiata dal filosofo, può cancellare ed ignorare del tutto il passato, come si potrebbe supporre leggendo di un uomo “attaccato (...) al piuolo dell’istante”, partecipe di un’immemore animalità, assimilato al “bambino che non ha ancora nessun passato da rinnegare e che giuoca in beatissima cecità fra le siepi del passato e del futuro”.
La condizione dell’infanzia è, oramai, irrevocabilmente perduta. Il passato entra nel presente, ne viene risucchiato e metabolizzato, e getta così le spore del futuro. “Noi siamo i risultati di generazioni precedenti”; “non è possibile staccarsi del tutto da questa catena”. Lo Spirito dell’Umanità - che è Spirito Critico -, dopo aver dimorato lungamente negli antichi sepolcri, dopo aver vagato senza sosta lungo i secoli, si è incarnato nella modernità, alterando e deformando in essa le proprie sembianze.
“The only meaning of progress is a return to Greek modes of thought”, aveva scritto Wilde, con uno dei suoi consueti, e spesso assai pregnanti, paradossi; e sembra di scorgere, qui, qualcosa di più della concezione classica dell’eterno ritorno - che pure sarà cara al Nietzsche della maturità -, o del periodico, ciclico “ritorno alle origini”. Ciò che i Greci, per Wilde, possono dare alla modernità, è - lo si è visto - proprio lo spirito critico. L’antichità, scrive Pater, specie nelle sue manifestazioni “argentee” e postclassiche, “era l’epoca dei ‘rétori’ o ‘sofisti’”. La “scienza” di questi ultimi, “è stato detto più volte, dev’essere stata tutta una questione di parole. Ma in un mondo così ricco in tutto ciò che era antico, il lavoro, anche quello del genio, doveva consistere per la maggior parte in critica. (...) Mario (...) era egli pure, più o meno apertamente, un ‘conferenziere’. Quel mondo tardo ha conosciuto, tra molti altri lati singolarmente moderni, lo spettacolo (...) del conferenziere che parla in pubblico, del saggista” (70).
Dice Eliot che Wilde e Pater ci offrono del mondo greco “una ristampa un po’ peggiorata” (71). Ad ogni modo, la loro décadence inquieta e autocosciente si rispecchia nella tarda antichità in modo vivido e fecondo.
“Ci furono secoli”, scrive Nietzsche a conclusione della Considerazione inattuale, “in cui i Greci si trovarono in un pericolo simile a quello in cui ci troviamo noi, di perire cioè a causa dell’inondazione delle cose straniere e passate, a causa della ‘storia’”. La loro cultura, certo, “fu a lungo un caos di forme e di idee straniere”. Ma essi “impararono a poco a poco a organizzare il caos. (...) Così ripresero possesso di sé”, non rimasero meri “epigoni”, o “eredi sovraccarichi”. “Il parallelo sarebbe splendido, purché si appoggiasse su dati sicuri”, annotava Rohde sulle bozze di stampa; “dati sicuri” da cui lo “storicismo” così di Nietzsche come di Wilde, consapevole della décadence e insieme immerso nel cuore pulsante della modernità, non si peritava di prescindere.
“E’ questo un simbolo per ognuno di noi: ognuno deve organizzare il caos in sé”. Scriverà il filosofo più di dieci anni dopo, in un frammento del 1888, pochi mesi prima di scivolare, senza più ritorno, nella follia: “dominare il caos che si è, costringere il proprio caos a diventare forma: a diventare logico, semplice, univoco, matematica, legge: è questa, qui, la grande ambizione” (72); è questa, anche, la “strained self-consciousness” della modernità, che non può più ricomporre istinto e ragione nell’apollinea serenità degli antichi, ma che deve “ragionare” il disordine dei sensi, costringere ragione e passione a unirsi nell’atto critico, dare - anche nel rovello, nella nevrosi, nel contrasto irresolubile e stridente - nutrimento e sostanza ai “sofismi della follia”.
Non è forse lecito vedere in Nietzsche “il prediletto e decostruente dandy del pensiero poststrutturalista” (73). Ma non sarà un caso se Thomas Mann, in uno dei suoi ultimi saggi, notava con stupore che molti degli aforismi di Nietzsche sarebbero potuti essere stati scritti da Wilde, e viceversa.
TERZO CAPITOLO SOLI DI FRONTE ALL’OPERA. IL CONCETTO DI CRITICA NELL’ESTETISMO ITALIANO
I - UNA SINTESI GENIALE
1. “Noi vogliamo restare soli di fronte all’opera d’arte: ne vogliamo sorprendere la genesi, ne vogliamo cogliere tutto il significato, anche quello che è sfuggito all’autore stesso nella sua inconsapevolezza: e non vogliamo che questi si sottragga al nostro esame estetico, sol perché ha creduto che l’arte potesse mettersi al servizio delle scienze morali e sociologiche. A noi non importa che il poeta o romanziere pensi di aver fatto opera importante perché ha cantato gli ideali della nuova società o perché ha acceso nei cuori la fiamma dell’amor patrio. A noi non importa: ed essi possono aver fatto un’opera brutta. Noi ricercheremo (...) come essi scoprendo nuove relazioni fra le cose abbiano saputo rendere originale il loro pensiero e si siano sottratti a quelle volgarità di espressione, nelle quali consiste l’arte della gente volgare. (...) Nel presente trionfar delle ricerche positive e nel quasi dispotico prevalere del documento sulle più elevate attività dello spirito, si è accreditata anche da noi (...) la così detta critica storica; così che la ricerca del documento nella letteratura e nelle arti plastiche ha preso finora il posto della critica che penetra il segreto della creazione artistica e con sintesi geniale la ricompone” (1).
Le perentorie enunciazioni contenute nel battagliero e programmatico prologo del Marzocco lasciano intendere in modo abbastanza chiaro quale rilievo rivestisse, nell’àmbito dell’estetismo militante della fine del secolo, il problema della formulazione di un metodo critico che - in linea con le più recenti dottrine estetiche maturate, tra Francia e Inghilterra, in seno alla décadence - potesse tentare di superare da un lato certi risvolti moralistici e romantico-risorgimentali del magistero desanctisiano - a cui, peraltro, gli ermeneuti marzocchiani guarderanno sempre con interesse e rispetto -, dall’altro, e con assai più risoluto vigore polemico, gli irrigidimenti dogmatici e scientistici a cui era pervenuta, in certi suoi esiti estremi, la scuola storica - alla quale, peraltro, i marzocchiani riconoscevano, con obiettività, l’innegabile merito di avere reagito “contro un’estetica vuota e assurda” (2), quella del romanticismo più vaporoso e astrattamente idealista.
Non è difficile scorgere, fin dal prologo, una chiara rivendicazione dell’autonomia dell’arte rispetto all’esigenza di dare voce agli ideali utilitaristici e progressisti della “nuova società”, o di ravvivare “la fiamma dell’amor patrio”; vi è, inoltre, anche una fioca eco della poetica delle corrispondenze (l’artista deve scoprire “nuove relazioni fra le cose”). Non a caso D’Annunzio - che secondo varie testimonianze fu, accanto a Gargàno, autore del Prologo, apparso senza firma - stava proprio in quegli anni sviluppando e articolando il suo “sistema dell’analogia”.
Vi è, come in Baudelaire e come in Mallarmé - anche se, ovviamente, con assai minore profondità e ricchezza teorica rispetto al grande simbolismo europeo -, l’intento di propugnare un metodo critico tale da consentire all’ermeneuta “una totale immersione (che è anche osmosi estatica) nell’etymon generatore e spirituale della creazione” (3). Più precisamente, gli ermeneuti marzocchiani aspiravano a “sorprendere la genesi” dell’opera d’arte. Questo concetto di “genesi”, quasi a voler sgombrare fin dall’inizio il campo da ogni sospetto di “dilettantismo”, “misticismo estetico” e simili, sembra insospettabilmente ricongiungersi alla grande linea dei “poeti-critici” simbolisti. The Philosophy of Composition, lo scritto poesco cui si è già fatto più volte riferimento nel primo capitolo, era stato fatto oggetto di un articolo del Gargàno, apparso nel marzo del 1890 sul foglio fiorentino “Vita Nuova”. L’articolo si intitolava La genesi di una poesia; titolo assai significativo, perché dimostra che il testo di Poe arrivava agli esteti italiani attraverso il filtro della mediazione di Baudelaire, che aveva tradotto, o meglio rielaborato, il testo del poeta americano sotto il titolo di La genèse d’un poème. L’interesse dell’autore per Poe non è certo isolato, è rientra nel contesto della vasta fortuna di cui il poeta di The Raven godette in Italia sullo scorcio del secolo (3bis). Quel che più importa sono le implicazioni che, in modo già abbastanza lucido e maturo, il Gargàno riesce a trarre dal testo di Poe sul piano dell’ermeneutica letteraria. Il teorico assegna esplicitamente al critico la funzione di penetrare la genesi dell’opera d’arte, inducendo gli autori ad autochiarirsi, a riflettere sul meccanismo delle loro creazioni, ossia di quel “complesso di fatti misteriosi” di cui non i “filosofi”, per quanto “acuti”, ma solo i poeti che “contengono in sé un critico” possono tentare di “fissare le leggi particolari”, immanenti, specifiche. E’ questa la specifica, quasi tecnica accezione in cui i redattori del Prologo del Marzocco, assai meno “dilettanti” o svagati di quanto credano alcuni, intendono il concetto di “genesi” dell’opera, e ne teorizzano l’applicazione in sede critica.
In questa concezione - certo, almeno per l’Italia di quegli anni, sostanzialmente innovativa - si è arrivati a scorgere addirittura “una larvale preconizzazione dello specifico letterario che per molti aspetti anticipa il formalismo russo e le famose Tesi di Praga” (4). Quest’ultima ipotesi è, se non azzardata, quantomeno non indispensabile. Lo strutturalismo, come alcuni suoi autorevoli esponenti, da Jakobson a Todorov a Segre, sono stati i primi a riconoscere (5), deve semmai qualcosa alla concezione - già presente, in embrione, in Novalis, in Schleiermacher e, in genere, nell’ermeneutica romantica, e sviluppata in modo assai più lucido e rigoroso dal simbolismo francese - che vede l’atto critico come profonda, medianica “sintonizzazione” tra autore ed esegeta; una concezione che l’estetismo italiano - non del tutto esente da suggestioni e istanze neoromantiche, e ancor più vivamente influenzato dal metodo critico dei simbolisti francesi - in parte recuperò e fece propria, ma che arriverà senza alcuna mediazione ai primi teorici dello strutturalismo, cui un Conti, un Gargàno o un Ojetti dovevano essere del tutto ignoti. Anche questo dato, comunque, fa capire fin dall’inizio come la “critica estetizzante” maturata nel clima di riviste come Il Marzocco e Il Convito non possa essere liquidata, come spesso si è fatto, quale forma di dilettantistica ed oziosa evasione, e debba, nel contempo, essere contestualizzata in un più vasto àmbito europeo.
Certo la variante marzocchiana della “critique amusante et poétique” e dell’”independent criticism” fu, a differenza di quello strutturalismo che a qualcuno è parsa larvatamente prefigurare, “offuscata da istanze irrazionalistiche, criptiche e misticheggianti” (6). Essa, però, proprio in virtù di questo suo “dilettantismo di sensazioni”, di questa sua ostinata ed avventurosa ricerca della “pura bellezza”, delle “nuove relazioni”, della “sintesi geniale” capace di attingere e penetrare “il segreto della creazione”, l’”etymon generatore e spirituale” dell’atto poetico, riuscì anche a mantenersi aliena da ogni dogmatico irrigidimento, da ogni asettica microscopia da laboratorio, da ogni tecnicistico e meccanico automatismo.
2. I marzocchiani, si è visto, propugnavano una critica che fosse capace di penetrare il “nucleo profondo” della creazione e, dopo questa prima, intuitiva appercezione dell’intima essenza dell’oggetto estetico, “ricomporla” tramite una “sintesi geniale”, che era invece preclusa ai tanti pazienti e meticolosi “cercatori di fonti”, votati all’analisi minuziosa e meticolosa.
Ora, è certo possibile che la nozione e il termine di “sintesi” siano utilizzati, qui, in senso generico e comune; del resto, i processi logici dell’analisi e della sintesi sono presenti, e ampiamente utilizzati, fin dalla fase più matura del pensiero greco. E’ comunque interessante notare come “analisi” e “sintesi” sembrino acquisire, nel dibattito teorico sviluppatosi nel secondo ottocento, già a partire da De Sanctis, intorno al problema del metodo critico e alla polemica tra gli “esteti” e i “pedanti”, un valore specifico, determinato, quasi “tecnico”; accezioni, queste, che da un lato sembrano rimandare alla più recente tradizione della critica letteraria italiana, tra De Sanctis e la scuola storica, dall’altro possono forse celare in sé un qualche legame con il concetto di critica maturato - secondo la dinamica già ripercorsa nel primo capitolo di questa trattazione - nell’àmbito del simbolismo francese.
Interessanti indicazioni possono giungere da un luogo del saggio desanctisiano Settembrini e i suoi critici (7). Nei primi mesi del ’69, proprio quando l’autore era già pienamente immerso nella stesura del suo capolavoro, il fine ultimo della critica - e della storiografia letteraria, che con essa veniva in ultima istanza ad identificarsi - gli appariva come l’immane, poderosa “sintesi di un immenso lavoro di tutta intera una generazione di studiosi”; e il concetto di “sintesi”, se guardato dal punto di vista del superiore disegno metastorico che presiedeva al destino di un popolo, poteva caricarsi anche di una forte valenza di segno idealistico-hegeliano, da cui - come si è già osservato a proposito di Pater, il cui Rinascimento è sorprendentemente coevo alla Storia della letteratura italiana - l’ermeneutica dell’estetismo si manteneva invece del tutto aliena, calando la repentina illuminazione della “sintesi geniale” in una temporalità di segno diametralmente opposto, identificantesi con l’isolato, quasi solipsistico atto critico compiuto dall’ermeneuta “solo di fronte all’opera”, libero da sovrastrutture, e non più animato dalla sacra “fiamma dell’amor patrio”.
Sennonché, proseguiva il critico irpino, “dovunque penetra con le sue ricerche lo storico e il filologo, e con le sue speculazioni il filologo e il critico. L’antica sintesi è sciolta. Ricomincia il lavoro paziente dell’ analisi, parte per parte”. Come osservava il Russo, questo finiva per essere, ante litteram, quasi il “manifesto letterario del cosiddetto metodo storico”, di quella scuola storica che poi si sarebbe levata, di lì a pochi anni, contro lo stesso De Sanctis, rimproverandogli la presunta mancanza di scrupolo documentario e rigore filologico. E questa problematica, diveniente, irrisolta dialettica di analisi e sintesi sembra già prefigurare i toni ancor più inquietanti che caratterizzeranno la conclusione - o meglio “inconclusione” - della Storia, quelle densissime e quanto mai problematiche pagine in cui troviamo, accanto alla limpida chiaroveggenza propria di un poderoso senso storico che coglie, in poche righe, l’essenza dell’”età della Critica”, anche quel carattere “perplesso” ed “inconcluso” su cui, in anni recenti, ha insistito una penetrante indagine di Guido Guglielmi (8). Come dimostra lo stesso sinuoso percorso intratestuale di quest’ultimo studioso, nella pagina conclusiva della Storia sembrano venire a mancare quell’”eclettismo” e quella “conciliazione” - quasi identificantisi, terminologicamente, con l’idea stessa di “critica” - che avevano largamente pervaso e informato il lungo cammino desanctisiano; la “sintesi”, resa oramai impraticabile dall’imperiosa ascesa dello spirito positivista, cedeva il passo all’analisi. Anche l’ultimo, aggiornatissimo ma ancora perplesso De Sanctis, preso tra Zola e Darwin, da un lato tenderà a ricondurre il “nuovo” e il “moderno” entro il dominio dell’”eclettismo” e della “sintesi”, dall’altro si mostrerà turbato dall’avanzare di un “animalismo” che minacciava di prendere il posto dell’”umanismo”. Lo “scetticismo” di Leopardi, dicono le pagine conclusive della Storia, “annunzia la dissoluzione” del “mondo teologico-metafisico” tipico dell’ontologismo romantico, “e inaugura il regno dell’arido vero, del reale. (...) L’istrumento di questa rinnovazione è la critica, covata e cresciuta nel seno stesso dell’eclettismo. (...) I nuovi dogmi perdono il credito. Rimane intatta la critica. Ricomincia il lavoro paziente dell’ analisi. (...) L’ontologia con le sue brillanti sintesi avea soverchiate le tendenze positive del secolo. Ora è visibilmente esaurita, ripete sé stessa, diviene accademica”, diviene “dottrina stazionaria” (9), inservibile per la sfida della modernità.
3. La polemica tardo-ottocentesca tra “metodo storico” e “critica estetica” - che, sviluppandosi sulle colonne di riviste e rivistine di varia natura, coinvolse, accanto ad autori minori e minimi, anche figure di grande spicco - è ancora ben lungi dall’essere ricostruita in modo preciso e capillare in tutte le sue fasi e in tutti i suoi anelli intermedi (10).
Ad ogni modo, non era infrequente, tra i fautori del metodo storico, il richiamo alla prospettiva o all’utopia di una suprema “sintesi futura”, il cui fantasma o la cui preconizzazione potessero giustificare a priori le ricerche capillari e minuziose - spesso fondamentali e illuminanti, ma a volte esasperatamente specialistiche, esageratamente tecniche, e sostanzialmente fini a se stesse - che miriadi di studiosi più o meno oscuri - anche i “mediocri”, si diceva, potevano essere di qualche utilità in vista dell’era della sintesi - venivano pazientemente sviluppando nel chiuso delle biblioteche e degli archivi. Già nel 1883, tra i tanti, Giulio Salvadori, dopo avere peraltro precisato che un Carducci, “fuori d’ogni categoria”, un D’Ancona o un Rajna avevano mostrato di “saper fare di più che delle raccolte di schede”, rimarcava come i “puritani” del metodo storico “vo lessero <dividere> la storia in due grandi periodi: quello della raccolta dei fatti, di tutti i fatti, e quello, appena traveduto nell’ombra, della gran sintesi: e sarà in gran parte tempo buttato via” (11). Analisi e sintesi, strumenti fondamentali del pensiero, momenti coessenziali e complementari - quasi sistole e diastole - di ogni processo mentale e di ogni costruzione intellettuale, acquisivano, nella loro specifica e quasi tecnica accezione critico-letteraria e nel quadro di questo dibattito culturale, uno specifico valore, che emerge e si manifesta a più riprese nelle colonne del Marzocco. Tanto per rendere l’idea, e per limitarsi ai primi, più programmatici e militanti numeri, Edoardo Coli stigmatizzava - a proposito, sarà bene precisare, di certe forme di critica “psichiatrica” o “fisiopsicologica”, di ispirazione lombrosiana, che rappresentavano l’estrema esasperazione della critica positivista - i limiti di una “teoria” che “non giunge a una sintesi”, che si disperde in particolari irriguardosi o superflui, e che “da questo lato non è ancora una scienza” nel senso più alto e più pieno; sul finire del ’96, il Gargàno proclamava che i marzocchiani erano “stanchi di tutto questo lavorio di analisi che dalla scienza abbiamo trasportato nell’arte”, e che “gli scienziati”, nell’età del positivismo, non avevano saputo più dare “il vasto godimento delle sintesi grandi”; e si noti che qui il movimento duplice e unitario, e oramai irrimediabilmente franto, che scandiva analisi e sintesi, sembra oscillare, desanctisianamente, tra il piano della singola, specifica operazione ermeneutica compiuta dal critico “solo di fronte all’opera” e quello, più alto e più vasto, dei panorami conoscitivi e dei disegni storiografici. Questa nostalgia per il “vasto godimento delle sintesi” lascia intendere quanto gli esteti fossero capaci di registrare, in modo assai sensibile e partecipe, le ansie e le tensioni di un’epoca. Nella Beata riva, Conti rimpiangerà - in toni, è vero, un po’ scolasticamente vichiano-romantici - l’”ingenuità” e la naturalezza dell’”anima ellenica”, che concepiva ogni idea e compiva ogni azione dopo “averle prima intuite in forma di bellezza”. Ai moderni, invece - come del resto era chiaro, pur se con una diversa terminologia e in un diverso contesto culturale, già a un Leopardi -, “i tempi mutati hanno negato la vista sintetica”.
Alcuni mesi prima dell’intervento di Coli, Diego Garoglio aveva rimproverato alla critica storica, tra le altre cose, la “rinunzia alla metafisica e all’arte in favor della scienza”, e l’”adozione dell’ analisi in luogo della sintesi” (12). La polemica di Garoglio, espressamente indirizzata contro certe esasperazioni del filologismo germanico, sembra anticipare quella di segno analogo, e assai più organica e vigorosa, che sarebbe stata condotta, di lì a un ventennio, da Ettore Romagnoli, in studi (Minerva e lo scimmione, Lo scimmione in Italia) che in questi anni sarebbe, forse, il caso di rivisitare, al di là delle ingenerose e velleitarie invettive scagliate dall’autore all’indirizzo del grande Wilamowitz.
4. La radice del metodo storico era certo memore della grande lezione dello storicismo e dell’eruditismo carducciani; ed è sufficiente riandare con la mente a certe stupende rievocazioni biografiche di Croce - che peraltro, fin dai primissimi anni del nuovo secolo, superò polemicamente il suo giovanile eruditismo - per capire come la filologia e le ricerche d’archivio non fossero, per quella generazione di studiosi, disgiunte da passione intellettuale, entusiasmo e “impegno”.
Incombeva, però, sull’eruditismo di matrice positivista e storicista, il pericolo di cadere in quella che, nel nostro secolo, José Ortega y Gasset avrebbe chiamato “la barbarie della specializzazione”: lo specialismo esasperato, il filologismo tetro ed orbo, l’ostinata, quasi aristocratica chiusura ad ogni prospettiva interdisciplinare ... La “critica estetica” marzocchiana rispondeva - talora, indubbiamente, non senza ingenuità, approssimazione, “dilettantismo”, e anche opportunismo editoriale, giornalistico, “commerciale” ... - ad un diffuso senso di fastidio e di sfiducia, e, soprattutto, all’esigenza di un metodo critico che potesse in qualche modo raccogliere le suggestioni che erano giunte, e ancora stavano giungendo, dal concetto di critica maturato - da Poe a Baudelaire a Mallarmé, da Pater a Wilde - in seno al simbolismo e all’estetismo europei. Si cercava, in tal senso, di elaborare un modo e un metodo di critica che potessero effettivamente ed espressamente “collaborare” alla creazione artistica e letteraria, e che, di conseguenza, assorbissero ed assumessero in sé, come propri strumenti e strutture, alcune delle peculiarità espressive, formali e stilistiche - simbolo, sinestesia, analogia, allegoria ... - che caratterizzavano le poetiche critiche del simbolismo europeo. E’ proprio quest’ultima la ragione profonda e la cifra essenziale del “superamento” e dell’”attraversamento” che la “critica pura”, soprattutto con Angelo Conti e con D’Annunzio, cercò di compiere - in modo, peraltro, spesso più velleitario che ardito, ma comunque significativo - rispetto all’ingombrante eredità desanctisiana e all’imperio del metodo storico.
Appare allora evidente, e si vedrà ancora meglio tra breve, che non può essere accettata se non con riserva la facile formula conciliativa (“non v’è che un metodo, il metodo storico, e non v’è che una critica, la critica estetica”) (13) proposta a suo tempo da un Borgese appena ventenne, quando il fuoco della militanza si era da poco estinto, e al magistero del metodo storico se ne stava sostituendo un altro, quello crociano, ugualmente, anche se per diverse ragioni, avverso alla “critica estetizzante”; la stessa ansiosa ricerca di una “méthode de critique” e di un “sistema” che travagliava Baudelaire, o il peculiare, e a suo modo spietatamente lucido e vigoroso “historical criticism” di Wilde, mostrano che la situazione è assai più articolata e complessa; e il difficile, contraddittorio rapporto che lega intellettuali come Conti e D’Annunzio alla cultura, tanto scientifica quanto critico-letteraria, espressa dal positivismo, vale da solo ad escludere che sia possibile accontentarsi di certe vecchie formule di comodo, che parlano di “clima romantico-decadente”, di “misticismo” o “irrazionalismo fin de siècle” ...
II - “UN MISTERIOSO POETA”
1. Vediamo, per cominciare, che cosa aveva scritto D’Annunzio sulla Tribuna nel novembre del 1887 (14), tra i preziosismi preraffaelliti dell’ Isaotta Guttadauro e la prosa sontuosa e mondana del primo romanzo. “Io, che non faccio profession di scienza ma di poesia, consiglio la frequentazione di quell’aula a quanti sono giovini artisti e giovini critici in Roma, e segnatamente ai critici”. L’”aula” in questione è quella in cui si tenevano le lezioni del fisiologo Jakob Moleschott, che era stato proprio l’ex studente di medicina Conti, da buon “critico collaboratore”, a rivelare a D’Annunzio. E se, nel Piacere, l’autore potrà parlare, anche se un po’ confusamente, di “impressioni del’organismo mal definite” che “l’anima converte in fenomeni psichici”, o di una “sensibilità de’ (...) nervi (...) così acuta che ogni minima sensazione (...) data dalle cose esteriori pareva una ferita profonda”, o, in modo ancor più tecnico, della “singolar tensione” e della “estrema impressionabilità” del “sistema nervoso cerebrale” di Andrea Sperelli, lo dovrà proprio alla frequentazione delle lezioni del Moleschott. Già Baudelaire, discreto conoscitore della frenologia, aveva potuto paragonare la stessa “ispirazione” poetica ad una “secousse nerveuse” che attraversa e scuote l’unità psicofisica della persona del poeta; ed era, forse, qualcosa di non molto diverso dall’”imaginosa eccitazione intellettuale” che Maria Ferres si procura non con l’hashish o l’assenzio ma, in modo più innocuo, con “molte tazze di té forte”... E si può fin d’ora scorgere, pur se ad un livello superficiale, episodico, “cronachistico”, il legame esistente tra scrittura saggistica e creazione letteraria. “Omai”, prosegue D’Annunzio, “anche in materia di letteratura il critico ha da essere scienziato. (...) Egli giudicherà l’opera letteraria non come il parto di una spontanea e subitanea ispirazione, ma come un prodotto complesso della natura e della storia”. Riecheggiano, qui, un po’ confusamente, vari motivi e spunti della critica secondottocentesca, tra De Sanctis, Taine (15), la scuola storica ... “Giungere all’uomo attraverso l’opera” con “imparzialità scientifica”, secondo l’esempio dei Taine e dei Sainte-Beuve, parrà a D’Annunzio “il più alto diletto della critica d’arte, come anche della critica letteraria”, anche in una “cronaca d’arte” dell’anno successivo (16). Sennonché la dottrine evoluzionistiche di Lamarck e Darwin, esplicitamente richiamate dall’autore in un articolo di pochi giorni prima, vengono, fin d’ora, “falsificate”, “umanizzate”, subordinate alla dottrina estetica. Fine dell’autore è mostrare l’influsso che la “bassa nascita”, la “bassa educazione” e la deleteria “eredità famigliare” esercitano nel determinare la “povertà di cultura” di certi pittori; e sorge spontaneo, allora, il richiamo a quelle notissime e pressoché coeve pagine del Piacere in cui D’Annunzio stigmatizza il “grigio diluvio democratico” che “molte belle cose e rare sommerge miseramente”, laddove invece Andrea era l’”ultimo discendente” di una nobilissima “razza intellettuale”, ed era, proprio per questo, in grado di “fare la propria vita come si fa un’opera d’arte”; già Des Esseintes, del resto, era disgustato dalle “nuove generazioni, figliate di ignobili tangheri”, dalla “volgarità del mondo”, dall’”odiosa epoca di tangheri indegni” in cui si trovava a vivere. Un decennio dopo, il già citato Prologo marzocchiano - di cui D’Annunzio era, come si è detto, coautore - stigmatizzerà la rozzezza e la goffaggine proprie dell’”arte della gente volgare”; nelle Vergini delle Rocce, che precedono il Prologo solo di un anno, si incontra un’analoga insofferenza per l’”arroganza delle plebi”, per l’”onda delle basse cupidigie” che, “come un rigurgito di cloache”, invade “le piazze e i trivii”; altrettanto esplicito è, al riguardo, il Proemio del Convito - rivista su cui non a caso, com’è noto, apparvero a puntate le stesse Vergini -, di mano dello stesso D’Annunzio, intento a proclamare - con toni, inutile negarlo, un poco altisonanti ed oratorî - il “culto sincero e fervente per tutte le più nobili forme dell’Arte”, culto tale da accomunare “artisti, scrittori e pittori”, e “raccogliere un vivo fascio di energie militanti” - e quest’ultimo aggettivo, usato in senso letterario per la prima volta da Baudelaire un trentennio prima, è comunque assai significativo, e indice di una matura ed agguerrita autocoscienza letteraria - “le quali valgano a salvare qualche cosa bella e ideale dalla torbida onda di volgarità” che invade l’Italia, da una “presente barbarie” addirittura “peggiore o almeno più vile” (17) di quella medievale. Di “moderni barbari”, che insidiano i “chiusi confini dell’arte”, e che sono implicitamente e significativamente assimilati ai critici positivisti, parlerà, pochi mesi dopo, anche il citato Prologo del Marzocco; e proprio nelle Vergini il protagonista sentiva soffiare su Roma “un vento di barbarie” ...
Questi riscontri intratestuali, a cui vari altri se ne potrebbero aggiungere, sembrerebbero corroborare e rafforzare posizioni critiche, non certo maggioritarie, affini a quella che da anni viene sviluppando e sostenendo Giorgio Bàrberi Squarotti, e che vedono in D’Annunzio l’intellettuale e l’artista “disgustato” dalla volgarità imperante e dilagante, che insidia e contamina le pure regioni della bellezza (18). Indubbiamente, come molti hanno sottolineato, questa stessa provvidenziale, miracolosa e peraltro, da ultimo, impossibile salvazione dell’arte e della bellezza dall’oblio, dalla rovina, dalla morte, si traduce in un’operazione di museificazione, di “inventario culturale”, di rassegna, “vetrina” e dunque, implicitamente od esplicitamente, mercificazione. Tale impresa, inoltre, finisce, com’è noto, per essere talvolta tutt’altro che priva di scomode ed ingombranti implicazioni ideologiche: alla nuova barbarie Claudio Cantelmo non sa opporre che la propria elitaria ed altéra natura di “ideal tipo latino”, secondo un’impronta che da un lato ricalca, come si è accennato nel secondo capitolo, il disegno - perfettamente autocosciente ma, proprio per questo, del tutto artificioso e letteraturizzato - di un “ideal tipo” di “giovine signore”, speculare, a distanza di anni, all’”ideal libro di prosa moderno”, ma che viene, dall’altro lato, a collimare con il “tipo delle antiche idealità guerriere”, con un modello di purezza etnica e di arcaica, italica virilità, che sembra cupamente prefigurare nefaste ideologie.
E’, comunque, interessante vedere come le stesse espressioni e gli stessi concetti comincino, fin dagli anni giovanili, a rincorrersi e a riecheggiarsi tra la scrittura propriamente creativa da un lato, e gli scritti critici e teorico-programmatici dall’altro, a riprova e conferma di un legame strettissimo, e profondamente moderno - si pensi all’idea stessa di “militanza” -, tra la creazione letteraria e la riflessione critico-teorica.
Tutto - si tratti dell’esaltazione della scienza, della difesa della nobiltà di stirpe, dell’epica rievocazione delle “antiche idealità guerriere” - si risolve, comunque, nella sfera e nel dominio dello specifico letterario: “ideal tipo” e “ideal libro”, “scienza” e “parola”, realtà e finzione, continuano a coincidere, o a scambiarsi l’abito; lo stesso intento ideologico, risolto nell’artificio stilistico, nel lenocinio oratorio, nell’amplificazione retorica, può però, nel contempo, e proprio per questo, essere ricondotto, secondo un processo in cui la riflessione critica e programmatica riveste, come si vedrà anche in séguito, un’importanza non trascurabile, entro i saldi confini dell’autonomia dell’arte.
2. Si può tornare, ora, all’articolo sulla conferenza del Moleschott - e, insieme, alla sostanziale, irrisolta dialettica di analisi e sintesi. “A l’urto della sua libera analisi ogni errore si rompe. Ed egli con sicure mani libera dalli ultimi vincoli la gran forza del pensiero moderno, destinato a meravigliose conquiste nel futuro”. Sembra di essere in presenza della peggiore retorica, di una delle tante esaltazioni delle “magnifiche sorti e progressive”; e sembra, indirettamente, che D’Annunzio, dimentico dei moniti baudelairiani, voglia applicare l’”idée du progrès” all’”histoire des arts”. Sennonché dalla minuta e spregiudicata analisi dello scienziato la parola del critico, rapita e ammaliata, trae, a poche righe di distanza, una superiore sintesi, che, nel contempo, riconduce il sapere scientifico entro il superiore dominio dell’estetico. “Nella magna aula dov’eran convenuti (...) quanti (...) hanno ancora” - pur nel “grigio diluvio democratico”... - “il culto delle cose belle e pure, abbiamo udito glorificare e celebrare l’unità della scienza con così alto linguaggio (...) che, in vero, io pensava d’essere in conspetto d’un misterioso poeta il quale fosse improvvisamente sorto dal materno grembo della Natura a raccontarci i contemplati miracoli della vita universale. (...) La parola di Jacopo Moleschott penetrava nelli spiriti attenti (...) e con tanto vigore li sollevava al luminoso apice della sintesi, ch’io ho visto più di un ascoltante mutarsi in volto e raggiar per gli occhi l’entusiasmo “. Ad operare la sintesi - non potenziale e baluginante “sintesi futura”, ma sintesi viva, palese, ammaliante - è la parola, la parola di una sorta di “poeta della scienza”; la “Parola” che nello stesso 1887, pochi mesi prima, nei quattro sonetti dell’ Epòdo, D’Annunzio - trasfunzionando, a un tempo, tanto l’archetipo evangelico quanto uno dei topoi delle poetiche romantiche - aveva detto “Divina”. E c’è, a ben vedere, qualcosa di mistico - del misticismo laico e puramente estetico che è proprio di D’Annunzio - nell’estasi in cui restano rapiti gli uditori, a cui vengono rivelati “i contemplati miracoli della vita universale”, prima celati nel “materno grembo della Natura”. “Mai commozione più nobile” - confessa l’autore - “mi ha invaso l’intelletto”. E’ questo, forse, qualcosa di simile a ciò che i filosofi chiamarono “entusiasmo della ragione”, un entusiasmo che “raggia”, quasi dantescamente, dagli occhi degli astanti; ma in questo caso specifico siamo, ormai, ad un passo dalla “felicità intellettuale” di Andrea Sperelli e Stelio Effrena; una felicità che non è gioia, e che si compiace e si nutre, appunto, della parola, dell’”artifizio dello stile”, che è però, a un tempo, “doloroso e capzioso”. Proprio da Taine D’Annunzio mutuava l’idea dell’”excès de la vie cérébrale” che caratterizzava, e insieme affliggeva, l’uomo moderno; e nel giudizio negativo formulato a proposito di un pittore verista, il simbolismo dannunziano - tutt’altro che “dilettantesco”, “istintivo” o “ingenuo” - si precisava proprio come prerogativa di un poeta che - già quasi montalianamente - “cerca di là”, “sovreccitato dall’eccesso della vita cerebrale” (19).
Quasi dieci anni dopo, nell’intervista ad Ojetti, all’indomani del progetto, affidato al Trionfo della morte, di un “ideal libro di prosa moderno”, di una “prosa platonica e sinfonica, ricca d’imagini e di musiche”, “sensuale sentimentale intellettuale”, e, soprattutto, che “armonizzasse tutte le varietà del conoscimento e tutte le varietà del mistero” e “alternasse le precisioni della scienza alle seduzioni del sogno” (20), D’Annunzio parlerà del “romanzo” come “libro di prosa in cui l’osservazione esatta e la forza dello stile si accordano a riconstituire la vita. (...) I grandi si volgeranno a quella forma che meglio d’ogni altra è capace di contenere una vasta coordinazione estetica di elementi vitali diversi, e cercheranno di armonizzare in quella, con l’opera alterna dell’ analisi e della sintesi, tutte le varietà della conoscenza” (21). Ancora nell’intervista ad Oietti, D’Annunzio definirà gli artisti come coloro che sono capaci di “abbracciare e fondere i termini che sembrano escludersi: analisi e sintesi, sentimento e pensiero, imitazione e invenzione”. L’identificazione di questi “artisti” con i Representative Men di Thoreau - corrispettivo degli Heroes di Thomas Carlyle - è del tutto pretestuosa e funzionale all’enunciazione di questo importante principio teorico.
Ecco, ancora, l’analisi e la sintesi, ricomposte entro il superiore dominio del magistero formale e dell’artificio stilistico; una scienza, certo, non ignorata, ma, comunque, trasfunzionata, “falsificata” ed “umanizzata” nel ribollente crogiolo del possibile verbale.
III - ANALISI E SINTESI
1. Ancora qualche parola sui concetti di analisi e sintesi, e, segnatamente, sull’influsso che la teoria della critica maturata in seno al simbolismo francese poté esercitare sulla loro articolazione nell’àmbito dell’estetismo italiano.
Si ricorderanno le celebri pagine - già più volte citate nel primo capitolo - in cui Baudelaire definisce la natura e le prerogative dell’immaginazione, “reine des facultés”. “Elle” - dice tra le altre cose l’autore dei Salons - “est l’ analyse, elle est la synthèse. (...) C’est l’imagination qui a enseigné à l’homme le sens morale de la couleur, du contour, du son et du parfum”. Sarà, forse, in questa particolare accezione che l’autore può altrove, citando Stendhal, definire la pittura come “de la morale construite”, fermo restando che qui si aggiungono, sinesteticamente, il suono e il profumo; quest’ultimo, come l’autore dice in un altro luogo, può addirittura, letteralmente, “rivelare al palato idee nuove” ... L’immaginazione “a créé, au commencement du monde, l’analogie et la métaphore” (22). Huysmans avrebbe lodato questo metaforismo ammaliante e narcotico, questa ricerca del “termine che, per similitudine, (...) evocava tutto in una forma l’odore, il colore, la qualità, lo spicco” dell’oggetto della percezione, concentrando l’attenzione “su un’unica parola, su un tutto che, alla maniera di un quadro, (...) presentava un aspetto unico e concreto, una sintesi”. Flaubert, nell’illuminante lettera a cui si è fatto cenno in apertura del secondo capitolo, e che veniva significativamente citata e lodata, nell’agosto del 1896, anche da uno dei più agguerriti teorici marzocchiani (23), avrebbe poi scritto che per una critica intesa come arte, e tale da non limitarsi ad “analyser (...) le milieu” in cui l’opera “s’est produite et les causes qui l’ont amenée”, sarebbe stata necessaria, accanto al “gusto” e all’”entusiasmo”, proprio l’immaginazione.
Baudelaire indica subito la veste linguistica ed espressiva che l’immaginazione assume: metafora, come strumento espressivo e istituzione retorica; analogia, come forma di percezione e di pensiero che si traduce naturalmente, e coerentemente, in artificio stilistico ... E non sarà casuale, allora, che il dannunziano “sistema dell’analogia”, come si vedrà meglio a suo luogo, abbia in sé, come parte integrante, l’idea dell’analogia stessa come strumento della critica, secondo il paradigma in movimento che si svilupperà tra le Note su Giorgione e su la critica e Il Fuoco: una critica intesa, come del resto già in Baudelaire, eminentemente e segnatamente come critica d’arte, ma che in primo luogo coinvolge ed implica ineludibilmente problemi teorici di portata generale e, almeno per l’Italia, sostanzialmente inediti, in secondo luogo si traduce e si risolve anch’essa, essenzialmente, in “verbo”, in “amor sensuale della parola”, in scelta dell’opera d’arte come occasione ed oggetto per l’esercizio delle plastiche ed immaginifiche facoltà espressive e stilistiche dell’ artifex: il critico, appunto, come artifex additus artifici. L’atto critico può, allora, coincidere con il gesto, solenne ed amorevole, con cui la “mano casta e robusta” dell’ artifex salva la Bellezza dal fiume dell’oblio e dalle paludi della volgarità, fissandola e cristallizzandola per l’eternità nelle forme perenni dell’analogia, della metafora, del simbolo - o, foss’anche, della citazione, del pastiche, della contaminazione, dell’inventario culturale, del “plagio” ...
Nella poetica del simbolismo francese, per come si sviluppa, a partire da Baudelaire, attraverso autori maggiori e minori, e più o meno vivamente presenti all’orizzonte culturale dell’estetismo italiano, il concetto della superiore Sintesi analogica viene variamente recepito e sviluppato.
“Je viens à l’heure de la Synthèse, de délimiter l’œuvre qui sera l’image de ce développement”. Così, nel maggio del 1867, nel vivo della riflessione critica e della progettualità letteraria, tra Hérodiade e l’ Après-midi, Mallarmé chiudeva in poche righe l’essenza di uno stato che era a un tempo, come ha mirabilmente evidenziato l’indagine di Mario Luzi (24), condizione esistenziale e travaglio poetico e critico: il poeta “concepisce ed elabora una figura inventata all’estremo della sua disperante avventura finché essa, munita per analogia di tutti gli attributi inerenti a tale vicenda (...), ne diviene il simbolo”. La Sintesi analogica, nel passaggio dalla poetica programmatica all’effettiva oggettivazione testuale, diviene emblema supremo del pensiero che pensa se stesso, della poesia che si fa critica di se stessa, e, insieme, icona, analogon, o “immagine negativa” di una condizione esistenziale irresolutamente sospesa tra l’”abbagliante trionfo intellettuale” della razionalità creatrice e l’angoscia dell’ impuissance.
L’epistolario mallarmeano, a differenza di quello di Flaubert, non poteva essere noto agli esteti marzocchiani. Il concetto di Sintesi si trovava, però, nel Traité du Verbe di René Ghil, infedele discepolo dell’autore di Hérodiade; e non a caso il Gargàno, commemorando il grande poeta francese, oltre a lodarlo per il suo “spirito critico” e per la sua capacità di “esporre (...) una teoria con chiarezza e lucidità perfette”, gli associava proprio l’opera del Ghil, peraltro giudicandola, personalmente, come “un libro completamente inutile per tutti coloro ai quali la natura insegna a parlare”(25).
Gli esteti marzocchiani leggevano probabilmente la vasta e complessa opera di Ghil nell’edizione del 1888, la terza delle cinque che si susseguirono, con numerose varianti sostanziali, tra il 1885 e il 1904. In Ghil - dal quale, oltre che da Wilde, gli esteti italiani poterono apprendere anche come le dottrine evoluzionistiche potessero essere “falsificate” e sussunte entro il dominio dello specifico letterario - si trovavano, tra le altre cose, proposizioni come quelle che definivano il poeta - in particolare Rimbaud - come “musicien verbal d’un grand drame où se fait, avec seulement des mots auxquels il prétend donner des significations orchestrales, une synthèse à la fois biologique, historique et philosophique de l’Homme depuis les Origines”. Il “verbe poétique accessible à tous les sens” - corrispettivo del “raisonné dérèglement de tous les sens”, sensi del corpo ma, forse, anche “sensi”, significati, contenuti semantici dell’espressione e della scrittura - si oggettivava quale “instrumentation verbale” e “audition colorée”. Sintesi e Sinestesia si fondevano, si sovrapponevano, divenivano l’una alleata dell’altra. L’anelito alla sintesi era presente, pur se in forma latente ed irrisolto, in seno all’interna dinamica della stessa filosofia del positivismo: si pensi allo stesso immane disegno spenceriano di una Filosofia sintetica, o, per risalire fino alle origini stesse di questa corrente di pensiero, all’opposizione comtiana, presente nella lezione cinquantaquattresima del Cours de Philosophie Positive, tra il “genio, eminentemente analitico (...), dell’osservazione scientifica” e quello, “essenzialmente sintetico, dell’osservazione estetica”. Nella visione ottimistica di Comte, tuttavia, poteva ancora darsi una superiore “conciliazione” tra “esprit esthétique” ed “esprit scientifique”. La nuova filosofia sarebbe stata caratterizzata da un “genere di spirito scientifico più disposto all’unità, perché più ricco di umanità”; l’artista del positivismo, per parte sua, avrebbe dovuto cantare “i prodigi dell’uomo, la sua conquista della natura, le meraviglie della sua vita sociale”. Anche per De Sanctis, pur se nella sua visione tesa ed inquietante, “lo spirito italiano” avrebbe potuto, forte dell’”analisi” e della “critica”, trovare “nuove fonti d’ispirazione, la donna, la famiglia, la natura, l’amore, la libertà, la patria, la scienza, la virtù”. Una visione a cui, nel complesso, non erano ancora estranee né la “fiamma dell’amor patrio”, né sfumature e venature di carattere etico-pedagogico, presenti, del resto, anche nell’estetica di un Taine. Per la tormentata e lacerata psiche dell’”uomo dell’estetismo”, invece, l’anelito alla sintesi e alla conciliazione non poteva che tradursi e risolversi in una veste letteraria, in un’oggettivazione poetica, ed essere arbitrariamente reso funzionale ad esse.
Non si può escludere - sia detto tra parentesi - che la concezione, presente in Ghil, del poeta come “musicien verbal d’un grande drame” possa, sovrapposta alla suggestione wagneriana e al remoto archetipo della coreutica greca, avere esercitato un qualche influsso sui più maturi progetti teatrali di D’Annunzio, altresì tempestivo recensore, nel marzo del 1887, delle mallarmeane Notes sur le théâtre (26). Il Traité del Ghil esercitò, comunque, un qualche influsso sulla genesi del versoliberismo italiano, del resto strettamente legata all’aspirazione, tipicamente simbolista, ad una prosa “lirica” e “musicale”, tale da far progressivamente attenuare e sfumare i confini tra prosa e poesia (27).
Un altro testo certamente non ignoto all’estetismo italiano era La Littérature de tout’à l’heure di un altro discepolo di Mallarmé, Charles Morice; era, questa, la prima trattazione organica sul simbolismo, che, apparsa nel 1889, precedeva di un decennio quella più approfondita e fortunata trattazione di Arthur Symons. E non ci si stupisce di trovare esposta, anche in questo volume, la nozione della “voyance” del poeta intesa come facoltà propria di una “pensée synthétique” capace di connettere e sovrapporre i dati dell’esperienza tramite “le noeud arabesque d’une Fiction”; ne sarebbe scaturito “un livre où (...) le style descendrait du vers à la prose, remonterait de la prose au vers, avec ou sans la transition du poème en prose” (28). Nell’ottobre del 1889, recensendo il volume del Morice sulla rivista fiorentina “Vita Nuova”, sorta di anticamera o di prototipo di quella che sarebbe stata la più impegnativa e fortunata impresa del Marzocco, il solito, solerte Gargàno ammoniva che “la letteratura dell’avvenire” avrebbe dovuto “in un vasto lavoro sintetico riunire insieme tutti gli sforzi che hanno fatto i nostri vecchi”, i grandi vecchi della scuola storica, Carducci in testa: i quali hanno per mezzo dell’ analisi decomposto tutto l’uomo”. Grazie a questa poderosa “sintesi geniale” sarebbe stato portato a compimento il grande sogno, tipico dell’età wagneriana, dell’” oeuvre de l’Art intégral”.
Non è dunque strano incontrare, anche nella fase più matura della teoria dannunziana della critica - assai prossima, a sua volta, all’ideale marzocchiano della critica come “sintesi geniale” che raccoglie e raggruma, non senza una mediazione intellettuale, gli sparsi dati della percezione e della fruizione estetica -, una connessione, implicita ma innegabile, tra il disegno dell’”ideal libro di prosa moderno” - prosa “lirica”, “musicale” e “sinfonica”, com’era, del resto già nei voti del Baudelaire di Spleen de Paris -, e la concezione estetizzante ed antidesanctisiana del libro di critica come “ottimo libro di prosa”. Scrittura poetica e scrittura critica, ekphrasis pittorico-musicale e fascinazione immaginifica, atto ermeneutico e “poème en prose”, non potevano essere più strettamente legati.
2. Baudelaire, si ricorderà, loda Poe per aver sottomesso l’ispirazione all’” analyse la plus sévère”, e definisce il genio come una facoltà che riesce a conciliare e fondere la “spontaneità” e la “naturalezza” proprie dell’infanzia con il vigore di “organi virili” e con il superiore dominio dell’”esprit analytique”... Così in Baudelaire come in Mallarmé e nei suoi successori e seguaci, l’immaginazione e l’Analogia, assommando in sé analisi e sintesi, o completando e sublimando la prima con la seconda, tentano di ricomporre l’unità, così vitale e, nella modernità, così precaria, instabile, compromessa, che accomuna e fonde insieme gesto poetico-critico e moto interiore, costruzione verbale e conoscenza del mondo; senza, ovviamente, che questa superiore sintesi possa essere fatta coincidere con un momento prerazionale ed alogico, quasi crociana “sintesi a priori” di intuizione ed espressione, giacché tale processo avviene sempre alla luce, sotto la guida e dietro l’impulso dello spirito critico, ed è sempre il poeta che, come il veggente rimbaudiano, “tiene l’archetto in mano”, o, come il Fauno, “dà il la” alla tessitura e all’esecuzione della partitura testuale, o ancora, come Andrea Sperelli, cerca, sì, per cominciare a comporre, “un’intonazione musicale datagli da un altro poeta”, che “bastava ad aprirgli la vena, a dargli (...) il la”, ma poi “estrae” e porta alla luce, grazie alla virtù dell’ artifex, il verso che “già esisteva preformato nell’oscura profondità della lingua” - e qui D’Annunzio è memore, com’è noto, di Schopenhauer -; dopo il rituale “bibliomantico” che il poeta officia anche nell’intento di vagliare, filtrare e trasmettere la tradizione pur se a costo di “tradirla”, il verso, tutt’uno con il pensiero che in esso si esprime, “séguita ad esistere nella conscienza degli uomini”, illuminato dalla lucida chiaroveggenza della specifica, individuale razionalità creatrice.
Proprio il rapporto tra analisi e sintesi, nella specifica valenza che esso assume all’interno dell’elaborazione del concetto di critica nell’estetismo italiano, può offrire - accanto all’uso dell’analogia, del simbolo, dell’allegoria ... - una delle varie angolazioni da cui può essere valutato il legame esistente tra il D’Annunzio critico e il D’Annunzio poeta e romanziere.
Nella psiche lacerata, contrastata, “centrifuga” di Andrea Sperelli, “qualunque tentativo di analisi su se medesimo si risolveva in una maggiore incertezza, in una maggiore oscurità. Essendo egli interamente sfornito di forza sintetica, la sua analisi diveniva un crudele giuoco distruttore. E da un’ora di riflessione su se medesimo egli usciva confuso, disfatto, disperato, perduto” (29). E’ verificata, qui, da questa particolare angolatura, la fenomenologia descritta da Vittorio Roda a proposito delle numerose proiezioni autobiografiche che popolano i romanzi dannunziani, e soprattutto il ciclo della Rosa. Nascerebbero, o sarebbe comunque prefigurate, in questi personaggi, alcune delle componenti essenziali dell’antropologia letteraria novecentesca: “dissociazione interiore”, “schizomorfismo”, “irrelate percezioni e rappresentazioni”; il personaggio finisce per essere passiva preda di “un divenire slegato da qualsivoglia principio sintetico”, e si rassegna all’”abdicazione ad un principio di sintesi, ad una strutturazione unitaria e centripeta dell’esistente” (30). Se pensiamo a testi come la Conclusione di Pater - importantissima, come si è visto, anche per i legami con la scienza -, o alla nevrosi, alla schizofrenia, alla pulsione di morte e di autodistruzione che affliggono Des Esseintes, non saremo, credo, troppo lontani dal vedere in questa condizione una caratteristica fondamentale di quello che è stato definito - con una generalizzazione non indebita - l ‘“uomo dell’estetismo”.
IV - TRA SOGNO E AUTOCOSCIENZA
1. E’ solo attraverso la finzione letteraria - o, che è lo stesso, attraverso la “sintesi geniale” propria di quella che Jules Lemaître chiamava “critique voluptueuse” - che l’esteta può, temporaneamente e forse illusoriamente, ricomporre e ridurre ad unum i molteplici dati e le diverse componenti della sua multànime e centrifuga esperienza esistenziale, come le varie ed incerte acquisizioni del suo prezioso, curioso e un poco dispersivo eclettismo culturale. Solo nell’Arte, unica “Amante fedele, sempre giovine, immortale”, l’esteta può trovare ristoro dalle dissolutezze della sua vita e dalle pericolose ambiguità di un “senso estetico” che ha sostituito il “senso morale”, e può dare alla propria precaria condizione le stimmate della perennità. E’ anche e soprattutto attraverso la Parola - attraverso una tradizione letteraria compressa, raccolta, resa compresente e simultanea nella sua totalità attraverso la citazione, la museificazione, il “plagio”, il profondo, affascinante scandaglio, comunque artificioso e autocosciente, nelle “oscure profondità della lingua” - che l’uomo dell’estetismo trova, o s’illude di trovare, “la prova che la fatalità della dispersione non è in contrasto con il senso dell’indivisibile e che i suoi coinvolgimenti intermittenti e più irragionevoli, scambiati per l’estasi egocentrica del dilettantismo, sono abbagliante interiorità, scambio congiunto dell’immaginazione e del cuore” (31), che si fondono nelle superiori virtù del critico “raisonnable et passionné”. Lo stesso pensiero analogico che, in quella che si sarebbe ormai tentati di definire “critica simbolista”, connette l’uno all’altro autori ed opere quanto mai disparati e lontani, agisce e si estrinseca, al livello concreto e materiale della costruzione del testo, come principio che presiede all’intarsio e alla contaminazione di materiali intertestuali attinti alle fonti più disparate e peregrine.
La ricomposizione e la conciliazione attuate nel dominio della scrittura e della pagina finiscono, però, per essere meramente illusori. Come poi, in modo assai più maturo e profondamente sentito, nel Notturno, viene rappresentato anche nel primo romanzo “il dissidio ‘fin de siècle’, lo scacco dell’aspirazione alla totalità, alla impossibile sintesi che la parola non riesce a riprodurre, se non sciogliendosi in ritmo, in musica” (32); ritmo e musica non più naturali e spontanei, ma frutto di calcolo e di artificio.
Nella dedica al Michetti, l’attività letteraria viene ad identificarsi con “il doloroso e capzioso artifizio dello stile”, costellato dai “dubbi che seguivano lo sforzo dell’ analisi”, dissipati solo dalla “limpida semplicità” dell’amico pittore. Per questa via la “letteraturizzazione della vita” - il “capzioso artifizio dello stile” che corrisponde allo “sforzo dell’analisi” - invadeva poi, significativamente, e secondo una modalità variamente verificabile in tutta l’opera dannunziana, finanche negli epistolari amorosi (33) e nelle scritture autobiografiche e “notturne”, addirittura la sfera dei moti affettivi e degli slanci sensuali: “anche fra la delizia in lui effusa dalla vicinanza della donna ch’egli incominciava ad amare, (...) la trista consuetudine dell’ analisi l’incitava pur sempre, gli impediva pur sempre di obliarsi”. Nel Fuoco, l’ artifex riconoscerà nella Foscarina - personaggio che, per ovvie ragioni, si presta ben più facilmente dell’Elena Muti del Piacere ad incarnare concetti estetici e disegni letterari - “la vivente materia atta a ricevere i ritmi dell’arte, a esser foggiata secondo le figure della poesia” (34). La Foscarina è “un buono e fedele istrumento al servigio di una potenza geniale”; già Violante appariva a Claudio Cantelmo come “uno strumento divino e incomparabile della sua arte”.
Sembrerebbe, quasi - ed è forse qualcosa di più di un gioco decostruzionista -, che lo donna venga equiparata, in absentia, al Verso, lodato nel giovanile Epòdo al Marradi citato poi da Sperelli-D’Annunzio nel Piacere: un assoluto e perfetto “istrumento d’arte, (...) più compatto del marmo, più malleabile della cera...”. Se Il Verso è Tutto - se, per riprendere una felice formulazione anceschiana, “l’arte è, metafisicamente, tutto”, e il reale trova nell’essere poesia implicita il proprio statuto ontologico -, allora non ci si stupisce che, alla fine - o a una fine, solo possibile o temporanea - dell’arte, faccia riscontro la perdita di significato del mondo: cosa che accade, nella solenne e pausata ritualità delle pagine conclusive del Fuoco, tanto al momento del mesto e virile commiato tra Stelio e la Foscarina, quanto a quello delle esequie dell’”eletto della vita e della morte”. “Il mondo parve diminuito di valore” - “il mondo pareva diminuito di valore”: un mònito che risuona, in modo assai significativo, a poche pagine di distanza, e che scandisce le due parti, divise da un “bianco” assai eloquente - soprattutto se pensiamo all’importanza che la nozione di “silenzio”, nei suoi rapporti con il ritmo e con la musica, assume nel retroterra teorico del romanzo -, in cui si suddivide, come in un dittico, questo cupo epilogo. E la stessa espressione - di origine swinburniana - si ritroverà, molti anni dopo, nella Contemplazione della morte, in riferimento alla scomparsa di Pascoli: “anche una volta il mondo par diminuito di valore”.
Nonostante si agiti costantemente, sullo sfondo di una Venezia fosca e malata, lo spettro della morte dell’arte, il poeta continua a rappresentare se stesso come una sorta di Pigmalione che, attraverso le inesauribili e onnipotenti virtù del Verbo, riesce a foggiare e plasmare la persona della donna, pur anche nella sua materiale, quasi sensuale fisicità e corporeità, nella “vibrazione dei muscoli sotto la tunica”, nel “respiro che le apriva le labbra come il calore apre le labbra della terra”; la donna incarna, personifica, assorbe in sé, la donna è quegli stessi artifici formali e quelle stesse preziosità stilistiche che il poeta impiega nelle proprie opere, e a cui l’attrice dovrà dare figura, voce, movimento. La Foscarina, che ha impersonato, che si è identificata che è divenuta tutt’uno, nel magico spazio delle scene, con figure della letteratura, della storia, del mito, viene a rivivere, a raccogliere in sé, a personificare, ad essere la tradizione, ad incarnarne, in una sorta di Corpo Mistico della laica religione del Bello, tutte le manifestazioni e le ipostasi, incrociate, sovrapposte, rese eternamente simultanee in una sorta di cristallizzata, fossilizzata stratificazione. La Foscarina era stata Cassandra, Mirra, Giulietta... “Le più dolci anime e le più terribili e le più magnifiche erano in lei, abitavano” - quasi per via metempsicotica o medianica - “il suo corpo, balenavano nelle sue pupille”... Attraverso la poesia che riviveva in lei - la parola letteraria che in lei, misticamente, si faceva carne -, ella assommava in sé “una smisurata massa di vita reale e ideale”, che “pulsava col ritmo di quel respiro stesso” - che era, poi, il medesimo ritmo che scandiva i numeri della poesia. Il “passato irrevocabile” e l’”eternamente presente” - l’astorica temporalità della letteratura, fatta di sincronia e di acronia - si fondevano in lei, “la facevano profonda, multànime, misteriosa”.
“Non è”, aveva detto Wilde, “la nostra vita che viviamo, bensì quella dei morti”, e “l’anima che alberga dentro di noi ha dimorato negli antichi sepolcri”. L’allucinata visione dannunziana delle rovine di Micene, dei cadaveri intatti coperti d’oro, può avere lo stesso significato. E si potrebbe dire che non a torto Wilde paragonava l’arte del critico a quella dell’attore...
2. Stelio Effrena era in grado di trovare “parole dall’aspetto quasi càrneo, quelle vive sostanziali parole con cui egli sapeva toccare le donne come con dita carezzevoli e incitatrici”. La carne si faceva verbo. E nei romanzi dannunziani lo stesso corpo della donna amata è spesso accostato analogicamente, e con un processo talvolta un po’ meccanico, alle stesse opere d’arte di cui il critico-oratore, forgia, con l’”arcana melodia pittrice” del suo ineffabile artificio, la copia verbale, il correlativo immaginifico, il “calco” letterario; e il corpo stesso della donna, per riprendere ancora alcune felici espressioni di Bàrberi Squarotti, diviene, non meno della natura, della realtà, del paesaggio, “parola implicita” e “funzione della poesia” (35), materia prima, o semplice pretesto, per una costruzione letteraria che, modernamente, non può più, per definizione, essere scissa da un “doloroso e capzioso artificio”. La stessa poesia delle Laudi, almeno in Alcyone, diviene, pur senza le cupe ed ossessive risonanze di un Mallarmé, poesia della poesia o del fare poesia; la secolare poetica della “loda” si ripiega e si raccoglie su se stessa e in se stessa, traducendosi in una poesia che è “ode e lode di sé medesima”, o addirittura narcisistica laus mei intonata dallo stesso artifex.
E si può pensare, a riscontro - e pur se in un diverso contesto, più apertamente allegorico, etereo, rarefatto -, alla figura di Violante in quel misconosciuto capolavoro che sono le Vergini delle Rocce, meravigliosamente oscillanti tra la ricorsiva e salmodiante iteratività della scrittura nietzscheana e i “soubresauts de conscience” del “poème en prose”; Violante, una sorta di mallarmeana Erodiade che personifica la poesia, che appare al poeta come “uno strumento divino e incomparabile della sua arte”, e le cui “mani sublimi” - prefigurando quasi la “mano casta e robusta” della Laus vitae - “compievano un atto che, come simbolo, rispondeva perfettamente al carattere del mio stile”... Non ci si stupirà, a questo punto, di trovare anche nelle Vergini, variamente declinata, la grande allegoria simbolista della riflessione: le Vergini “distendevano le nude membra ondulate a similitudine dello specchio, in cui si miravano da sì lungo tempo”, come “Salmaci agognanti alla perfezione d’un congiungimento ancora ignoto agli uomini e agli iddii”, e che solo l’androgina e partenogenetica autotelia della letteratura, madre e figlia di se stessa, potrà portare a compimento.
L’icona della riflessione si ritroverà nel Fuoco, in un luogo che riprende testualmente un segmento delle stesse Vergini: “io assisteva in me medesimo alla continua genesi d’una vita superiore in cui tutte le apparenze si trasfiguravano come nella virtù di un magico specchio”. Una volta individuata questa linea di metaforizzazione, non ci si stupirà di incontrare, nello stesso romanzo, tra le varie rappresentazioni ed oggettivazioni simboliche adombranti la prospettiva di una “morte dell’arte” proprio nel momento in cui essa sembrerebbe perfezionare - così nella città di Venezia, “Città di pietra e d’acqua” pervasa da una “intelligenza ritmica e fittiva”, come nella persona e nel corpo della Foscarina - la propria mistica fusione e conciliazione con la Natura, anche la figura della contessa di Glanegg, che una volta sfiorita la giovinezza si è chiusa nel suo palazzo, e ha fatto distruggere tutti gli specchi, e che rappresenta ed oggettiva la vorace fuga del tempo, che insieme alla volgarità minaccia la stessa sopravvivenza della Bellezza...
Si tratta di idee e di spunti che, in una trattazione come questa, espressamente dedicata alle definizioni teoriche del concetto di critica, non possono essere che vagamente accennati; ad ogni modo, Il Piacere potrebbe forse essere assunto quale fondamentale termine di confronto e di riferimento per una definizione di D’Annunzio come romanziere dell’”autocoscienza critica”, in una prospettiva già decisamente proiettata, non solo cronologicamente, verso il Novecento (36).
Sullo slancio ispirativo che spinge il protagonista a votarsi all’arte come all’unica amante imperitura e fedele, sopraggiunge puntualmente l’ombra della riflessione metaletteraria. “‘Ma se la mia intelligenza fosse decaduta? Se la mia mano” - ancora l’immagine della mano “casta e robusta” dell’artefice che doma la materia - “avesse perduta la prontezza? S’io non fossi più degno ?’”. Già il monologo interiore, l’angosciosa autoallocuzione che fa eco a se stessa in interiore homine, prepara la condizione del poeta che riflette sulla propria opera e sui modi della propria arte. “L’artista che a poco a poco perde le sue facoltà non si accorge della sua debolezza progressiva; poiché insieme con la potenza di produrre e riprodurre” - “produrre” e “riprodurre”, creazione e ri-creazione, posti sullo stesso piano, quasi una giustificazione teorica a priori della prassi del “plagio” - “lo abbandona anche il giudizio critico, il criterio”. E’ questo, se non sbaglio, l’unico luogo, nella narrativa dannunziana, in cui venga fatta esplicita allusione alla critica; non, ovviamente, l’unico in cui venga esposto un concetto estetico.
Una critica che, a differenza di quanto accade in Baudelaire e in Mallarmé, non è più etimologizzata quale conseguenza o segnale di una crisi - crisi del grande poeta che, arrivato alla maturità artistica, si interroga sui princìpi che hanno guidato le sue creazioni, o, più vastamente, crisi come “averse”, come “tempesta” che attraversa e scuote la letteratura europea. Qui la critica diventa, in modo forse più innocuo, ma comunque significativo, kriterion, “regola”, norma o canone a cui improntare la creazione, creazione che non può uscire dalle autofondate e fondanti “leggi dell’arte” senza perdere dignità, pregio, ragion d’essere; una critica che è sempre e comunque, risalendo fino alla più remota base etimologica, krisis, “giudizio” e “scelta” delle forme e dei materiali più atti alla creazione; e ancora, come nell’indubbiamente più matura, articolata e problematica autocoscienza letteraria insita nella grande elaborazione teorica della poésie pure, una critica che diviene autocritica, che si esercita e si riflette sulla stessa opera del poeta come soggetto insieme creatore e giudicante.
3. Lo “spirito” di Andrea era “essenzialmente formale. Più che il pensiero, amava l’espressione. I suoi saggi letterarii erano esercizi, giuochi, studii, ricerche, esperimenti tecnici, curiosità”; qualcosa di simile a quelle che gli antichi chiamavano nugae. Con l’andare degli anni, la poetica di D’Annunzio assumerà, com’è noto, un respiro ben più vasto, e più solenni e potenti ambizioni; ma la natura voluta, premeditata e artificiosa della creazione poetica non lo abbandonerà mai, senza mai cedere il passo a forme indiscriminate di quell’”irrazionalismo fin de siècle” di cui si è lungo parlato. Anche per il D’Annunzio del Libro segreto, “tutto vive e tutto perisce per la forma”; ove la “forma”, come la letteratura, fonde in sé “oblio e memoria, totalità e assenza, vita e morte.
Si svilupperà, certo, una “poetica del sogno”; ma sarà, anche allora, “un sognar di sognare” (37), un “sogno che sa di sognarsi”, che non è più soltanto “fatto in presenza della ragione” come nelle poetiche settecentesche, agli albori della razionalità estetica, ma arriva ad inglobare in sé la ragione come un elemento intrinseco, consustanziale, integralmente amalgamato e sussunto entro il cuore vivo della creazione. “Di sogno in sogno, poi di verso in verso”, dirà Yeats, sintetizzando un elemento importante nella poetica dell’estetismo. Il sogno è “verso in potenza”, e il verso, lo stile, l’istituto retorico, ricalcano e rendono manifesta la già implicita natura e strutturazione formale dell’affettività e della vita psichica.
“Non vogliamo più la verità. Dateci il sogno!”, gridano, in un articolo dannunziano apparso sulla Tribuna nel luglio del ’93, le “voci dei disillusi che corrono dietro all’illusione fuggiasca” della certezza scientifica. Ma il sogno non è evasione, astrazione, rapimento astrattamente misticheggiante: un già quasi pre-esistenzalistico “sentimento metafisico dell’infinita moltitudine delle possibilità”, delle svariate prospettive esistenziali ed intellettuali dischiuse dalla “bancarotta della scienza”, “congiungendosi al sentimento critico della insufficienza di ciascuna possibilità presente”, fa sì che “tutte le cose perd ano il loro valore reale per colui che contempla l’universo in pura astrazione. L’esistenza infine si riduce” - e qui D’Annunzio cita Amiel - “a una monodia lamentosamente cantata sull’orlo dell’abisso”. Certi accenti dei positivisti delusi o “rinnegati”, ad esempio del tardo Brunetière, sembrano qui fondersi con la lezione - modernamente perplessa, oscillante, “inconclusa” - dell’ultimo De Sanctis. Si tratta di pagine che, se lette sulla linea di pensiero che dalla lettera dedicatoria del Trionfo della morte conduce all’intervista ad Ojetti, rivelano tutta la loro illuminante pregnanza. Come ha visto mirabilmente Guy Tosi, “il simbolismo corrisponde ad una nuova crisi dei valori razionali. (...) Pur restando ancorato ad un certo positivismo”, D’Annunzio, in quanto “poeta del mistero, del sogno, dell’intuizione, della visione soggettiva” - “soggettività” che si riflette anche nel campo dell’esercizio critico - “esprime ugualmente questa crisi” (38).
Più che come solido e rassicurante sistema di riferimento gnoseologico, o come chiave di lettura del mondo, la scienza sembra poter sopravvivere solo nella “sintesi”, quanto mai illusoria e precaria, operata nel dominio della letteratura, della pagina, della forma”.
4. “D’innanzi a lui” - per tornare al Piacere - “certi fusti, diritti e digradanti come le canne della fistola di Pane, secavano l’oltramarino; intorno, gli acanti aprivano con sovrana eleganza i cesti delle loro foglie, intagliate con sovrana eleganza come nel capitello di Callimaco”. Qui è, letteralmente, la Natura ad imitare l’Arte; ad imitare, per la precisione, “il flauto di Pane”, lo strumento stesso dell’arte poetica, e un raffinato ed elaborato elemento architettonico, di cui il poeta dovrà trarre il calco o la copia verbale. Questo feticismo dell’elemento decorativo non era certo estraneo al gusto liberty dell’epoca. Pater, elogiando Giorgione in pagine che prefiguravano chiaramente la riflessione estetica e la teoria della critica sviluppate da Conti e D’Annunzio, sullo scorcio del secolo, rispettivamente con il Giorgione e le Note su Giorgione e la Critica, vedeva nel pittore veneto soprattutto colui che aveva emancipato la pittura dai grevi intendimenti narrativo-didascalici della medievale Biblia pauperum: “gl’inizi della pittura veneziana si riconnettono con gli ultimi, rigidi splendori semibarbarici della decorazione bizantina”; è, questo, il “bizantinismo” che, come gusto del ricercato, del raro, del prezioso, della raffinatezza esotica e fine a se stessa, ha tanta parte nell’anima della décadence. I versi yeatsiani di Sailing to Byzantium - filtrati, per noi, dalla stupenda traduzione montaliana - raccoglieranno gli ultimi riflessi dell’”oro battuto” e degli “smalti” bizantini. Il poeta, disdegnando la “forma corporale”, non desiderando “nulla che sia della natura” (“Je ne veux rien d’humaine”, aveva detto Erodiade), aspirerà a trovare asilo “nel supremo artifizio dell’eterno”, nell’eternità o nell’intemporalità, fittizia e precaria, a cui, forte di quella che qualcuno ha definito la “protezione dell’artificio”, può ancora tendere, pur segnato dallo choc della modernità, l’incerto statuto della “pura bellezza”.
“La pittura” - proseguiva Pater - “dev’essere prima di tutto decorativa, una cosa fatta per gli occhi, uno spazio di colore”. La decorazione, visiva o verbale, l’elemento esornativo o “superfluo”, l’esile e sinuosa voluta floreale, divenivano gli emblemi - forse labili e fatui, ma comunque nitidi - dell’autonomia dell’arte; un’autonomia rivendicata e preservata dall’abile cesellatura dell’ artifex. E Wilde, nel Critico come artista, avrebbe lodato la “decorative art” perché capace di infondere nell’osservatore “that sense of form which is the basis of creative no less than of critical achievement”, rendendo esplicito il legame che unisce lo sviluppo dell’elemento autonomo, puramente estetico, “decorativo” della creazione poetica e la conseguente, ineludibile intensificazione della componente critica ed autocosciente che vi è insita. “Il vero artista è colui che procede non dal sentimento alla forma, bensì dalla forma al pensiero e alla passione”. Questo è certamente uno degli aspetti per i quali lo “spirito essenzialmente formale” di Andrea Sperelli può trovare esatto riscontro in quello dell’esteta wildiano. Segue, nel dialogo di Wilde, un elogio della sublime bellezza del “sonnet-scheme”; elogio riferito alla forma del sonetto inglese, che com’è noto differisce da quello italiano per il numero e la disposizione delle rime, ma è comunque anch’esso un “complex metre of fourteen lines”, che precede e informa di sé il pensiero poetante, cui è affidato il compito di riempire la forma come la cera lo stampo, rendendola “intellectually and emotionally complete”. Anche D’Annunzio elogia il sonetto, “forma (...) meravigliosamente bella e magnifica”, “la cui architettura consta di due ordini”, il che rende esplicita e più chiara l’analogia con il capitello corinzio; e la visione “decorativa” della pittura rinascimentale è messa in evidenza anche nel Piacere: il poeta deve riuscire ad “armonizzare”, in senso insieme figurativo e musicale, le parti del componimento, con la stessa abilità con cui “i dipintori del Rinascimento sapevano equilibrare una intiera figura con il semplice svolazzo d’un nastro o d’un lembo o d’una piega”. Ad ogni modo, Il Piacere esce tre anni prima di The Picture; e D’Annunzio, in questo suo elogio del sonetto, avrà certo avuto in mente quello, assai noto - ed esso stesso, quasi per un gioco di amplificazioni, in forma di sonetto -, presente nelle Rime nuove del Carducci.
Nel “luogo favorito” del parco di villa Schifanoia, vi era un’”Erma quadrifronte intenta a una quadruplice meditazione”; essa sembra prefigurare, a distanza di un decennio, quel “dio bifronte” che visualizza, in un noto passo del Fanciullo alcyonio, l’ambiguo rapporto tra “Natura e Arte”. Nelle Faville del maglio, il poeta scriverà che la sua “volontà” e il suo “istinto” “obbedirono (...) per aggrandire il mondo ideale”, e si unirono “come in un’erma bifronte: VOLONTA’ VOLUTTA’”. Dicono alcuni versi della Laus vitae: “Volontà, voluttà, / Orgoglio, istinto, quadriga / imperiale mi foste, quattro falerati corsieri”... L’immagine della quadriga del Fedro platonico viene qui trasfunzionata per esprimere il rapporto che lega, parallelamente, volontà e voluttà, istinto e ragione, natura e arte, poesia e critica. Due poli opposti tra i quali, in quella perpetua, consapevole mistificazione che è la visione della realtà per l’uomo dell’estetismo, diventa impossibile distinguere. Dirà, in Alcyone, l’Otre, enigmatica e polisensa allegoria che - un po’ come la “mano casta e robusta” di Maia - potrebbe indurre a rivedere certe posizioni critiche che parlano di una presunta “leggibilità” o “semplicità” del simbolo dannunziano: “molto contenni, puro o adulterato. / Il falso e il vero son le foglie alterne / d’un ramoscello: il savio non discerne / l’una dall’altra, l’un dall’altro lato”. E’ difficile non pensare alle foglie d’acanto del giardino di villa Schifanoia, tanto più che l’Otre, trasmutatosi in zampogna, viene forse a rappresentare la Poesia o il Poeta, che vuole “finir di fine insana”, come in preda a una furia dionisiaca. Il “savio” - viene da pensare all’”homme du mond” baudelairiano, forte della sua sapiente ingenuità, della sua infanzia intrisa di spirito analitico... - non distingue, non si preoccupa di distinguere il vero dal falso, la Natura dall’Artificio. Scrisse un antico filosofo - proprio uno di quei Sofisti del “secolo gaudioso” tanto cari al padre di Andrea Sperelli - che la poesia è una apate, un “inganno” in cui chi si lascia ingannare è più sapiente di chi non viene ingannato...
Se pensiamo al Poe più antitrascendentalista, o al “surnaturalista” Baudelaire, vedremo che la “meditazione” dell’Erma non è troppo diversa dalla riflessione del critico.
“Il Verso è Tutto”, ripete D’Annunzio, citando palesemente se stesso. La “Parola” è “Divina”. Anche i poeti romantici - da Hugo a Tommaseo - l’avevano invocata e venerata come tale. Ma ora la parola non è più confortata e vivificata da una mistica “simpatia del segno con il designato”, non risponde più ad una piena e suprema istanza metafisica. Proprio D’Annunzio, il supremo artifex, da un lato offre in più luoghi significative e precorritrici varianti del “topos dell’inaderenza fra cosa e parola” (39); dall’altro, nel Notturno - prima “diario”, poi “Commentario delle tenebre”, commentario, certo, come biografica, “cesariana” autoelebrazione, ma, forse, anche come autocommento, rivisitazione, in chiave metaletteraria, della propria vita o, che è lo stesso, della propria opera -, darà voce alla “mistica ebrietà che della mia carne e del mio sangue faceva il verbo”. Un’espressione, quest’ultima, che profana e capovolge l’archetipo evangelico del Verbo, del Logos che si fa carne; e si ha, una volta di più, la cifra essenziale di un’esperienza vitale che è parola implicita, funzione della poesia: carne che si fa parola, o che deve, altrimenti, divenire preda del tempo e della morte. Il paesaggio, divenuto, attraverso il trasfunzionamento di un altro topos romantico e byroniano, “un simbolo, un emblema, un segno”, attende solo di inverarsi e di “compiersi” nella parola del poeta. Quest’ultima - non più, nella modernità, intrinsecamente e naturalmente partecipe di una dimensione trascendente - è resa “divina” solo dalla virtù dell’artefice.
“La consonanza gli veniva spontanea, senza ch’ei la cercasse; e i pensieri gli nascevano rimati. Poi, d’un tratto, un intoppo arrestava il fluire; un verso gli si ribellava” - proprio il verso che è tutto, che è “istrumento d’arte (...) vivo, agile, acuto, vario, moltiforme, plastico, obediente, sensibile, fedele” - che, come avrebbe detto di lì a pochi anni Mallarmé, da molte parole rifà una parola intatta e pura ... “Tutto il resto gli si scomponeva come un musaico sconnesso; le sillabe lottavano contro la constrizion della misura”. Sembrerebbe, quasi, di trovare qui il motivo - quasi un topos nel Novecento - delle parole che si ribellano al poeta, dal Montale delle “sillabe storte e secche” all’Eliot delle parole che “strain, crack and sometimes break”, al Valéry dei “mots” che si agitano sullo scrittoio del poeta, che “veulent être employés, et flottent”... D’Annunzio comincerà, di lì a pochi anni, a insidiare e scardinare - pur continuando a guardare ai numeri innumeri della coreutica greca, e non varcando i limiti che lo mantengono al di qua del più spregiudicato versoliberismo novecentesco - la “constrizion de la misura”, avviandosi verso la “strofe lunga” di Alcyone. L’”amor sensuale della parola”, la fascinazione sonora, il feticismo del significante, prevalsero sempre sull’ansia creativa, sul timore di “non esser degno”, su quello che era o poteva essere, a ben vedere, qualcosa di non molto lontano dal parossismo dell’autocritica, dall’angoscia dell’ impuissance e della pagina bianca che afflissero Mallarmé.
A distanza di anni, in uno dei frammenti raccolti nel Libro segreto, D’Annunzio riandrà ai sonetti dell’ Epòdo. “La scrittura, l’arte del verbo, è veramente fra tutti i giochi mentali il compiuto: (...) continua l’opera di creazione e dà forma al mistero estraendolo dalla tenebra per esporlo alla luce piena”. Riecheggia, qui, l’immagine dell’ artifex che “estrae” e porta alla luce dalle profondità della lingua il verso perfetto... “O divinazione remota! come posso io rileggere i miei sonetti giovenili al mite poeta Giovanni Marradi senza che il cuore mi balzi e la mente mi baleni?” (40). Ecco, scandita dal movimento duplice e unitario, raziocinante e appassionato, che segna i tempi del sogno e del calcolo, le intermittenze del cuore e le lucide folgorazioni dell’intelletto, la grande, reiterata allegoria del poeta che legge se stesso - della poesia che si fa critica di se stessa.
V "UNA LIRICA ALATA"
"Tu sei stanco di far della critica, dici. Però io leggo a volte la tua critica con la stessa commozione con cui leggerei una lirica alata". Con queste parole, in una lettera del marzo 1884 (40bis), D'Annunzio esprimeva ad Enrico Nencioni il proprio sincero apprezzamento per il suo modo di intendere e di praticare la critica; e il giovane poeta, nel contempo, istituendo un parallelo tra la critica e la lirica, dava un'efficace e limpida definizione di quello che era, o voleva essere, il carattere essenziale della variante o dell'espressione italiana della "critique amusante et poétique” e dell'"independent criticism".
In un'altra lettera, del dicembre dell''87, lo stesso D'Annunzio avrebbe lodato lo studio di Nencioni sulle vittorughiane Choses vues, destinato a confluire nei Nuovi saggi critici di letterature straniere, cogliendone la "forza", la "nobiltà” e la "luce", nonché l'"eleganza” e l'"armonia” che contraddistinguevano l'"architettura” dell'articolo. "Mi pare concludeva il futuro autore delle Laudi "che tu metta nel distribuire le parti la stessa cura e la stessa diligenza e lo stesso senso dell'arte che metteresti nel comporre un'ode".
Non si deve certo sottovalutare l'importanza che la figura del Nencioni riveste nel quadro della genesi della "critica estetizzante" del secondo Ottocento. Una figura, peraltro, quella del Nencioni, che rimase sostanzialmente estranea eccezion fatta per i tardi e non felicissimi versi della Rapsodia lirica, non più che una sorta di moderno e decadente centone di motivi baudelairiani e swinburniani al "vivo fascio di energie militanti” raccolto intorno al “Convito“ e al “Marzocco”. Il suo passato di sodale del Carducci nella "Società degli amici pedanti” non gli impediva, comunque, di aprirsi agli influssi della cultura inglese, favorendo, in particolar modo, la ricezione, nel contesto culturale dell'Italia umbertina, delle dottrine estetiche del preraffaellismo, dottrine in cui rivestiva un'importanza non trascurabile la concezione del nesso esistente tra espressione figurativa e parola poetica, tale secondo le definizioni ruskiniane da fare del poeta un "word-painter", e della poesia e della pittura "allied arts” e "sister arts". Molto acutamente, il riferimento di D'Annunzio si concentra sulla struttura e sulla "costruzione” dei saggi di Nencioni. La critica di quest'ultimo sembra offrire una delle infinite possibili varianti della "critique d'analogie" che si viene sviluppando in seno alla décadence del secondo Ottocento, da Baudelaire a Mallarmé a Wilde, e che si fonda sull'accostamento, spesso abrupto e rapsodico, procedente per via di arditissimi "contacts and comparisons", di autori ed opere in sé quanto mai disparati e lontani, ma tali, nondimeno, da evocare nell'ascoltatore, nell'osservatore o nel lettore "sentiments analogues"; con la differenza che, se nei critici simbolisti l'accostamento analogico assume, sul piano formale, la veste privilegiata della metafora e della sinestesia, in Nencioni forse anche per influsso di quella componente "classica" e finanche "oratoria" che è parte integrante della sua personalità - esso si esplica soprattutto sul piano di quella che è stata definita la "stilizzazione metatestuale", vale a dire la strutturazione globale, il disegno argomentativo, l'armatura ideativa che innervano e governano lo snodarsi del discorso critico.
A fungere da elemento connettivo per gli arditi accostamenti di Nencioni non è giù il termine di confronto, implicito e sottaciuto, della metafora e dell'analogia, ma il tema su cui il discorso è imperniato. E, nel complesso, il “ductus“ che è caratteristico di questo critico può essere convenientemente accostato non, come pure si è fatto, al tono leggero, divagante, e un poco frivolo e salottiero, della “causerie“ letteraria, ma piuttosto a quello "scientiae desultoriae stilus” che già gli antichi conoscevano, o, ancora, al "marginalic air” e al "desultory comment” di Poe, o al "crayonné" di Mallarmé.
"Come la scultura e la pittura" leggiamo, ad esempio, nel saggio Torquato Tasso "esprimevano la forza, la euritmia, la visione netta e precisa delle forme e dei colori, nell'uomo del Rinascimento, così la musica esprime i sogni, le aspirazioni, le inquietudini, gli entusiasmi divini, e i terrori e gli abbattimenti mortali dell'uomo moderno, da Palestrina a Wagner, dal Tasso ad Enrico Heine". Sorvolando, con molta indulgenza, sull'ingenuità dei riferimenti e l'arbitrarietà degli accostamenti, si può notare l'importanza che riveste, nel passo citato, il parallelo tipicamente ruskiniano e preraffaellita tra le arti plastiche e la musica; ed è quasi superfluo ricordare come, nel Fuoco dannunziano, uno dei Leitmotive più affascinanti sia costituito proprio dalla percezione di quell'"intelligenza ritmica e fittiva” che attraversa e pervade profondamente la "città di pietra e d'acqua", in cui sembra, pur se in modo forse precario e illusorio, venir solennemente celebrata, e ciclicamente rinnovata, una sorta di mistico sposalizio tra l'arte e la natura, nel segno del “ritmo”, della "musica muta" che scandisce un'insoluta circolarità di natura, arte e parola. Anche il riferimento al Rinascimento il Rinascimento di Symonds, di Ruskin e di Pater non sarà, in quest'ottica, casuale; e non per nulla, secondo il giudizio con cui Nencioni accolse, nel novembre del '98, la conferenza sull'”Allegoria dell'Autunno“ realmente tenuta da D'Annunzio, e poi rievocata e trasfigurata nella fictio romanzesca, "nessuno comprese, nessuno seppe far discorrere con altrettanta nobiltà e vide così forte attraverso le sue acque".
Ancor più interessanti sono, in quest'ottica, la deformazione e l'arbitraria estensione a cui il critico sottopone la categoria storiografica che dà il titolo alla sua conferenza sul Barocco; conferenza riguardo a cui D'Annunzio, non per nulla, nel discorso Per la morte di un poeta, loderà le "accensioni subitanee del colorito", i "movimenti rapidi e fieri del ritmo", uniti ad "una specie di grazia negletta e volubile", e a "certe sprezzature efficaci", forse richiamando ed applicando il paradigma di libro di critica come "ottimo libro di prosa", di identificazione tra scrittura critico-saggistica e "poème en prose", delineato tre anni prima nelle Note su Giorgione e su la critica apparse sul Convito, e su cui si tornerà tra breve. Il barocco è qui elevato, quasi come il "romanticismo” di Baudelaire o l'"Ellenismo” di Wilde, anche se in modo certo meno radicale ed ardito, a categoria metatemporale, a strumento o termine medio di una possibile identificazione simpatetica, al di là dei secoli, tra e con gli autori e gli artisti più diversi, per poi concludere: "Questo barocchismo (...) è essenzialmente “moderno”, nella sua appassionata ricerca del “nuovo“ ad ogni costo. (...) Noi siamo oggi tutti un po’ barbari, un po’ bizantini, un po’ barocchi... La lampada della vita non è più una fiamma pura e tranquilla, nutrita di liquore d'oliva, ma una face resinosa e fumosa che manda torbide e rosse faville". Si può forse scorgere, in questa metafora, anche una mimesi stilistica del concettismo secentesco. "Secolari dolori hanno umanizzato il nostro cuore; e nelle voci stesse della Natura, noi ascoltiamo la solenne e malinconica musica dell'Umanità". Emerge, in queste pagine, la nostalgia per la purezza edenica, per l'innocenza perduta, per un'ormai irrecuperabile "infanzia dell'umanità"; ma si avvertono, in pari tempo, segrete consonanze con Wilde e con Pater, nella consapevolezza della condizione di un'umanità che "ha conosciuto i segreti della tomba", "degli antichi sepolcri ha fatto la sua dimora", ed "è malata di molti mali". La "modernità” dimostrava, una volta di più, di non poter fare a meno del passato. Si era, inoltre, nel giro di anni e nella temperie culturale in cui Baudelaire emulava, proprio in quelle poesie che si proponevano di essere "la miglior critica di un quadro" e un'opera d'arte riflessa da un'altra opera d'arte, i sonetti di Tristain l'Hermite plagiati da Claudio Achillini, e in cui D'Annunzio, in un noto passo del nono capitolo dell' Innocente, inscenava, memore del Marino, un virtuosistico agone melico tra l'uomo e l'usignolo. E può non essere del tutto ozioso notare che sulla stessa compiaciuta e manieristica trasposizione e trasfigurazione verbale e metaforica del canto dell'usignolo si concludeva il saggio di Nencioni sulla Letteratura musicale, ripubblicato nei Nuovi saggi di letterature straniere: il "profondo e quasi religioso silenzio della campagna fu interrotto da una nota isolata, da un sospiro melodico (...), finché tutta l'aria all'intorno fu inondata da un diluvio, da un delirio, di note palpitanti".…. Come che sia, la pagina di Nencioni potrebbe essere letta anche alla luce della continuità su cui hanno posto l'accento vari studiosi, da Hocke a Genette che si può porre tra l'"agudeza" e la "maraviglia" del Manierismo e del Barocco e il voluto e studiato "obscurisme" che è tratto distintivo della tradizione simbolista e postsimbolista.
Una tradizione, peraltro, quest’ultima, dai cui eccessi e dalle cui insidie, anche sul piano morale, il nostro autore si preoccupa in più occasioni di mettere in guardia. Un'analoga valenza metastorica, una simile funzione di tramite, di mediazione, di strumento metodologico un po’ come, con tutte le proporzioni del caso, la “perennis humanitas“ di un Serra che consenta di accostare gli autori più disparati, sono adempiute, nella conferenza sulla Letteratura mistica, dalla categoria, intesa nell'accezione più lata, di "misticismo". Quest'ultimo può, per Nencioni, accomunare figure come Dante, Savonarola e Tolstoj (autore, quest'ultimo, che com'è noto suscitava, nel contesto culturale italiano di quegli anni, largo interesse, e influenzò notevolmente la parte forse meno felice della produzione del D'Annunzio romanziere). E la stessa categoria del misticismo offre poi al critico l'occasione per un tipico esempio di "critique d'analogie", che contamina il referente letterario con quello figurativo: "l'impressione” termine e concetto chiave, questo, tra Otto e Novecento, per varie forme di soggettivismo critico "che proviamo leggendo l' Imitazione" e, come si è visto, l'interesse per la letteratura mediolatina trovava ampio riscontro, in una diversa ottica, nella coeva cultura simbolista “è consimile a quella che si riceve guardando i quadri dell'Angelico; nei quali la materia è come trasfigurata, e non resta che una forma eterea, circonfusa di luce e di azzurro. I beati (...) passeggiano tenendosi per mano, in un mistico giardino, tra l'erba smaltata di fiori bianchi e rossi". Un passo, si obietterà, tutto filigranato di reminiscenze dantesche; ma esso è anche innegabilmente legato alla sensibilità preraffaellita, largamente permeata dall'anelito ad una fusione e ad una compenetrazione di segno verbale e segno figurativo.
2. È proprio l'idea di una fusione tra colore e parola ad avvicinare, più di quanto non si possa a prima vista credere, la "poetica critica" del Nencioni peraltro, a differenza di quella degli esteti, soltanto implicita al simbolismo europeo. Le "correspondances" di Baudelaire, com'è noto, fondevano suoni, profumi e colori, e un motivo ricorrente nei suoi scritti di estetica era, come già si è visto, quello della "traduzione" dei colori e dei suoni in parola, della circolarità e della contiguità tra i diversi linguaggi della natura e dell'arte. Sulla linea che da Poe conduce a Mallarmé‚ è poi possibile seguire, come si è fatto nel primo capitolo, la complessa evoluzione del parallelo strettamente legato all'idea del carattere autocosciente ed autoreferenziale della creazione artistica, e dunque alla stessa organica compenetrazione di attività creativa e attività critica tra la creazione e la fruizione di un'opera poetica e quelle di un'opera figurativa. Pater, in quegli Studies in the History of the Renaissance che Nencioni ben conosceva, definiva le tele di Giorgione "poemi dipinti"; e, prima ancora, Ruskin aveva, come si è accennato, dato la sua variante della secolare concezione della pittura e della poesia come "arti sorelle".
Oltre che nel Nencioni critico, questa consapevole e studiata sinergia di parola e colore trovava espressione nel Nencioni poeta. Nei versi di Dopo una sinfonia di Beethoven, raccolti nel postumo volume Rapsodia, la parola poetica memore del monito di Verlaine si poneva non solo quale mimesi della musica, ma come ideale e virtuale spazio in cui la suggestione uditiva poteva fondersi con quella visiva e cromatica. "Che non vidi e sentii?", esordisce il poeta. E più oltre: "Ecco / le note argentee, fresche, pure, / s'accoppiano, s'inseguono, e la danza / figuran di soavi giovinette / bianco-vestite su novello prato". Non è certo il caso di scomodare, per un possibile parallelo, il Baudelaire dei Phares, intento a mimare, tramite la parola poetica, la fusione analogica e sinestetica tra il colore di Delacroix e un "soupir étouffé de Weber", evocando così, come chiarisce l'autocommento dell' Exposition universelle, "idées de musique romantique‚ éveillées par les accords de la couleur". Si potrebbe caso mai sorprendere, all'origine di quella candida epifania di "soavi giovinette bianco-vestite", una vaga suggestione pascoliana. Come che sia, sarà interessante seguire, per esempi e campioni, le vie attraverso cui il campo metaforico del "colore della parola", della parola capace di evocare, a un tempo, suono, colore e movimento, si estende anche alla scrittura saggistica. Secondo Nencioni, mentre "Hugo dà sostanza, forma precisa e colore alle proprie immagini, il Swinburne le spiritualizza e le dissolve in vapori iridati e in vaghi splendori di melodia". L'”imagery“ sinestetica è qui adibita, sul piano critico, a chiarire, in modo quasi paradigmatico, la distinzione tra la concretezza, il vigore e la potenza rappresentativa del poeta primoromantico e il languore e la svenevolezza della décadence (fermo restando che ad Hugo è riconosciuto, a torto o a ragione, il merito di avere offerto il primo esempio di quella "prosa pittrice" poi ereditata dal romanzo naturalista, da cui peraltro Nencioni, per ragioni morali non meno che estetiche, prende in più occasioni le distanze). "Come Shelley, il sovrano poeta-pittore dei cieli" l'autore avrà forse in mente l'Ode to the West wind -, "Victor Hugo è supremo poeta-pittore del mare". Altrove, lo stesso Hugo è lodato per la sua "pittoresca parola poetica", la sua "visione delle cose (...) così intensa che pare a volte un'allucinazione", e per la sua "arte di accordare i suoni” e "condurre il ritmo", sortendo "gli effetti orchestrali di una grande sinfonia". Ancora una volta, il discorso critico del Nencioni ha contaminato, assai modernamente, immagine e suono; e sembrerebbe quasi di poter scorgere, in questa idea, del resto tipicamente romantica, di "sinfonia letteraria", una qualche preconizzazione di certe pagine dannunziane, con particolare riferimento al Trionfo della morte, legato al disegno di una "prosa plastica e sinfonica".
Sempre a questa idea del "colore della parola" possono essere ricondotti anche altri aspetti dell'opera del Nencioni critico, che maggiormente lo apparentano il che più interessa nell'economia di questa trattazione al simbolismo europeo. Già nel saggio sui Poeti americani, apparso dapprima sulla Nuova antologia e confluito poi nei Saggi critici di letteratura inglese, l'autore aveva lodato, in Poe, la "perfezione plastica" e l'"adamantina trasparenza", sottolineandone la componente classica e parnassiana, e avendo forse in mente testi come To Helen; ma nel poeta americano Nencioni che aveva dato, sulla Vita nuova, una delle prime traduzioni italiane di The Raven sottolineava anche gli "accenti profeticamente moderni" (superfluo rimarcare ancora una volta il particolare valore che i concetti e i termini di “moderno” e “modernità“ acquisiscono nel dibattito culturale di questi anni), legati proprio a "certe ineffabili sfumature di colori e di suoni". Ma un riferimento ancor più significativo si incontra ancora nelle pagine su Hugo: "Il vero poeta è un veggente, nel vero preciso senso della parola: è l'uomo che meglio “vede“ le realtà del mondo esteriore e i drammi del mondo interiore; e traduce con parola ritmica e pittoresca quello che ha visto". Viene poi snocciolato un piccolo "canone", quanto mai metastorico ed analogico, di presunti poeti veggenti, da Eschilo a Dante per arrivare, appunto, ad Hugo. I nuovi princìpi di poetica venivano spregiudicatamente ed arbitrariamente proiettati, quasi a cercarne un riscontro o una conferma, su di una millenaria tradizione letteraria. A prescindere dalla suggestione in senso lato romantica, il rinvio più ovvio è ad alcune riflessioni di Baudelaire. Più che a certe note pagine sull'analogia "reine des facultés”, presenti nel Salon de 1859 e nelle Notes nouvelles sur Edgar Poe, si dovrà rinviare ad un passo del saggio baudelairiano su Hugo, che Nencioni, dato anche l'argomento del suo studio, avrà avuto presente, e su cui, come sui testi sopra menzionati, mi sono già soffermato nel primo capitolo: una pagina in cui si dice che "tout est hiéroglyphique", ma che i simboli "ne sont obscurs que d'une manière relative, c'est-à-dire selon (...) la clairvoyance native des âmes. Qu'est-ce qu'un poète (...), si ce n'est pas un traducteur, un déchiffreur?". Le "comparazioni", le "metafore" e gli "epiteti" cui il poeta veggente fa ricorso sono “puisés dans l'inépuisable fonds de l'universelle analogie". E sempre nei Nuovi saggi critici di letterature straniere, prendendo garbatamente le distanze, pur se nel quadro di un giudizio sostanzialmente positivo, dall'attitudine materialistica e dall'indifferenza morale della psicologia di Bourget i cui saggi avrebbero, peraltro, anch'essi offerto qualche spunto al D'Annunzio romanziere -, Nencioni enuclea, per antitesi, un'altra sintetica enunciazione della dottrina delle "correspondances": "La Poesia scuopre negli oggetti del mondo esteriore le loro arcane relazioni e armonie con l'anima umana", e, al contrario della scienza, "sintetizza, non decompone". È trasparente il riferimento a Baudelaire; ma si ricorderà che anche nel Prologo del Marzocco il fine dell'artista verrà additato nello scoprire "nuove relazioni fra le cose", e che egualmente condiviso dagli esteti sarà, come si è visto, l'anelito alla “sintesi”, nel superiore dominio dell'estetico, dei dati della percezione e della conoscenza, minutamente scomposti, e resi ormai dispersi ed irrelati, da una lettura scientifica del mondo.
3. Torniamo, ora, ai rapporti con D'Annunzio, da cui eravamo partiti. Recensendo l' Isaotta Guttadauro sul Fanfulla della Domenica del febbraio 1886, Nencioni vi sottolineava proprio l'attitudine e l'indole tipica di quei poeti i "word-painters” di cui parlava Ruskin che, "adoratori della bellezza plastica", sono "i più felici trovatori di parole e di note che evocano belle immagini e dilettosi fantasmi, e rivaleggiano", perseguendo una sinergia tra le arti tipicamente simbolista, "con la scultura e con la musica". E richiamando l' Epilogo al Michetti della Chimera, in cui è espressa proprio l'idea di un ideale agone, o piuttosto legame e sinergia, tra poesia e pittura ("Tu, signor del pennello, io della rima"), il critico coglieva l'essenza di una sensualità e di una sensibilità tutt'altro che ingenue, anzi assiduamente governate dall'artificio e dall'autodominio di uno "spirito essenzialmente formale". Dal suo parnassiano "labor limae", dal suo "caro e difficile lavoro d'arte", il poeta traeva "una squisita voluttà intellettuale", in cui si fondevano istinto e ragione, natura e arte, afflato lirico e autocoscienza letteraria. Era, forse, l'ammirazione per questo strenuo lavoro formale, e per l'intensa "emozione intellettuale (...) trasfusa in ogni pagina", che induceva il critico appena due anni dopo la censura morale, peraltro equilibrata e garbata, affidata alle pagine del volume Alla ricerca della verecondia a riconoscere, in linea con uno dei presupposti fondamentali dell'estetismo, che "la Legge dell'arte non è quella della Morale", giacché "in Morale l'azione è giudicata dalla intenzione", mentre "in Arte l'importante non è tanto quello che si intendeva di fare, ma ciò che si è fatto".
Recensendo poi il Piacere sulla Nuova Antologia del 1 giugno 1889, Nencioni loda ancora, facendo sempre riferimento al retroterra teorico ruskiniano dei rapporti fra parola ed immagine, "la vera pittura poetica, non di pittore ma di poeta", che contraddistingue l'autore, capace di "restare poeta", di non abdicare alla specificità della sua arte, "anche quando sembra gareggiare coi più abili pennelli nei suoi paesaggi e nei suoi ritratti". Il suo dettato prosastico si apriva spesso ad una "inattesa e poetica associazione di immagini", alla luminosa vertigine dell'analogia e della sinestesia.
Ma era proprio all'eccesso dell'autocoscienza letteraria e al parossismo dell'elaborazione formale che Nencioni riconduceva, citando testualmente il Baudelaire dell' École païenne, il pericolo insito, sul piano morale, in questa poetica: "La spécialisation excessive d'une seule faculté aboutit au néant". Nencioni arrivava, così, pur se dall'angolo visuale di un moralismo ancora profondamente impregnato di spirito risorgimentale e desanctisiano, ad intravedere quello che Benjamin, sulle orme di Hofmannsthal, avrebbe chiamato "l'abisso dell'estetismo": l'insidia, e insieme la tentazione, della deriva, del vuoto, dell' ennui, della nequitia, il nulla che si dischiude e palpita dietro la superficie polita e scintillante della forma impeccabile, dietro la nebulosa illusoria e narcotizzante dei colori, dei suoni e dei profumi. Il "pervertimento morale dei voluttuosi" e la "verbale monomania dei Parnassiens e dei Décadents” erano strettamente interconnessi. Anche sotto lo sguardo limpido, sereno, apparentemente "ingenuo” di Nencioni, l'estetismo mostrava di essere costantemente minacciato dall'ombra angosciante del silenzio e del nulla.
Si può ora andare alle pagine "d'occasione", ma nondimeno pervase da una sincera commozione, del discorso Per la morte di un poeta. Chi abbia dimestichezza con l'opera dannunziana sa bene quale profondo sgomento, e quali dolorose riflessioni, la morte di un poeta sapesse suscitare nell’autore delle Laudi, dalle pagine finali del Fuoco alla Contemplazione della morte. "Egli è morto. (...) Il nodo ritmico, ch'egli portava nel centro dell'anima, è ormai sciolto per sempre. S'egli avesse potuto scioglierlo mentre viveva travedendo fuggevoli forme di nuove potenze e traudendo vaghe parole di speranze nuove, oggi tutto il mondo piangerebbe un altissimo poeta". Non si è finora notato, forse a causa della scarsa notorietà dello scritto, che al centro di queste righe sta un chiaro ed illuminante intertesto mallarmeano. "Toute âme est un noeud rhytmique", scrive il poeta di Hérodiade in La Musique et les Lettres, all'atto di dare quella che era forse, in assoluto, la prima lucida ed autocosciente definizione teorica del concetto di "verso libero", inteso come "modulation individuelle". Un passo, quello mallarmeano, che D'Annunzio doveva avere attentamente letto e meditato, trovandovi rispecchiati non pochi dei fondamenti della propria poetica: poche righe prima si leggeva che, da quando si scrive, "le vers est tout". Ma in Nencioni D'Annunzio trovava la stessa melanconica sterilità che avrebbe poi attribuito al Glauro-Conti del Fuoco, capace di "gioire della bellezza ma non di crearla". La morte, e non la vita, aveva sciolto e disperso gli aneliti e le potenzialità creative dell'amico. Vengono in mente i versi del Gombo: "Poi che non val la possa / della Vita a comprendere tanta / bellezza (...) / ecco la Morte, e l'Arte / che è la sua sorella eternale: / (...) quella che anco rapisce / la Vita e la toglie per sempre / all'inganno del Tempo / e nuda l'inalza tra l'Ombra / e la Luce, e le dona / col ritmo il novello respiro: / ecco la Morte e l'Arte / apparsemi nel cerchio fatale". La "volontà di dire" che D'Annunzio aveva precedentemente evocato nella sua commemorazione di Nencioni la "volontà di dire", strenua ed autocosciente determinazione al poetare, che dalla Vita nuova dantesca, attraverso la Sera fiesolana, si ritroverà poi nel Libro segreto, "intera volontà d'invenzione e di espressione", ma anche "volontà di dire" e "volontà di esprimere" che "si smarrisce talvolta nelle convulsioni di un supplizio senza nome" è qui annullata, ma insieme, in qualche modo, paradossalmente appagata, con la morte e nella morte. La parola simbolista, che si libra alle soglie del silenzio e del vuoto dell'"échec", del "désastre obscur", dell'"impuissance" -, resta ora imprigionata nel cono d'ombra dell'indicibile e del non detto, stretta, come il Cigno di Mallarmé‚ nel "transparent glacier des vols qui n'ont pas fui".
VI - CRITICA SIMBOLICA E COLLABORAZIONE ALLA POESIA
1. “Il critico è la coscienza dell’artista. All’artista (...) il critico parla spiegandogli il suo mistero. Il critico, nel render chiara la coscienza dell’artista, prepara l’opera dell’avvenire. Accanto all’artista egli non è solamente un comentatore, ma, in maniera indiretta, un collaboratore. (...) L’artista offre alla umanità assetata il simbolo consolatore, l’imagine d’una idea di verità e di bellezza, una speranza di liberazione e un istante di pace. Il critico illumina quel simbolo, dinanzi alla attività dell’intelletto curioso e ansioso, mostra a che tenda la potenza del genio in rapporto alla volontà della natura. Egli è la voce e la parola del mistero” (41).
Non credo si possano sottovalutare gli elementi che questo passo del Giorgione di Angelo Conti può offrire. In queste righe vengono enunciati, pur se ancora con qualche lieve pàtina di misticismo neoromantico, i presupposti teorici - purtroppo non ulteriormente articolati e sviluppati - tanto della funzione chiarificatrice che il critico adempie di fronte all’oscurità e all’aleatorietà del simbolo, quanto del rapporto di complementarità e reciproca integrazione che lo lega all’artista. Egli deve mostrare, chiarificare la natura e le finalità dell’opera del genio “davanti all’ intelletto curioso e ansioso”; e se consideriamo l’effettiva, e già ampiamente documentata e indagata, attività di collaborazione e di guida che Conti svolse, negli ultimi anni del secolo, seguendo e fiancheggiando il percorso creativo di D’Annunzio tra Il Piacere e Il Fuoco (42), saremo, forse, indotti a ritoccare, se non proprio a ribaltare, certe ricostruzioni della poetica dannunziana che parlano di una “simbolica” contraddistinta dall’”assenza d’ogni ansia intellettuale”... Nel Fuoco, rievocando o immaginando un colloquio con Daniele Glàuro - figura dietro cui si cela, com’è noto, lo stesso Conti - incentrato sull’ambizioso disegno del “Teatro d’Apollo” da edificare sul Gianicolo, l’autore parlerà proprio dell’” ansietà”, dello “scontento”, dell’irrisolta tensione intellettuale propria di chi vorrebbe “tutto abbracciare e tutto esprimere”, di chi insegue, vanamente, una “parola” pura ed assoluta, capace di riassumere in sé “tutto quel che trema piange spera anela delira nell’immensità della vita”. Il secolare topos dell’ineffabile e dell’inesprimibile, nella sua esasperata e allucinata variante simbolista, sembra trovare asilo, paradossalmente, anche e proprio nelle pagine di quello che viene solitamente - e, per molti aspetti, non del tutto a torto - visto come un logorroico ed egolatrico narcisista della parola. E’ questo, forse, il D’Annunzio più “moderno” e più “europeo”, il D’Annunzio occasionalmente, e per brevi tratti, non del tutto immune da quell’angosciosa impuissance che spezza il sottile confine che divide il narcisismo dalla nevrosi - dal “tormento” che Daniele riesce, con la sua sensibilità femminea e partecipe, a “divinare” nello “spirito fraterno” dell’amico.
Quest’ansia intellettuale - inevitabile rovescio della “felicità intellettuale” pure celebrata nel Fuoco - si ritroverà nel Libro segreto, amplificata dalla scaltra, e innegabilmente “commerciale”, finzione della morte imminente. “Ora che dopo cinquanta libri ho appreso come debba esser fatto il libro, ora non ho se non il vespro di domani per esprimermi intiero, (...) e per illudermi d’esser lieto”. L’illusione, tutta letteraria, della felicità, si lega qui a qualcosa che non può non far pensare, in qualche misura, al Livre mallarmeano; certo, mentre quest’ultimo è quasi ipostatizzato quale inarrivabile e inattingibile principio metafisico, il “libro” di D’Annunzio è invece, in una sfera più materiale e immanente, il prodotto di un consumato mestiere, il frutto più maturo del raffinato ed elitario apprendistato dello scrittore che ha alle spalle “cinquanta libri”.
2. Bisogna sùbito precisare che i teorici dell’estetismo italiano non svilupparono - come del resto, a ben vedere, nemmeno un Baudelaire o un Mallarmé - una vera e propria, organica ed articolata, teoria del simbolo. Sono state messe giustamente ed impietosamente in luce le approssimazioni, le oscillazioni, le incertezze attraverso cui si snoda, o tenta di farlo, la definizione contiana dei concetti di simbolo e di stile. Concetti in lui tanto prossimi da venire a coincidere: “lo stile è il simbolo perfetto, è la materia domata, è il segno della vittoria del genio” - e si ricade, poi, nell’equivoco idealista e trascendentalista dello stile come “nota universale ed eterna dell’arte”.
Borgese dedicherà proprio a Conti - sporadico collaboratore, nel primo dopoguerra, del Corriere della sera - L’autunno di Costantinopoli, e negli scritti riuniti in Poetica dell’Unità inviterà gli studiosi a “riprendere in esame l’estetica di Angelo Conti”, per poi attribuire, forse in modo un po’ eccessivo, proprio al suo studio giorgionesco il merito di aver “batt uto in breccia tutto il metodo storico degli eruditi” (43). Ebbene, non mi risulta che si sia finora notato come l’autore di Rubé abbia mutuato, con ogni probabilità, proprio dal nostro autore l’identificazione tra simbolo e stile. L’arte, per il giovane Borgese, si manifesta e si realizza attraverso “infiniti sforzi”: l’”imagine o metafora”, la “forma decorativa” e, ciò che qui più mi interessa, “il ritmo”, definito quale “legge universale imposta dalla contingenza”. Questi “sforzi”, progressivi e solidali - che possono vagamente ricordare l’ Anders-Streben dei romantici tedeschi, riecheggiato da Pater attraverso una probabile mediazione schopenhaueriana -, “tutti si raggruppano nella determinazione di simbolo o stile”. Il saggio in cui compaiono queste enunciazioni, Personalità e stile, del 1908 - che palesa, tra l’altro, il precocissimo anticrocianesimo dell’autore, che del resto assumerà, nel noto studio dell’anno successivo, anche posizioni antidannunziane -, si smarrisce poi in un macchinoso disegno metastorico, di stampo tra vichiano ed hegeliano: sempre “si ripeterà l’eterno ciclo: prima arcaici, poi classici, poi romantici o decadenti”... Lo stile diviene allora non “la caratteristica e l’originalità dell’artista”, ma “lo sforzo di creare fantasmi che tendano verso l’universale e di esprimerli con una forma non limitata dalle contingenze”. “Lo stile è l’ascesi dell’artista; (...) esso è (...) un momento nel quale il fatto rende omaggio all’idea”. Un disegno metastorico che verrà ripreso e ampliato quasi vent’anni dopo, nel più noto studio Figurazione e trasfigurazione: là Borgese argomenterà ancora in termini di “simbolo, ritmo, metafora”, ma individuerà il fine dell’arte in un’hegeliana, se non desanctisiana, “sintesi di reale e ideale”, “conseguita” però “non (...) per operazione dialettica, ma per somiglianza allusiva e simbolica”. L’arte diviene “metafisica simbolica, mitica e ritmica”, “attuazione simbolica dell’assoluto”; e la storicità dell’arte è chiarita attraverso i concetto di simbolo, nel quale, attraverso il poeta, una certa età storica condensa il senso del suo “spirito” e dei suoi ideali.
VII - UNA MISTICA DELLO STILE
1. Torniamo al Giorgione. Conti parla dapprima, un po’ vagamente, dell’”atmosfera misteriosa del simbolo”, di un’universale, romantica, numinosa simbolicità dell’estetico come della stessa realtà naturale; successivamente, al simbolo, assimilato e identificato con lo stile, viene assegnata la funzione di “redimere” o sublimare la natura attraverso l’idealizzazione della rappresentazione artistica, e si afferma che l’”idea artistica” passa, dannunzianamente, “dallo stato di sentimento allo stato di espressione, cioè di simbolo, unicamente per virtù della forma”; proposizioni, queste, che possono anche far pensare ad una qualche assimilazione del surnaturalisme baudelairiano, (44), assimilazione che però, com’è ovvio, non conduce, almeno direttamente, agli approdi decisamente prenovecenteschi di certi testi baudelairiani.
Successivamente Conti “abbassa” il simbolo “nell’interesse dell’arte pura”, muovendo dalla nota affermazione pateriana, contenuta proprio nel saggio The School of Giorgione, secondo cui “tutte le arti aspirano costantemente alla condizione della musica”; ed emerge, qui, anche l’anima schopenhaueriana di Conti, certo memore delle pagine in cui il filosofo tedesco aveva definito la musica come “metafisica in suoni”, “lingua originale più pura della stessa ragione”; e torna a manifestarsi anche uno dei topoi dell’estetica romantica: “la musica è il linguaggio ritmico, più profondo della parola, col quale natura si confessa” - ma si può, forse, pensare anche al respiro e alla pregnanza che la nozione di “ritmo”, tra le Vergini e il Fuoco, veniva in quegli anni assumendo nella riflessione metaletteraria e nella poetica, soprattutto teatrale, di D’Annunzio. Mallarmé avrebbe scritto, di lì a poco, che “ogni anima è un nodo ritmico”... Pienamente “europea”, e di vaga risonanza simbolista, sembrerebbe anche l’idea di un’”arte pura”, assimilabile alla musica, “romanza senza parole” o “prosa platonica” - fatta di parole assunte quali assoluti, eidola, pure essenze... - “e sinfonica”, quasi forma immateriale di puro suono.
“La musica (...), come le altre arti”, tende “a liberarsi dal simbolo”, inteso ora come il greve ed opprimente involucro, come la scorza o la pàtina esteriore che vela ed occulta l’abbagliante epifanìa del noùmeno. Secondo la definizione datane da Thomas Carlyle nel Sartor resartus - opera che, accanto al trascendentalismo di Thoreau, mediò la ricezione, nell’àmbito dell’estetismo inglese e italiano, delle dottrine dell’idealismo tedesco -, il simbolo è, insieme, “occultamento e rivelazione”; occultamento, nell’accezione contiana, in quanto involucro materiale, veste esteriore, forma prigioniera del tempo e dello spazio; rivelazione, perché è nello stile e nel simbolo - nozioni che in Conti vengono, come si è visto, a sovrapporsi e a coincidere - che la natura, attraverso l’imprescindibile intercessione delle materiali e tecniche virtù dell’ artifex, manifesta all’uomo la sua vera essenza. “Una scena della natura non ha stile finché non diventa rappresentazione pittorica o descrizione poetica; e non c’è alba o tramonto che abbiano un significato, se l’anima che li contempla non veda in essi specchiato un suo sentimento. (...) Trovare il quadro nella scena naturale, significa dare ad essa lo stile”. Ancora, dunque, la realtà come parola implicita o, paradossalmente, “poesia virtuale”; ed è appena il caso di osservare che si incontra, qui, un’altra delle infinite varianti dell’icona della riflessione.
Il paesaggio è “un simbolo, un emblema, un segno”, per riprendere una formulazione del Piacere dannunziano in cui il lessico “semiotico” sembra quasi tecnicizzarsi. L’artefice proietta la “concezion tutta soggettiva del suo intelletto” sul paesaggio, pronto, a sua volta, ad accogliere l’impronta o l’arabesco che l’intelletto dell’artista vorrà tracciarvi; e certo la similitudine poesca tra quella intricata foresta o costellazione di segni che è il testo poetico e il dipinto apparentemente indecifrabile di cui il “rapido sguardo” dell’intenditore riesce invece a cogliere la ragione e l’interno principio strutturale, avrebbe trovato Andrea Sperelli pienamente concorde. Nella convalescenza a villa Schifanoia, l’esteta ritrova, o crede di ritrovare, un’effimera, infantile purezza: “sensazioni obliate della puerizia”, “impression di freschezza”... Ma è una purezza e un’innocenza che prelude ad un esercizio poetico che, lo si è visto, si rivela tutto formale e artificioso; il simbolo, l’emblema, il segno sono assunti a materia e ad oggetto di un’elaborazione formale che fa della natura un’imitazione dell’arte. La convalescenza a villa Schifanoia - che peraltro ha alle spalle, come si è già da tempo segnalato, l’ingombrante intertesto dei Supplementi schopenhaueriani - non sembra troppo diversa da quella del baudelairiano pittore della vita moderna, “perpetuo convalescente” che da un lato rabbrividisce alle “scosse nervose” che rinnovano in lui le fresche sensazioni dell’infanzia, dall’altro è dotato, “per esprimersi”, degli “organi virili” dell’autocoscienza artistica, e assillato dall’”esprit analytique”, dall’irrisolto e dubbioso “sforzo dell’analisi” che si tradurrà, in D’Annunzio, nel “doloroso artifizio dello stile”...
Nell’orizzonte teorico, qui soltanto latente, dell’ ut pictura poësis, “trovare il quadro nella scena naturale” equivale ad estrarne la poesia che vi è implicita. Nella pittura veneziana, “il paesaggio ha una importanza quasi uguale a quella del Coro nella tragedia greca”. Un parallelo, certo, un po’ azzardato; ma è interessante notare che esso viene istituito sulla base non di ardite e mirabolanti elucubrazioni metastoriche, bensì di una - peraltro non facilmente dimostrabile - “identità di stile”. Il “poema della Natura”, filiazione di un Assoluto inteso come “poeta infinito”, non è più, idealisticamente, trascendenza alienata nella materia, ma natura asservita all’artificio.
Nella Grammaire des arts du dessin di Charles Blanc - testo oggi dimenticato, ma che passava per le mani degli esteti italiani - si leggeva che, “ayant cessé d’avoir un langage symbolique, l’artiste s’approche de la nature pour la regarder et la dessiner”; tuttavia, la vichiana e schilleriana “imitation naïve des choses” non può, da sola, bastare alla grande arte. Attraverso l’arte, “l’homme s’ajoute à la nature, homo additus naturae”. Questa definizione - che lo stesso Blanc mutuava, a sua volta, da Bacone, e che verrà ripresa testualmente da Conti nella Beata riva - diverrà, elevata per così dire al quadrato, quella, più nota, del critico come artifex additus artifici, contenuta nelle dannunziane Note su Giorgione e la critica.
Ancora in Blanc si trovava la definizione, di vaga risonanza schellinghiana, della natura come “poème obscur” di cui l’artista ha il compito di “découvrir le sens voilé, le sens profond, pour le traduire dans sa langue, ou plutôt pour lui prêter un langage, car la nature est silencieuse”. Nemmeno un compassato accademico, preoccupato di fondare la sua estetica sugli assoluti platonici del Vero, del Bello e del Bene, poteva restare del tutto insensibile al fascino del ricorrente motivo baudelairiano della reciproca, sinestetica traduzione dei diversi linguaggi artistici. Lo strumento di questo trascendimento - di segno, nel Blanc, decisamente idealizzante - della realtà materiale attraverso l’arte, è, come poi sarà in Conti, lo stile: “le style est l’empreinte de la pensée humaine sur la nature” (45).
2. Le contraddizioni insite nella definizione contiana del simbolo si possono in parte giustificare anche considerando che il concetto di “simbolo” è, per la sua stessa natura, per il suo stesso statuto intrinsecamente ed ironicamente polisemico, soggetto ad ambiguità, oscillazioni, equivoci. Tra le tante, indecise valenze che il simbolo assume nella poetica contiana, si insinuano anche venature di matrice mistica e sacramentale; del resto, come aveva detto Wilde, proprio il mistico “è sempre un antinomista”, non si cura delle contraddizioni e dei contrasti, del resto tutti ricondotti al dominio del linguaggio, tra spirito e corpo, idea e materia, evasione idealizzante e concreto, strenuo, tecnico lavorìo sul ruvido corpo della materia verbale...
Il critico, collaborando con l’artista, lo aiuta nella sua missione di dare all’”umanità assetata” il “simbolo consolatore”, un’”imagine” in cui vengono, platonicamente, ad assommarsi “verità” e “bellezza”, e che può dare “liberazione” e “pace”. Già il Blanc aveva attribuito alla “Beauté” la facoltà di condurre per mano l’uomo “auprès de sa soeur austère, chaste et nue... la Vérité” (46). Non è difficile scorgere, in queste espressioni, motivi ricorrenti del linguaggio mistico ed evangelico; e può essere interessante notare che l’idea - peraltro archetipica, e comunque costitutiva dell’esperienza mistica - della “sete” intesa come simbolo di un vitale, irrefrenabile anelito spirituale o conoscitivo, si ritroverà più volte nel Notturno dannunziano: una “simbologia del corpo-parola”, una “costellazione semantica (...) della sete come aspirazione all’ unio mystica”, che dalla mistica medievale arriva al Nietzsche dello Zarathustra (47)... Un simbolo che, passando attraverso l’icona del “corpo-parola” - l’”ebrietà”, la già rimbaudiana ivresse del “corps merveilleux”, “che della mia carne e del mio sangue faceva il verbo”-, si concreta, materialmente, nello stile, fatto di forma, di linee, superfici, colori, tutti, a loro volta, parola implicita, tutti pronti a ridivenire Parola, quasi per una sorta di ritorno all’Uno. Il “dionisiaco” di Conti - “innocenza del dannunzianesimo” secondo la definizione di Borgese - si precisa, peraltro, come quello che è stato definito un “dionisiaco neoplatonico, paradossalmente senza corpo”, in cui la “fisicità rapace della parola dannunziana” si rastrema e si stempera in “sillabe lievi ai margini dell’assenza” (48). Alle parole si sostituiscono ancor più rarefatti ed impalpabili “simboli di parole”, come si legge nell’ Introduzione ad uno studio su Francesco Petrarca. La mallarmeana indistinzione tra realtà e segno, tra oggetto e rappresentazione poetico-critica, sfocia in una perenne oscillazione tra corporalità della scrittura e “pura”, “ingenua” rarefazione, depurazione, “redenzione” della corporeità; un’oscillazione, questa, che finisce talvolta per piegare, certo nel caso di Conti più che in quello di D’Annunzio, verso la seconda ipotesi.
Nell’idea del “simbolo consolatore” che placa la sete dell’umanità, sembra di poter scorgere anche un qualche vago influsso della concezione foscoliana e neoclassica della Bellezza rasserenatrice e consolatrice; e il magistero winckelmanniano arrivava agli esteti italiani attraverso la mediazione - di segno decisamente estetizzante - del saggio pateriano incluso in The Italian Renaissance, in cui il teorico del Neoclassicismo veniva visto come una sorta di parnassiano precursore della difesa della “pura bellezza”, intento a tener desta la “pura fiamma gemmea” di cui l’esteta doveva perennemente ardere. Questo nulla toglie alla vena di misticismo innegabilmente sottesa alla definizione di Conti. “L’arte, oggi perduta di vista dinanzi alla riproduzione fotografica delle cose” - e l’allusione baudelairiana è qui lampante, con, in più, la chiara implicazione antinaturalista ed antipositivista -, “riapparirà nel mondo, per placare l’assetata anima umana. I rari artisti nostri contemporanei (...) già annunziano nelle loro opere il ritorno della grande consolatrice”. Scriverà Conti nella Beata riva, opera che segna il punto culminante della collaborazione con D’Annunzio, le cui idee sono personificate in modo lampante da uno dei due personaggi del dialogo, Gabriele: “se l’arte è una preghiera che l’uomo rivolge alla natura, la critica dev’essere una preghiera che l’uomo rivolge all’arte” (49). Il parallelismo esistente tra la relazione arte-natura e quella critica-arte, nel giovane Baudelaire - a differenza di quanto accadeva negli antecedenti primoromantici - rappresentava, come si è cercato di dimostrare, la premessa teorica tanto della rivendicazione del carattere creativo e poetico della critica quanto della fondazione e dell’articolazione del concetto di surnaturalisme. In Conti, l’elemento che media la contiguità e la circolarità di natura, arte e critica, è di indole mistica: l’idea di “preghiera”, forse contaminata con un vago influsso del concetto di “meditazione”, atarassica e contemplativa, presente nelle dottrine buddiste buddhiste, che in quel giro di anni, sulla scia di Schopenhauer, esercitavano largo influsso sulla cultura europea: una “preghiera degna di salire verso l’infinito, verso il cielo della libertà e della pace”, e comunque posta in relazione, nel contempo, con l’evangelica “buona novella”.
“La poésie” - dirà, negli anni ’20, l’abate Brémond - “aspire à rejoindre la prière”. In Conti, però, non vedrei, come vorrebbero alcuni, un anticipatore di questo irrazionalismo risoluto e apertamente misticheggiante, che suscitò le giuste reazioni di Valéry. Il “misticismo” e il “platonismo” sembrano essere, nel complesso, funzionali ad una sublimazione dell’arte attraverso lo stile, che si traduce, almeno nella variante dannunziana, in surnaturalisme, virtuosismo tecnico, artificio. “L’uomo non deve IMITARE, ma CONTINUARE la natura”. Una limpida enunciazione che, mutuata da Séailles, rimbalza, non per nulla, dalla lettera prefatoria del Trionfo della morte allo studio contiano su Giorgione.
3. Sarebbe forse opportuno dare spazio, a questo punto, ad una digressione sul dantismo pascoliano; e non sarà privo di significato il fatto che nel gennaio del 1895, a meno di un anno dall’uscita dello studio giorgionesco di Conti, il primo libro del Convito ospitasse, accanto alle dannunziane Note su Giorgione e su la Critica e alle pagine iniziali delle Vergini delle Rocce, anche i Prolegomeni della Minerva oscura. Nella nota lettera prefatoria a Gaspare Finali (50), il poeta dice di aver trovato “la chiave per entrare nel mistero di Dante”; ed è quasi superfluo sottolineare il valore e la pregnanza che la nozione di “mistero” come oggetto e meta ultima dell’atto poetico, acquisiva nella poetica dell’estetismo italiano, sebbene D’Annunzio definisse proprio la poesia pascoliana come una poesia in cui “manca il mistero”. “Io avea scoperto (...) le leggi di gravità di quest’altra Natura; e quest’altra Natura, la ragione dell’Universo Dantesco, stava per svelarsi tutta!”. Che l’opera letteraria fosse “la natura della critica”, e che il critico “riflettesse” l’opera d’arte come quest’ultima riflette la natura, era già solido fondamento teorico dell’ermeneutica del simbolismo europeo. Nulla di strano, quindi, se l’opera letteraria diveniva un’”altra natura”, oggetto di osservazione e descrizione per il critico-poeta proprio come la realtà naturale lo era per il poeta-critico. Lo sguardo del critico popola il testo, come quello del poeta la natura, di simboli da decifrare, o, schopenhauerianamente, di “velami” da sollevare e lacerare. Proprio questa moltiplicazione o accentuazione, a tratti indebita, dell’elemento simbolico - di per sé, innegabilmente, presente nel testo - diviene lo strumento di cui il critico si avvale per celebrare la sua quasi archetipica unio mystica con il Testo-Natura, che gli consente di scorgervi, per via medianica, gnostica, iniziatica, significati fino ad allora nascosti. Anche la più nota ed ardita delle ipotesi esegetiche pascoliane (“Matelda è l’arte!”...) potrebbe essere, forse, timidamente accostata ad un contesto simbolista: come Erodiade, come Violante, così Matelda personificherebbe un ideale estetico, una concezione della poesia, una poetica, anche se “intuitiva” e “mistica”; proprio le Vergini, non per nulla, sono tutte delicatamente intessute di reminiscenze dantesche, pur se immerse, è vero, nel contesto di un languido preraffaellismo che non reprime e non esclude le istanze superomistiche.
Ad ogni modo, in Pascoli “Matelda, o la poesia, è nel giardino dell’innocenza, sceglie cantando fior da fiore, ha begli occhi luminosi, purifica nei fiumi dell’oblio e della voluttà. (...) Il poeta (...) è riuscito a ritrovare la sua fanciullezza, e puro com’è, vede bene e sceglie senza alcuna fatica (...) i fiori che pare spuntino davanti ai suoi piedi”. L’esegesi e l’allegoresi irrompono, qui, nella pagina del Fanciullino, della dichiarazione di poetica, della teoresi letteraria; tuttavia, la riflessione critica non segna, qui, la “strained self-consciousness”, l’esasperato, stridente contrasto tra sogno e calcolo, tra istinto e ragione, che è proprio dei maestri della modernità; qui, al contrario, come è stato osservato, si trova - come benjaminiano “contenuto di verità” arbitrariamente “trovato” nel testo - “raffigurato in mito” quello che per il poeta “era il travaglio creativo risolto” - cosa impossibile per un Baudelaire o un Mallarmé - “in un’edenica fluidità di vena” (50bis). E a tratti sembra addirittura riaffiorare dopo secoli, nella prospettiva dell’esegesi pascoliana, la visione vichiano-romantica di Dante come “Omero della ritornata barbarie”.
4. E’ comunque qui, nel clima del Marzocco, del Convito e, più in generale, dell’estetismo italiano, che prendono forma, pur se in modo ancora aurorale, i fondamenti teorici di quella che sarà la “critica simbolica”: una critica la quale, come ha teorizzato Raimondi, “postula che un’opera letteraria contenga un senso nascosto o implicito e che tocchi alla strategia del lettore di portare alla luce questo significato profondo, immanente alla costruzione, alla forma interna di un testo”, testo che “diviene un organismo, un mistero da sondare con lo stetoscopio” (51), un “mistero” che si attesta, ontologicamente, come un’”altra natura” di cui scoprire le “leggi di gravità”, gli etimi generatori, le profonde radici, gli intimi princìpi. In questo panorama, a Pascoli spetta - quali che possano essere stati gli influssi e le eredità del suo metodo - “un rilievo europeo”, “proprio per la sua lettura ‘metaforica’” (52).
Trovano qui la loro origine, ovviamente, anche gli eccessi e gli arbitri - messi in luce da vari teorici, a partire da Croce e dai crociani - insiti in un simile metodo di lettura; un metodo in virtù del quale la critica può e deve assumere in sé, specularmente, la stessa natura e lo stesso statuto simbolico che si suppone proprio del testo analizzato; focalizzare i caratteri e l’indole dell’opera e dell’autore per poi fissarli in un simbolo, coincidente - nella poetica critica di un Conti come, poi, nell’”unità della letteratura” postulata da un Borgese - con lo stile, con l’elemento in cui si sustanziano, a un tempo, tanto l’individualità dell’autore quanto l’autonomia dell’arte. Scriverà Fubini, esaminando prerogative e pericoli della simbolicità della critica (53): “la critica ci offra non un equivalente” - Fubini fa eco alla negazione, di prammatica in àmbito crociano e postcrociano, della concezione del critico come artifex additus artifici - “ma un SIMBOLO della poesia, un simbolo che isolando e ponendo in particolare rilievo un aspetto di essa ce la lasci intravvedere nella sua totalità”. A parte l’equivoco crociano, che porta l’autore ad identificare, di fatto, il simbolo della critica con il famoso “sentimento fondamentale”, Fubini coglie, a posteriori, l’essenza della reciprocità tra statuto simbolico della poesia e statuto simbolico della critica. E la seduzione o la tentazione del creative criticism, sempre represse o rimosse ma sensibilmente presenti nei postcrociani, da Binni a Russo a Flora, non lasciano indifferente neppure Fubini: “l’opera di poesia (...) dalla critica non può essere disgiunta, essendone (...) il soggetto vivo e presente”; nella grande critica “sembra di sentir battere due cuori”. Ed è proprio una scoria crociana - la condanna del simbolo artificioso, calcolato e “voluto” - che consente al teorico di cogliere, pur se con un intento riduttivo, un aspetto essenziale della forma mentis del poeta-critico simbolista e postsimbolista: “un’immagine poetica è sol se stessa e null’altra somiglia, e quando si presenta come simbolica avvertiamo che il poeta ha oltrepassato o sta per oltrepassare la soglia della poesia e accenna a farsi critico di se stesso”. La “soglia” tra poesia e critica - come, con movimento parallelo, quella tra poesia e prosa, se è vero che la critica è, secondo la definizione mallarmeana, “genere letterario creatore da cui la prosa discende” - si fa, con il simbolismo, sempre più tenue e labile; e i due momenti si avvicinano e si intrecciano fino ad essere uniti da un legame strettissimo, e vitale per entrambi.
Ad ogni modo, tornando al Pascoli dantista, vi sono comunque buone ragioni per non farlo qui oggetto di una trattazione specifica. Egli, a differenza degli esteti marzocchiani, sembra aver sviluppato il suo concetto di critica in modo del tutto autonomo rispetto alla concezione del critico come artista, come artifex additus artifici, tipica dell’estetismo e del simbolismo europei, da Baudelaire a Mallarmé, da Pater a Wilde a D’Annunzio; al di là dell’idea, del resto già romantica e in particolare desanctisiana, dell’opera letteraria come natura della critica, non esistono, per Pascoli, gli stretti e dimostrabili legami, anche intertestuali, che connettono l’esperienza di Conti e del D’Annunzio critico, oltre che quella degli altri teorici, minori e minimi, legati all’ambiente marzocchiano, alle esplicite, militanti rivendicazioni teoriche del carattere “autonomo” e “creativo” della critica, che si sviluppano in àmbito europeo; senza che, ovviamente, questo possa rappresentare un elemento o una discriminante per il giudizio valoriale, o che si voglia, con questo, accreditare l’immagine stereotipa di un Pascoli “ingenuo” o “provinciale”. La stessa attitudine religiosa, riverente, quasi mistica, con cui Pascoli si accosta al testo dantesco cercando di illuminarne l’intima essenza, esclude che tale testo possa essere spregiudicatamente e provocatoriamente assunto quale suggestion, quale punto di partenza per l’autonoma creazione del critico; creazione, peraltro, speculare alla self-consciousness insita nello stesso atto poetico. Lo stesso intento del dantista, quello di scoprire e formulare le “leggi” che governano e regolano la “struttura profonda del poema”, fanno sì che l’atto critico non rivendichi a sé uno statuto di soggettività, un diritto all’”impressione”, al frammento, alla divagazione, o addirittura al voluto e calcolato misunderstanding, ma, al contrario, un carattere di oggettività, di rivelazione, di “svelamento”, di “scoperta” assoluta, rivoluzionaria, definitiva. Più che le arguzie, le finezze, le amabili e immaginose variazioni della “critique amusante et poétique”, nelle dense, complesse, talora oratorie pagine del Pascoli dantista sembra di trovare la solenne, pausata gestualità del rituale.
VIII - TRA WILDE E IL SIMBOLISMO. FRAMMENTI DI UN’ERMENEUTICA
1. “E perché il simbolo non può essere voluto?”. Con questo interrogativo, in un articolo del ’97 (54), il Gargàno coglieva uno degli aspetti fondamentali dello statuto semiotico che caratterizzava, in seno alla poetica del simbolismo, tanto la “relazione critica” che si poneva tra testo e lettore, quanto, specularmente, la natura calcolata e intenzionale del simbolo. L’occasione polemica era offerta dal noto volume di Luigi Capuana Gli “Ismi” contemporanei, in cui il teorico e romanziere siciliano prendeva posizione contro il simbolismo e in favore di un’”oggettività” e di un’”impersonalità” che - sia detto per inciso - finirono per restare, nel verismo, una pura utopia, realizzandosi compiutamente forse solo nei Processi verbali di De Roberto, in cui, peraltro, la scrittura narrativa cessa di essere tale, e viene a risolversi in uno scarno dialogo inframmezzato da brevi didascalie. Ad ogni modo, per quanto attiene allo specifico problema della natura “spontanea” o “voluta” del simbolo, secondo Capuana esso “non è produzione artificiale, ma cosa che risulta da sé, senza intenzioni preconcette, quando l’opera raggiunga le alte cime della vita”. Lo scrittore doveva ritrarre la “forma vitale”, la “nuova e più eccelsa Natura”, una natura che, ovviamente, non era più la Natura naturans dello spinozismo romantico, ma l’insieme di processi fisici e di leggi indotte vivisezionato dal fenomenismo positivista; una natura popolata da “simboli vivi, che ignorano la loro qualità di simboli”. E’ questo, in fondo, pur se in una diversa prospettiva, anche il carattere “oggettivo” e “positivo” del simbolismo pascoliano, che peraltro tende a “vedere nelle cose il loro sorriso e la loro lacrima”, proiettando sugli oggetti il vissuto del poeta e vedendolo riflesso in essi.
Il simbolo, dunque, per Gargàno, può essere “voluto”. “E si badi che io non lo confondo con l’allegoria”, si affretta poi a precisare l’autore, memore della nota distinzione goethiana e romantica tra il simbolo come universale “trovato”, in modo spontaneo ed immediato, nel particolare, e l’allegoria, come struttura calcolata e voluta, come particolare costruito in funzione dell’universale (55); distinzione, questa, che si sarebbe trovata, di lì a pochi anni, in Croce. Meno di un mese dopo, in un intervento dal titolo assai accattivante (Saggi di Ermeneutica. Del Simbolo) (56), Gargàno avrebbe ribadito, un po’ scolasticamente, rifacendosi esplicitamente a Thomas Carlyle oltre che a Goethe, la distinzione tra simbolo e allegoria, applicandola al Vischio pascoliano: l’immagine del vischio non è un’allegoria, ma un simbolo; esso è un ente reale, concreto, effettivamente esperito dal poeta, che si limita a “trovare” in esso l’oggettivazione di un concetto astratto e il correlato di uno stato psicologico.
“I nostri occhi” - continua Gargàno in Questioni di critica - “cadono continuamente sopra i simboli del pensiero. Dalle cerimonie della religione, a queste parole che io fermo sulla nitida carta, non è tutto simbolico ciò che ne circonda? (...) Gli uomini hanno sete di questa luce che irraggia tutto lo spirito”. Per questo - e qui si passa direttamente, con un movimento tipico dei marzocchiani, dal piano della teoresi a quello della polemica - i lettori “lasciano in disparte i romanzi di Giovanni Verga e leggono quelli di Gabriele D’Annunzio; proprio per quello che il Capuana nota a proposito del loro stile”. I “simboli della mente”, i simboli di natura intellettuale e concettuale di cui è costellata la stessa natura, sono accostati ai segni convenzionali del linguaggio - di cui, peraltro, la parola poetica può sconfessare l’arbitrarietà, creando o ricreando una lingua pura e “redenta” - e a quelli, storicizzati ed istituzionalizzati, per quanto non privi di risonanze archetipiche, del rito religioso. In questa analogia tra la simbologia rituale ed iniziatica del culto religioso e l’analoga natura simbolica della poesia, emerge uno dei non pochi debiti che le teorie estetiche degli esteti italiani contrassero con il Sartor resartus di Carlyle. Nel capitolo terzo del libro terzo (57) - anche l’allusione numerologica può non essere casuale -, il filosofo inglese sviluppava un’ampia teoria del simbolo, di carattere apertamente mistico e trascendentalista: “l’Universo non è che un vasto Simbolo di Dio”; ogni opera d’arte è, in chiave idealistico-romantica, “l’Eternità che appare attraverso il Tempo, il Divino reso visibile”. Ma proprio nella tortuosa e laboriosa Bildung del professor Teufelsdröck, protagonista dell’opera, trovava spazio, forse in modo preterintenzionale, una suggestiva enunciazione teorica della polisemicità del simbolo, e, implicitamente, della libertà e della molteplicità delle sue interpretazioni. Il Cristianesimo stesso, per Carlyle, è un grande “Simbolo di carattere affatto perenne, infinito, da doversi sempre investigare e nuovamente manifestare”. Sulla simbologia religiosa e rituale, che deve sempre essere rivissuta, interpretata, rinnovata, acquisire nuovi aspetti e nuove manifestazioni, che illuminino lati ancora oscuri della sua pur ineffabile ed imperturbabile perennità, l’estetismo italiano proietta la varietà e la molteplicità dei “simboli del pensiero” che popolano, con i loro polivalenti, cangianti, inesauribili significati, la poesia moderna.
Ricompare, nel primo articolo citato di Gargàno, anche la simbologia mistica della sete, che qui assume, per di più, un’audace sfumatura sinestetica: “gli uomini hanno sete di questa luce...”. Più che il pretestuoso riferimento ad un contesto cultuale ed iniziatico, quello che qui risalta è, piuttosto, il riferimento ad un uso “mentale” e “voluto” del simbolo, alla funzione dell’intelletto creatore che opera proiettando sulla realtà i frutti del proprio raziocinio attraverso i “simboli del pensiero”. Credo balzi agli occhi quanto sia frettoloso e riduttivo parlare semplicemente di “vago misticismo” o di “irrazionalismo fin de siècle”.
2. Ci troviamo, dunque, in presenza dei fondamenti teorici, certo non molto vasti e rigorosi, di un’ermeneutica del simbolo, di una concezione che vede, nello statuto e nella natura simbolico-allegorica della poesia moderna, il presupposto per l’esercizio di una critica “creativa” e “poetica”. Gli esteti italiani recepivano presupposti teorici del tutto inediti per l’Italia, e ancora in gestazione e in fieri, in quello stesso giro di anni, nel simbolismo europeo. E dovrebbe, forse, essere compiuto anche su di un Garoglio, un Gargàno, un Coli, o per l’Ojetti “marzocchiano”, uno studio storico-erudito simile a quelli che sono stati condotti, in anni recenti, a proposito di Vittorio Pica (57bis). Come i miei riferimenti - limitati all’arco cronologico della più stretta collaborazione tra D’Annunzio e Conti, e all’oggetto specifico della mia trattazione - lasciano, credo, intuire in modo abbastanza chiaro, ricerche di questo tipo potrebbero condurre ad interessanti acquisizioni, chiarendo anche in modo più preciso l’influsso che la poetica marzocchiana esercitò sui caratteri e sull’evoluzione dell’esperienza creativa di D’Annunzio, anche nei suoi legami con il simbolismo e l’estetismo europei.
Se si eccettuano un’intuizione assai perspicace, e purtroppo non sviluppata, presente nella vecchia monografia di Luigi Bianconi (58) sul D’Annunzio critico, un vago accostamento proposto da Luigi Stefanini (59), e alcuni interessanti spunti offerti da Zanetti nello studio già più volte citato, non mi risulta che alcuno abbia finora tentato di vedere e di inserire in un contesto europeo l’esperienza della “critica estetica” del secondo Ottocento italiano. Già Bianconi, comunque, avvertiva - facendo riferimento, in nota, sia a Baudelaire che a Wilde - che “quel teorizzare in seno all’opera d’arte era un po’ nei bisogni e nel gusto del tempo - appunto perché è un’esigenza dell’attitudine estetica dello spirito nei momenti di formazione e di crisi” (60). A parte il sottinteso schema storicistico da “epopea dello spirito”, lo studio del Bianconi si può leggere ancora con profitto. Lo studioso parla, a proposito di D’Annunzio, di “estetismo critico”, segnalando i “rapporti (...) evidentissimi e sintomatici” esistenti “fra la sua opera poetico-letteraria e quella (...) critica” (61)... Non credo sia azzardato vedere anche la teoria contiana e dannunziana del critico come artifex additus artifici in un contesto europeo, alla luce degli influssi, concomitanti ed incrociati, della baudelairiana “critique amusante et poétique” da un lato, dell’”independent criticism” propugnato dall’estetismo inglese dall’altro; dalla Francia e dall’Inghilterra, del resto, giungeva, com’è noto, anche la maggior parte delle suggestioni e dei modelli che influirono anche sul D’Annunzio poeta e romanziere.
Non si è finora sottolineato, che io sappia, l’influsso che il dialogo The Critic as Artist può avere esercitato sulla genesi della Beata riva di Conti. Nel dicembre del 1897, Ugo Ojetti - che, com’è noto, avrebbe poi dato il meglio di sé come giornalista e critico d’arte - pubblicava sul Marzocco un curioso e fino ad ora ignorato testo: Dialoghi dei vivi. Della Critica e dell’Entusiasmo (62). Il dialogo - il cui titolo ricalca e rovescia quello dei Dialoghi dei morti di Luciano e di Fontenelle - è un’evidente, e piuttosto goffa, imitazione del dialogo di Wilde. Vi sono riecheggiate, decontestualizzate e banalizzate, le stesse enunciazioni di cui, nel secondo capitolo, ho cercato di ricostruire il significato, la genesi e l’elaborazione. “La critica è un’interpretazione dell’opera d’arte, così come l’opera d’arte è una interpretazione della vita. L’arte è la critica della vita”; “oggi a un artista si addice la vita contemplativa: non agire, ma essere. L’artista guarderà gli altri agire. Così fanno gli dèi”; e via di questo passo, non senza un richiamo a quell’”entusiasmo” che la lettera flaubertiana prima citata annoverava tra le irrinunciabili prerogative del critico artista: “il rimedio” per i mali della critica “è e sarà l’Entusiasmo”.
Il dialogo, in sé piuttosto mediocre, è però altamente indicativo della ricezione, in ambiente marzocchiano, delle teorie sviluppate nell’estetismo inglese. La dannunziana intervista ad Ojetti è del ’95; e si può pensare che in quel giro di anni i contatti tra il giovane scrittore e il già affermato romanziere fossero piuttosto stretti. Lo stesso Ojetti, in un articolo del ’98 (63), avrebbe còlto uno degli aspetti fondamentali del legame che unisce D’Annunzio e Wilde. L’articolo testimonia, innanzitutto, che il volume Intentions - “paradossale e nervoso volume”, secondo l’efficacissima definizione di Ojetti -, uscito nel ’91, e non ancora tradotto né in francese né in italiano, passava per le mani degli esteti marzocchiani nella prima edizione. “In quel che Wilde chiama historical sense è a notarsi una confusione fra il senso etico e il senso estetico (rammentate la malattia morale di Andrea Sperelli nel Piacere ?)”. Qui la critica di Ojetti opera, bisogna ammetterlo, quella che è davvero “una sintesi geniale”, che coglie d’un balzo - pur se da un’angolatura ben specifica - l’essenza di una poetica e, insieme, di una visione della tradizione e della storia. L’idea della letteratura come “criticism of life”, riecheggiata in modo così fiacco e scialbo nel dialogo dell’anno precedente, veniva ora còlta in una luce più autentica. Le nefandezze e le crudeltà di Nerone, scriveva Wilde in Pen, pencil and poison, il saggio citato da Ojetti - che non poteva leggere l’ancora inedita dissertazione The rise of historical criticism -, sono ormai, agli occhi dell’artista così come dello storico e del critico, moralmente indifferenti o “neutre”; le figure della storia non sono, ormai, per lo sguardo moderno, che “maschere”, personae, potenziali oggetti di rievocazione o di affabulazione letteraria. La Storia è totalmente raccolta e compressa nell’intemporale, assoluta simultaneità dell’estetico, e da quest’ultimo proiettata in una folle, letale corsa verso il nuovo e il moderno; un moderno di cui la storia certamente si reimpossesserà, e che deve a sua volta, se non vuole dissolversi, rendersi “degno di divenire antichità”, rivendicando un suo diritto alla museificazione. Nella personalità di Sperelli, come nello “storicismo” wildiano, il “senso estetico” sostituisce il “senso morale”; la forma e lo stile soppiantano ogni sistema etico, o divengono, esse stesse, l’etica a suo modo “stoica” ed “ascetica” del dandy, che deve - forte proprio del suo senso estetico “sottilissimo e potentissimo e sempre attivo” - habere, non haberi, secondo l’antico precetto dei filosofi; un atteggiamento, del resto, del tutto “humano all’huomo”, come chioserà Sanguineti alla lettera h del suo Alfabeto apocalittico. Un senso estetico che si traduce, inutile dirlo, nell’”arte del Verbo”, nel “seme del sofisma” infuso in Andrea dal padre. “La parola è una cosa profonda, in cui per l’uomo d’intelletto son nascoste inesauribili ricchezze. I Greci, artefici della parola, sono infatti i più squisiti goditori dell’antichità. I sofisti fioriscono in maggior numero al secolo di Pericle, al secolo gaudioso”. L’agile, spregiudicato, ma sempre vigile historical sense di D’Annunzio non si peritava di contaminare la Sofistica con la filosofia stoica. E lo stoicismo del dandy merita di essere preso sul serio molto più di quanto non si creda. Ha notato Raimondi a proposito di Baudelaire, ma mettendo in luce aspetti che, mutatis mutandis, possono essere ravvisati anche in D’Annunzio: “poiché (...) non si può essere dandy senza averne coscienza” - l’”autocoscienza critica” del Piacere -, “il dandysmo implica la gestione di un ruolo e di una maschera”, di un prosopon, di una persona, “come insegnavano appunto gli Stoici”. Ora, tuttavia, “al posto della magnanimità e dell’armonia con il cosmo si è insediata la certezza del declassamento e della degradazione” (64), delle “peggiori depravazioni” a cui l’esteta può abbandonarsi, protetto tuttavia e rassicurato da quell’”equilibrio” e da quella “specie di ordine” che rappresentano, “per gli uomini di intelletto”, “l’ asse del loro essere interiore, intorno al quale tutte le loro passioni gravitano”; e piace pensare che D’Annunzio, qui, avesse in mente l’immagine della figura umana inscritta in una circonferenza da Leonardo, da quel Leonardo che tante volte sarebbe poi stato evocato nei romanzi della maturità. Ma viene in mente anche Poe, che aveva parlato, come si è visto nel primo capitolo, del peculiare senso morale che caratterizzava il genus irritabile dei poeti, e che li spingeva a stigmatizzare - sul piano estetico, ancor prima e più che etico - ogni difformity ed ogni disproportion. Il senso estetico veniva identificato con il senso morale - o, meglio, quest’ultimo veniva sussunto e subordinato, senza mezzi termini, al primo.
Scriverà Wilde in The Critic as Artist: “there is no art when there is no style, and no style when there is no unity, and unity is of the individual”. Sembra fargli eco D’Annunzio nelle Vergini, poche righe prima di inorridire di fronte all’”onda delle basse cupidigie” e all’”arroganza delle plebi”: a Claudio Cantelmo l’”Antico”, cioè Platone, trasmise, tra le altre cose, “la sua fede nel demònico: il quale non era se non la potenza misteriosamente significativa dello Stile non violabile da alcuno e neppur da lui medesimo nella sua persona mai”. “Dalle radici stesse della mia sostanza”, “là dove dorme l’anima indistruttibile degli avi” - simile, forse, all’”Anima universale” dell’inverosimile panteismo evoluzionistico di Wilde -, “sorgevano all’improvviso getti di energia”, dell’ Energheia che si ritroverà poi in Maia, sotto forma di universale ed incoercibile forza vindice e liberatrice.
Dal platonismo, o neoplatonismo, l’estetismo italiano non mutuava solo gli eidola, le immagini astratte, le figurazioni ideali, le inarrivabili mete di un itinerarium mentis teso al ritorno all’Uno, ma anche l’ambigua, inquietante presenza del daimon, del theion ti kai daimonion, della persona, della maschera, dell’individualità creatrice, che la forza liberatrice della Bellezza doveva, forte anche del richiamo all’Antico, sciogliere dai vincoli del moralismo e della volgarità. Il “demonismo” della critica, dopo Poe, Baudelaire, Wilde, arrivava fino a D’Annunzio.
3. Della Critica e dell’Entusiasmo, recita il titolo del dialogo di Ojetti; e può non essere casuale che D’Annunzio, riprendendo, come Ragionamento da premettere alla Beata riva di Conti, larga parte delle Note su Giorgione e su la Critica, ne modificasse il titolo in “Dell’Arte, della Critica e del Fervore”. Ad ogni modo, al di là del diretto ed evidente influsso platonico, mediato dal “platonismo antifilologico” di Francesco Acri, non escluderei che sulla concezione di un testo dialogico come quello contiano, incentrato, in larga parte, proprio sulla difesa della critica “creativa” e “poetica”, l’antecedente wildiano possa avere avuto un qualche influsso.
“La Critica” - si legge nel Critico come Artista - “procede sempre, e il critico sempre progredisce”. Per questo “il metodo del dramma gli appartiene come quello dell’epos”. L’inesauribile libertà e creatività del critico si traduce nella possibilità di giostrare tra tutti i generi letterari; e nelle Note su Giorgione D’Annunzio sarà impegnato proprio a definire, pur se in modo non molto articolato, la natura, i limiti e le prerogative di quel vero e proprio genere letterario che è, nell’estetismo italiano, lo studio, e a difendere, in chiave antidesanctisiana, il suo ideale del libro di critica come “ottimo libro di prosa”. Il critico può scegliere, indifferentemente, la forma narrativa, come il Pater di alcuni degli Imaginary Portraits, o il dialogo. E a questo punto Wilde intesse, in chiave squisitamente metaletteraria, un elogio della forma dialogica, “that wonderful literary form which (...) the creative critics of the world” - fra cui Wilde arriva ad annoverare, in modo un po’ ardito ed incoerente, Platone, Luciano e Giordano Bruno - “have always employed, can never lose for the thinker its attraction as a mode of expression”. Attraverso la forma dialogica, l’autore può mostrare tutti i molteplici risvolti del pensiero, “all the richness and reality of effect” - forse qualcosa di prossimo al poesco “effect or impression”? - “that comes from those side issues that are suddenly suggested by the central idea in its progress”; e può mettere in luce anche “those felicitous after-thoughts that give a fuller completeness to the central scheme”, pur conservando “something of the delicate charm of chance” (65). Il “delicato incanto della casualità”: non poteva essere definita in modo più efficace la natura della scrittura dialogica, sostanziata di una programmata aleatorietà, di un perpetuo, calcolato imprevisto, di un “ragionato disordine” che si dilata e si ramifica lungo le tortuose nervature del tessuto dialogico, gli infiniti cerchi concentrici in cui si apre e si sviluppa l’iniziale nucleo di pensiero.
Non è da escludere che questa definizione del dialogo possa avere esercitato una qualche suggestione sul Conti della Beata riva.
“Una dimostrazione logica (...) della intuizione trascendentale platonica e kantiana” - ed è evidente che, qui, Conti vuole cercare in Platone quello che è impossibile trovarvi - “non è assolutamente possibile”. Trovandosi di fronte ad una aporia simile a quella tra logos e mythos che si era posta a Protagora all’inizio del famoso dialogo platonico, Conti opta, nell’àmbito della grande varietà di forme espressive che si offrono al critico, per quella dialogica. “Esporrò in forma di dialogo tra Ariele e Gabriele le linee fondamentali della teoria maravigliosa, immaginando che ad Ariele, seguace di Platone, anzi (...) Platone platonior” - e di un Conti “dialogante Platone platonior”, impegnato in dotte disquisizioni sui bronzi greci, parlerà anche uno “studio” del Venturiero senza ventura -, “talora si opponga Gabriele con alcune considerazioni di carattere scettico e sofistico, alla maniera di Callicle e Gorgia nei dialoghi socratici, ma col ragionamento e con le imagini talmente agevolando la ricerca del vero, che questo infine apparisca raggiunto per l’opera concorde dei due interlocutori” (66). Anche Wilde parlava della possibilità, per il critico dialogista, di “inventare un antagonista immaginario”, traendolo in inganno “by some absurdly sophistical argument”; e la mente sarebbe indotta a correre all’elogio del sofisma e dell’arte eristica presente nel Piacere... L’”innocente” e “platonico” Conti, però, opta per una forma di dialogismo per così dire maieutico, animato “dall’opera concorde dei due interlocutori”, che insieme cercano e raggiungono un’intesa in cui si riassume e si manifesta la “collaborazione” tra il critico e il poeta; laddove in Wilde, invece, vi era una netta opposizione tra Ernest, conformista e sprovveduto, e il diabolico e velenoso Gilbert, chiaro portavoce delle idee dell’autore. E’ interessante notare, comunque, che il dialogo contiano si dovrà sviluppare parimenti “col ragionamento e con le imagini”, sia, cioè, con i concetti che con le metafore, le figure, le analogie, le suggestioni musicali e immaginifiche insite nelle opere dei filosofi, considerate essenzialmente e prima di tutto come testi. Nella parte conclusiva del Ragionamento premesso alla Beata riva, parte non presente nelle Note su Giorgione, e dunque aggiunta ex novo per l’occasione, D’Annunzio rievocherà l’ammaliante estasi dei due dialoganti che, “musicalmente, (...) movendo da una delle armoniose rappresentazioni platoniche”, si “accost arono un giorno a toccar l’essenza dello stile e a definirla con impreveduta certezza”. Lo stile apparve allora come una potenza che doveva “esser vendicata”, essere preservata e tratta in salvo dal dilagare della volgarità e delle cupidigie. Si perviene, non a caso, a una delle tante definizioni del concetto di stile. E vi si arriva partendo dalle armoniai platoniche, “armonie” che alludono, sì, a certi aspetti dei contenuti speculativi del pensiero platonico - l’Armonia come musica mundana, come armonia cosmica e “accordo dei discordanti” -, ma sono anche, e in tale veste esercitano una suggestione ben più vivida, gli intimi accordi, le profonde risonanze, le melodiose corrispondenze di Platone “scrittore filosofico”, gli echi e i riverberi del suo dialogismo vasto ed arioso, che gli esteti italiani potevano assaporare e rivivere nella limpida, versicolore, antifilologica versione di Acri. D'altra parte, gli esteti potevano avere tempestivamente assimilato dal Pater delle conferenze di Plato and platonism, pubblicate nel 1893, una concezione secondo la quale in Platone era venuto a sintesi tutto un millenario sapere mitico e magico di ascendenza presocratica, "every particle of which”, esattamente come la Gioconda delle Appreciations "has already lived and died many times over". Nell'opera di Platone "nothing but the life-giving principle of cohesion is new. (...) In other words, the 'form' is new. (...) In the creation of philosophical literature, as in all other products of art, form (...) is everything, and the mere matter is nothing". Il dialogista è per questo, in quanto "rhapsodist", "artist and critic at once" - e qui Pater ha certo in mente la definizione platonica (Ione 530c) del rhapsodos come hermeneus tou poietou. L'intenzionale e sapiente misunderstanding pateriano ripeteva, due anni dopo The Critic as Artist, e spostando i termini della questione nel dominio dell'ermeneutica filosofica, la specularità e la sovrapposizione tra la concezione, tipica dell'estetismo, secondo la quale "la forma è tutto" e la visione della critica come unità di interpretazione e creazione. Il Platone degli esteti italiani era, in buona sostanza, quello di Pater (66bis).
Stando ad una tarda e un po’ fastidiosamente ironica nota di Croce, Conti “leggeva pochissimo”, era del tutto alieno dalla speculazione filosofica, e non traeva dalle sue letture che qualche spunto, qualche aerea suggestione, qualche immagine da sviluppare ed amplificare, per via metaforica ed analogica. In fondo, anche quest’”uso” del (pre)testo filosofico come punto di partenza per un’autonoma ed immaginosa costruzione dell’esegeta artista, poteva essere un “metodo” - o un antimetodo.
Non è da escludere che proprio questa possa essere la chiave di lettura della “falsificazione” e del travisamento, o, se si vuole, della banalizzazione, a cui, come si è da tempo dimostrato, D’Annunzio sottopone le fonti del suo pensiero estetico. In una lettera a Vincenzo Morello, D’Annunzio scrive che la filosofia di Nietzsche “non vale affatto per la novità ma soltanto per le forme liriche ond’è rivestita dal poeta frenetico” (67); e basta leggere le Vergini delle Rocce o Il Fuoco per rendersi conto di quanto queste “forme liriche”, presenti nella scrittura filosofica, si fossero insinuate, come espressione ancor prima che come pensiero, in quella romanzesca. Il poeta era, per il Nietzsche dello Zarathustra, “solutore di enigmi”, “redentore della casualità”, uomo capace di “ricompo rre in uno ciò che è frammento ed enigma ed orrida casualità” (68). Era forse per questa via che la “forma lirica”, lo stile, il Verso, il numero, potevano acquisire o recuperare, pure in un feticistico, parnassiano culto della bravura e dell’artificio, un valore teoretico e una dignità intellettuale. La stessa ricorrente icona della danza, della musica, del ritmo, che attraversa e pervade tutto lo scritto nietscheano, poteva placare, forse illusoriamente, l’anelito alla rimozione, alla ricomposizione o alla “redenzione” del caso e del caos, dell’indistinto, dell’informe, attraverso quel ciclico e scandito succedersi di pulsazioni e di battiti - quasi respiro, ritmo vitale, armoniosa epifania del corporeo - che è proprio tanto della musica quanto della poesia, e che quest’ultima cerca di mimare proprio con la lucida, demistificata alchimia del verbo e del verso. “Incorporata, come avrebbe detto il Nietzsche della Nascita della tragedia, nell’involucro vitreo del soggetto, nel simulacro del desiderio, la funzione simbolica si annulla nel feticcio musicale dello stile, nella oggettività instabile del segno; - al limite del silenzio vivente che misura lo spazio discontinuo e spettrale del testo” (69).
Non si vuole, con tutto questo, fare di Conti e D’Annunzio una sorta di improbabili decostruzionisti ante litteram; ma è, forse, a questo aspetto che Anceschi voleva alludere quando segnalava, in un geniale spunto purtroppo non sviluppato, che l’imponente “sistema dell’analogia” costruito dagli esteti “si fece principio per la lettura dei poeti, degli artisti e perfino dei filosofi” (70).
§3764. Il probabile influsso wildiano è connesso, in modo specifico, al reciproco e speculare statuto simbolico che accomuna la critica e le arti.
Certo, la visione della pittura rinascimentale che scorgeva nelle tele significati nascosti ed oscillanti e le avvicinava, attraverso le interpretazioni più libere ed immaginose, allo spirito moderno, trovava il suo più illustre rappresentante e modello in Walter Pater. In Wilde, tuttavia, si trova enunciata con maggior chiarezza la visione in chiave simbolica di tale pittura, come necessaria premessa per il “creative criticism”. “E’ sempre l’alba per sant’Elena, come la vide il Veronese, alla finestra. Per l’immobile aria mattutina gli angeli le recano il simbolo del dolore di Dio. (...) Su quella collinetta nei pressi di Firenze, dove giacciono gli amanti di Giorgione, perenne è il solstizio meridiano...”. Qui l’eternità dell’arte e della bellezza, e la perenne, intemporale contemporaneità di tutte le sue singole e storicamente determinate manifestazioni, sono chiaramente subordinate e funzionali alla fissazione dei presupposti teorici della critica creativa. Una critica, quest’ultima, che “considera l’opera (...) come un punto di partenza per una nuova creazione”. Una critica che completa e porta a compimento il messaggio contenuto nell’opera stessa: “il significato di qualsiasi bella creazione è tanto nell’anima di colui che la contempla quanto nell’anima di colui che la modellò. Anzi, è piuttosto l’osservatore che attribuisce alla cosa bella i suoi innumerevoli significati”. Il soggetto della fruizione estetica ha dunque un ruolo attivo e una funzione fondamentale nel determinare il contenuto e il valore dell’opera; e forse non hanno esagerato coloro che hanno visto in Wilde - come, del resto, già in Poe - un remoto precursore dell’estetica della ricezione. A questo punto, la cosa bella “diviene parte essenziale delle nostre vite, e simbolo di quello per cui preghiamo, ovvero, forse, di quello per cui abbiamo pregato e che temiamo poi di ricevere” (71). La concezione, apparentemente pervasa da un superficiale ed evanescente misticismo, della critica come preghiera rivolta all’arte, era adibita, già in Wilde, a presupposto teorico della “critique voluptueuse”. Il critico era, anche sotto questo aspetto, insieme “mistico” e “antinomista”. In questa luce era visto anche l’ Anders-streben, la tensione delle arti che anelano a raggiungere la condizione della musica. “Ciò che è vero per la musica è vero per tutte le arti. La Bellezza ha tanti significati quanti stati d’animo ha l’uomo. La Bellezza è il simbolo dei simboli”. Scriverà Wilde nel De Profundis, rievocando mestamente tanto le proprie dissolutezze quanto la propria grandezza, e dando voce a quell’anelito di redenzione che nel dialogo era “esibito sotto molti pretesti”, dietro la maschera ammiccante, e insieme altéra, del dandy: “in ogni momento della nostra esistenza noi siamo quello che saremo al pari di quel che siamo stati. L’arte è un simbolo poiché un simbolo è l’uomo” (72). Esiste un’eterna ed ambigua dialettica di acronia e diacronia che caratterizza la temporalità della letteratura, e insieme della critica, e che si rispecchia, secondo la dinamica profonda che attraversa la psiche dell’uomo dell’estetismo, nel dominio dell’esperienza esistenziale, in cui convergono e si intrecciano coscienza vitale e autocoscienza letteraria. E’ nel simbolo che, per Wilde, questa condizione trova la sua più naturale espressione e il suo più limpido corrispettivo; il simbolo, che, fin nella sua dubbia, polisensa etimologia, tenta, forse invano, di unire, fondere, di far convergere e collimare i frammenti di un soggetto centrifugo, lacerato, sospeso tra lo choc della modernità e il sommesso, virile compianto sull’innocenza perduta.
In questa luce, forse, quella che qualcuno ha definito come l’”età simbolista” trova, forse, la propria essenza. Può essere interessante prendere in esame, ora, un fondamentale articolo di Conti, I poeti d’oggi in Francia (73), uscito nello stesso anno della Beata riva. L’occasione dell’articolo era offerta dall’uscita dell’antologia Van Bever-Léautaud dei poeti parnassiani e simbolisti francesi; ma lo scritto di Conti arriva poi ad abbracciare orizzonti ben più vasti. Alla base della poesia simbolista, come scrive Conti citando Henri de Régnier - poeta caro, com’è noto, anche a D’Annunzio, che lo “plagia” più volte - c’è un’interrelazione tra “idealità del mondo” e “realtà dell’idea”. Le cose, i realia, esistono soltanto come eidola, segni, emblemi, parole; un po’ quello che oggi gli strutturalisti chiamano “forclusione dei metaforizzati”: il significante che tende ad una sua autonomia, a svincolarsi dai referenti, a porre se stesso come entità assoluta ed incondizionata; il simbolo che vela e nasconde, o che quantomeno si limita a “suggerire” o a “divinare” l’oggetto simbolizzato. “Nommer un objet, c’est supprimer les trois quarts de la jouissance du poéme”.
Una scelta letteraria che si traduce, come si è già visto più volte, in un atteggiamento esistenziale, non troppo lontano dal dandysmo: “disprezzo della lotta quotidiana e della putredine di tutte le ore”; atteggiamento in cui si può forse scorgere anche una venatura antinaturalista, se Verga aveva già da tempo varato il suo ambizioso disegno di una pentapartita “fantasmagoria della lotta per la vita”... Il testo mallarmeano su cui si sofferma Conti, dopo aver solo menzionato, e per bocca di Régnier, L’Après-Midi, è Les Fenêtres, poesia non fra le maggiori, e stampata dapprima, significativamente, sul Parnasse contemporain, per poi riapparire con varianti nelle Poésies del 1899, nella redazione letta e citata da Conti. Il poeta, “disgustato dell’uomo dall’anima dura / avvolto nel benessere” - e si è sottolineato come il “disgusto” di fronte alla volgarità e alla cupidigia del mondo borghese sia tipico anche di D’Annunzio -, si aggrappa a “tous les croisées / D’où l’on tourne l’épaule à la vie”. E ricorre l’ imagery, davvero ossessiva, della riflessione, che qui sembrerebbe essere più trasfigurazione che fondazione e circoscrizione dell’io, più sdoppiamento che identificazione, più alienatio mentis che notitia sui ipsius illata: “Dans leur verre (...) / Je me mire et je me vois ange! et je meurs, et j’aime / - Que la vitre soit l’art, soit la mysticité - / A renaître”. Arte e mistica coincidono; il legame tra poesia e mistica è, una volta di più, risolto nel dominio della riflessione metapoetica; ed è appena il caso di rinviare al valore che l’allegoria del re-flectere assume in Hérodiade.
Ed è qui che Conti, “provinciale europeo come il D’Annunzio” (74), riesce ad operare una di quelle “sintesi geniali” di cui i critici marzocchiani erano, talvolta, realmente capaci, e arriva a cogliere, in poche righe, quella che è forse la vera essenza del simbolismo europeo. “L’ispirazione lirica odierna”, che accomuna D’Annunzio ai “moderni poeti di Francia”, “è (...) essenzialmente dissimile dalla romantica”, da quella, ad esempio, di un Hugo, che, quando “non racconta le antiche leggende, racconta la sua propria vita interiore, e sembra confessarsi dinanzi al tribunale di Dio”. La poesia moderna è ugualmente lontana anche “dalla antica ispirazione dei greci. Mentre questa era una intuizione che si trasformava in imagine immediatamente, la nostra è una intuizione che che si trasforma in meditazione. Dalla meditazione nasce poi l’imagine”. Intuizione, dunque, poi meditazione: che si tratti della stessa “quadruplice meditazione” dell’erma di villa Schifanoia, precario termine medio, fragile ponte tra l’Arte e la Natura? L’intuizione, per questa via, diventa infine “imagine”, cioè, nella poesia, forma, verso, espressione. Si sarebbe addirittura tentati di credere che Conti, distinguendo l’intuizione dall’immagine, e ponendo, tra l’una e l’altra, come ineludibile medium, la meditazione, voglia fin da subito sgombrare il campo da qualsiasi equivoco di “dannunziocrocianesimo”; le crociane Tesi fondamentali di un’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, prolegomeni alla più vasta e più nota Estetica del 1902, vedono la luce, quasi emblematicamente, nello stesso 1900, esattamente al crocevia tra i due secoli. E non escluderei che la dedica a Croce - peraltro respinta dallo stesso filosofo - del contiano Sul fiume del tempo, del 1907, possa celare un insospettabile controcanto ironico. Dirà Conti poco oltre: “per dare una voce al mistero” - concetto chiave, come già si è detto, nella poetica dell’estetismo -, “il verso non ha più leggi fisse ma obbedisce al ritmo, che è il respiro e il palpito del mistero”. Termini, certo, ancora un po’ generici e misticheggianti; ma questa idea di un verso che, nei simbolisti, “non ha più leggi fisse”, acquisisce un significato particolare se rapportata al contesto del dibattito teorico che in quel giro di anni vede, ancora in germe, gli albori del versoliberismo italiano.
Ad ogni modo, quello che qui più mi interessa è il rapporto, sottile e sfuggente, che nel simbolismo si pone tra espressione e ritmo, tra immagine e suono. E ci soccorre, ancora una volta, Hartman. “L’’immagine’ è il punto in cui si incontrano il ricettivo e il produttivo. La nostra risposta ideazionale all’opera d’arte tende ad analizzare se stessa in termini che favoriscono l’’immagine’” (75). Attraverso l’immagine e nell’immagine hanno luogo tanto la ricezione o la “ri-creazione” dell’opera letteraria da parte del critico artista, se non addirittura di qualunque lettore non “ingenuo”, quanto la ricezione e l’appercezione di una scena reale o di un fenomeno naturale da parte dell’artista e del poeta. La natura riflessa dall’arte è speculare all’arte riflessa dalla critica. Ma nella “fantasia mediterranea” - da D’Annunzio a Valéry, da Kavafis a Quasimodo e oltre - “l’immagine è anche una risonanza, un fenomeno musicale così come visuale”: “soundship”, oraziana “imago vocis”, “risonanza”, “riflessione”... (76). Il poeta-critico, come il fanciullo alcyonio, è condotto dal suo “passo armonioso” non solo “per tutti i campi della Terra pura”, ma anche tra le più disparate epoche storiche, rese tutte perennemente compresenti dal libero “uso” della tradizione, qui sotto forma di acrobazia versale, fascinazione sonora, sapiente alchimia di assonanze e consonanze. Nella poesia che anela alla condizione della musica, e che è sinesteticamente accomunata e fusa alle altre arti proprio da questo assiduo e ricorsivo sforzo, il poeta-critico riesce miracolosamente a fondere la “chiarezza” della sua razionalità creatrice con la calcolata e voluta “indeterminatezza” dei significanti emancipati dal senso, dei simboli vuoti, delle allegorie prosciugate e dilavate dalla morte del Cielo.
Tanto Conti quanto Hartman citano Il Fauno, parlando l’uno di “meditazione”, l’altro di “riflessione” e “risonanza”, ma volendo entrambi indicare il momento critico-riflessivo che divide l’intuizione dall’espressione - o dall’”immagine”, che in questo caso viene ad essere pressappoco lo stesso.
Ces nymphes, je les veux perpétuer.
Si clair, leur incarnat léger, qu’il voltige dans l’air...
Un attacco di solare, spaziosa musicalità, da vera e propria ecloga, più teocritea che virgiliana; forse un’estrema eco di quell’”antica ispirazione dei greci” rievocata da Conti con un filo di rimpianto, di quell’ormai irrecuperabile “intuizione” - parola chiave, questa, anche nella Beata riva - “che si trasformava in immagine immediatamente”. Una metafora di capriccioso, eufuistico manierismo subentra a turbare lo spontaneo, “ingenuo” slancio della prima ispirazione - della prima urgente, debordante volontà di canto, che ambiva a “perpétuer”, a quasi dantescamente “eternare” la sensuale epifania delle carni femminili, o a strapparle dalla precarietà del divenire e dell’esperienza grazie ad una neoclassica “Armonia” che vincesse “di mille secoli il silenzio”. L’”incarnato” delle ninfe, quasi uscito da un affresco, è subito “assoupi de sommeils touffus”, “intorpidito da sonni fronzuti”; fronzuti, forse, per analogia, come le chiome degli alberi che ombreggiavano il riposo delle fanciulle. Il Fauno-poeta - anch’egli, come Erodiade, “narcisista” e “autoeorotico”, secondo Agosti - è còlto da un dubbio, che già insinua nel dettato lirico una venatura di metaletterarietà: “ho amato un sogno? (...) Io solo mi offrivo / per trionfo l’errore ideale delle rose”. Un quasi leopardiano “errore”, dunque, che si identifica con l’affabulazione poetica, con la finzione letteraria; e quelle immateriali, impalpabili “rose”, sublimate in puri eidola o simulacri verbali, non possono non far pensare all’”assente da ogni mazzo” evocato nella prefazione al Traité du verbe... A questo punto subentra, implacabile, la riflessione metaletteraria: “Réfléchissons...”, ordina il Fauno a se stesso - o forse, visto il plurale, a sé stesso e, insieme, alla propria immagine riflessa nello specchio dell’autocoscienza critica. E già l’autoallocuzione sembra quasi personificare o drammatizzare quello che è stato definito lo “sdoppiamento del logos”, la condizione propria di un discorso che non può non sviluppare, come in uno specchio, un suo “doppio”, un controcanto, una voce parallela ma dissonante, che lo interroghi ossessivamente sulle sue modalità, la sua natura, la sua stessa possibilità e “legittimità”... “Ou si les femmes dont tu gloses / Figurent un souhait de tes sens fabuleux!”. Qui lo sdoppiamento del logos assume addirittura la forma del verbo “gloser”, “glossare”, “chiosare” - hapax in Mallarmé, come segnala ancora Agosti (77), e verbo assai inconsueto in poesia -: verbo che indica la riflessione critica nella sua forma più severa, tecnica, erudita, e che quasi evoca, baudelairianamente, “austères études”, “cendre romaine”, “pouissière grecque”... Solo pochi versi dopo, l’”inspiration, qui regagne le ciel” - ma un “Cielo” ormai “vuoto”, già “morto” nell’ Azur -, non potrà più essere che un “visible et serein souffle artificiel”; più oltre, il Fauno non potrà che alludere in modo vago ed enigmatico, e forse in un torbido contesto erotico, alla perduta “ingénuité”.
Si può, ora, chiudere il cerchio, tornando a Conti. “Il processo” della creazione poetica “si è complicato per esservisi aggiunto un elemento che costituisce il carattere di tutta l’età nostra: la critica. Mentre prima operava la sola ispirazione, oggi, nella elaborazione della imagine e dell’invenzione poetica, è entrato un elemento di essenza logica”. Nella poetica del romanticismo, beninteso, non operava “la sola ispirazione”: la poesia romantica doveva fondere “genialità e critica”, e, quel che più mi interessa, doveva anch’essa avvalersi della “prosa” - “discorso-prosa-critica”, prosa “nutrice del verso”, e via dicendo - come di un momento progettuale, propedeutico, complementare, senza, peraltro, che vi fosse ancora, al di là del “lirismo” di certe pagine, una lucida e determinata ambizione ad una prosa “poetica” e “musicale”, come poi nel “poème en prose” del secondo Ottocento. Conti, nella sua schematizzazione un po’ rigida, ignorava volutamente testi come i Frammenti di Novalis, che pure leggeva nella versione francese di Maeterlinck. Ad ogni modo, il teorico coglieva appieno il carattere che contraddistingue eminentemente la modernità letteraria da Baudelaire in poi: la “coazione alla teoria”, la “necessitazione all’estetica”, la condizione per cui il poeta, che ha perso l’aureola, che è “disgustato, disoccupato, sradicato”, che alla miseria dei tempi non può più opporre nemmeno il sorriso sereno ed orgoglioso dell’ironia romantica, ancora illuminata dalla suprema luce dell’Assoluto, deve forzatamente trovare una legittimazione del proprio “fare” all’interno del fare stesso, entro lo specifico della letteratura, tra il fluttuare delle parole ormai abbandonate a se stesse, e rese “divine” solo dalla laica e strenua virtù dell’ artifex.
IX - “PER VIA DI SEGRETE ANALOGIE”. APPUNTI SULLE “NOTE”
1. Veniamo, ora, alle già più volte citate Note su Giorgione e su la Critica (78), in cui si trova la definizione del critico come artifex additus artifici. Una definizione che sintetizza mirabilmente, se non proprio “genialmente”, l’idea della critica come opera d’arte di secondo grado, arte sull’arte, o arte nata dall’arte. Un’idea di cui ho cercato, nel corso della trattazione, di mettere in luce la genesi e l’evoluzione, che si snodano lungo due linee convergenti e, credo, ormai abbastanza chiare: da un lato quella che dalla “prosa del centro”, dalla “centrally placed intelligence” auspicata da Arnold conduce, attraverso la fondamentale mediazione di Pater, all’”independent criticism” wildiano; dall’altro lato, la direttrice che - muovendo dalle geniali anticipazioni poesche, che avrebbero poi direttamente esercitato una larghissima influenza sui poeti-critici novecenteschi, da Eliot a Pound a Valéry - dalla “critique amusante et poétique” propugnata da Baudelaire fin dagli scritti giovanili conduce, con un movimento che spero e credo possa, a questo punto, apparire come qualcosa di più di un facile gioco chiastico, al grandioso disegno mallarmeano del “poème critique”. Queste due linee convergono, anche cronologicamente - forse con la sola eccezione delle tarde Divagations mallarmeane, che peraltro raccolgono scritti già pubblicati su periodici e pubblicazioni miscellanee nell’arco di quasi un trentennio -, nell’estetismo italiano, in cui vengono proseguite e sviluppate in modo sostanzialmente innovativo, anche in rapporto alla particolare contingenza del vivace dibattito che, sullo scorcio del secolo, oppose i fautori della “critica estetica” ai seguaci del metodo storico, con, in più, l’esigenza, davvero problematica, di superare o “attraversare” il magistero desanctisiano. E’ certo inutile cercare in un Garoglio, in un Gargàno, o nel primo Ojetti, o fosse pure in Conti e nel D’Annunzio critico, la stessa inquieta, affascinante ricerca di una “méthode” che afflisse, come “crudele castigo”, Baudelaire, o la siderale, abissale profondità di pensiero di Mallarmé, o, ancora, il versatile, e a suo modo rigoroso, “antisistema” di Pater o lo spregiudicato, dissacrante historical sense di Wilde. Si tratta, certo, di figure tutto sommato “minori”; ma sono, spesso, proprio i minori a dare l’immagine più vera e più autentica del clima culturale di un’epoca, e ad esprimere nel modo più attendibile i valori medi espressi da un dato sistema letterario. Non è, inoltre, totalmente da escludere - e questa è, per ora, nulla più che un’ardita ipotesi - che la “collaborazione alla poesia” frammentariamente teorizzata, ma attuata in modo abbastanza efficace e coerente, da Angelo Conti nei confronti di D’Annunzio, possa avere in qualche modo esercitato un certo influsso sulla genesi di quello che è stato autorevolmente definito come il “neoimpressionismo” critico novecentesco (79). La figura di Conti - “poeta della critica” secondo Papini - non mancò di suscitare l’interesse dei vociani; e non escluderei che proprio la sua definizione del critico come “collaboratore” possa avere offerto una qualche suggestione a De Robertis.
2. Dopo aver tirato, una volta per tutte, le fila del discorso, è tempo di accostarsi alle Note, forse uno dei testi dannunziani meno studiati e meno citati, ma non per questo privo di interesse; e i legami “strettissimi e sintomatici” che già il Bianconi vedeva intercorrere tra l’opera creativa di D’Annunzio e quella critica, possono essere verificati soprattutto su queste pagine, trascurate dallo studioso citato, cercando di contestualizzarle, come in parte è già stato fatto (80), nel quadro della parallela attività creativa di D’Annunzio.
Le Note erano, propriamente, una recensione allo “studio” su Giorgione pubblicato da Conti nel ’94; esse, come già si è accennato, sarebbero state riprese, con lievi aggiunte e varianti, come “Ragionamento” da premettere alla Beata riva dello stesso Conti, per riapparire infine nell’ Allegoria dell’Autunno.
Lo scritto inizia, significativamente, con un riferimento al De Sanctis, che precede e prepara il severo giudizio che D’Annunzio riserberà più oltre al critico irpino. “‘Il critico può sentirsi uno con l’artista e col suo lavoro, può ricrearlo, dargli la seconda vita, può dire con l’orgoglio di Fichte: - Io creo Dio!’ In queste frasi, gonfie di un’enfasi non insolita, Francesco De Sanctis rivelava un giorno la sua ambizione di critico possente”. L’arditissima enunciazione desanctisiana, mostra come anche l’autore della Storia della letteratura italiana non fosse del tutto insensibile alle lusinghe della critica creativa. L’esplicito riferimento all’autore della Dottrina della scienza lascia peraltro intendere che lo strumento e il tramite della relazione critica consistevano, per De Sanctis, nell’”immaginazione produttiva” attraverso cui, secondo il soggettivismo gnoseologico dell’idealismo tedesco, l’Io crea il mondo nel momento in cui lo percepisce. Sarebbe interessante cercare di seguire il tortuoso e insospettabile percorso lungo il quale, nel primo De Sanctis, prende forma e si sviluppa, pur se infine soverchiata dal “realismo”, dal sociologismo, dal contenutismo e dall’intento ideologico e pedagogico che caratterizzano largamente la Storia, questa idea di creatività e autonomia della critica, che indurrà Croce ad additare, pur se arbitrariamente, proprio in De Sanctis il critico “rien qu’artiste” vagheggiato da Flaubert. Ad esempio, nel saggio Una storia della letteratura italiana di C. Cantù (81), composto nel 1865, ancora al di qua e al di fuori del poderoso disegno storiografico e della precisa, prioritaria missione intellettuale che avrebbero animato la stesura del capolavoro, De Sanctis poteva affidare alle sue già limpide e vigorose pagine enunciazioni come questa: “il critico è dirimpetto all’artista quello che l’artista è dirimpetto alla natura. Come l’artista vi riproduce la natura, ma con altri mezzi ed altro scopo, così il critico riproduce l’arte, ma co’ suoi processi e co’ propri fini, e (...) con quella piena coscienza di essa che manca spesso all’artista”. E’ suggestivo, ma non indispensabile, di fronte a questa esplicita definizione dell’arte come “natura della critica”, pensare a un diretto influsso del Baudelaire del Salon de 1846; si trattava di un principio variamente presente nell’ermeneutica romantica. In quella stessa ermeneutica, e in particolare nelle dottrine di Schleiermacher, si trovava l’idea che l’esegeta potesse “saperne di più dell’autore stesso”, “capire il discorso anzitutto altrettanto bene e poi meglio di quanto non lo capisse l’autore stesso”. Allo stesso modo, per De Sanctis il critico può cogliere, forte di “quella piena coscienza (...) che manca spesso all’artista”, anche quei significati virtualmente presenti nell’opera, ma di cui nemmeno l’artefice è pienamente consapevole. Sempre nei Saggi critici, lo scialbo Cours familier de littérature di Lamartine suggerisce a De Sanctis, per antitesi, quest’altra stupenda formulazione, tutta giocata su una delle infinite possibili variazioni sulla millenaria topica della “leggibilità del mondo”: “il libro del poeta è l’universo; il libro del critico è la poesia; è un lavoro sopra un altro lavoro”. Non si vuole, con questo, accreditare l’inverosimile immagine di un De Sanctis decostruzionista ante litteram, creative critic o fautore dell’autonomia della critica; credo siano, del resto, evidenti la tensione metafisica e il retaggio romantico che animano queste e altre simili formulazioni presenti nei Saggi del ’66, e di cui non resterà più traccia nel poderoso disegno storiografico dell’opera maggiore, ove il concetto “critica” sarà semmai assimilato, almeno nelle celebri pagine conclusive, all’assiduo ed inflessibile lavorio dello spirito analitico e della conoscenza scientifica.
La puntuale e forse un po’ provocatoria rievocazione dannunziana coglie, comunque, uno degli aspetti essenziali di una certa situazione del dibattito culturale italiano sullo scorcio del secolo, al crocevia di problemi ancora aperti al confronto, pochi anni prima della perentoria e granitica sistemazione crociana. Lo stesso Croce, ancora al di qua dell’imponente edificio intuizionista che avrebbe cominciato a prendere corpo con le Tesi del 1900, non mancava di lasciarsi sedurre dall’idea dell’artisticità della critica, pur se intesa in un’accezione tra idealistica e romantico-desanctisiana, aliena tanto dal velenoso ed impudente historical criticism wildiano, quanto dal surnaturalisme di Baudelaire, quanto dal mallarmeano “cratilismo” di Conti e soprattutto di D’Annunzio, funzionale alla difesa di una poetica fondata sulla concezione dell’autonomia dell’arte, e sul feticistico culto di una platonica forma identificantesi poi con il simbolo e con lo stile. Nella conferenza La critica letteraria: questioni teoriche, il giovane Croce, esplicitamente riallacciandosi proprio a quel magistero desanctisiano di cui l’eruditismo storicista metteva spesso in discussione la validità, scriveva: “l’esposizione di un’opera d’arte è per sé stessa un’opera d’arte, che ha per materia un’altra opera d’arte. (...) Una esposizione, che fosse ragguaglio materiale”, che aspirasse ad un’assoluta, e del resto impossibile, oggettività, impersonalità, “scientificità”, “sarebbe niente altro che descrizione inesatta, languida ed errata” (82). Le Questioni teoriche derivavano da una conferenza letta all’Accademia Pontaniana nel 1894; si era, cronologicamente, tra le Intentions di Wilde - che, pur se mai citate da Croce, non saranno sfuggite alla sua attenzione solerte e versatile - e il Prologo del Marzocco. Rievocando quel periodo a distanza di più di vent’anni, e avendo già alle spalle i testi - le due Estetiche, la conferenza di Heidelberg sul Carattere lirico dell’arte, il Breviario di estetica... - in cui si era avuta la fondazione del suo sistema, Croce ne parlerà come del “momento in cui si cominciò a sciogliere il duro ghiaccio del positivismo, e rispuntarono qua e là, con nuovi atteggiamenti, i problemi filosofici” (83). Croce così stigmatizzerà, lapidariamente, la giovanile infatuazione per forme di critica creativa: “finivo col disconoscere la valutazione estetica negandole validità oggettiva” (84). Nella critica di Croce, questa istanza di oggettività si tradurrà poi nella ricerca del “sentimento fondamentale” - il fubiniano “simbolo della critica” -, in un “accertamento dell’arte” che finirà, spesso, per ridursi a forme di generica e tautologica “diagnosi di bellezza”, e, quel che più conta, nella nota, diametrale distinzione di poesia e struttura, strettamente legata al disconoscimento di quella mediazione, diveniente e problematica, che nella poesia moderna si pone, come la “meditazione” di cui parla Conti, tra “intuizione” ed “immagine”. Il critico potrà, anche per Croce, immedesimarsi in qualche modo con l’artista; ma potrà farlo solo attraverso il metodo del “mettersi nel punto di vista dell’autore” (già Flaubert, nella lettera citata e lodata anche nell’ Estetica del 1902, aveva auspicato, in ben altra ottica, l’avvento di una critica che sapesse lumeggiare “le point de vue de l’auteur”...) e “rifarne il percorso”, così da porre in luce il nucleo fondamentale e il valore della sua opera, che restano, comunque, fissi, statici, in sé conclusi e compiuti, senza che il critico possa “collaborare”, in modo vario e dinamico, al globale processo dell’espressione artistica e della significazione poetica. Per contro, secondo una dinamica che sembra confermare, pur se e contrario, la teoria della “reciprocità” avanzata da Bloom, la “sentenza che alla poesia sia immanente la critica” è per Croce, come si è visto, assurda e infondata, e il Valéry critico non sa offrire che “frigidi ed insipidi paradossi”...
Secondo quanto il filosofo scriverà nel Breviario di estetica - alludendo letteralmente, si noti, alla definizione contenuta nelle Note dannunziane, e rovesciandola polemicamente -, il critico deve essere non artifex additus artifici, ma philosophus additus artifici: il critico non deve calarsi nell’”etymon generatore” dell’opera, assorbirlo in sé come cosa viva, farne oggetto, pretesto o “traccia” per una nuova creazione, amplificando la propria individualità per poter più profondamente penetrare e meglio comprendere quella dell’artista; egli deve invece giudicare e distinguere le opere sulla base di categorie predeterminate, e ridurle entro le maglie e gli schemi di un sistema solido ed organico. Una concezione, certo, assai più rigorosa e metodica rispetto a quella di D’Annunzio e dei marzocchiani, ma su cui gravava, nel contempo, il pericolo di una sclerosi dogmatica, di un letale irrigidimento, di una fatale incomprensione del moderno.
Alla condanna così del dannunzianesimo come del simbolismo, dei quali Croce peraltro già coglieva, pur se con un’implicazione spregiativa, la salda coesione e la dimensione europea, si accompagnava, polemicamente, l’ironico e pugnace rifiuto della concezione del critico come artifex additus artifici, della critica definita da Croce, di volta in volta, “pura”, “estetizzante” o “mistica” (85): “un misticismo, che ragiona e polemizza” - e qui Croce coglieva, anche se in chiave spregiativa, uno dei caratteri fondamentali dell’estetismo -, e che “se tenta di affermarsi, deve uscire di necessità (…) in suoni rotti e vaghi”; una critica che offre “un miscuglio (...) di impressioni iperbolizzate, di escogitazioni analogiche” - e anche qui Croce coglieva, a suo modo, nel segno... -, “di sottigliezze immaginifiche e di riflessioni intellettive” (86); e anche evidenziando il legame esistente tra intelletto ed immagine, tra lo snodarsi del pensiero e il suo continuo tradursi ed inverarsi in metafore, sinestesie, simboli, il filosofo illuminava un aspetto indiscutibilmente presente in quel modo di fare critica.
3. De Sanctis, si è visto, riconosceva al critico la capacità di avere, in certi casi al critico “quella piena coscienza che manca spesso all’artista”. Anche gli esteti marzocchiani, un trentennio dopo i desanctisiani Saggi critici, avrebbero manifestato, nel Prologo del Marzocco, l’aspirazione a “cogliere tutto il significato” dell’opera, “anche quello che è sfuggito all’autore stesso nella sua inconsapevolezza”; e non si dimentichi la definizione contiana del critico come “coscienza dell’artista”, definizione che può forse richiamare, a sua volta, la self-consciousness wildiana. Proprio il teorico di The Critic as Artist aveva già sottolineato che “la Bellezza”, quella Bellezza che è un universale, inesauribile “symbol of the symbols”, “fa del critico un creatore (...), e bisbiglia mille cose diverse che non erano presenti nella mente di colui che scolpì la statua o dipinse la tavola”. A parere di Diego Garoglio, ad esempio, i “nuovi critici” erano in grado di “figgere più profondamente gli sguardi entro gli abissi del capolavoro, abissi che possono esser in parte rimasti ignoti all’autore stesso, come ad una vergine pudica rimane in parte ignoto il fascino arcano della sua bellezza” (87). Una similitudine, certo, un po’ fastidiosamente dannunziana, ma che aiuta a comprendere cosa abbia indotto qualcuno ad accostare certi aspetti della “critique voluptueuse” del secondo Ottocento al barthesiano “plaisir du texte” (88). E tra i tanti minori e minimi che diedero il loro importante contributo alla determinazione dei contenuti teorici, ancora in parte da indagare, della polemica tra esteti ed eruditi, una certa Maria Baciocchi scriveva, con squisita sensibilità, e cogliendo il nucleo essenziale della questione: “ogni vero artista de ve (...) acuire la propria coscienza per portarla sino al grado di intensità necessario per conoscere a fondo l’indole della propria potenza creativa (...). Sia, dunque, l’artista consapevole di tutto ciò che egli è”. Per raggiungere questo difficile scopo è necessaria la presenza, al fianco dell’artista, di una critica “collaboratrice”, che “emani da un’intelligenza fraterna, atta ad assimilarsi l’idea creatrice dell’opera”; “critico ed autore” devono “parl are il medesimo linguaggio”. Anche qui, come aveva scritto Conti, “il critico è la coscienza dell’artista” (89), e solo dal critico può promanare la vitale luce attraverso cui l’arte e l’artista prendono coscienza di se stessi, e trasformano in legge l’oscuro impulso che li anima e li muove. Il messaggio presente in nuce o in potenza nell’opera, e ancora nascosto nelle sue forme inerti e umbratili, può essere portato alla luce solo dal lampo dell’illuminazione critica.
Nel dominio del rapporto tra arte e critica, così come in quello del rapporto tra oggetto e soggetto della percezione e della conoscenza, sembrerebbe vigere il principio in base a cui esse est percipi, i caratteri, i contenuti, infine la stessa realtà dell’oggetto dipendono dalla percezione che il soggetto ne ha; e non mancò chi vide proprio nell’”immaterialismo” berkeleyano i presupposti gnoseologici dell’”independent criticism” di Wilde (90), secondo cui l’interpretazione e la mediazione del critico sono indispensabili per la completa e compiuta manifestazione del contenuto e del valore di un’opera.
Vi erano alcuni versi di un sonetto di Michelangelo che venivano ammirati e spesso citati nel contesto della libera, eclettica, splendidamente fuorviante rivisitazione del Rinascimento italiano che veniva compiuta dagli esteti. “Non ha l’ottimo artista alcun concetto / c’un marmo solo in sé non circonscriva / col suo soperchio, e solo a quello arriva / la man che ubbidisce all’intelletto”. Nell’antica Grecia, dice Wilde, “lo scultore sgrossava dal blocco di marmo il grande Ermes dalle bianche membra che in esso riposava”... Piace pensare, anche soltanto per analogia, che la mano “casta e robusta” dell’”independent critic” compia un gesto affine a quello dello scultore che trae, dal blocco di marmo informe, la meravigliosa figura che vi giaceva, in potenza, da millenni.
4. Torniamo alle Note. “Non diversa”, dice D’Annunzio a proposito del Conti di Giorgione, “è l’ambizione che riscalda il nuovo esegeta”... Un’ambizione di critico possente non dissimile da quella desanctisiana, ma che Conti cerca di realizzare con mezzi inevitabilmente diversi da quelli del suo grande predecessore. Potrebbe forse funzionare, anche qui, il modello dell’”attraversamento”; un attraversamento, in questo caso, impossibile e velleitario, almeno per un Conti o per lo stesso D’Annunzio critico, ma comunque culturalmente e storicamente significativo e sintomatico. Sintomatico soprattutto perché, nelle Note, il polemico riferimento all’autore della Storia della letteratura italiana è strettamente legato ai concetti di stile, di prosa, di verbo: “l’opera critica dell’illustratore di Farinata e di Ugolino (...), essendo priva di quella resistente virtù che è lo stile, dovrà in breve perire. (...) Il critico, se vuole che la sua opera abbia un vero valore, deve conferirle per mezzo dello stile un valor d’arte. Un libro di critica deve essere, sopra tutto, un eccellente libro di prosa. Critica artifex additus artifici”. “Egli” - aveva detto D’Annunzio poco prima - “non riusciva a rendersi padrone dell’elemento di cui si compone l’arte letteraria, ciò è del verbo”. La prosa desanctisiana, asciutta, rapida, antiletteraria, densa di concetti e di sostanza, agitata da un’assidua e vivida tensione morale, non poteva più trovare riscontro nella sensibilità dell’esteta, nel suo “spirito essenzialmente formale”. Come è stato osservato, alla forma desanctisiana, determinata da un contenuto che in essa si invera, ma da cui essa è strettamente determinata (“tal contenuto, tal forma”), D’Annunzio oppone lo stile, entità che ha in sé stessa la propria ragion d’essere, la propria essenza, la propria interna energia vitale - poco oltre l’autore parla di “leggi della vita verbale”, cui la prosa desanctisiana non sa adeguarsi -, e a cui il pensiero e la stessa realtà finiscono per essere subordinate e funzionali. “Non sopravvive alla politica del Machiavelli” - scriverà D’Annunzio nel Fuoco - “se non il nerbo della sua prosa”... Basterebbe confrontare queste poche righe con le pagine della Storia dedicate all’autore del Principe per capire quale distanza dividesse ormai l’idea di letteratura e la posizione storica di D’Annunzio da quella del De Sanctis. Anche il soggettivismo critico, a cui De Sanctis, dopo gli sporadici entusiasmi fichtiani delle lezioni zurighesi, abdicò ben presto, era invece parte essenziale del concetto di critica maturato in seno all’estetismo; e tale soggettivismo non poteva che rompere e violare l’integrità di quello che è stato definito il “sinolo desanctisiano”, l’opera concepita come assoluta e solida sintesi hegeliana di forma e contenuto. Con l’estetismo, l’opera viene invece adibita a “suggestion”, a “traccia” per la nuova creazione del critico, in cui quella primaria dell’artista giunge a compimento e si manifesta pienamente.
E’ bene precisare che Conti, nel breve saggio Alcune idee della critica (90bis), prende le distanze dal giudizio di D’Annunzio, giudizio che viene, peraltro, volutamente frainteso, e trasferito dal dominio della qualità stilistica a quello del rigore documentario. “Certo”, scrive Conti, “la critica geniale di De Sanctis ha il difetto di non essere documentata; ma non per questo, come affermò Gabriele D’Annunzio, essa è destinata a perire”. L’affermazione si inserisce tra le consuete argomentazione in favore del carattere estetico e creativo della critica, contro ogni forma di accademismo storicista. Nello stesso testo, però, a conferma di quanto gli esteti volessero prendere le distanze da certa tradizione culturale di matrice umanistica e insieme risorgimentale, la rivalutazione del De Sanctis è per così dire controbilanciata da un cauto e timoroso tentativo, non sviluppato altrove, di “attraversamento” di Carducci.
Lo spunto occasionale è offerto da una conferenza su Ariosto, tenutasi a Firenze. A Carducci è riconosciuta la qualità di “artista del pensiero”, che dà ad ogni sua creazione “la propria impronta di luce”; e può essere interessante ricordare che nel Giorgione è lo stile ad essere definito come “impronta di luce”. Tuttavia si precisa, poche righe dopo, la distinzione tra il classicismo carducciano e la nuova sensibilità simbolista. Nella conferenza - che per indicazione di Conti ricalcava in parte pagine già pubblicate da Carducci nel 1881 come prefazione a un’edizione del Furioso - si chiariva come in Ariosto si manifestasse “quel fino spirito del tempo nuovo che scherza luminoso e tranquillo fra i pennoni dei paladini e i veli delle dame del buon tempo antico”, un tempo “nel quale (...) lo spirito italiano” era “giunto al sommo dell’ascensione”. Ariosto, “troppo gentiluomo e troppo poeta”, secondo Carducci diede mostra di grande ardore patriottico rifiutando di piegarsi ad adulare di Carlo V...
“Il Carducci e l’Ariosto”, osserva Conti, “si rassomigliano”; vi sarebbero le condizioni per un’immedesimazione simpatetica, per un’ottimale “relation critique”. Sennonché “il fondo dell’animo nel Carducci è”, sì, “pagano, come era nell’Ariosto”; “ma non è il paganesimo ansioso che presente il nuovo mondo; non c’è in lui la inquietudine dell’attesa, la tristezza della fine vicina, la tarda speranza, il desiderio stanco”... “In lui il paganesimo è sereno”. La classicità solare, virile, “sana” del poeta di odi come Alle fonti del Clitumno, in cui tanto la mitopoiesi quanto la reminiscenza storica sono funzionali ad una finalità educativa e celebrativa, non poteva certo accordarsi con la sensibilità tormentata dell’estetismo, che in quegli anni era venuta e veniva scoprendo - da Baudelaire a Mallarmé a Huysmans allo stesso D’Annunzio delle statue abbattute, delle ville in rovina, dell’arte sempre minacciata, anche ne momento della sua più dionisiaca e narcisistica autocelebrazione, dall’ombra della fine, dal “presagio di remoto lutto” - proprio il gelido, parnassiano fascino del declino e della decadenza. Certo anche Carducci - basti pensare ai suoi autocommenti, in cui si palesa e si oggettiva lo strenuo labor limae del “grande artiere” - era un tipico esempio di poeta critico: si pensi a quello che si potrebbe definire il “meta-sonetto” delle Rime nuove (“Dante il mover gli diè del cherubino”...), forse tenuto presente dallo stesso D’Annunzio in un luogo del Piacere: una forma letteraria che elogia se stessa, storicizzandosi attraverso il riferimento a precisi antecedenti e modelli. E si è autorevolmente scritto che in questo sonetto “il sentimento poetico par nascere dalla frequentazione critica, proprio, come una sua variante in versi” (Getto-Portinari). “Sentimento poetico” a parte, il classicismo carducciano - che non a caso avrebbe suscitato gli entusiasmi di Croce - aveva ben poco da dare a quanti, come scriveva D’Annunzio già in una cronaca dell’’85, si sentivano baudelairianamente partecipi di “una modernità profonda” - e sempre in Alcune idee della critica Conti discettava della “modernità del Tasso”, in quanto poeta dalla sensibilità melanconicamente sovreccitata -, a quanti “si chiam avano decadenti e (...) ama vano e studi avano la decadenza e vole vano nella decadenza rimanere”; condizione, quest’ultima, che non deve certo far dimenticare quanto almeno l’autore della Beata riva fosse suggestionato, a tratti, da istanze idealistiche e neoromantiche, peraltro sempre scevre di eccessi oratori o compromissioni pedagogiche.
Ad ogni modo, l’attraversamento e il superamento del modello del “maestro avverso” - pur ancora invocato, come “Maestro sublime”, nella Laus vitae -, della cui ingombrante eredità D’Annunzio aveva cercato di liberarsi fin da Canto novo, erano, ancora una volta, legati alla critica.
5. Torniamo ancora alle Note. Citando testualmente un passo del libro dell’amico, D’Annunzio ne ribadisce una fondamentale concezione, di cui già si è parlato: il critico, “accanto all’artista, non è soltanto un comentatore, ma, in maniera indiretta, un collaboratore”.
E tornano ad emergere, nel testo dannunziano, diversamente articolati, alcuni concetti essenziali della “semiotica” contiana, come quelli di simbolo e stile. “‘Qual è (...) la differenza tra un fatto comune dell’esistenza e un’opera del genio? E’ semplicemente la seguente; il primo ha caratteri di somiglianza e d’identità con tutti gli altri fatti degli uomini; il secondo porta la sua speciale impronta di luce: lo stile ’”. Qui cessa la citazione letterale e virgolettata dallo studio contiano. E D’Annunzio prosegue: “Lo stile dunque, essendo il segno dell’idea, è l’unico mezzo che l’artefice abbia per manifestare quella nella sua opera”. Lo stile “è il simbolo perfetto, l’indistruttibile impronta del genio sulla materia dominata”. E sarebbe, a questo punto, affascinante cercare di seguire la fine ed agile tramatura intertestuale attraverso cui D’Annunzio riprende, varia e parafrasa la pagina di Conti, oscillando tra citazione diretta, rielaborazione ed ostentato, consacrante “plagio”. Le ultime parole del passo appena citato riprendono alla lettera, senza dichiararlo, proposizioni contiane, comunque legate a un fondamentale principio dell’estetismo italiano: “lo stile è il simbolo perfetto, la materia domata, è il segno della vittoria del genio...”. Ad ogni modo, a quest’idea di stile come “nota distintiva d’un individuo” si è già accennato a proposito delle Vergini, che non a caso cominciano ad apparire a puntate proprio nello stesso libro I del Convito; e non mi risulta che si sia finora notato come alcune espressioni del romanzo (il “demònico” identificato con un ipostatizzato “Sile”, inteso come “potenza misteriosamente significativa”) derivino direttamente proprio dallo studio contiano, pur senza trascurare il possibile influsso diretto della Grammaire del Blanc. E poco importa che poi D’Annunzio, proprio sulla scia del Blanc, oltre che di Conti, identifichi lo stile anche con la “nota universale ed eterna dell’arte”, con una platonica - e leopardiana - “alta specie”, citando poi, nell’antifilologica traduzione di Acri, il discorso di Diòtima del Simposio platonico. Il recupero di questo falsificato e falsato platonismo è comunque funzionale ad una sorta di baudelairiano surnaturalisme rivisitato in chiave classica, ad una quasi parnassiana esaltazione delle supreme virtù dell’ artifex, signore del tempo e dominatore della materia: lo stile - che, come annota D’Annunzio in modo un po’ generico, “fu creato dai Greci” - “può rendere le forme di un’opera d’arte superiori alle forme della natura e fissarle per l’eternità”. Il platonico eidos è, qui, lo “stile” che trascende, sublima e “redime” - come il “disegno” dei baudelairiani “pittori filosofi” - una natura vista quasi, implicitamente, come caos, materia informe, impura ed inorganica hyle, cui solo l’arte può conferire ordine e compiutezza. E lo stile è anche ciò che conferisce superiore dignità ad “un fatto comune dell’esistenza”, e che solleva l’esperienza esistenziale ed intellettuale dell’esteta al di sopra di “tutti gli altri fatti degli uomini”. Si può scorgere, qui, un qualche raccordo con la stessa indole e costruzione di molti romanzi dannunziani, dal Piacere al Fuoco: la letterarietà, la dignità d’arte, il carattere eccezionale ed eroico che caratterizzano quei romanzi sono da ricercarsi non tanto nei fatti narrati, ma, appunto nello stile, nell’assidua ed esasperata amplificazione retorica a cui eventi, personaggi, esperienze, ricordi, sono sottoposti per mezzo di quell’”arte del Verbo” grazie a cui l’uomo, sofisticamente, “innalza tutto, abbassa tutto, distrugge tutto”. Lo stile diventa un’imprescindibile risorsa vitale, l’indispensabile sostegno e alimento senza il quale l’esteta e il dandy non potrebbero più trovare un supporto, ancorché fasullo ed effimero, alla loro indefinibile posizione e alla loro proteiforme, centrifuga identità. Alla “nuova barbarie”, alla “divisione del lavoro” - speculare alla “specializzazione del lavoro intellettuale” che, come dirà Conti nella Beata riva, distrugge la “maravigliosa sintesi delle arti affini” -, alle “basse cupidigie” dell’utilitarismo borghese, il D’Annunzio dell’intervista ad Ojetti, dello stesso ’95, non saprà opporre che il “culto dell’uomo nella vita inviolabile dello stile”. Anche senza Marx - ma certo avendo alle spalle lo Schiller delle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo - D’Annunzio riuscì, a suo modo, a cogliere la natura e l’essenza di un momento storico e sociale in cui la “barbarie della specializzazione” indotta dal “trionfare delle ricerche positive” si accompagnava, in modo sintomatico, alla definitiva crisi della concezione e della percezione dell’identità dell’individuo proprie di una secolare tradizione umanistica. E a questa crisi - cui si assommava la bancarotta del patriottismo risorgimentale, cui stavano per sostituirsi forme di imperialismo greve e nefasto - D’Annunzio non seppe opporre altro che un parnassiano - ma, a suo modo, eroico ed ascetico - feticismo della parola, della forma, del verbo; nel sua gelida, laica religione dello stile, D’Annunzio è anche - come scrisse stupendamente il Marradi in risposta ai sonetti dell’ Epòdo - l’”asceta / della Bellezza inanimata e sola” (91). “Ho il libro vivente in me; sono il libro che vive”, scriverà il poeta nel Venturiero senza ventura (92). “Esprimermi, esprimere è vivere”; “Vivo, scrivo”, si legge altrove. La parabola dell’uomo-libro, dell’”ideal tipo” umano - a sua volta, impossibile negarlo, tutt’altro che immune da ingombranti istanze ideologiche - che viene a coincidere con il disegno letterario dell’”ideal libro”, è limpidamente illuminata dall’autocoscienza letteraria dell’uomo che “invigila se stesso” - e, specularmente, dello scrittore che si fa critico di se stesso. Nella prefazione al Trionfo, anche la prenovecentesca istanza di liberazione dai “vincoli della favola” - che è già, in parte, la fabula di cui discetterà la narratologia novecentesca... -, dalla “logica (...) severa”, dalla “continuità di una favola bene composta”, può essere forse letta anche in questo senso, cioè come premessa per una trasfigurazione e un’amplificazione, sul piano formale e retorico, dei meri, scialbi realia, della semplice realtà dei fatti narrati. E’ proprio il presupposto dell’infinita superiorità dell’arte rispetto alla volgarità e alla banalità della vita che consente a Conti di restare “solo di fronte all’opera”, “sdegnando le ricerche pazienti e “anguste dei classificatori” e “ripudiando il metodo biografico praticato dal Sainte-Beuve come quello sociologico e geografico praticato dal Taine”.
Torniamo al passo platonico (per la precisione Simposio, 210 E - 211 D, da cui D’Annunzio, si noti, espunge prudentemente il problematico riferimento all’”amore dei giovinetti”). Del passo del filosofo, visto innanzitutto proprio ed esclusivamente come testo, D’Annunzio non coglie tanto il valore speculativo o il retroterra storico-culturale, ma piuttosto lo strenuo vigore stilistico ed immaginifico sotteso all’”eterna dialettica”: “il verbo di Diotima” - e si pensi alla pregnanza, cui già si è accennato, che la nozione giovannea assume in questa peculiare “mistica dello stile” - “manifestato in una maniera plastica e vivente”... Come poi nella Beata riva, la scrittura critica diventa “un poème en prose nel quale i termini essenziali del ragionamento ripresentano se stessi estraniati dalla stilizzazione metatestuale” (93). Il marmoreo, imperturbabile rigore del pensiero si cala nelle fluide e cangianti forme del “possibile verbale”, acquistando vita, ritmo, colore. Nasce “una finzione che si esibisce e si nega come tale”, oscillante tra episteme e poiesis, e anelante, a un tempo, da un lato allo statuto e alla dignità della speculazione filosofica, se non addirittura dell’ascesi sapienziale, dall’altro all’affabulazione “amusante et poétique” di una letterarietà assoluta e superba. “Entusiasmo e rêverie non sono se non l’altra faccia dell’intellettualismo estetico” (94); e liquidare queste, e altre affini e coeve teorizzazioni, come “irrazionalismo” e “misticismo fin de siècle”, appare ormai frettoloso e semplicistico.
6. Le Note proseguono con una teorizzazione a suo modo rigorosa, e chiaramente esemplata su formulazioni wildiane, dell’autonomia e della creatività della critica; una teorizzazione che assume, a prima vista, le sembianze di un’ammissione dei limiti dell’ermeneutica estetizzante. “Riesce Angelo Conti (...) a mostrarci la vera essenza dell’arte giorgionesca? E’ lecito dubitarne. Ma che importa? Noi non ci troviamo davanti forse a Giorgione, ma certo davanti a uno spirito eletto il quale, pensando e sentendo con profonda sincerità, cerca di comunicarci con tutte le virtù della parola le emozioni da lui provate al conspetto di quelle forme della Bellezza che per lui rappresentano la più pura e più luminosa manifestazione della vita”. Termini e concetti, inutile negarlo, un po’ generici, e definizioni quasi tautologiche; ma è interessante il fatto che D’Annunzio giustifichi le libertà forse eccessive e gli innegabili arbitri del Conti critico ed esegeta facendo riferimento alle sue qualità letterarie, alla sua capacità di dar fondo a “tutte le virtù della parola”, esprimendo “felici intuizioni (...) col più vivo linguaggio della poesia”. Il pensiero non può che correre al wildiano The Critic as Artist: “chi si preoccupa se le opinioni di Ruskin su Turner sono valide oppure no? Che importanza ha? quella sua prosa possente e maestosa, nella sua nobile eloquenza così fervida e ardente, nella sua complessa musica sinfonica così ricca (...) è un’opera d’arte (...) altrettanto grande”. Gilbert tesse l’elogio di questa “mystical prose”, di questa prosa pervasa da una “elaborate symphonic music”; come non ricordare, allora, la prosa “plastica e sinfonica” - anche il discorso di Diòtima si snodava in una forma “plastica e vivente” - sognata da D’Annunzio nella prefazione al Trionfo, o anche la baudelairiana “prose musicale” di Spleen de Paris ?
“Chi (...) si preoccupa se Pater ha posto nel ritratto di Monna Lisa qualcosa che Leonardo si sognò mai?”. Il critico che “ne sa più dell’autore” (ri)crea l’opera, e quest’ultima, nella sua temporalità avviluppata, compressa, straniata, assomma voracemente in sé stessa le reali esistenze, le figurazioni ideali, le maschere scintillanti e mendaci della storia e del mito, e tutto assorbe e trasfigura in metafora, musica, verbo.
Con le sinuose volute della sua prosa versicolore e screziata, il critico artista dell’estetismo avvolge il proprio oggetto fino ad assorbirlo in sé, a farne parte integrante della sua esperienza di vita - esperienza che è, infine, parola implicita, e che non può non farsi verbo, non divenire scrittura.
Nella Gioconda - scriveva Pater - sono stati incisi e modellati “all the thoughts and experience of the world”. “Like the vampire she has been dead many times, and learned the secrets of the grave; (...) and, as Leda, was the mother of Helen of Troy, and, as Saint Anne, the mother of Mary”. In quest’enigmatica figura, tutta stemperata e risolta nella sfera dell’invenzione stilistica e del virtuosismo verbale, si incarnano una tradizione letteraria e una memoria storica tutte raccolte e compresenti nella loro totalità, e trasfigurate nella divina condizione di una letteratura specchio di sé stessa, che si autoriproduce con una ricorsività ciclica ed autotelica, ed è, come Maria, a un tempo vergine e madre, insieme figlia e madre di sé stessa; e la letteratura può avere tanto gli attributi di una divinità pagana, di una “white Greek goddess” ferma ed imperturbabile nella sua altéra, glaciale purezza, quanto il dolente ed eroico alone di santità di una mater dolorosa. Ma è difficile non pensare, nel contempo, alla Foscarina-Duse, che assommava in sé, incarnava, aveva impersonato, era stata Cassandra, Fedra, Mirra, Giulietta - che era, come la Monna Lisa di Pater, mille volte morta e mille volte rinata, “vivendo la morte di quelli, morendo la vita di quelli...”, e continuando, nondimeno, ad essere minacciata dalla precarietà della sua “carne caduca”, caduca come la treccia di Erodiade... Monna Lisa “ha appreso i segreti del sepolcro”, ha “dimorato negli antichi sepolcri” come l’Anima Universale di Wilde; ha vinto la morte, ha conosciuto e poi dissipato la tenebra con la luce della Bellezza. Il “symbol of the modern idea”, tra baudelairiana e platonica, che essa incarna, è da un lato etereo eidolon e figurazione ideale, dall’altro immagine storicamente determinata, riproducibile, rifratta e indirettamente trasfigurata dalle inquietudini della modernité. Il simbolo che essa incarna, e che della critica è, insieme, oggetto e strumento, sembra quasi prefigurare una messianica, escatologica “pienezza dei tempi”, annunciata e segnata dall’epifania del moderno.
Dovendo additare un precursore di Conti sulla linea di questa critica poetica, D’Annunzio non esita a chiamare in causa proprio Pater, “stilista delicato e ricco (...) ignoto in Italia fino ad oggi”. Il poeta delle Laudi fa diretto riferimento al saggio The School of Giorgione, e alla nota formulazione, ivi contenuta, secondo cui “tutte le arti costantemente aspirano alla condizione della musica”. La citazione innesca l’immaginosa giustapposizione, scandita dal vasto respiro dell’analogia e della metafora, tra un colore che “circoscrive” e un colore che “circonfonde”; distinzione di ascendenza baudelairiana, e che verrà ripresa, nel Novecento, da Lionello Venturi (95), a testimonianza di come anche la “critica estetizzante”, i cui interessi erano di natura più artistica e creativa che informativa od esegetica, sia talora riuscita ad offrire, certo in modo ancora embrionale e un po’ confuso, spunti che si sono rivelati tutt’altro che inservibili per la critica d’arte posteriore, in particolare per quella che fu detta “purovisibilista”, e che accolse e sviluppò in qualche modo caute forme di soggettivismo e di “impressionismo”. E quando D’Annunzio, poche righe dopo, definisce Gentile da Fabriano “il primo musicista della pittura”, ha forse in mente un’altra vivida suggestione baudelairiana, quella della sinestetica definizione di Corot e Rembrandt come “harmonistes de la couleur”; poco oltre, l’attacco polemico contro “quanti oggi scambiano l’arte con la fotografia” - probabile allusione all’estetica positivista che alimentava la pittura dei macchiaioli o dei pointillistes - cela un’altra lampante allusione all’autore dei Salons, e ai suoi celebri anatemi contro l’impersonalità, la freddezza e la raggelante, ghignante fissità della dagherrotipia. Baudelaire, Pater, Wilde: credo che questi innegabili e finora trascurati snodi intertestuali mostrino chiaramente che l’opera del D’Annunzio ermeneuta e teorico della critica, quale che ne sia l’oggettivo valore, deve essere vista e valutata, come larga parte della sua ulteriore produzione, in relazione ad un più vasto àmbito europeo.
Ed è sempre in un’ottica europea che troviamo, nelle Note, un ulteriore, affascinante capitolo della storia degli usi dell’analogia come strumento del discorso critico. “Non possiamo non pensare ad un libro sul Carpaccio senza che ci si presenti per analogia l’idea di una miracolosa limpidità; come non possiamo pensare ad un libro su Giorgione senza che ci si apra nella memoria lo spettacolo d’un fiammeo pomeriggio dell’estate moritura nel silenzio della città dogale”. E’ qui enunciata l’essenza della critica analogica e simbolica; una critica che percepisce la realtà naturale, come l’opera d’arte, già in funzione del libro che esse racchiudono, e che ne potrà essere tratto. E non è certo azzardato scorgere, in queste righe - apparse, lo ricordo, nel ’95 - quella che è forse la prima prefigurazione dei temi e dei motivi che saranno sviluppati, di lì a poco, nel Fuoco. Già il “silenzio della città dogale” anticipa il grande motivo del silenzio come elemento generatore e vitale alimento della musica e del ritmo; e nel “fiammeo pomeriggio dell’estate moritura” si avverte già la vaga suggestione che darà poi vita all’”epifania del fuoco”, e anche quel cupo senso o presentimento della decadenza e della morte che pervade tutto il romanzo. Nel momento stesso in cui vengono celebrate l’arte e la bellezza, sembra essere rappresentata o presentita la grande allegoria della loro morte. “Tutti i sogni di dominazione, di voluttà e di gloria, che Venezia ha cullati e poi soffocati nelle sue braccia di marmo, tutti risuscitavano in quel foco aereo, vi si dilatavano, vi palpitavano come un popolo rivivente. (...) La forza e la bellezza umane trasfigurate da secoli di arte si armonizzavano in un simulacro unico che noi credevamo avere innanzi agli occhi reale e respirante, da noi génito”. Si celebrano, nel “poème en prose” che assorbe in sé, fonde e trasfigura le suggestioni iconografiche, le nozze mistiche tra Venezia e l’Autunno, tra la “città di pietra e d’acqua” e il ritmo ineffabile delle stagioni, tra la Natura e l’Arte, le due fronti del dio, “unico nella duplice figura”; e la mistagogica allegoria è “genita”, è animata e materiata della stessa potenza creatrice e trasfiguratrice del verbo. E non si eclissa, nemmeno all’atto di una quasi mistica alienatio mentis, la “virtù attiva dell’intelletto”, “esaltata” anzi “fino al limite della follia”... “Ma - (...) poiché ogni terrena perfezione deve compiersi naturalmente con la morte, e poiché la morte non è distruzione ma trasfigurazione - noi provammo un desiderio quasi frenetico di trasformarci per mezzo di una voluttà che fosse nel tempo medesimo mortale e creatrice”. L’ambigua, multànime, chiaroscurale allegoria della Tempesta giorgionesca può condurre l’uomo dell’estetismo fino al cuore di un’ossimorica, ineffabile “tristezza voluttuosa e ardente” in cui si intrecciano vita e arte, minacciate entrambe, in pari misura, dalla caducità, dalla precarietà, dall’oblio; e si pensi alla “carne caduca” della Foscarina, o alla cupa ombra della contessa di Glanegg, o, ancora, alla sconsolata visione delle ville venete in rovina, o ai tanti altri inquietanti simboli della morte dell’arte e della bellezza - pur assiduamente, quasi asceticamente celebrate e venerate - che popolano il romanzo.
“Così, (...) per via di segrete analogie noi fummo condotti dalla natura a trovare il significato verace del simbolo giorgionesco”. L’analogia e il simbolo accendono lo sguardo sintetico e simpatetico della “relation critique”, nella cui vasta arcata natura e arte si stringono in un indissolubile, simbiotico abbraccio, in cui sembra essere la seconda a dare linfa e respiro alla prima. “Per via di segrete analogie”, dicono le Note; e ci troviamo, anche cronologicamente, nel cuore dell’elaborazione e dell’evoluzione del grandioso “sistema dell’analogia” ricostruito da Anceschi in pagine notissime; qui può essere interessante andare alla ricerca di alcuni raccordi intratestuali. Nel Fuoco, poco prima di tenere il famoso discorso sull’ Allegoria dell’Autunno, Stelio Effrena cerca di “ricomporre”, “con sintesi geniale”, i dati sensoriali e visivi che la pittura veneziana trasmetteva alla “tensione estrema del suo spirito”; egli tentava di “scoprire qualcosa delle segrete analogie che dovevano collegare le imagini molteplici e diverse apparenti come come ne’ rapidi intervalli di un balenìo. (...) Tanto era il suo orgasmo che gli si vedevano tremolare sotto la pelle i muscoli del viso”. Ancora, applicati alla tesa, spasmodica, quasi atletica preparazione all’atto critico, tutti gli elementi della gnoseologia simbolista, dell’”espansione” dell’io: una “contrattura convulsiva”, come la baudelairiana “secousse nerveuse”, “imagini molteplici” da sovrapporre per analogia, che appaiono e si danno per bagliori, illuminazioni, intermittenze. Già nelle Vergini, Violante - di cui parrebbe così ulteriormente confermata la natura di metapoetica prosopopea - poteva dire: “ho vissuto mille vite magnifiche” - come la Foscarina... -, “passando per tutte le dominazioni sicura come chi ricalca un sentiere già cognito. Negli aspetti delle cose più diverse ho saputo scoprire segrete analogie con gli aspetti della mia forma, e per un’arte nascosta indicarle alla meraviglia degli uomini”; e il sintagma ricompare, significativamente, e sempre in riferimento alla figura di Violante, nella pagina conclusiva del romanzo: “segrete analogie congiungevano i circostanti misteri al suo mistero”. Anche Violante è nondimeno minacciata dall’ombra della morte, tanto che le sue vesti e i suoi gioielli - come non pensare ad Erodiade... - non sono che “l’ornamento impreveduto e divino della mia caducità”. La stessa arte scenica della Foscarina era sustanziata di “analogie naturali” da cui ella traeva “le potenze d’espressione che meravigliavano i poeti e i popoli”, e grazie a cui riusciva a ritrovare il “senso dionisiaco” sotteso ad una “natura naturante” ancora memore dello spinozismo romantico.
“Per analogia”, Stelio “si ricordava dei momenti straordinarii in cui - nel silenzio e nel calore intellettuale della sua stanza remota - la mano” - ancora la “mano casta e robusta” di cui parla la Laus vitae - “aveva scritto su la pagina un verso eterno”. Il meccanismo del pensiero analogico svolge qui la funzione di ribadire come i concetti estetici e le formulazioni del discorso critico si risolvano sempre in elaborazione stilistica, verso, Verbo.
Ha osservato Giancarlo Leucadi che “il fortunato ascoltatore del discorso di Stelio Effrena è il protolettore dei romanzi novecenteschi” (95 bis). E, in effetti, c’è già qualcosa di pienamente novecentesco in questa parola retoricamente orientata, che anela a trasmettere la propria essenza, per simpatetica vibrazione, ad un fruitore che è implicitamente chiamato in causa quale diretto “collaboratore” al processo di significazione.
Analogia, dunque, e allegoria: l’Allegoria che attraversa tutto il romanzo, che dagli affreschi si trasfonde alla pagina, e che, come forma e “metodo” di percezione e di esegesi che scopre nei fatti artistici significati inaspettati e nascosti, si riverbera sulla scrittura critica. Un’allegoria, ovviamente, che - per quanto anch’essa segnata dall’ombra della decadenza, della rovina, della morte - non ha più la profondità e la complessità dell’allegoria baudelairiana, dell’allegoria, cioè, che lo sguardo stanco e allucinato del “grande rimuginatore” proietta sul paesaggio urbano della città che muta - e l’allegoria veniva allora detronizzata dallo statuto di assolutezza metafisica, di inviolabile, gnomica metatemporalità, cui l’aveva innalzata una millenaria tradizione; essa veniva calata nella dimensione del relativo, del soggettivo, di una visuale defilata e straniata, e veniva nel contempo immersa nel fuggitivo, nel transitorio, nel divenire: “Et tout pour moi devient allégorie”... Allegoria, se si vuole, anche come sorta di “doppia vista” che traduce il dato sensibile in tormentosa riflessione intellettuale: riflessione dell’uomo sul reale e della poesia - il premallarmeano Cigno - su se stessa.
Si è giustamente parlato di un declino dell’allegoria nell’età postbaudelairiana. “Le cose (...) patiscono una condanna che non lascia scampo e che tuttavia non annienta l’organicità dei loro rapporti, perché questa è, fino a un certo segno, preservata dall’Analogia” (96), una Universalis Analogia quasi ipostatizzata ed elevata ad eone, principio metafisico, surrogato di dio. Un’ipertensione intellettuale esasperata fino alle soglie dell’allucinazione e della follia - quasi, fisicamente, del crampo, dello stiramento, dello strappo - dilacera e scompone i materiali di un’allegoresi - quella della pittura veneziana - di per sé storicamente e culturalmente determinata, ancorché intrinsecamente polisensa; a quel punto, solo l’Analogia può cercare, entro il dominio della Parola, di ricomporne e ricucirne i lacerti.
In D’Annunzio, certamente, “sono l’’organico’ e il ‘vivente’ a impadronirsi dell’allegoria e a imporle il turbamento cieco di una corporalità risvegliata” (97). Ed è proprio in questa luce che l’ independent critic usa la fonte biografica vasariana: Giorgione “dilettossi continuamente delle cose d’amore”... Proprio per questo si insinua, nelle sue policrome ed inquietanti allegorie, una tutta dannunziana “tristezza voluttuosa”, e nel Concerto campestre “la Musica, la Voluttà, la Morte, le tre divine sorelle, compongono (...) una magia infinitamente soave”. Giorgione “non conosce tristezza più grave di quella che segue i ciechi furori del desiderio. (...) Egli è (...) l’uomo nato per esercitare l’amore per vivere e morire d’amore. La carne feminile è per lui il più bello e il più dolce frutto”... Come non pensare, poniamo, a certi sonetti dell’ Intermezzo ? La stessa oscurità del personaggio, la stessa scarsità di fonti storiche certe, favorivano la fin troppo palese identificazione simpatetica tra soggetto ed oggetto della relazione critica. “Mi accadrà spesso” - confessava Baudelaire nell’ Exposition universelle - “di apprezzare un quadro unicamente per la somma di idee o di fantasticherie che susciterà nel mio spirito”...
“In D’Annunzio l’allegoria (...) conosce una nuova e per certi aspetti estrema fase della crisi che la travaglia nell’età postbaudelairiana” (98). L’”infanzia della poesia” celebrata in Canto novo coincide, è vero, con l’allegoria di una vitalità carnale, panica, debordante, perversa e polimorfa, e di segno dunque del tutto opposto rispetto all’infanzia “desesualizzata e prefreudiana” di un Pascoli. Ma in Alcyone l’infanzia è già segnata, dopo il Trionfo della morte, Il Fuoco e, perché no, anche le nostre Note, dalla “tristezza voluttuosa” di una carnalità sorvegliata dall’ habere non haberi, di una sensualità virile e criticamente autocosciente, e proprio per questo più contrastata e problematica. Un’infanzia che, in un contesto marcatamente metaletterario, è già “presàga di remoto lutto”; il fanciullo, pur se “melodiosamente”, “si allontana”. E ritorna, infinitamente ed ossessivamente variata, l’icona della riflessione: “Fa ch’io veda l’imagine / di me nel cupo speglio!” Qui l’immagine riflessa, montalianamente, si allontana: l’allegoria della riflessione è allegoria di una perdita - il “dessaisissement”, lo “spossessamento” di Bataille. “Giaccion tronche le statue divine / cadute dai fastigi”. Come nei giardini delle ville venete del Fuoco, le statue distrutte allegorizzano la morte dell’arte, come poi faranno, parodisticamente, le “Stagioni camuse” della Signorina Felicita. Come nella montaliana Fine dell’infanzia - non per nulla intessuta, nella prima parte, di reminiscenze dannunziane - è ormai giunta “l’ora che indaga”. Prima “si vestivano di nomi / le cose”; il fanciullino pascoliano era l’”Adamo che mette i nomi a tutto ciò che vede e sente”, sorta di archetipico, cosmogonico onomastikos. Ora, paventandosi la morte dell’arte, la fine delle musiche virtù dell’ artifex, i nomi si staccano dalle cose, e il volto della poesia rischia di perdersi nella “finta calma”, nel fosco, insondabile abisso delle “acque scavate” - o in un mallarmeano “désastre obscur”, che D’Annunzio riesce a malapena ad ignorare o rimuovere con il suo parnassiano, calligrafico narcisismo verbale.
Come ha notato Marco Antonio Bazzocchi in una sua acuta e penetrante dissertazione, “il cammino verso l’allegoria rappresenta, in D’Annunzio, anche il graduale riconoscimento di un io lacerato che acquista la coscienza del proprio destino temporale e può esprimersi solo attraverso le rovine del testo. L’ombra del Libro segreto grava, in questo senso, su tutta la scrittura romanzesca”. D’Annunzio, infine, arriva ad “assume re proprio la morte come ultima esperienza da esibire. (...) Questo sembra essere l’unico approdo al termine dei viaggi di uno spirito ormai diseredato di tutte le proprie maschere” (98bis).
Questo è, alla fin fine, il vero significato - o uno dei possibili significati - dell’Allegoria che attraversa tutto quel “romanzo della morte dell’arte” che è il Fuoco. Nel dileguare del fanciullo - nell’impossibilità della regressione, dell’ anamnesis, della riappropriazione - si invera il presagito “remoto lutto”; e le “rovine del testo” sono, forse, le statue abbattute, le “alte ruine / cui scindon le radici / errabonde”.
“Con mano / casta e robusta”, nel metaletterario Encomio dell’opera della Laus vitae, grande allegoria della poesia “ode e lode di sé medesima”, il poeta traeva le parole “dal gorgo / della prima origine, fresche”, e dava loro nuova vita. Ed è “con mano sì casta” che il poeta dice, nel Proemio alla Vita di Cola di Rienzo, di aver “composto (...) le sette ballate del Fanciullo”. E un interessante riscontro si trova, sempre per la simbologia legata all’immagine delle mani, nelle Vergini: “Ma le mani sublimi di Violante, esprimendo dai teneri fiori la stilla essenziale e lasciandoli cader pesti al suolo, compievano un atto che, come simbolo, rispondeva perfettamente al carattere del mio stile: (...) Tale non era uno tra i più gravi offici della mia arte di vivere?”. Ed è evidente, qui, e in un’accezione ben diversa da quella pascoliana, la reminiscenza dantesca della figura di Matelda, che sceglie “fior da fiore”.
Ma quando il fanciullo di Alcyone si allontana, e il cuore presagisce “remoto lutto”, la mano “casta e robusta” non sembra più in grado di trarre dall’”oscura profondità della lingua” la parola, sottraendola alla consunzione e all’oblio. Nel Libro segreto quella stessa mano, la mano abile e vigorosa dell’ artifex, apparirà alonata di tenebre e di morte. Anche allora, certo, il poeta vedrà se stesso come “operaio artiere artista, intera volontà d’invenzione e di espressione” - in una luce, sembrerebbe, quasi carducciana, e insieme crociana. Come nelle più limpide e felici armonie alcyonie, “ogni nota delle foglie e delle gocciole mi tocca in tal parte di me dove non giunge la musica degli strumenti” - dove non giunge, avrebbe detto Boezio, la musica instrumentis constituta, ma solo la più intima e profonda musica humana -, “ma ‘con una volontà di musica”. “La mia mano è tanto bella e distante che mi sembra appartenere alla flora sottomarina. (...) In quest’ora il mio genio è la mia solitaria fosforescenza”.
Sennonché l’artefice deve domandarsi angosciosamente: “ma perché non posso né potrò mai dimenticare l’ora quando per la prima volta le mie mani apparvero cadaveriche al mio sguardo fisso?” L’icona del corpo-parola - e della “mano” dell’ artifex - qui si dissolve, novecentescamente, nella dissociazione dell’io, nel “vedersi vivere” - anzi, vedersi morire. La morte è davvero - venuta meno, o anche solo posta in dubbio, l’onnipotenza del Verbo - “unico approdo (...) di uno spirito ormai diseredato”. Sull’incantesimo verbale dell’affabulazione e della mitopoiesi si allunga l’ombra della disgregazione e del nulla, che solo la Parola sapeva esorcizzare.
7. Veniamo infine alla definizione cui si è fatto più volte riferimento, e che dà - per pura metonimia - il titolo a questa trattazione. “L’acquisto di qualunque nozione” - concede D’Annunzio agli eruditi - “è sempre utile; la nostra cultura non è mai a bastanza ricca; la nostra coscienza” - e si ponga mente al valore quasi “tecnico” che quest’ultimo termine assume nei marzocchiani - “non è mai profonda a bastanza. Bisogna che il critico abbia grandi e folti cerchi di vita intellettuale e storica intorno al suo proprio cerchio”. Anche per Wilde comprendere e “sentire” realmente e profondamente la grandezza di Milton era “il premio di un’erudizione perfetta”...
Tuttavia, la critica è qualcosa di essenzialmente diverso, richiede - per riprendere i termini flaubertiani - entusiasmo, gusto, immaginazione. “Ora, che altro può mai essere la critica se non l’arte di goder l’arte? E qual mai può essere l’officio del critico se non quello di comprendere e di sentire intensamente al conspetto dell’opera bella per riconstituire poi la sua comprensione e per ricomporre la sua commozione con tutti i mezzi della parola scritta? CRITICA ARTIFEX ADDITUS ARTIFICI” - e si noti, tra le righe, che alla parola scritta, all’atto sublime e sacrale della scrittura, è qui demandata la funzione di “riconstituire” e “ricomporre” a posteriori, attraverso l’autodominio e la “meditazione”, le dissociate e rapsodiche “impressioni” còlte dal critico, il quale, dunque, pur “solo di fronte all’opera”, non è abbandonato al flusso incessante del suo dilettantismo di sensazioni.
Una definizione, questa, che, come spesso accade nella storia del pensiero, è poi stata più volte ripresa, citata - di solito in tono ironico e spregiativo -, alterata e variata, e comunque sempre estraniata dal suo originario contesto, che spero di avere, fin qui, ricostruito in modo abbastanza attendibile.
La definizione sembra essere, sostanzialmente, di originale conio dannunziano, cosa davvero strana in uno scrittore per antonomasia “citazionista” e “plagiario”. Essa, peraltro, riprende testualmente, ed amplifica, una enunciazione di Conti, che aveva definito l’arte come homo additus naturae (99), come elemento che sublima, trascende e completa, o “continua”, la realtà naturale. Questa linea di pensiero veniva poi ad intrecciarsi e a sovrapporsi alla tipologia, già tardoantica, del critico come scriptor additus scriptori, di cui si incontrano, come segnala l’eruditissimo Adrian Marino (100), vari esempi in àmbito greco e latino, in massima parte in età postclassica.
Se già Stazio, quando da poco si erano spenti gli ultimi bagliori dell’età aurea, poteva elogiare un rétore capace di “eguagliare Omero”, nei secoli successivi l’idea del testo critico, o dell’ ekphrasis figurativa, come arte sull’arte o arte nata dall’arte, divenne quasi topica, specie a partire dalla tarda età imperiale.
Il rétore doveva essere in grado di “gareggiare col marmo e col colore e col suono, sicuro e convinto di poter, per mezzo della parola sapientemente mossa, comporre un brano artistico equipollente, in qualche caso anche superiore” (101). Non è difficile immaginare che il narcisismo e il virtuosismo verbale degli artifices dell’estetismo potessero essere sollecitati da questa impossibile sfida. Conti e D’Annunzio, lettori, come Mallarmé, del Cratilo platonico, sapevano del resto assai bene che l’ onomastikos mescola i fonemi come il pittore i pigmenti, e che lo zoon - “figura”, “immagine”, e insieme “vivente” - è per la pittura quello che il logos - il “verbo” - è per l’arte retorica...
Non è mancato neppure chi è arrivato ad affermare che le ekphraseis classiche “livrent ce qui se rapproche le plus de la critique d’art telle que Diderot ou Baudelaire l’ont progressivement définie”; è comunque innegabile che “dans cet univers clos, où la rhétorique est souveraine, c’est à propos d’un objet intièrement créé par l’ artifice du verbe que le langage se célèbre lui-même” (102). Forse la più alta e paradigmatica manifestazione di questa anfibia attitutine della parola retoricamente organizzata, oscillante tra enunciazione e digressione, letterarietà e metaletterarietà, appropriazione del reale e “lode di sé medesima”, è nel proemio di un’opera amata e letta in ogni epoca, gli Amori pastorali di Dafni e Cloe: la parola del Sofista dovrà liberare dai confini e dall’immobilità dell’immagine la struttura narrativa che vi è imprigionata, esplicitare il “romanzo potenziale” che in essa si cela, letteralmente “riprodurre il quadro in un romanzo”; un quadro che non attende altro, che è già parola implicita, immensa ed ineffabile allegoria di amore, morte, vita... L’opera d’arte, come “universo chiuso”, sistema adiabatico, “cosa aggiunta al mondo”, sarà teatro per l’esibizione del rétore, quasi organismo ospite della sua parassitaria ma, infine, inverante superfetazione verbale; e la parola del sofista - per riprendere, spogliata di ogni connotazione spregiativa, la felicissima definizione crociana - “attesta, e insieme celebra, la virtù dell’artefice”, dell’artefice del quadro come di quello dell’ ekphrasis. Al di là della possibile, anche se non direttamente verificabile, suggestione offerta dalle ekphraseis degli autori antichi la cui frequentazione da parte degli esteti è comunque comprovata da una "favilla" del marzo 1896, Il fiore del bronzo -, è ovvio che possono essere additate fonti ben più certe e più prossime per la concezione della critica d'arte, e della critica tout court, come genere della letteratura. L'identificazione o l'accostamento fra la descrizione di un quadro e il "poème en prose" cui si è accennato e che è stata illustrata nelle pagine precedenti erano legati addirittura a quella che molti considerano come la vera e propria nascita del "poème en prose" come genere letterario: Aloysius Bertrand sottotitolava significativamente il suo Gaspard de la Nuit come "phantasies poétiques à la manière de Callot et de Rembrandt", un incisore e un pittore che, non a caso, sarebbero stati oggetto di attenzione, e di mimesi ed emulazione poetico-letteraria, da parte di Baudelaire. Anche Rimbaud e Mallarmé avrebbero guardato a Bertrand come ad un modello. E il teorico delle Divagations, della cui prosa critica D'Annunzio aveva sottolineato, nella citata segnalazione giornalistica del 1887, lo "stile ansante e singhiozzante", aveva definito, come si è visto, la giovanile Symphonie littéraire come esempio di critica letteraria intesa, nell'ottica di un audace sperimentalismo orientato verso la fusione dei generi, come "paysage emblématique", in un senso, cioè, tra poetico e figurativo.
Altrettanto vive e penetranti erano le suggestioni offerte dalla letteratura inglese, tra preraffaellismo ed estetismo. La dottrina ruskiniana, cui già si è accennato a proposito di Nencioni, di pittura e poesia come "sister arts" e "allied arts", e del poeta come "pittore che scrive", poteva ben sposarsi, nell'orizzonte culturale dei marzocchiani, con la concezione baudelairiana di una "critique amusante et poétique". Secondo, poi, quanto Pater scriveva nel saggio On Style, in appendice al volume Appreciations che arrivava agli esteti anche attraverso una tempestiva recensione, a firma proprio di Nencioni, sulla Nuova Antologia del febbraio 1890, in cui se ne elogiava lo "stile squisitamente artistico" e il "ritmo melodico del periodo" -, "the elementary particles of language will be realised as colour and light” (emergeva, qui, il Pater studioso di Platone e del platonismo e lettore del Cratilo); di conseguenza, non si poteva ignorare "that latent figurative texture in the speech", "tramatura latente" che i virtuosismi formali dell' artifex erano pienamente in grado di portare alla luce.
Wilde, poi, in Intentions una delle fonti dirette del pensiero teorico degli esteti italiani -, e per la precisione nel saggio Pen, pencil and poison, sottolineava come fosse "eccellente" il "concetto del creare un poema in prosa ispirato a un quadro", vista la "reale identità dei semi fondamentali della poesia e della pittura"; nel dialogo The Critic as Artist, già preso in considerazione come fonte della concezione della critica creativa e poetica, lo stesso Wilde elogiava Ruskin per aver posto la sua critica nella forma di quella "imaginative prose" teorizzata da Pater. Insomma, come ben si vede, siamo in presenza di un fitto dedalo di possibili fonti e riferimenti, qui appena delineato per sommi capi, e in larga parte ancora da indagare in modo capillare e sistematico, e tale da mostrare quanto complesso e stratificato fosse il retroterra culturale che gli esteti celavano abilmente dietro la candida maschera della naïveté e della rêverie.
Si è già accennato alla dinamica argomentativa che condusse Croce, nel Breviario di estetica redatto per l’E nciclopedia Britannica, a sostituire al modello dell’ artifex additus artifici quello di un severo e metodico philosophus additus artifici. Croce, beninteso, era un ottimo conoscitore degli scritti teorici degli esteti, e decise accortamente di combattere, con facile successo, le loro posizioni, intravedendo il pericolo che esse potevano rappresentare per la fondazione della sua estetica: da un lato un “antimetodo”, una critica fondata su di una spregiudicata, “spontanea”, antisistematica ed antidogmatica adesione e compartecipazione ai dati dell’estési; dall’altro - sorprendentemente, e in modo apparentemente contraddittorio rispetto alla professata naïveté – la presenza di un elemento ibrido e spurio posto tra l’”intuizione” e l’”immagine”: “meditazione”, “self-consciousness”, o un altro consimile “pseudoconcetto”, come poi - con le debite distinzioni e proporzioni - sarebbe parso al filosofo dell’ Estetica l’umorismo pirandelliano, a sua volta legato, non a caso, alla teorizzazione di una “critica fantastica” esprimentesi nelle forme della narrazione e del dialogo...
E non devono sfuggire le decisive implicazioni metodologiche insite nel fare del critico un filosofo. Come ha notato uno dei non moltissimi autori che si sono occupati del problema del concetto di critica letteraria in Croce, “l’inclusione del ruolo del critico entro la sfera del pensiero concettuale comportava (...) un rischio. Poiché egli si presentava come un filosofo, (...) tutte le sue formulazioni tendevano a presentarsi come assolute, implicando una sfida ad accettare le premesse o a rifiutare le conseguenze. (...) La nuova scienza dello Spirito, con la fondazione della prima Estetica, stava logicamente per condurre ad una scienza della critica, ad una scuola (...) ‘scientifica’ di critica”; ed era inevitabile che tutto ciò sfociasse in “a certain dogmatic intolerance” (103). Non è casuale, poi, che la nozione di “stile”, così importante per gli esteti, venisse prudentemente confinata da Croce nel limbo degli “pseudoconcetti” (104).
In una dedica autografa del’21, quando era ormai lontana l’appassionata militanza di critico e teorico della critica, D’Annunzio si diceva ancora sdegnato dalla “tanta ottusità disattenta” della critica contemporanea, e insieme ammirato dalle doti di un Cecchi, “lettore che sa leggere” e non per nulla, come è stato scritto, “caparbiamente critico artifex additus artifici” (105). Secondo un giudizio dannunziano riportato dallo stesso Croce, l’autore dell’ Estetica era “un pedante come tutti gli altri”. Per quanto possa sembrare paradossale, agli occhi di D’Annunzio lo spettro del dogmatismo e della rigidità propri di una critica “scientifica” si incarnava in Croce proprio come, un trentennio prima, si era incarnato nei “pedanti”, negli “eruditi” e nei “fontanieri” della scuola storica.
Sempre nell’àmbito del dibattito primonovecentesco di area crociana e anticrociana, è interessante notare come la formula venisse ripresa, anzi addirittura polemicamente e paradossalmente amplificata, da Borgese. “Il De Sanctis (...) aveva bisogno di credersi oggettivo, e non osò mai confessare a sé medesimo che egli non confrontava ciò che un poeta aveva voluto con ciò che aveva fatto, ma piuttosto ciò che egli desiderava in un poeta con ciò che il poeta gli offriva. (...) E allora tra il critico e il poeta si impegna la lotta: non è il critico, come fu già detto” - e qui Borgese omette di nominare l’odiosamato D’Annunzio - “artifex additus artifici, ma, in qualche modo, artifex oppositus artifici. (...) Il critico sublima il poeta che gli appresta le parole per i suoi fantasmi muti”. Il critico dona “colorazioni nuove” e “significati insperati” a “certe sillabe che prima ci sembravano quasi ignude”; egli è un “nuovo poeta, costretto a realizzarsi nelle forme di altri poeti”. A prescindere dal provocatorio e discutibile giudizio su De Sanctis, qui l’”invenzione critica” prende la forma di qualcosa di simile all’ aemulatio, all’umanistico concetto di imitazione come superamento, gara, “agone” con il modello, da riprendere e superare. E questo artifex oppositus artifici può arrivare a modificare o a condizionare la fortuna di un autore o di un testo presso i posteri; la pagina del critico può sovrapporsi al testo, e legarvisi in modo tanto stretto da venire a costituire con esso un tutto unico. “Dalla cintola in su tutto il vedrai”, dice Borgese, “era un verso di Dante, finché non ne parlò questo nuovo poeta. (...) Da allora esso è divenuto un verso di De Sanctis fatto con le parole di Dante” (106).
Si può dire che, nel Novecento, il rifiuto e la condanna della definizione del critico come artifex additus artifici siano divenuti quasi canonici, e non solo in àmbito crociano.
Addirittura Anceschi respinge, pur se con il suo consueto garbo, questo modello di critico, che compirebbe “un movimento un po’ esterno” rispetto al nucleo del fare poetico, e non sarebbe un “poeta-critico, un poeta che fa della critica un momento della sua poesia” (107); in realtà la fenomenologia, che lo stesso Anceschi ha magistralmente illustrato, in virtù della quale “la collaborazione del lettore col poeta può stendersi fino a scoprire nel testo invenzioni, intenzioni, e anche impliciti precetti che l’autore stesso non aveva previsto si potessero trovare” (108), è puntualmente verificata proprio dal rapporto di “collaborazione”, già esplicitamente teorizzata, esistente tra Conti e D’Annunzio. Quest’ultimo, non a caso, nel Ragionamento premesso alla Beata riva ammise che in Conti, spesso, ritrovava “una specie di coscienza rivelatrice e, nel comento di lui, talvolta una illuminazione impreveduta della mia propria opera”. La “meditazione” che, come Conti scrive nel fondamentale articolo sui Poeti d’oggi in Francia, media tra intenzione ed immagine, e la repentina, folgorante “illuminazione” - il critico del Giorgione, si ricorderà, “illumina” il “simbolo consolatore”... -, forma di percezione e di conoscenza tipica del simbolismo da Baudelaire a Rimbaud (109), sono componenti e strumenti della collaborazione tra il poeta e il critico.
Più drastico, tra i tanti, Carlo Salinari, che, annettendo fiduciosamente la critica letteraria “alla sfera della conoscenza storico-scientifica”, liquida in poche righe “qualche superstite estetizzante che si ostina a considerare il critico come artifex additus artifici, come una scimmia che rifà il verso al poeta” (110); e voglio sperare che la mia ricerca abbia dimostrato almeno che il critico artista dell’estetismo, al di là di certi eccessi e certe degenerazioni, è qualcosa di più di una scimmia.
E, per concludere, non mi sono sorpreso di trovare questa definizione, pochi mesi or sono, in riferimento alle tuttora vive discussioni sul decostruzionismo: il creative critic sarebbe un “‘creatore’, ‘ artifex additus artifici ’, critico cioè che prosegue con mezzi propri l’opera dell’autore, così da formare col suo meta-testo, senza soluzione di continuità, un unicum strutturale col testo-oggetto” (111). Credo bastino queste righe per far nascere il sospetto che la critica degli esteti del secondo Ottocento possa ancora dirci qualcosa.
X - TRA ESTETISMO E AVANGUARDIA. LUCINI E LA “CRITICA INTEGRALE”
1. I passi finora esaminati del Giorgione di Conti e delle Note su Giorgione e su la critica di D’Annunzio si inseriscono nell’àmbito della fondazione teorica del simbolismo italiano, che dev’essere a sua volta contestualizzato, come credo di aver dimostrato, e come, forse, non si è finora fatto a sufficienza, in relazione ad un più vasto àmbito europeo.
Non è possibile, allora, non accennare ad una figura come quella di Lucini, nei cui Prolegomena alle Figurazioni Ideali, del 1894 - dunque esattamente coevi al Giorgione, e anteriori alle Note solo di un anno -, troviamo, se non proprio, come vorrebbe qualcuno, il “manifesto del simbolismo italiano”, certo l’originale, e teoricamente densa e stimolante, proposta di una “via italiana al simbolismo” (112); fermo restando che Lucini sarà, agli albori del nuovo secolo, tra i primi, in Italia, a recepire in tutta la loro pienezza e molteplicità di prospettive le Divagations mallarmeane, con anticipazioni solo parziali in un Pica, o nei marzocchiani, o nel Conti di Poeti d’oggi in Francia. E non si vuole, con questo, né sarebbe in alcun modo utile, rivangare il famoso, e ormai quasi a sua volta “storicizzato”, “caso Lucini”; caso che fu forse, come è stato sottolineato, “un poco artefatto, ma comunque interessante per la problematica delle avanguardie” (113). E la “critica integrale” teorizzata da Lucini, che è l’unico aspetto della sua vasta e variegata produzione ad avere diretta attinenza con la specifica prospettiva cui questo lavoro è improntato, investe proprio, con il suo irrisolto oscillare tra autonomia ed eteronomia, tradizione e rivoluzione, il problema del delicato e sfumato trapasso dall’estetismo all’avanguardia.
2. Si è accennato ai Prolegomena. In essi si trova, pur se in quella stessa forma un po’ torrenziale e caotica che ritroveremo anche nella Ragion poetica, la prova di maggior respiro e impegno del Lucini teorico, una vera e propria teoria del simbolo, di carattere decisamente diverso rispetto a quella - non meno contraddittoria e in certi punti vaga, ma ugualmente interessante - presente nel Giorgione di Conti.
Quest’ultimo, si ricorderà, teorizzando esplicitamente, sulla via che condurrà, mutatis mutandis, al “neoimpressionismo” della critica vociana, una forma di “collaborazione” tra poeta e critico, ne aveva posto forme e modi in stretta relazione con la possibilità, da parte del critico, di “illuminare”, davanti all’”intelletto curioso e ansioso”, il “simbolo consolatore” che il poeta offre all’”umanità assetata”...
Questa tipologia di “relation critique” incentrata sullo statuto simbolico dell’espressione poetica e sull’interpretazione di essa attraverso l’intermittente e balenante chiaroveggenza del critico, viene invece, tra le righe, negata dal Lucini dei Prolegomena (114). “L’idea vagola blandula” - curioso riecheggiamento dei delicati versi dell’imperatore Adriano: “Animula vagula blandula”... - “e sfugge alla critica, (...) e brilla e spare nel medesimo tempo, come una stella in una notte tempestosa (...): e codesta idea è l’idea simbolica, essa è la primordiale, essa è il cardine ed il polo dell’opera e la emanazione dell’anima umana sorella allo spirito del mondo”. Queste parole, è bene precisare, sono attribuite - secondo la tecnica retorico-oratoria, non infrequente in Lucini, della personificazione, della drammatizzazione, della controversia - ad ipotetici detrattori della letteratura décadente, che invece Lucini intende difendere, con acuto senso storico, come espressione di una crisi di transizione e di rinnovamento: “decadenza (...) rispetto a noi, non rispetto alla filosofia della storia, decadenza (...) in quanto ricerchiamo la sostanza nuova di tutte le cose (...); decadenza in quanto lottiamo ad impadronirci di questa sostanza, forma e materia addoppiata”. Sono riecheggiati, in questo giovane ed ancora isolato teorico, i termini della polemica intorno alla “littérature de décadence”, che si stava ancora sviluppando in Francia. Ad ogni modo, quello che qui emerge sùbito in modo evidente è il carattere da un lato “intuizionistico” e spontaneistico, dall’altro metafisico e metastorico, che il concetto di simbolo tende ad assumere in Lucini. La nozione di simbolo acquisisce qui vaste e profonde risonanze filosofiche, riconducibili ad una chiara ascendenza plotiniana e neoplatonica: “emanazione”, “spirito del mondo”, “sostanza”... “Esistono forme immemoriali indistruttibili, segni percepiti e già svolti che identificano l’umanità nel simbolo”. Il simbolo, dunque, come sorta di deposito o di stratificazione “minerale” dell’inconscio collettivo, che deve essere riportato alla luce attraverso un’ anamnesis di cui proprio la letteratura di decadenza, con la sua inquietudine mobile e ricettiva, si rivela capace. Lucini parla anche di “filosofia della storia”; e il più grosso limite di questa sua prima teorizzazione risiede, forse, proprio nell’aver voluto inserire il concetto di simbolo nel quadro di un disegno metastorico di stampo ancora pienamente ottocentesco, sebbene la presenza dell’idea di décadence come sintomo di crisi e ancora irrisolto anélito alla palingenesi vi introduca una nota di modernità, tra Nietzsche e Spengler: “tre sono le epoche simbolistiche nella storia, come tre i rinnovamenti e le rivoluzioni”, quella medievale, quella rinascimentale, quella moderna.
Nell’ Epistola Apologetica (115), dell’anno successivo, la connotazione in senso neoplatonico del concetto di simbolo si precisa ulteriormente, e diviene, sul piano terminologico, ancor più chiaramente connotata; e si ha, nel contempo, e proprio attraverso questo particolarissimo ed eretico neoplatonismo, un’ulteriore difesa della “nuova Arte”. I caratteri che contraddistinguono il poeta moderno, “uomo di mondo” e “fanciullo”, sono efficacemente còlti, così come la coazione alla teoria che accompagna e scandisce la fondazione teorica della modernità: “tu ben conosci la compenetrazione tra il fatto della teorica nuova e della nuova Arte. Qui abbisognano un’assoluta verginità (...) od una profonda e magica corruzione”: Inferno o Cielo. Eppure, in modo apparentemente contraddittorio rispetto al lucido riconoscimento della moderna necessitazione all’estetica, il concetto di simbolo, essenza universale dell’arte, deve essere mantenuto immune da ogni ombra di artificio, di calcolo, di lenocinio formale: “il luccichìo (...) delle nostre rime o l’aspirazione verginale ad un simbolo rozzo ed archétipo non sono mostra di ornamento o di forma, ma di sostanza essi pure”. L’ archetypon neoplatonico si identifica con una simbolicità “rozza”, naturale, “vergine”, a cui la décadence - per una sorta di neoromantico impulso di regressione che non è estraneo, come si è osservato più volte a proposito di D’Annunzio e soprattutto di Conti, alla sua stessa interna dinamica - continua, di tanto in tanto, ad aspirare; questo retroterra teorico, che affonda le proprie radici nel romanticismo tedesco - Lucini, come Conti, conosce e cita Novalis nella traduzione di Maeterlinck -, verrà poi, come si accennerà, strumentalizzato e reso funzionale alla grande teorizzazione versoliberista.
Nella Licenza. Dialogo tra il Padre e la sua Creatura (116), le fondamenta teoriche del simbolismo luciniano incominciano ad assumere quella connotazione vitalistica che, accompagnandosi ad un riconoscimento del legame esistente tra una data creazione poetica e l’esperienza biografica ed esistenziale del suo autore, andrà poi a costituire il fondamento della “critica integrale”. “Ciò che caratterizza l’anima simbolica” - scrive Lucini citando espressamente Francis Vielé-Griffin, altro poeta versoliberista, tempestivo recettore delle teorie di Gustave Kahn - “(...) è la passione del movimento al gesto infinito, è la stessa Vita, gioconda o triste, varia di tutte le molteplicità delle sue metamorfosi, la passione agile e proteiforme, (...) ricca d’un eterno lirismo”. Anima simbolica, dunque, come Megale Psyche, anima universale, intesa come infinita, incoercibile vitalità; e non è un caso che questa Licenza figurasse come prefazione a La Prima Ora della Academia, sorta di poema drammatico e allegorico in cui l’autore, proprio nel giro di ani che vedeva l’elaborazione dei testi poi confluiti nelle Revolverate, rivendicava una funzione attiva e costruttiva del poeta nella società (“rifabricare l’antico”, “volere comunione”) e, nel contempo, metteva in opera una forma di verso libero ruvido, prosaico, tra narrativo e satirico, consono ad una poesia di cose e di idee. La décadence rivelava già di avere in sé, accanto a risonanze e “ritorni” neoromantici, anche il germe della propria fine, del proprio superamento - o forse, a seconda delle prospettive, del proprio riscatto.
3. Nel primo Lucini, arrivati all’altezza dello scritto L’Allegoria (117), il concetto di simbolo si lega, secondo una dinamica che reinterpreta in modo singolare uno dei motivi ricorrenti nelle poetiche romantiche, e che non può non suggerire, nel contempo, interessanti paralleli baudelairiani, a quello di allegoria. Anche in questo scritto la teoresi letteraria assume una forma retoricamente tesa e sostenuta, animata dalla partitura dialogica e dalla personificazione dei concetti astratti. L’autore immagina un colloquio tra Dante, Giudo Cavalcanti, e Cino da Pistoia. “Voi avete, Messer Cino, scordato Selvaggia”, dice Dante - e qui Lucini sembra fantasiosamente rivisitare ed amplificare la tenzone che realmente vide opposti i due poeti. Ma la risposta di Cino, e la successiva interlocuzione di Cavalcanti, trasportano i contenuti del dialogo totalmente all’interno della poetica luciniana, non lasciando se non un sottilissimo legame con il contesto medievale. All’accusa rivolta a Cino, cioè di aver sostituito alla reale figura della donna i tratti idealizzati e sfumati di una “figurazione ideale”, di una rappresentazione allegorica, si risponde con l’accentuare il carattere universale e metafisico della stessa esperienza amorosa, trascesa e trasfigurata dalla rappresentazione letteraria; ancora un decennio, del resto, ci separa dal vigore espressionistico, dal tono aspramente satirico, dal realismo talora crudo di certe Revolverate. La “creatura” è “un riflesso della divinità”, una “forma esigua ed annebbiata” di una suprema aspirazione conoscitiva; “e attraverso la poesia l’Amore si rimuta in Arte e quest’arte è sommessa alla Donna”, che guida ed ispira il poeta. La creatura è “una personificazione”, “un Simbolo”; quest’ultimo può “non rispond ere alla materialità”, purché “renda un aspetto dell’immutabile fascino dell’eterna essenza umana”. Le “figurazioni ideali” dell’allegoria medievale sono a loro volta partecipi dell’universale simbolicità dell’estetico. “Ora, nelle notti lunari, pioggia di sogni e d’azzurro dal cielo, vengono ancora (...) i sogni archetipi dell’italica melodia”. Più di dieci anni dopo, nell’ Esortazione di un tisico alla luna, queste “notti lunari” - già demistificate dalla famosa “uccisione del chiaro di luna” perpetrata da un manipolo di “poeti incendiari”, tra cui era ancora annoverato lo stesso Lucini - riappariranno, curiosamente, in termini assai prossimi, anche se antifrasticamente snaturati e ribaltati: “Luna, / luogo comune delli sfaccendati / in ogni prova prosodica, / (...) lenocinio archetipo alle adultere / mezza maschera vuota di simboli” (e può essere interessante il riscontro con un verso dell’ormai nota Canzone del Giovane Eroe: “pagare è il gesto archetipo”). L’immagine della Luna, avendo perso la purezza e la limpidità che aveva alle origini della tradizione letteraria italiana, si è ormai desemantizzata, è divenuta un “simbolo vuoto”, è stata privata di profondità e nerbo; e quella stessa tradizione lirica non potrà allora che riapparire, attraverso l’allusione dantesca forse contaminata con Pascoli (“la Chioccetta per l’aia azzurra / va col suo pigolìo di stelle”), in una forma straniata e stravolta: “Luna, / civetta ipocrita a starnazzare / per l’aja insabbiata di stelle: / (...) un giovane impotente e smidollato ti squadra le fiche”.
Ricompariva - tornando all’ Allegoria del ’97 - una strumentazione concettuale e terminologica di ascendenza neoplatonica; e, per questa via, quelle che potevano sembrare vacue raffinatezze preraffaellite e fioriture arcaizzanti di certa poesia minore fin de siècle (il saggio luciniano figurava come prefazione alle Ballate d’Amore e di Dolore di Luigi Donati) trovavano, grazie al concetto di simbolo, un’impreveduta dignità teoretica. E il richiamo, apparentemente un po’ goffo, all’”itala melodia” da salvare e ricostituire nella sua originaria purezza, serviva da punto di partenza per un’indiretta esortazione - dissimulata e “allontanata” dall’atmosfera della personificazione allegorica e della rievocazione storica - al rinnovamento della funzione sociale del poeta e dell’artista (è significativo che venga citato, poco oltre, William Morris), in cui Lucini continuò sempre a credere, e che in lui non si caricò delle implicazioni bellicistiche e imperialistiche che ebbe in D’Annunzio, in certo Carducci, o nell’ultimo Pascoli: “popolo italiano, atavico martire e schiavo, (...), popolo di tua virtù credente in te, nel tuo lavoro, non mai stanco. (...) E la fame e l’ignoranza ed il diuturno sacrilegio alli eterni diritti tuoi? Fruga nella coscienza propria e nella tua un sottile perché il poeta e te lo spiega lagrimando e sorridendo insieme”. “La poesia” - scrive Lucini lettore di Novalis - “è il reale assoluto”, è insieme individuale e universale, particolare ed eterna; caratteri, questi, che si riassumono nello statuto allegorico - pienamente fruibile anche per il poeta moderno - della “Ballata italica”. “L’opera nostra (...), quando si persuade nel lievito fermentato delle passioni individuali, delle aspirazioni, dei sogni personali e tutto questo racchiude in una sintesi” - torna, anche qui, questo concetto così importante per il simbolismo e per l’estetismo, e legato anche al sogno dell’opera d’arte totale, della poesia come “orchestrazione verbale” - “non è più mostra di gretto soggettivismo, non particolarità effimera (...); ma una variazione elaborata sulla eterna sinfonia. (...) Il poeta è fatto centro del movimento cosmico, lo dirige, lo assorbe, lo attrae; e le significazioni delle sue Donne divengono la Diotima, la Beatrice, la bionda fanciulla dalle treccie (sic) spioventi di Rossetti” (ancora il riferimento al preraffaellismo); in tal modo la donna “sta in tutti i tempi, sotto a qualunque cielo, in ogni contingenza, e Donna, e Simbolo, e Filosofia, e Voluttà”.
C’è già, qui, in quest’idea di una poesia che fonda in sé reale e ideale, corpo e pensiero, Donna e Filosofia, un implicito riferimento a quella grande linea romantica della critica letteraria italiana, da Foscolo a Settembrini a De Sanctis, dalla quale Lucini trarrà parte dei fondamenti teorici della “critica integrale” applicata nei saggi della maturità. Per il Foscolo del discorso Sulla Commedia di Dante, nella Beatrice del Paradiso si erano fuse la donna “corporea e sensibile” della Vita Nuova e la “donna intellettuale”, assoluta ed archetipica, del Convito (118); e si ricorderanno le pagine in cui De Sanctis insisteva su di un Dante splendidamente definito come “un ponte gittato tra il cielo e la terra”; per De Sanctis, peraltro, in termini tipicamente romantici, che saranno poi fatti propri da Croce, l’allegoria, in quanto “forma provvisoria dell’arte”, “guasta e mutilata”, “allarga il mondo dantesco, e insieme lo uccide”. Lucini - che nella citata Prima ora della Academia parlerà di un suo “paese delle Allegorie, delle innocenti Allegorie”, “limpidissime come cristallo”, “immagine plastica d’ogni passione” - sembra riabilitare l’allegoria, assimilandola e rendendola omogenea al dominio del simbolico, cioè - almeno nell’accezione primoromantica fatta propria da Lucini - della spontaneità, della naturalezza, dell’universalità. La dinamica che, nella Ragion poetica, porterà Lucini ad ascrivere al simbolismo - delineando così un canone assai peculiare ed eclettico, anche se un po’ anodino - esperienze poetiche disparatissime e lontanissime nel tempo, da Dante a Shakespeare a Mallarmé, è a ben vedere non troppo dissimile da quella che consentiva a Schlegel di proiettare retrospettivamente su tutta la grande poesia del passato la nuova nozione di poesia “universale e progressiva”.
Anche l’aspetto del rapporto tra simbolo e allegoria - non a caso strettamente legato al recupero e al trasfunzionamento della tradizione, di tutta la tradizione - differenzia notevolmente Lucini dai futuristi, che condanneranno l’allegoria come costruzione logica che inibisce il libero concatenarsi delle analogie, e che non è che “il seguirsi dei secondi termini di parecchie analogie, tutte legate insieme logicamente”, laddove invece la poesia futurista deve procedere “per gradazioni di analogie sempre più vaste in rapporti (...) profondi e lontanissimi” (119). Anche nei futuristi, per quanto concerne il rapporto tra analogia e allegoria, si riscontra, se vogliamo, una dinamica simile a quella già ravvisata in Baudelaire: l’Analogia colma, o cerca di colmare, il vuoto lasciato dalla crisi dell’Allegoria, ormai disertata dalla trascendenza, orfana della sua teologica “verticalità”, abbandonata, come insieme irrelato di frammenti, alla deriva dell’immanenza e dell’”orizzontalità”. Ma se tanto nella poesia quanto nella critica di Baudelaire, e in certa misura di D’Annunzio, l’Analogia doveva ricondurre ad una qualche forma o parvenza di “unità”, per quanto “profonda e tenebrosa”, gli sparsi dati di un’esperienza e di una conoscenza lacerate dall’inesauribile polisemicità delle allegorie, nei futuristi essa deve, al contrario, assecondare la deriva e il naufragio “nel mare misterioso dei fenomeni”, eccitando “l’ossessione lirica della materia”. Sembra che già nella giovanile Allegoria luciniana vi siano, in riferimento a questo particolare aspetto, alcuni dei germi teorici di una poetica che resterà, anche prima della rottura con Marinetti e della famosa accusa di “parricidio”, sostanzialmente distinta da quella dei futuristi.
A ben vedere, tuttavia, questo recupero dell’allegoria, questa sovrapposizione o, se si vuole, confusione tra allegorico e simbolico, non è che un altro aspetto o una particolare fase di quella crisi a cui l’allegoria va incontro nell’età postbaudelairiana (120); nella Ragion poetica, d’altro canto, Lucini recupererà, anche sulla scorta dell’incontro con l’ Estetica crociana, la contrapposizione idealistico-romantica tra il simbolo “naturale” e l’allegoria “costruita”: l’allegoria gli apparirà allora - in netta contrapposizione con le “innocenti Allegorie” di cui parlava, solo sei anni prima, in limine alla Prima Ora della Academia - come “un’astrazione dalla vita”, in cui interviene, per comporla, un giudizio, una scelta, cioè un’operazione retorica”.
Il trasfunzionamento dell’allegoria, e la sua sovrapposizione al simbolo, sanciscono un definitivo distacco dal concetto di allegoria come Baudelaire lo concepiva. Lucini, del resto, al poeta delle Fleurs guardò sempre con un’ammirazione mista a sospetto (121): ammirazione, certo, per l’ironista sagace e spietato che aveva messo in luce le falsità e le miserie del “lettore ipocrita”; sospetto, forse, per il suo spregiudicato amoralismo, il suo equivoco demonismo “cattolico-satanico”, il suo gusto per l’artificiale e per il “surnaturel”. Quest’ultimo aspetto, in particolare, non poteva trovare concorde un autore che in un articolo del ’99 rimproverava agli scrittori contemporanei, foscolianamente e leopardianamente, di “non operare secondo natura” e “allontanarsi da natura” (121 bis).
Per Baudelaire, l’allegoria è, come si è già visto, lo sguardo lucido e chiaroveggente del “rimuginatore”, che seziona e filtra gli sparsi dati della percezione; altrove - penso a testi come Allégorie, L’Irréparable, L’Horloge - l’allegoria svolge la funzione di dare consistenza materiale ed evidenza visiva e drammatica a concetti astratti, a princìpi metafisici, o - quasi in una sorta di moderna psicomachia - alle fantasmatiche, allucinate ipòstasi della “conscience du Mal”. In D’Annunzio, come si è già accennato, l’allegoria, persa gran parte della sua profondità metafisica, si trasferisce e si riverbera, certo in modo un po’ meccanico, dalla rappresentazione figurativa alla pagina letteraria, tanto narrativa quanto critica. Stelio Effrena, nella sua famosa orazione, riusciva a riprodurre, anzi a “tradurre nei ritmi della parola il linguaggio visibile” dell’opera figurativa, mimando, nei suoi “periodi armonizzati come strofe liriche” - e di “armonizzazione” parla, significativamente, anche la lettera prefatoria del Trionfo della morte -, una baudelairiana “armonia di colore”, e trasferendo l’”intelligenza ritmica e fittiva” dell’Allegoria nuziale effigiata negli affreschi veneziani dal colore al verbo, e da questo all’unanime e simpatetica “vibrazione” di una folla misticamente “sitibonda” - e si ricordi l’”umanità assetata” del Giorgione, che attende dal poeta il “simbolo consolatore”... Si potrebbe forse applicare, con consapevole anacronismo, anche a questa particolare e complessa forma di scrittura critico-oratoria la definizione che oggi Paul de Man dà di ogni atto critico: “allegoria di un’allegoria”; definizione che, significativamente, Sanguineti ha potuto applicare, in una diversa luce, anche e proprio al “discorso esegetico” sviluppato dal Lucini maturo e “antidannunziano” (122). E si potrebbe notare, al riguardo, che già D’Annunzio si sofferma - riferendosi peraltro non alla poesia stilnovistica, ma ad un affresco del Tintoretto - sull’immagine di una “Donna simbolica”, proprio come il Lucini del ’94, ancora al di qua della verve polemica di Antidannunziana.
In Lucini, si è detto, il confine tra allegoria e simbolo - nella giovanile Allegoria come nella più matura Prima Ora della Academia - si assottiglia e tende a svanire; e non è più tanto, come tendenzialmente in Baudelaire, il simbolico, dapprima romanticamente “ingenuo” e naturale, ad essere risucchiato entro il dominio di un’allegoria lacerata e straniante, quanto, al contrario, l’allegoria - un’allegoria polemicamente ricondotta, pur alla luce di una décadence perfettamente autocosciente, alla sua più genuina tradizione “italica” -, ad essere riportata entro il dominio del simbolico, di un simbolico “rozzo” ed “archetipo”, sulla linea di quella “via italiana al simbolismo” che Lucini tenta di tracciare. Si potrebbe quasi dire che il simbolo luciniano, già all’altezza del Libro delle Figurazioni Ideali e del Libro delle Imagini terrene, svolga una funzione in tutto simile a quella che era adempiuta, in Baudelaire, da quell’allegoria che dopo di lui entra in crisi. Osserva Jean Starobinski che, nelle Fleurs, l’allegoria “da un lato consiste (...) nella possibilità di attribuire un senso ‘spirituale’ a una scena della vita comune, a un incontro apparentemente banale nella sua letteralità contingente” - e in questo frangente, come ad esempio in un testo come À une passante, la trasfigurazione operata dal processo di allegorési viene a coincidere con lo choc fulminante e straniante, con le subitanee e fuggitive epifanie di una bellezza e di una purezza soffocate dalla palude della vita urbana -; “d’altro lato, secondo la via inversa”, l’allegoria “conferisce a entità ‘astratte’ una figura materializzata, incarnata, quasi visibile. (...) Nei due tipi di allegorizzazione assistiamo a un raddoppiamento di senso” (123). Siamo, qui, in presenza di qualcosa di simile alla dialettica, e insieme complementarità, che esiste, nel primo Lucini, tra “figurazione ideale” e “imagine terrena”; due aspetti o due volti - un po’ come i due lati della “maschera” baudelairiana e wildiana, o dell’Erma di D’Annunzio - che si si uniscono nel simbolo. Lucini apprendeva dal Mallarmé dell’inchiesta sull’evoluzione letteraria “le parfait usage de ce mystère qui constitue le symbole: évoquer petit à petit un objet pour montrer un état d’âme, ou, inversement, choisir un objet pour et en dégager un état d’âme, par une série de déchiffrements”. Si creava un movimento duplice ed unitario che da un lato redimeva le “imagini terrene” dalla cecità della materia, cogliendo e recuperando la loro risonanza archetipica, dall’altro poneva un freno, o dava quantomeno un punto riferimento, all’incondizionatezza della “parola pura” e all’autonomia del significante, cui poteva indurre l’anelito alla “figurazione ideale”. In Lucini, come notava Glauco Viazzi, “l’autonomia del significante è non già un risultato ma, invece, un punto di partenza per una serie di operazioni nel campo della significanza. Che però non consistono, queste operazioni, nel registrare; nell’elaborare, invece, il dato ‘organico’ in una, all’interno di una, struttura: la parola del verso” (124); il verso che per Mallarmé, in termini che si ritroveranno nel terzo capitolo della Ragion poetica, “de plusieurs vocables refait un mot total, neuf, étranger à la langue et comme incantatoire” (125). “Mi appar la Morte un Bimbo imperioso, / severo e grave, intento, col bel volto / chino, a scifrar un segno misterioso”. La Morte e l’Infanzia, nozioni o archetipi apparentemente inconciliabili, sono ugualmente importanti nell’immaginario della décadence: si pensi al loro rincorrersi e sovrapporsi nel Fanciullo alcyonio. In Lucini le due nozioni sono fuse nel Simbolo - o nell’Allegoria. La poesia rappresenta se stessa, il proprio déchiffrement - il Bimbo “scifra un segno misterioso”. E questo déchiffrement si trasferisce dalla tessitura del testo poetico allo speculare scandaglio della lettura critica: “non mi seppero scifrare” - scriverà l’autore nella Ragion poetica - “perché repugnarono a sentirmi” - e Lucini dirà altrove che il simbolo deve essere “sentito” -; “il torto fu in massima parte loro”.
Lo svelamento del segno coincide, nei Sonetti, con una sorta di escatologia negativa: “‘Io frugo”, dice il Bimbo/Morte, “dalla culla, / nel Destino e nei Numeri fatali” (i “Numeri” della cabbala e delle profezie, ma forse anche, dannunzianamente, i “ritmi” della poesia e della prosa); “e m’apparecchio alla disillusione, / bionda cesarie che si volge al nulla / e non ha febre nell’aspettazione”. E nei Sonetti della Chimera presenti nel Libro delle Figurazioni Ideali, e in cui sono stati ravvisati “debiti (...) sostanziosi e palesi” nei riguardi di D’Annunzio, pur se quasi parodisticamente decontestualizzati e desemantizzati, ricompare questa idea, tipicamente simbolista, della decifrazione: “se i malvagi / ‘mister la Sfinge impone a decifrare, / che importa?”. L’enigma della Sfinge non potrà, forse, mai essere risolto. “Gloriana inganna e fa l’incantamenti / sotto ai lauri folti, nella sera; / spiega il Verbo, ma nelli ammonimenti / Tu sola ghigni e irridi, Tu, Chimera!”. Il Verbo, la Parola, non è più, dannunzianamente, Divina, non è più sublime ed eletta materia per l’esercizio delle virtù dell’ artifex; non è più, come nel Poema paradisiaco, “seme indistruttibile”, “cosa mistica e profonda”, in cui si fondono “forza terribile” e “pia soavità”; essa è ora segno oscuro ed impenetrabile, inarrivabile méta di un’irrisolta tensione morale e intellettuale. E la Chimera non è più, come in D’Annunzio, il simbolo ricorrente ed ossessivamente variato di un Eterno Femminino ambiguo, sensuale, morbosamente esperito ed evocato, o, magari, la mostruosa, “smisurata chimera occhiuta” in cui si trasforma, agli occhi di Stelio Effrena, la folla “sitibonda” di Palazzo Ducale, e che proprio grazie al potere suasorio del “verbo ardente” - ardente come l’Epifania del Fuoco - l’oratore riesce a domare. Ora la Chimera è “fatale Madre e Iddia”, che, con sfingea impassibilità, nega ai poeti - “dell’eterno Ideal rapiti Araldi” - la possibilità di cogliere “il Verbo dell’Amore”. Piace immaginare che tra la Chimera di D’Annunzio e quella di Campana, “suora della Gioconda”, adolescente “Regina della Melodia” che intona un “ignoto poema / di voluttà e di dolore”, possa porsi proprio la Chimera di Lucini - fermo restando che sono note le letture dannunziane, e anche contiane, che tanta parte ebbero nella genesi dei Canti orfici. E vi è, sempre nei Sonetti della Chimera, un riferimento ad un’altra tipica concezione simbolista, quella della poesia come “alchimie”, “sorcellerie”, fosco ed arcano culto dell’ Opus Magnum, da proseguire, come voleva Mallarmé, “par la simple intelligence”: “Già le bracie splendettero ai fornelli / della Grand’Arte. (...) / E sempre e ancora pei cammini oscuri / del Mistero va e perdesi l’Idea”.
Come che sia, l’”eterno Ideal” e il “febeo vigore” che animano, un po’ enfaticamente, i Poeti luciniani, sembrano alludere ad una rinnovata missione sociale della poesia: Lucini propone e riabilita “una nozione di simbolo come significante e paradigmatico strumento di edificazione morale e civile”, da contrapporre all’”interpretazione ornamentale del simbolismo fornita da D’Annunzio” (125bis) - ma si è visto come anche le decorazioni sperelliane meritino di essere prese sul serio.
Anche l’occasionale recupero e “riuso” di nozioni della metafisica romantica non si accompagna necessariamente, in Lucini, a forme di piena e rassicurante fiducia nella trascendenza. Qui il simbolo e l’allegoria, minacciati dalla “disillusione” e dal “nulla”, sono accompagnati dalla consapevolezza della loro fragilità. Il recupero di profondità archetipiche finisce per coincidere con il naufragio in una trascendenza ormai precaria e “vuota”.
4. Torniamo all’ Allegoria. Lucini era giunto ad articolare concetti come quelli di “simbolo”, “sintesi” e “orchestrazione verbale” gradatamente, attraverso argomentazioni tutto sommato ordinate e ponderate, e facendo ricorso a quell’invidiabile vastità di letture che non è possibile disconoscergli. Non vi è, fino qui, nulla che possa far pensare a forme di aperto irrazionalismo o di misticismo estetico. Sennonché, simbolo e allegoria continuano, come nel “manifesto” del ’94, a “sfuggire” alla critica; è proprio nell’intento di chiarire quest’ultimo aspetto che Lucini offre un altro tassello di quella teoria della critica che sta cominciando a prendere forma. “Il pianto d’amore e le imprecazioni d’odio” non possono “avere un valore isolato e virtuale, ma più tosto risentiranno dalli universali e sfuggiranno alla critica, perché lo stesso critico deve confessarsi, che in quelle contingenze, egualmente ha sofferto. Il poeta è”, schellinghianamente, “fatto centro del movimento cosmico”... Si ritrova, qui, la stessa espressione che figurava, posta in bocca ai detrattori della décadence, nel “manifesto” del ’64: “l’idea vagola blandula e sfugge alla critica” E’, si noti, proprio il l’indiretto riconoscimento della componente creativa e “poetica” che è insita nell’atto critico a porre le basi per l’individuazione di una sorta di nucleo profondo o di etimo generatore della creazione poetica posto al di sotto o al di qua della soglia dell’autocoscienza letteraria, e tale dunque da sottrarsi alla critica: il critico, entrando in simpatetica sintonia con il testo, “soffrendo” insieme al poeta, non può, di conseguenza, rendere compiutamente e lucidamente ragione di tutte le pulsioni affettive e di tutte le motivazioni ispirative che sono ad esso sottese. Il raffronto intratestuale dei due passi - quello dei Prolegomena e quello dell’ Allegoria - mostra come questo nucleo profondo, questo “nocciolo duro” dell’atto poetico che sfugge alla critica, possa inglobare in sé da un lato “il pianto d’amore e le imprecazioni d’odio”, dall’altro la “pura idea”: si fondono, nel cuore profondo e per così dire precritico della creazione poetica, la pulsione affettiva e la costruzione intellettuale, l’”imagine terrena” e la “figurazione ideale”.
Passeranno gli anni, la cultura di Lucini si amplierà, si allargherà la diretta conoscenza delle teorizzazioni del simbolismo francese, mediate e filtrate anche da trattazioni come quelle di René Ghil e di Charles Morice; Lucini aderirà, con riserva, al movimento futurista, per poi denunciare e “sorpassare” lo sbrigativo e brutale “parricidio” perpetrato da Marinetti e compagni. Ma proprio nella Ragion poetica, che è un po’ il consuntivo di tutte le letture e le ricerche condotte in quegli anni, si ritroverà la stessa idea di un nucleo profondo, di un sostrato incoercibile e un poco inquietante che sta alla base del fare poetico, e che la critica non riesce ad “illuminare”. Ci si può soffermare, ad esempio, sul terzo capitolo, quello dedicato proprio alla fondazione teorica del “Simbolismo”. “SIMBOLISMO, il nostro”, scrive Lucini, “è la negazione d’ogni e qualunque scuola in quanto obblighi una disciplina; è arte libera. Quella che procede anche per riflessi, cioè che adopera dei simboli, o sia delle imagini, per rappresentare le idee, valendosi di secrete concordanze soggettive, il cui valore completo e complesso sfugge alla analisi critica, ma è sentito”. Si ritrovano, nel capitolo citato, molti dei punti fermi della poetica simbolista, da Baudelaire a Mallarmé, in parte già filtrati dall’estetismo italiano - fermo restando che proprio il “programma del Verso Libero” contiene già in sé il germe della polemica antidannunziana. Ma quel che più importa, per ora, è che ritorna, a distanza di un decennio, con sorprendente consonanza terminologica, l’idea di un elemento che si ostina a “sfuggire” alla clairvoyance del poeta-critico: prima “odio”, “amore”, “idea”, ora, in modo assai più pregnante e più precisamente connotato, il “valore completo e complesso” di baudelairiane “segrete concordanze soggettive”. Gli innegabili elementi neoromantici che sono presenti in Lucini come lo erano, in una diversa ottica, in Conti, sembrerebbero qui giungere alla loro più logica conseguenza: la critica, a cui “sfugge” e si sottrae il nucleo profondo dell’atto poetico, rischia di diventare “un’assurdità”, o essere destinata a “risolversi in poesia” o, in alternativa, morire...
5. Sennonché, in Lucini esiste una teoria della critica anche abbastanza articolata, e che - con uno di quei paradossi e di quelle apparenti contraddizioni che sono tipici dell’autore - si sviluppa in larga parte sulla base di quegli stessi presupposti teorici che sembrerebbero portare ad una morte della critica.
Soffermiamoci, ad esempio, su di un testo non molto noto del 1899, Che deve essere la Critica?, provvidenzialmente riesumato da Glauco Viazzi (126). Il breve articolo fu pubblicato sulla rivista Il Tesoro, diretta dall’allora ventiduenne Giuseppe Lipparini. E - sia detto per inciso - è davvero singolare e sintomatico, e meriterebbe forse di essere studiato, questo sodalizio tra Lucini e Lipparini; un letterato, quest’ultimo, sospeso, come molti in quegli anni, tra una giovanile esperienza di poeta di gusto parnassiano, simbolista, liberty, e l’adozione di moduli improntati ad un algido, carducciano classicismo (127). Lipparini - felice e pressoché isolata eccezione a quella vera e propria “congiura del silenzio” che fu stretta intorno al poeta delle Revolverate fino agli anni settanta - includerà alcuni brevi stralci del romanzo Gian Pietro da Core nell’ultimo volume delle Pagine della letteratura italiana, edite dalla Signorelli negli anni ’20.
Torniamo a Che deve essere la Critica?. Si tratta di un testo assai problematico, contraddittorio sia in se stesso che rispetto ad alcune delle altre tappe del pensiero dell’autore. E, sia detto qui una volta per tutte, il Lucini pensatore e teorico è da un lato già sorprendentemente aperto a prospettive fenomenologiche (128) - o meglio, per riprendere il suo stesso termine, “fenomenalogiche” -, dall’altro, e forse proprio per questo, non è certo immune da oscillazioni, incertezze, contraddizioni. “Critica deve essere filosofia dell’Arte e Storia dell’Arte. Essa costantemente deve rivolgersi ai primi ed incondizionati principii della Bellezza e della Bontà, manifestazioni dell’Ente, o sia dell’Idea”. E’ qui presente, e applicato al dominio della critica in modo forse un po’ corrivo, lo stesso linguaggio platonizzante (“archetipo”, “emanazione”, “sostanza”...) che abbiamo incontrato negli scritti di poetica simbolista. Il platonismo di Francesco Acri, con il suo “sistema di relazioni ideali” e, soprattutto, con il suo spirito antifilologico, sembra essere sotteso all’esperienza di Lucini non meno di quanto lo era stato, con diversi esiti, all’estetismo di Conti (129). Ma l’adozione della terminologia e della strumentazione concettuale proprie del platonismo si rivela, almeno qui, funzionale ad uno spunto violentemente polemico. “Spesso la Critica, proxeneta e quadrantaria ad un tempo, vende se stessa e la figlia sua al miglior offerente”. Emerge, insieme alla verve polemica, anche l’inconfondibile, variopinto plurilinguismo luciniano: “proxeneta”, “quadrantaria”. Di “Pizie pescatrici e prossenete / alla foja de’ vecchi” parla anche la Canzone del Giovane Eroe; e le penetranti indagini di Elio Gioanola hanno mostrato quale rilevanza abbia, in senso traslato o meno, l’immagine della prostituta nell’immaginario della décadence.
Emerge, qui, il Lucini polemico e dissidente, isolato e ribelle nei confronti del sistema culturale dell’epoca: “la Critica attuale” - e si noti, en passant, anche la maiuscola “mallarmeana” - “non ha mai saputo ciò che io abbia voluto dire, parlandomi sempre in una lingua che non era la mia. (...) Io non me ne curo e continuo imperturbato e fermo per il mio cammino”. Ma compare, poco oltre, un concetto che sembrerebbe contraddittorio della stessa natura per molti aspetti “poetica” e “creativa” del fare critico luciniano, e che è, d’altra parte, la più logica conseguenza dell’avere quasi premodernamente postulato l’esistenza di un nucleo profondo della creazione poetica che “sfugge alla critica”. “Critica vera deve instaurarsi non dagli Artisti, che svolgono la loro potenzialità nelle opere originali; ma dalli studiosi, cui manca l’ideazione e le imagini, mentre abbondano del riflettere”. La figura dell’ artifex additus artifici sembra, qui, esclusa in partenza; e in effetti la “critica integrale” di Lucini, dall’ Ora Topica di Carlo Dossi ad Antidannunziana, non rientra propriamente nell’alveo della “critique amusante et poétique” e dell’”independent criticism” che nel secondo Ottocento si sviluppano e si diramano, in seno al simbolismo e all’estetismo, tra Francia, Inghilterra e Italia. Una “critica integrale” preoccupata semmai di ancorare modi e caratteri della creazione poetica alle strutture sociali ed economiche e al contesto storico in cui e da cui essa nasce.
Ad ogni modo, proprio questa definizione di una “Critica vera” riservata agli specialisti tende, indirettamente, a descrivere e ad isolare, per esclusione, una sorta di “zona franca” in cui il critico artista potrà liberamente e proficuamente dare sfogo alle proprie attitudini: “se l’Artista parlerà d’Arte, lo farà in modo passionale e soggettivo, (...) l’entusiasmo volendo da lui una lirica, non la prosa didattica del Sermone”. Nella Ragion poetica, riappariranno concetti simili: “Arte e Critica repugnano; invece di completarsi, si osteggiano. Solo là, dove chi è poeta si fa critico, non d’altri ma di se stesso, si conciliano”; riappare, in tal modo, l’idea, già poesca e baudelairiana della critica come autocritica, come autocoscienza che il poeta ha del proprio fare.
Non è forse arbitrario vedere in queste espressioni un riecheggiamento dei termini (il problema della “prosa”, la nozione di “entusiasmo”...) in cui si stava sviluppando, in quel giro di anni, la polemica intorno alla “critique voluptueuse” degli esteti; tanto più che due anni dopo, nelle Massime d’integrazione sovversiva e letteraria. Libri cosiddetti inutili e pericolosi (130), l’autore contrapponeva alla “critica ufficiale”, per la quale “la classificazione botanica letteraria” - chiara allusione al determinismo positivista - “si può scrivere sopra una sola pagina di un libro di cassa”, quella praticata dall’”amatore di cose belle”, che invece “trova una gioia intima e squisita a ricercare, a frugare, a trar fuori e a mettere in luce dei gioielli fulgentissimi”, e che “convita” i suoi amici “ad un piacere intellettuale”. Alla “critica estetica” dei marzocchiani mancava, certo, la carica sovversiva, rivoluzionaria, esplicitamente anarco-individualista di Lucini; inoltre l’attenzione che questi dedicò, soprattutto nel saggio su Dossi, al contesto storico e sociale in cui le opere erano state concepite, non trova riscontro nella “critica estetica”, che tendeva, invece - pur se ai fini di una reazione antipositivista per molti versi giustificata -, a vedere e a valutare le opere alla luce di una “pura bellezza” platonicamente metatemporale ed astorica. D’altro canto, proprio nel Baudelaire degli scritti su Poe Lucini poteva trovare, pur nell’àmbito della “critique amusante et poétique”, un’attenta considerazione del legame - non necessitante, ma comunque stretto - esistente tra il “milieu social” e le “erreurs littéraires”; e l’ambiguo, eclettico “New Hellenism” wildiano finiva per identificarsi esplicitamente con forme di Socialismo anarchico. Non è possibile dare una risposta precisa al problema della contestualizzazione del concetto luciniano di critica nel quadro della “critica estetizzante” del secondo Ottocento. Si tratta, comunque, di un concetto di critica che si inserisce in uno scenario ancora multiforme e dinamico, aperto alle voci e alle prospettive più disparate.
6. Si giunge, ora, alle pagine introduttive della Ragion poetica, in cui Lucini, ragionando in termini di “critica ed autocritica”, e articola la sistemazione teorica più ampia e più matura della sua “critica integrale” (131); quella critica integrale che verrà poi coerentemente applicata, nei primi anni ’10, nel saggio su Dossi e nella prima parte - l’unica edita vivente l’autore - di Antidannunziana, D’Annunzio al vaglio della critica.
“Il carattere che è un modo di vivere si continua dentro l’espressione più nobile della esistenza, nell’opera d’arte”, e di sé “informa l’espressione”. Non è difficile scorgere, in queste righe, l’influsso della concezione desanctisiana del contenuto che “si perde” e “si oblia” nella forma, ma che nondimeno la predetermina e la forgia. E questo concetto di “espressione”, anche se un po’ confuso e non ancora ben determinato, ci fa capire perché Lucini salutasse con entusiasmo, nel 1902, la “scienza serena ed acuta” che animava l’ Estetica crociana, e che consentiva al filosofo di cogliere la dinamica in virtù della quale, nell’opera d’arte, “le azioni e li aspetti singolari, speciali, e collettivi si riflettono e si materiano in espressioni, tipi, simboli personali, comuni e concreti”. Un Croce, certo, se non frainteso quantomeno un poco forzato, per ché piegato, a ben vedere, a puntellare alcuni dei fondamenti di quella stessa poetica della décadence che egli tanto aborriva, con , in più, una forte carica di individualismo anarchico; e riemerge così, anche in Lucini, il carattere “demonico” della critica. E parte degli strumenti teorici e metodologici di cui Lucini si servirà nella sua violenta polemica antidannunziana sono di matrice crociana, con la mediazione degli studi di Gargiulo e di Borgese, cui Lucini espressamente si richiama: al poeta delle Laudi è rimproverato soprattutto il carattere artificioso, voluto, mediato dell’espressione poetica, non preceduta da una pura catarsi lirica. La polemica relativa ai “plagi”, che occupa la maggior parte della prima Antidannunziana, non fa, a ben vedere, che ripetere un po’ stancamente i motivi di un vasto attacco che si era già sviluppato, sulla scia di Thovez, quasi vent’anni prima; e, del resto, quello che certa recente critica anglosassone ha efficacemente definito il creative plagiarism dannunziano (132) riposava su di una prassi e un metodo di composizione di cui l’autore aveva molto per tempo, nelle pagine sulla convalescenza di Andrea Sperelli - che Lucini, come gli altri “antiplagiaristi”, evita prudentemente di discutere -, illustrato modalità e forme, con una onestà intellettuale che non si è soliti riconoscergli. Più che l’insistenza un po’ stucchevole sulla questione dei “plagi”, che rappresenta forse l’aspetto meno interessante della “critica integrale”, mi sembra rilevante, nella componente “intuizionistica” e “crociana” del Lucini critico, l’accentuazione del legame, necessario e caratterizzante, che unisce il nucleo concettuale e il sostrato simbolico “rozzo ed archetipo” che costituisce la radice profonda del poetare alla sua concreta manifestazione verbale e materiale. E’, questo, un elemento che congiunge strettamente i fondamenti teorici della critica luciniana con quelli del versoliberismo. Il capitolo sul “Simbolismo” parla - riprendendo e decontestualizzando palesemente termini e concetti mallarmeani - di una “prosodia” da “rimutare (...) al magistero di una nostra idea”, sulla scia delle “subdivisions prismatiques de l’Idée” che innervavano la “prosodia” del Coup, e che sfocia - con una “falsa etimologia” anch’essa di ascendenza mallarmeana - in una “forma che vuole una prosodia speciale, una prosa inconsueta”. Il “Livre” mallarmeano, “espansione totale delle lettere”, passa da principio assoluto, ipostatizzato, quasi elevato al grado di entità metafisica - pur se in una metafisica “vuota” ed “atea” -, da oggettivazione di una razionalità estetica assoluta, inflessibile, ossessiva, quasi spersonalizzata e spersonalizzante, a “espressione” o “continuazione” della vita e dei sentimenti del poeta, a manifestazione o rivelazione, a suo modo anelante ad una nuova immediatezza e spontaneità, della “parola” e dell’”azione” “delli Uomini, delli Eroi e del Dio”. Nella quasi coeva Risposta all’Inchiesta sul Verso Libero (133), anch’essa intessuta di spunti antidannunziani incentrati sul rifiuto del “verso pseudo-libero” delle Laudi, Lucini elogia il verso libero come “strumento semplice ed elegante, elastico, preciso, sonoro e robusto, (...) per cui” l’anima del poeta, “vibrante e lucida di sensazioni e di idee”, “si trova (...) riflessa, concreta e compresa dentro la nobile spera del poema”. “Il poeta” - e qui Lucini ricalca quasi testualmente un passo della mallarmeana Crise de vers - “deve foggiare a sé stesso uno strumento che non lo tradisca; limpido e come nasce, il pensiero deve essere nella forma che lo fa evidente; bisogna cercare un mezzo in cui non si disperda, né si confonda: (...) la sensazione deve essere tradotta ingenuamente, perfettamente”. Il verso libero è una “lunga parola poetica”, che rispecchia e traduce fedelmente il “perenne divenire” del pensiero e della coscienza; anche in questa felicissima definizione Lucini ricalca quasi alla lettera Crise de vers di Mallarmé, secondo cui il verso “de plusieurs vocables refait un mot total, neuf, étranger à la langue et comme incantatoire”... In questa concezione di un pensiero che si cala e si concreta nella forma, Lucini è memore, in pari tempo, di De Sanctis; e l’”ingenuità” e la spontaneità dell’espressione possono ricordare la variante crociana della sintesi a priori di intuizione ed espressione. La modernità - direbbe oggi Geoffrey Hartman - ricerca una seconda innocenza nella riflessione critica.
E Lucini, a riprova di quanto volesse mantenersi immune da ogni colpa di “parricidio”, identifica esplicitamente la motivazione che lo spinge a spezzare i vincoli della metrica tradizionale con quella che portò Foscolo e Leopardi ad avvalersi, rispettivamente, dell’endecasillabo sciolto e della canzone libera. “Non sono bizzarrie d’artisti, ma necessità”; anche la metrica barbara carducciana era, da questo punto di vista, “parte egregia della prosodia nostra”. Quella di cui Lucini è pienamente partecipe era - per parafrasare il De Robertis di Saper leggere - un’”età di transizione, di rovesciamento, di riesame completo del vecchio, per gettar la base del nuovo”. La fondazione della modernità non poteva fare a meno del passato.
7. Questi princìpi di poetica trovano la loro applicazione sul versante della pratica critica soprattutto nei due saggi - uno dei quali edito postumo - di Antidannunziana, oltre che nell’ Ora Topica di Carlo Dossi. Con D’Annunzio si rompono la sintesi e il reciproco completamento tra forma e contenuto; “la forma è tutto un rappezzo d’abiti d’imprestito, decaduta nel’arlecchineria della moda che rimpicciolì la sua figura, prima così diritta e schietta. (...) Per ciò Foscolo, Manzoni, Carducci e Carlo Dossi” - si noti questa significativa genealogia, di cui Lucini si pone implicitamente quale discendente diretto - “furono mai, né saranno, cantori alla moda”. D’Annunzio, invece - e si noti l’efficace amplificazione dell’iniziale, carlyliana metafora “sartoriale” -, “abile sartore da rigattiere, durerà sin che vive”, per poi essere inesorabilmente “spazzato via” dalla stessa moda (134). Lucini, per quanto acuto e ben informato teorico, non era certo buon profeta. E’ comunque significativo che questo attacco polemico contro D’Annunzio figuri all’interno del saggio in cui la “critica integrale” - sempre attenta ai legami tra la produzione letteraria e il contesto storico-sociale - veniva finalizzata all’esaltazione di Carlo Dossi, che, dopo il tramonto degli ideali mazziniani e risorgimentali era riuscito, nel clima sociale e culturale stupendamente rievocato da Lucini nel capitolo sulla Passeggiata sentimentale per la Milano di “L’Altrieri”, ad emergere e a riscattarsi dagli zuccherosi e svenevoli languori tardoromantici dei Prati e degli Aleardi. A “salvarlo” era stato “l’Humorismo”, l’ironia, quella tagliente e feroce, pienamente “luciniana”, della Desinenza in A come quella, più riflessiva e raccolta, delle Note azzurre; e Lucini, agli albori della modernità letteraria italiana, poteva proiettare retrospettivamente su Dossi le categorie introdotte da Pirandello nell’ Umorismo. Nella seconda parte di Antidannunziana, D’Annunzio al vaglio dell’Humorismo, edita postuma, lo stesso principio che aveva “salvato” Dossi condanna D’Annunzio. Qui, nella convinzione che la produzione letteraria di un autore non possa essere scissa dalla sua esperienza biografica, ad essere posta di fronte alla “critica integrale” è la vita stessa del poeta, ricostruita sulla base di una documentazione minuta e scrupolosa, anche se non molto selettiva. L’”insincerità”, l’ambiguità, la megalomania che contraddistinguerebbero l’esperienza biografica dannunziana sono qui fatte oggetto di critica al pari delle sue opere. Lucini, pur di difendere la sua concezione - realistica, “intuizionistica”, antiretorica - della letteratura, non esita a sviluppare ed articolare un percorso critico che si muove, pericolosamente, sull’orlo dell’eteronomia.
In D’Annunzio Lucini lamenta una “mancanza di personalità e di sincerità nell’opera d’arte e nella vita” (135). Ed è evidente, qui, uno degli elementi caratterizzanti della “critica integrale” luciniana: la stretta connessione istituita tra arte e vita, tra espressione letteraria ed esperienza biografica: un’identificazione che non si traduce in una forma di “letteraturizzazione della vita”, in una riduzione della realtà, della società e della storia a “parola implicita” e “funzione della poesia”; questa identificazione o convergenza fa, invece, della letteratura un fedele specchio, una diretta e “spontanea” espressione della vita e del pensiero. Una letteratura di cose e di idee, sulla linea della più schietta tradizione romantica e risorgimentale, non senza un qualche influsso dell’illuminismo e del neoilluminismo lombardo - e Viazzi parlava, già a proposito del Libro delle Figurazioni Ideali, di “elaboratissime e preziose poesie ermetico-illuministe” (136)...
Di D’Annunzio, con un’altra definizione folgorante, Lucini stigmatizza “quest’arte sua che lo fa vivere, non per cui vive” (137). La Bellezza, si ricorderà, nel Piacere è “l’asse intorno a cui ruotano tutte le passioni” degli uomini d’intelletto, e come tale può fungere da cardine e da centro ordinatore della coscienza, soppiantando un senso morale oramai obnubilato e snervato. La dimensione esistenziale non può più prescindere da quella estetica, e anche specificamente letteraria, che, come un polmone artificiale, “fa vivere” l’esteta. Il Superuomo, come il dandy, non può fare a meno dello stile e della forma, che sono per lui alimento vitale. E’ questa circolarità autotelica, e ossessivamente ricorsiva, di vita e letteratura, che la critica integrale di Lucini - secondo il quale è la letteratura ad essere una funzione della vita, e non viceversa come per D’Annunzio - cerca di spezzare. Questo aspetto induce a tenere la posizione di Lucini chiaramente distinta da quella di molti dei maggiori esponenti dell’estetismo europeo.
D’Annunzio, impantanato nello “stagno della retorica”, non è in grado di creare - come si è visto - che un verso “pseudolibero”. Ed è interessante notare che in Antidannunziana si ritrova, al riguardo, la stessa splendida definizione, di ascendenza mallarmeana, del “vero” verso libero, che si incontrava nella Risposta all’Inchiesta sul Verso Libero dell’anno precedente: esso è “una lunga e logica parola poetica”; esso “deve suonare, imitando, la cosa, il pensiero, l’azione che rende. Con ciò il concetto si ferma e si certifica; lo si riguarda nella idea, nei sentimenti, nella storia e nella mitica, come esistente in sé poeticamente” (138). Anche qui, la teoria del verso libero si rinsalda, in chiave neoromantica, da un lato al sentimento e alla storia, dall’altro alle nozioni trascendentali e metafisiche di “idea” e di “mitica”, cioè di universale superstrato del pensiero, solido sistema di archetipi e di “universali fantastici”, che solo può riscattare la poesia dal vacuo decorativismo di certe deteriori ed estenuate manifestazioni della décadence. D’Annunzio, invece, si limita, secondo Lucini, a “magnificare il numero impari, oscuro e inimitabile, e scandere il verso per l’elogio del verso” (139). Qui Lucini, pur se in chiave polemica, coglie genialmente l’essenza della dannunziana “poesia del fare poesia”, la valenza squisitamente metaletteraria del fare dannunziano; e non è casuale che queste espressioni siano riferite all’ Encomio dell’opera di Maia, il momento in cui la poesia parla di se stessa, levando e scandendo l’”ode e lode di sé medesima”, e il verso si ripiega su se stesso, diviene “elogio del verso”. Per Lucini e per la sua “critica integrale” la poesia doveva invece rispecchiare la vita e il pensiero, e al poeta veniva nuovamente assegnata una funzione sociale e pedagogica; la letteratura doveva, inoltre, interagire con le strutture della società e con il contesto storico, e alla critica integrale spettava, specularmente, il compito di tener conto di questo “rispecchiamento”. Lucini coglie anche lo statuto di “sovranatura”, di “altra natura”, o di artefatta “cosa aggiunta al mondo”, che è proprio della poesia dell’estetismo. “Per degenerate metafore”, D’Annunzio “compila un mondo”, sostituisce o surroga la vita e le cose con la Parola, una Parola in funzione della quale il mondo esiste, e che, quasi come “causa finale”, conferisce alla realtà e all’esperienza dignità e valore. E il “critico integrale” riesce anche a cogliere, della poesia dannunziana, la sua natura di “enciclopedia dei generi”, summa e insieme saturazione ed esautoramento di tutte le possibilità formali e tecniche offerte da una plurisecolare tradizione letteraria: D’Annunzio è per lui “la sintesi di tutte le buone cose letterarie uscite da tutte le scuole, senza per conto suo incominciarne una” (140). Sembra quasi che Lucini anticipi in qualche modo, in una diversa luce, il famoso giudizio di Montale, secondo cui il poeta delle Laudi “ha sperimentato o sfiorato tutte le possibilità linguistiche e prosodiche del nostro tempo”... La letteratura ha preso il posto della natura; per il “neoromantico” Lucini, che rimproverava agli scrittori del suo tempo di essersi “allontanati da natura”, questo non può che essere il colmo dell’aberrazione. “Quanto gli suggerisce (...) la realtà non diviene in lui che emozione di sentimento; ciò che prova invece dalle pagine che legge è già emozione estetica”. La percezione e la conoscenza del reale non possono perfezionarsi se non attraverso la mediazione della pagina scritta, e la letteratura non può nascere - quasi per partenogenesi - che da se stessa. “La lettera ha avuto più facile impronta sulla sua coscienza che non la diretta esperienza” (141).
8. Viste le riserve su Baudelaire, visto il sostanziale fraintendimento - almeno sul piano teorico, se non su quello prettamente tecnico e metricistico - della speculazione mallarmeana, visto il sostanziale silenzio - a parte un interessante accenno, nel terzo capitolo della Ragion poetica, alla “ricchezza sontuosa e perversa di Oscar Wilde” - sull’estetismo inglese, e vista, soprattutto, la stroncatura “integrale” di D’Annunzio - che non tocca, peraltro, il D’Annunzio critico e teorico della critica -, si potrebbe pensare che Lucini sia, almeno sul piano teorico, del tutto alieno da rivendicazioni dell’autonomia, della creatività, della “poeticità” dell’atto esegetico.
“È stato” - si legge in apertura del secondo saggio di Antidannunziana - “ed è norma quasi aristocratica questa, la quale assegna ad ogni ben nato critico, (...) la perfetta conoscenza non solo delle opere di lui sì bene anche della sua vita. Vita ed opere di uno scrittore, esercitate nello stesso tempo, nello stesso ambiente in cui egli produce, si rischiarano a vicenda, si penetrano, si confondono, danno la totalità. Come non si può non conoscere l’epoca in cui tale personaggio si esercita (...), così non è mai chiara completamente al critico la lirica di un poeta se non se ne conosca la fisiologia, spesso, la patologia: ché allo studio integrale di lui giovano (...) le nozioni di (...) quanto di più comune si avvicendò giornalmente nel suo corpo, nella sua casa, nelle sue abitudini” (142). Circostanze biografiche, momento storico, “ambiente”, addirittura “fisiologia” e “patologia”: Lucini non esita, in limine al suo studio, a recuperare alcuni dei fondamenti del biografismo e del determinismo della critica positivista, quasi, si direbbe, anche nelle loro esasperazioni lombrosiane e fisiopsicologiche; quelle stesse metodologie critiche a cui - al di là degli “usi” e delle “falsificazioni” cui il D’Annunzio critico aveva sottoposto l’estetica del Taine - l’estetismo e il simbolismo europei avevano contrapposto la loro concezione di una critica creativa e poetica. Un’operazione che è certo, com’è evidente, funzionale al battagliero antidannunzianesimo di Lucini, ma che sembrerebbe, comunque, ricondurre la critica entro il dominio della conoscenza storico-scientifica, escludendone ogni elemento creativo. Lo stesso tessuto stilistico di Antidannunziana, soprattutto del secondo saggio, ha ben poco della torrenziale e un po’ caotica, ma variopinta e trascinante, esuberanza della Ragion poetica, in cui pensiero e metafora, teoresi e lirismo, lucidità argomentativa e felicità dell’invenzione verbale si uniscono in un nodo inscindibile e fecondo.
Anche e proprio nelle pagine introduttive dell’opera maggiore del Lucini teorico, peraltro, si ritrova affermato - pur se sulla base del modello offerto dal Foscolo delle Lezioni pavesi, e senza più pericolosi equivoci deterministi - il legame esistente tra la letteratura e le istituzioni sociali: “storia, costume, letteratura, uomo e poema procedono di pari passo, svolgendo a vicenda dei rapporti intensi e fecondi”. Espressioni e concetti di questo tenore - a parte l’idea, qui implicita, e tipicamente simbolista e post-simbolista, di “poema in cammino” - si incontrano abbastanza facilmente già in àmbito settecentesco. Se rapportati alle polemiche letterarie che Lucini veniva conducendo, essi assumono, com’è evidente un particolare significato. Sciogliere la letteratura dalla sua glaciale, mallarmeana assolutezza e purezza, e porla, anche a costo di sfidare l’insidia dell’eteronomia, in stretta correlazione con la società, con la morale, con una storia concepita in senso unilineare e progressivo, e non più rappresa od elusa nell’acronia/sincronia della creazione poetica e della “critica pura”, equivaleva ad imboccare la via di ciò che già nel 1864 il Baudelaire dei Journaux intimes chiamava, con un’ironia mista forse a spavento, “avanguardia”. Poche pagine dopo, Lucini darà, ciononostante, la più tipica delle definizioni del critico artista dell’estetismo: “anche il critico principe, intelligente ed erudito, non potrà spersonarsi, dimenticare sé stesso, divenire un perfetto strumento ricettivo. (...) Alli elementi primi, come risultato delle sue analisi e scoperte nelle opere altrui, deve aggiungere elementi personali, quando, bene intendendo la critica, questa sia non solo un metodo od una applicazione scientifica, ma una genialità creativa. (...) Quale schema ne riuscirebbe, se al tipo di grande artista venga sostituito l’altro del grande critico?” E ci si sorprende che Lucini citi, in luogo di Wilde - delle cui Intentions era uscita nel 1906 la prima traduzione italiana, e di cui peraltro l’autore loderà più oltre la “ricchezza sontuosa e perversa” -, l’Anatole France della prefazione alla Vie littéraire (“parler de moi à propos de Shakespeare, à propos de Racine, ou de Pascal, ou de Goethe”...). Nel De profundis wildiano, comunque, Lucini poteva aver letto, tra le altre cose, che “l’arte è un simbolo perché un simbolo è l’uomo”...
In pari tempo, come ha osservato Sanguineti, la “critica integrale”, al di là di questa sua componente creativa e poetica, “trascende i testi, ancorandoli alla produzione, alla distribuzione, al consumo. Si risolve, così, in una diagnosi minuta, (...) che ricerca un po’ ovunque (...) i segni della corruzione nazionale”. E la demistificazione e la profanazione del mito D’Annunzio, perpetrate per mano dell’”Humorismo”, si traducevano in una forma di “quel ‘sublime a rovescio’ che è la radice (...) di ogni avanguardia” (143).
Ed è tipico dell’avanguardia, almeno in questa sua aurora primonovecentesca, e non è privo di ripercussioni anche sulla scrittura critica, questo irrisolto, forse ancora indeciso oscillare tra autonomia ed eteronomia, tra polemica, provocatoria rivendicazione dell’assolutezza dei valori estetici e, dall’altro lato, ormai ineludibile, traumatico scontro con la contingenza delle relazioni sociali e delle strutture economiche (il mercato librario, la distribuzione editoriale, l’industria culturale). Solo più tardi, dopo un cinquantennio, l’avanguardia riuscirà a trovare un suo equilibrio, a ragionare, rimbaudianamente, il suo disordine, a flirtare, senza incertezze o sensi di colpa, con il capitale e con le strutture sociali, pur serbando la propria libertà, e senza nulla perdere della propria carica eversiva; a compiere, cioè, un passaggio “da una autonomia monadica, irrelata e inclusiva a un’autonomia relazionale, integrabile e integrativa”, una “transizione dalla scelta dell’estetico, o dal rifiuto dell’estetico, all’integrazione autonoma dell’estetico” (144). Autonomia ed eteronomia, allora, potranno intrecciarsi secondo libere regole, instaurare una sorta di simbiosi, eludersi reciprocamente, e l’arte d’avanguardia potrà agilmente sfuggire alle strette maglie tanto dell’una quanto dell’altra.
Nell’orizzonte culturale di Lucini, invece, secondo una fenomenologia che si riscontra in tutte le avanguardie storiche, autonomia ed eteronomia - critica poetica e critica integrale - coincidono ancora con gli estremi di un’ineludibile alternativa, o di un’arrischiata transizione. E la sua “critica integrale” tenta, forse per la prima volta, di operare una mediazione o una fusione, o di rappresentare una “terza soluzione”, una “critica al tempo stesso sia autonoma che eteronoma, tanto scientifica che personale”; una critica che “nel momento stesso in cui s’incentra sul massimo di ‘letterarietà’ e ‘culturalità’, scopre la propria significazione di rapporto con la socialità, e con la politica perfino” (144bis).
E’ una situazione che si può, forse, pensare nei termini - tanto discussi - della Teoria dell’avanguardia di Peter Bürger. “È solo con l’estetismo che il legame con la società, fino ad allora esistente, si spezza. La rottura con la società (...) costituisce il centro delle opere dell’estetismo” (145). Con l’estetismo l’arte, abbandonata a se stessa, non può che divenire “contenuto di se stessa” (146), arte sull’arte, poesia della poesia; e se l’arte è contenuto e oggetto di se stessa, allora può agevolmente identificarsi con la critica, che ha, appunto, l’arte come proprio oggetto e contenuto. “L’intento dei movimenti di avanguardia può essere definito come tentativo di riportare nella pratica vivente l’esperienza estetica (che si oppone alla prassi vivente) sviluppata dall’estetismo” (147). Ed è proprio questo il tentativo compiuto da Lucini, critico da un lato “autonomo”, “creativo”, affascinato conoscitore e frequentatore del simbolismo e della décadence, dall’altro “integrale”, “neoromantico”, “risorgimentale”, antidannunziano: ricondurre l’arte alla vita, riscattarla dallo “stagno della retorica”, dallo sterile solipsismo dell’autotelìa, dall’algida assolutezza della “poesia della poesia” e dell’’ art pour l’art, dalle cui insidie già Baudelaire aveva cercato di mettere in guardia. “Le avanguardie vogliono (...) un superamento dell’arte, nel senso hegeliano del termine: l’arte non deve essere semplicemente distrutta, ma trasposta nella vita concreta, dove si conserverebbe, anche se in forma trasformata” (148).
Questa trasformazione, con il Futurismo, viene a coincidere non più, come in un Baudelaire, con il trasfunzionamento o l’alterazione di modelli classici, rivisitati e risuscitati alla luce della “strained self-consciousness” e dello spirito demistificante, antisublime, “fuggitivo” e “transitorio”, che caratterizzano la modernité. Con il futurismo si ha, piuttosto, quella che Adorno chiamava “disartizzazione dell’arte”. Il “feticismo delle merci” viene esplicitamente assunto entro il dominio della creazione artistica; e l’implicita convinzione di potere, per tale via, rimuoverlo, esorcizzarlo, o quantomeno dominarlo e “gestirlo”, si rivela del tutto illusoria. Già Poe e Baudelaire tendevano a concepire la razionalità del poeta critico come strumento capace di distinguere “les facultés et genres de production”, di eliminare dall’opera i “vizi di fabbricazione”, e di adeguare, attraverso l’”unità d’effetto”, i caratteri intrinseci dell’opera ai tempi e ai ritmi di una “lecture brisée”, condizionata dalla frenesia della vita urbana. In tal modo la “finalità esterna” dell’opera letteraria, il suo rapporto con il pubblico e con l’orizzonte d’attesa, la sua eteronomia, erano trasformati in un fatto formale e stilistico, e dunque ricondotti entro i confini dello specifico letterario. “Baudelaire non parte lancia in resta contro la reificazione né la ricalca; egli protesta contro di essa facendo l’esperienza degli archetipi della reificazione, ed il ‘medium’ di tale esperienza è la forma poetica”, la quale a sua volta non prescinde dalla sua storicità, dalla classicità, dalla tradizione, dalle “austères études” da condursi in quei musei e in quelle biblioteche che i futuristi vorranno poi bruciare. Così “la travolgente obbiettività del carattere di merce, un’obbiettività che risucchia tutti i residui umani, viene sincopata (...) con un’obbiettività antecedente al soggetto vivente: quello dell’opera in sé”, della poesia pura, dell’”idée du Beau” oggettivata nell’immanenza formale e stilistica della parola poetica. “L’opera d’arte assoluta incontra la merce assoluta”; ma proprio allora l’”astrattezza” della riflessione critica, dell’autocoscienza letteraria, della poesia intesa come pura forma e valore estetico assoluto ed incondizionato divengono “codice cifrato” di ciò che la poesia è; poetica e poesia vengono a coincidere, e la poesia si fa, a un tempo, contenuto e critica di se stessa (149).
Lo stesso può valere - nel complesso - per D’Annunzio. Anche gli elementi ideologici e propagandistici presenti nella sua opera, e che rischiano, ad ogni passo, di farla scivolare nell’eteronomia più palese, sono comunque subordinati ai sortilegi incantatori e ai virtuosismi verbali dell’ artifex. Nel momento magico del rituale suasorio, dell’ unio mystica tra l’oratore e la folla, il D’Annunzio “politico” e il D’Annunzio “sofista” vengono a coincidere, e il secondo subordina a sé il primo. Il Verbo, lo stile, la forma, sussumono e sottomettonono a sé l’idea, riducendola a pretesto, “traccia”, “parola implicita”, “funzione della poesia”; l’affabulazione retorica precede il gesto e l’azione, li modella, li prefigura, li rende - in definitiva - possibili. “Un atto è la parola del poeta comunicata alla folla, un atto come il gesto dell’eroe. (...) Cessa allora il silenzio che pende, come una cortina sacra, sul poema compiuto. (...) La vita si manifesta nel poeta integra, il verbo si fa carne”... (150). Troviamo, in queste parole del ’97, pur nel carattere eterodiretto, calibrato e pragmatico dell’oratoria elettorale, oltre al pericoloso, irrisolto equivoco della “parola come azione”, il grande tema, presente nel Fuoco, dell’alternanza e dell’interconnessione di suono e silenzio, che nascono e traggono alimento e sostanza l’uno dall’altro, e il ricorrente motivo del “corpo-parola”, con un esplicito riferimento all’archetipo giovanneo, e, sembrerebbe, un’anticipazione della “mistica ebrietà” che sarà celebrata nel Notturno. E si può pensare, allora, anche alla conferenza di Stelio, in cui è esaltata, con una quasi mistica e sacrale ritualità, la potenza della “parola dominatrice”, del “verbo ardente”. “C’è una sola scienza al mondo, suprema”, scriveva D’Annunzio in una “nota sulla vita” del 1888. “Chi conosce” questa scienza “conosce tutto, perché tutto esiste solamente per mezzo del Verbo”. Proprio il D’Annunzio “esteta per l’informazione” degli scritti giornalistici sembra addirittura, in una “nota sulla vita” apparsa sul Mattino di Napoli nel 1892, anticipare sorprendentemente formulazioni mallarmeane: “tout au monde existe pour aboutir à un Livre”... Erano gli anni del Piacere, gli anni in cui D’Annunzio covava in sé “il seme del sofisma”, e celebrava, per bocca del padre di Andrea Sperelli, quella “cosa profonda” che è la parola, invocata come “cosa mistica e profonda” anche in un sonetto del Poema paradisiac o.
Solo dopo gli anni ’10 del nuovo secolo, all’approssimarsi del volo su Vienna, della partecipazione al primo conflitto mondiale, dell’impresa fiumana, la parola dannunziana arriva veramente ad un passo dall’essere pienamente sottomessa all’intento ideologico e propagandistico. “I miei lauri gettai sotto i tuoi piedi, / o Vittoria senz’ali”, dice il poeta in Merope, parendo addirittura deporre per un attimo, di fronte alle superiori ragioni dell’amor di patria, la sua compiaciuta fierezza di parnassiano “souverain des mots”. Allora, alla luce di questa ormai dichiarata vocazione di poeta civile e politico, D’Annunzio potrà, lui per primo, suggerire retrospettivamente una lettura in chiave ideologica anche di parte della sua produzione precedente, a ritroso almeno fino a “quasi tutto il secondo libro delle Laudi pubblicato or è dieci anni non invano”. Allora il poeta sarà o crederà di essere partecipe di “un’eroicità che non ha più bisogno di essere inventata nella parola perché s’è fatta viva e presente (...) nella storia” (151). Ma l’assoluta centralità del Verbo, un Verbo quasi ipostatizzato come principio ontologico assoluto, centro ordinatore se non esso stesso creatore di realtà, non verrà meno neppure allora. Dirà il poeta-soldato ai legionari fiumani: “noi non più speriamo, ma vogliamo. Intendete: vogliamo. Ripetete questo verbo. (...) Ripetendolo, in carne e in ispirito, ciascuno di voi (...) crea il nuovo destino”. Vi è qui, innegabilmente, una movenza responsoriale accompagnata da un’atmosfera sacrale e rituale, che sembra prefigurare, assai cupamente, quell’elemento mistico e messianico che sarà presente nei cerimoniali di massa del nazifascismo. Ma riemerge, nel contempo, l’orgoglio dell’ artifex, il culto della parola che anticipa e guida l’azione, che plasma le coscienze e modella le idee, che, letteralmente, “crea” il mondo. Il Testo - per parafrasare un filosofo - pone il non-Testo. Alludendo in modo trasparente al D’Annunzio poeta civile, Croce parlerà, senza accorgersi nemmeno lui della portata della sua intuizione, di “cannoni di parole”...
A proposito del Vittoriale, cioè di quello che potrebbe sembrare un vero e proprio monumento all’eteronomia della letteratura, all’”organicità” del poeta rispetto all’ideologia dominante e all’ establishment politico, D’Annunzio scriverà: “tutto è qui da me creato e trasfigurato. Tutto qui mostra le impronte del mio stile nel senso che io voglio dare al mio stile”. E nel Libro segreto l’autore ribadisce che “il problema dello stile è di ragione corporale”, come un’”incarnazione” (152). Il concetto di stile, centrale in tutta l’esperienza dell’estetismo europeo - si pensi anche al pateriano Essay on Style, fino ad ora non menzionato, ma anche alla Philosophy of style di Herbert Spencer, pure citata dai marzocchiani -, e quasi emblema e suggello di un’orgogliosa, e a suo modo ascetica ed eroica, autonomia dell’estetico, si insinuava, ed era anzi centrale, anche nella senile riflessione del poeta ormai integrato, “aureolato” ed organico. In questa sorta di contrasto o di implosione di autonomia ed eteronomia, parola ed azione, ascesi estetica ed ostentato eroismo, sta, a ben vedere, anche parte della componente “tragica” dell’esperienza di D’Annunzio, cui bene si attaglierebbe la definizione di “sofista tragico” che fu data di Baudelaire. “L’atto poetico, eretto sulla coscienza più o meno chiara del nulla, crea (...) alla volontà un sistema di forme possibili, a partire dalle quali la ‘volontà di potenza’ si libera solo verso se stessa” (153), e si traduce, infine, in una forma di riflessione contratta e tormentata.
9. Come si è accennato, l’equilibrio - talora assai precario ed ambiguo - che si pone, nell’estetismo, tra autonomia ed eteronomia, si spezza con l’avanguardia - nella fattispecie il futurismo -, con cui l’arte abdica, esplicitamente e provocatoriamente, alla propria autonomia. La letteratura acquisisce e fa propri, senza più alcuna mediazione, i processi produttivi dell’industria. Essa vuole mimare “il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei quartieri”, coltivare l’”ossessione lirica della materia”, inseguendo “violenti getti di creazione e di azione”... Risorse tecniche e strumenti formali - in primis l’analogia, o la “simultaneità” mallarmeana - già utilizzati e quasi codificati in àmbito simbolista sono ripresi dai futuristi, anche un po’ fiaccamente, e svuotati della loro originaria valenza gnoseologica - si pensi all’”imagination” celebrata da Baudelaire come “reine des facultés”, o alle potenzialità di “instrument spirituel” che sono proprie del “Livre mallarmeano ... -, per divenire il mezzo di una totale identificazione tra costruzione del testo e produzione industriale.
E la critica, come sempre strettamente legata alle sorti della poesia - e la “coazione alla teoria” che contraddistingue la modernità letteraria è verificata anche, se non soprattutto, nelle avanguardie -, viene, allora, esattamente identificata con un processo scientifico, industriale, da laboratorio. IL Manifesto futurista sulla critica d’arte, pubblicato da Settimelli e Corradini nel 1913, vuole liquidare la “pseudocritica passatista”, “vizio solitario d’impotenti”, “attività anfibia, uterina e imbecille”. Alle “parole critico e critica” si sostituiscono “i termini misurazione, misuratore”; e non è forse un eccesso di sottigliezza vedere ancora operante, in queste righe, la famosa distinzione leopardiana tra “parole” e “termini”. Un’eteronomia ostentata, esibita, quasi invocata come estrema speranza di salvezza e di riscatto, finisce per sfociare nel delirio: una “pazzia creatrice” che era, in realtà, molto meno “libera” di quanto potesse sembrare. Un “cervello d’uomo” viene paragonato a quell’”organismo primitivo” che è la macchina da scrivere, anche se il cervello è “un apparecchio molto più complicato”... Vi è, comunque, un’interessante convergenza tra questa teoria della critica - se così la si può definire - e le sperimentazioni che gli stessi futuristi stavano compiendo sull’impiego, nella scrittura letteraria, dei diversi caratteri tipografici - in contrapposizione, non per nulla, alla “bestiale e nauseante concezione del libro di versi passatista e dannunziana”.
“Ora il genio ha un valore sociale, economico, finanziario. L’ingegno è un genere attivamente richiesto su tutte le piazze del mondo”. Si riteneva che la critica potesse ritrovare una funzione sociale e un’utilità ufficialmente riconosciuta solo gettandosi in pasto all’eteronomia e alla mercificazione. Per questa via il critico poteva assurgere al rango di uno stimato professionista: “il valutatore futurista (...) sarà un vero e proprio professionista, medico e psicologo, adempiente un ufficio reso valido e pratico dalla legge”. Già questo lascia intendere quanto illusoria fosse - almeno sul piano del metodo critico, l’unico ad avere specifica attinenza con la mia tesi - la “rivoluzione” dei futuristi.
“Misurazione futurista di un’opera d’arte vuol dire determinazione esatta, scientifica, espressa in formule, della quantità di energia cerebrale rappresentata dall’opera stessa, indipendentemente dalle impressioni buone, cattive o nulle che dall’opera possa ricevere la gente”. “Bisogna pesare il pensiero e venderlo come una merce qualunque”... “Bisogna abolire, oltre alle parole ‘critica’ e ‘critico’, i termini: anima, spirito, artista”. Com’è evidente, il critico artista dell’estetismo non aveva più, nell’avanguardia - almeno in questo modo di concepire l’avanguardia -, alcun diritto di cittadinanza. La prefazione e la recensione diventano “collaudi futuristi”, che si riducono spesso - in linea con le indicazioni del Manifesto tecnico della letteratura futurista - a pure e semplici concatenazioni asindetiche di sostantivi (154), che dovrebbero riprodurre le movenze repentine e le brusche transizioni di quel “ragionamento frammentario e più rapido” che è l’”intuizione”.
10. Lucini, come si è detto, danza come un funambolo sul sottilissimo discrimine che si pone tra autonomia ed eteronomia, tra estetismo e avanguardia. La sua critica, riallacciandosi esplicitamente da un lato alla tradizione della grande critica romantica italiana, dall’altro alla linea dell’illuminismo e del neoilluminismo lombardo, pone i testi in stretta correlazione con la “struttura” economica e sociale, con il contesto storico, con la circostanza materiale.
I vari “attraversamenti” - più o meno felicemente riusciti, ma tutti ugualmente avvertiti come ineludibili, come storicamente necessari - che sono stati messi in luce nei capitoli precedenti - di Baudelaire nei confronti di Hugo, di Wilde nei confronti di Arnold, del D’Annunzio critico nei confronti di De Sanctis - coincidevano, sostanzialmente, con una rivendicazione dell’autonomia dell’arte, della superiorità e dell’incondizionatezza dei valori formali ed estetici rispetto alle circostanze storiche e agli imperativi etici, e - quel che più importa per la mia ricerca - con una conseguente accentuazione del carattere creativo e poetico della critica, con una concezione della scrittura critica come scrittura letteraria, come “ottimo libro di prosa”, come “poème en prose”.
Con il futurismo, che segna, per l’Italia, la transizione dall’estetismo all’avanguardia, si configura - ove si accetti la fenomenologia proposta da Peter Bürger e la si riduca alle sue linee essenziali - un passaggio da un’esplicita e militante rivendicazione dell’autonomia dell’arte ad un’analoga, e altrettanto esplicita, affermazione della sua eteronomia. La scrittura critica, allora, abdica alla propria specificità letteraria, alla propria natura “artistica” e “poetica”, e si traduce, senza mezzi termini, in un processo scientifico e industriale, in una forma di “misurazione”.
Il manifesto di Settimelli e Corradini esce nel ’14; i due avevano aderito al movimento l’anno precedente, dopo la svolta “paroliberista” marinettiana, ponendo fine all’autonoma militanza del “liberismo”, movimento cresciuto intorno alla rivista “Il Centauro”. E proprio al ’13 risale l’esplicita presa di posizione di Lucini contro il Futurismo, con l’articolo Come ho oltrepassato il Futurismo, apparso sulla Voce del 10 aprile di quell’anno. Precedentemente, ai futuristi l’autore aveva rivolto l’accusa di “parricidio”.
“Noi siamo i figli dei padri ammalati”, cantava un poeta poco dopo la metà del secolo scorso. I poeti volavano, come corvi, “sull’agonia di un nume” - e piace pensare che rosseggiasse, sullo sfondo, il già baudelairiano “tramonto del sole romantico”. Il parricidio perpetrato dai futuristi - l’uccisione del chiaro di luna, il rogo delle biblioteche - voleva forse porre fine a quell’agonia, accelerare la morte dei padri, staccare loro la spina - anche a costo di correre il rischio che a quel crepuscolo seguisse la notte.
Lucini - memore, per questo aspetto, della biblioteca di Des Esseintes, degli “studi austeri” di Baudelaire, della “bibliomanzia” di D’Annunzio ... - non vuole uccidere i padri, non vuole dare fuoco alla biblioteca. La sua nozione di simbolo finisce, anzi, per essere il veicolo di un totale, integrale recupero della tradizione letteraria universale. “Ciascun poeta ed artista, che abbia cominciato un suo modo è simbolista”. La poetica della parola chiama a raccolta, come si è visto, gli autori più disparati, da Shakespeare a Mallarmé, da Manzoni a Wilde. Lucini ha “una biblioteca di Babele che gli fa da officina”. Tuttavia - ed è questo che lo differenzia da un Mallarmé -, “ostinatamente persuaso che il mondo non esiste per approdare a un libro, egli non scambia mai” questa biblioteca “con la Biblioteca” (155), con un’idea di Biblioteca e di Libro quasi ipostatizzati a principio metafisico, a monade solitaria ed assoluta, presupposto di ogni ulteriore realtà. “Non ho mai amato” - aveva dichiarato già nel 1899, rispondendo ad un’inchiesta sulla lettura - “né i conventi né le antologie. (...) Grande spazio, dunque, per me, grande biblioteca per accontentare la mia avidissima curiosità. (...) Chi vive, chi combatte nel tumulto della folla (...) non può riserbarsi per quaranta volumi. (...) Grande libro tutto il mondo! Ha pochi tomi, il cielo, la Terra, il Cuore e la Mente dell’uomo, li animali: torno a rileggerlo” (156). Anche Lucini accoglie e fa propria la secolare metaforica della “leggibilità del mondo”, che assume - come si è visto a più riprese - una particolare valenza nell’immaginario della décadence, ma anche, e con sorprendenti esiti, nel De Sanctis “zurighese”. Anche per Lucini il Mondo è un Libro; ma per lui, neoilluminista e insieme neoromantico, questa identificazione non si risolve in una letteraturizzazione dell’esistente, in una riduzione del dato reale a funzione della poesia, a parola implicita, a “traccia” da ricalcare od occultare con le fioriture e i rabeschi della parola poetica. Si crea, invece, una sorta di solidale continuità tra mondo e libro, tra realtà e parola, tra esperienza vissuta ed espressione letteraria. “L’arte” - si legge nella Ragion poetica - “è una naturale operazione della genialità umana; si esprime, per le stesse ragioni, per le quali l’uomo vive; l’arte è un modo di vivere... E’ un’energia. Come tale, non può consumarsi in un circuito concentrico di riflessione; non può spegnersi in sé, rivolgendovisi”. La letteratura specchio di sé stessa, intesa come autoriflessione, come pensiero che pensa se stesso, e che non ammette - se non in una forma mediata, per quanto efficace e sintomatica - un confronto con la “vile” realtà, non può trovare ricetto in questa forma di vitalismo, del tutto diverso da quello di D’Annunzio, che è invece, al di là dell’equivoco ideologico ed oratorio della parola-azione, tutto letteraturizzato, inscindibile da una necessaria e vitale amplificazione retorica, risolto nell’icona del corpo-parola e del “libro vivente” - e aggiungo qui, che un luogo del Notturno parla di una “risma compatta e intatta da trasformare in libro vivente” -: quella di D’Annunzio è, proprio come sintetizzava genialmente Lucini, una scrittura “che lo fa vivere, non per cui vive”...
“Queste centinaia di libri in fila / Ripugnano come cadaveri di vecchi amici”, scriveva Soffici. Era un sentimento di questo tipo che spingeva i futuristi ad invocare il rogo delle biblioteche e dei musei, simili a cimiteri “per la sinistra promiscuità di corpi che non si conoscono”, che sono emblema dell’estraneità e dell’alterità di un sapere ormai inservibile, ingovernabile, babelico; cimiteri in cui brulicava l’”immondo verminaio” dei “glossatori”, dei “bibliotecari”, degli “archeologi”... Un rogo che poteva essere avvertito, archetipicamente, anche come purificazione; purificazione da una sensibilità esasperata, asfittica, malata di cultura, e dalle reliquie e dalle scorie di una Vita che, rimasta prigioniera di quel Libro che doveva darle giustificazione e pienezza, era divenuta paralisi, necrosi, putrescenza. L’uomo dell’estetismo - lo si è visto in Wilde e in Pater - poteva ancora “vivere la vita dei morti”. Ora la morte è soltanto morte, carne putrida da ardere e disperdere. Ma Lucini, anziché bruciare il Libro e la Biblioteca, cerca di riportarvi la vita, e riportarli alla vita.
EPILOGO. “UN SOLITARIO E TACITO CONCERTO”. VERSO IL “SAPER LEGGERE” NOVECENTESCO
1. Nonostante il carattere “integrale” della critica luciniana, gli elementi eteronomi che vi sono insiti, e i legami che essa mantiene con la cultura illuminista e risorgimentale, troviamo nondimeno, tra le densissime e a tratti caotiche pagine della Ragion poetica, una modernissima definizione della componente creativa che è insita nell’atto della lettura, e in cui sembra di scorgere una larvale intuizione, se non proprio di qualcuna delle tante forme dell’odierno reader oriented criticism, almeno del derobertisiano “saper leggere”, che avrà di lì a pochi anni la sua enunciazione teorica. “Nel LIBRO, a noi sedentari ed inquieti, la nostra azione; il pensiero che si conforma in linee tipografiche continua la nostra vita. (...) Il Libro, espansione totale delle lettere, si raffigura, con queste, in una mobile sequenza, per corrispondenze, per eccitazione, per analogia, per diretto e puro disegno. (...) Ed un solitario e tacito concerto mentale si disviluppa dal leggere, perché, qualche volta, è completare, sempre interpretare: sognare preziosamente, sopra di una sinfonia una dolce aspettazione desiderata, perché è un riconoscere parte di sé stesso, prima ignorata, dietro le indicazioni del poeta, se insiste sopra di un suo dolore, di una sua gioia, di una sua malinconia”. E’ presente, qui, un corposo intertesto mallarmeano. Il testo a cui Lucini fa riferimento è Le Livre, instrument spirituel, apparso sulla Revue Blanche nel luglio del ’95, e confluito poi nelle Divagations. “Le Livre, expansion totale de la lettre, doit d’elle tirer, directement, une mobilité et spacieux, par correspondances”. Lucini non fa, qui, che amplificare il concetto di corrispondenza - fermo restando che, come si è già detto, la nozione di Libro acquista nel poeta delle Revolverate una valenza del tutto peculiare. “Un solitaire tacite concert se donne, par la lecture, à l’esprit qui regagne, sur une sonorité moindre, la signification”. Il passo luciniano fonde due enunciazioni che comparivano, a breve distanza, nel testo di Mallarmé; e anche la seconda è dapprima ripresa alla lettera, poi amplificata in uno dei suoi aspetti, che evidentemente è quello che maggiormente interessa a Lucini: l’idea dell’elemento creativo che è insito nell’atto della lettura, e che concorre in modo determinante a produrre il senso del testo.
Lucini può aver avuto in mente anche un’altra pregnante enunciazione mallarmeana, presente nella conclusione di Le Mystère dans les Lettres. Sono pagine in cui Mallarmé si difende - come nell’intervista ad Huret, o nelle giovanili Hérésies artistiques, che peraltro, escluse dalle Divagations, furono riscoperte solo nel 1940 - dall’”injure d’obscurité”, rivendicando il carattere elitario, quasi iniziatico della poesia moderna, che non può essere compresa se non da pochi eletti. “Lire - / Cette pratique - / Appuyer, selon la page, au blanc, qui l’inaugure son ingénuité (...): et, quand s’aligna, dans une brisure, la moindre, disséminée, le hasard vaincu mot par mot, indéfectiblement le blanc revient, (...) pour conclure que rien au delà et authentiquer le silence - / Virginité que solitairement, devant une transparence du regard adéquat, elle-même s’est comme divisée en ses fragments de candeur, l’un et l’autre, preuves nuptiales de l’Idée”. Qui l’atto della lettura, con una simbologia fin troppo chiara, è visto come deflorazione del testo, come sguardo penetrante che ne squarcia il velo, ne oltrepassa la superficie. Già Erodiade - personificazione della poesia, e dunque del testo, e quindi testo essa stessa - “amava l’orrore di essere vergine”, e doveva infine rassegnarsi al “distacco” delle “froides pierreries” che allegorizzavano la sua “innocence” e la sua “enfance”. E si ritrova, anche in questo passo del Mystère, la tipica dialettica di “bianchi” e parole che percorre ed anima la fondazione teorica e formale del “poème critique”: l’”ingénuité du papier” - e, insieme, l’”impuissance” esorcizzata dalle fitte e intermittente epifanie del dettato critico, e nondimeno sempre ritornante, e mai del tutto debellata - e già presente qui, in questa “virginité” in questa “candeur” che sta per essere frantumata; e alle “subdivisions prismatiques de l’Idée” fanno riscontro le analoghe “preuves nuptiaes de l’Idée”. L’atto della lettura lacera, per riprendere un’altra simbologia mallarmeana, la sottile membrana del testo poetico, “hymen” insieme “vicieux et sacré” e, nel contempo, imenéo, canto nuziale, archetipo della poesia, che precede il congiungimento carnale, l’unione mistica e simpatetica con l’abisso del testo, e che dunque si pone “entre le désir et l’accomplissement” (1). E la lacerazione e la divisione del velo del testo in frammenti - la dissipazione della verginità del testo, dei suoi “frammenti di candore”, “prove nuziali dell’Idea” - possono certo tradursi, secondo una dinamica che la decostruzione ha portato fino all’eccesso, all’esasperazione, all’annichilimento, in forme di “de-significazione”, “anasemia”, “anasemic and anathematic displacement”, derridiana “polysémie” di cui proprio i “bianchi”, con la loro semanticità paradossale ed inesauribilmente multivoca, sono il più lampante emblema (2). L’atto della lettura decompone e frantuma il testo, disperdendone il nucleo e l’essenza in una sorta di pulviscolare, impalpabile, onnicentrica nube, ormai priva di interne coordinate o di chiari punti di riferimento. L’enunciazione di Mallarmé definisce, in termini che sembrerebbero già quasi derridiani, “disseminato” uno dei lembi, dei lacerti o delle “labbra” del testo deflorato. Il “Verbe”, il Logos, dapprima assoluto ed inviolato principio metafisico, sembra essersi ora stemperato e disperso sotto le lancinanti sferzate dello sguardo critico. Al Logos si sono ormai sostituiti - per riprendere la metafora del “seme” e nel contempo, ormai “anatematizzata”, la simbologia sessuale - gli spermata tou logou, i “semi del Verbo” di cui parlarono i Padri della Chiesa e prima di loro, in una differente accezione, gli Stoici. E, per di più, all’Intelletto creatore e fecondante che spargeva saggiamente, e in modo predeterminato, nelle diverse ere della storia e nei più disparati frutti dell’ingegno umano, i semi del Verbo, i frammenti, i bagliori, gli “umbriferi prefazi” della Rivelazione e del Testo, si è ora sostituito un gesto - quello della lettura/scrittura - in fondo incerto, debole, equivoco, insieme “sacro” e “vizioso”. La poesia, dopo aver illuso il lettore di poter “vincere il Caso parola per parola”, organizzandolo o gestendolo attraverso l’organica e ragionata tessitura dell’ordito retorico, sembra infine abdicare al proprio interno, strutturale principio di ragione, e rassegnarsi, almeno temporaneamente, a concludere che “non c’è nulla al di là”, non esiste niente oltre il libro ed il testo, e ad “autenticare il silenzio”, a confermare e rafforzare la minacciosa presenza di quel Nulla che sta, conseguentemente, dietro il testo.
Per Lucini, come si è detto, dietro il testo e il libro non c’è il Nulla, ma la Vita. In questo senso, il suo pur evidente uso - ai limiti del plagio - del testo mallarmeano, si configura come una falsificazione o un “attraversamento”. Nel Libro, per Lucini, “il pensiero che si conforma in linee tipografiche” - e qui vi è senza dubbio, come nell’immagine dei “vocaboli lucidi di acciaio e di metallo delle machine” e dei “vocaboli vorticosi delle ruote, delle eliche”, un’eco della militanza futurista - “continua la nostra vita”. Nondimeno, anche nel teorico del Verso libero, l’atto della lettura, pur non risolvendosi in un’”autenticazione del silenzio”, al silenzio è comunque legato da una dialettica densa e problematica. “Il pensatore silenzioso”, forte del Libro, “esce così armato, al sole del giorno, in faccia a tutti, partecipando al lavoro comune”. Dal silenzio, attraverso la lettura-scrittura concretizzata nel Libro, il pensatore passa alla vita, alla società, alla storia. In questo senso, ben diverso da quello mallarmeano, la lettura è per Lucini “solitario e tacito concerto”. La Parola è “parola delli uomini, delli dei e del Dio”. Per Lucini, a differenza di quanto accade in Mallarmé, è ancora pensabile e praticabile una qualche forma di effabilità e di nominazione dell’Assoluto, del Divino, dell’Altro. La parola che si libra alle soglie del silenzio può ancora confidare in un fondamento ontologico, e, insieme, in una presenza sullo scenario della storia. Dopo l’esasperata rarefazione dei simbolisti, essa riscopre le cose, tenta dio riappropriarsi di un reale “escluso” o “abolito”. “Né concordammo in tutto col grande Mallarmé, (...) perché, né l’ allusione, né la suggestione” - ed è qui trasparente il riferimento all’intervista ad Huret, al sogno di “suggérer”, “évoquer les objets” - “bastano alla nostra arte”.
“Filosofia, Lirica, Storia, Sentimento, Grammatica, ed Anarchia: tutto si avvicenda in questi fogli. Io mi confido alla capacità del lettore, che tutto legga e sappia leggere; gli procuro un nuovo piacere. Come la vita. Bisogna saperla vivere: trascegliere, accettare o rifiutare: la vita è una sintesi. (...) Così si vive filosoficamente: così si legge intelligentemente”.
In questo senso, anche in Lucini la critica torna ad essere, secondo la definizione wildiana, “a mode of autobiography”. Non più, però, letteraturizzazione della vita, dominio dell’artificio, della “decorazione”, della forma, ma, al contrario, variopinta, inquieta, a tratti un poco ingenua e caotica autobiografia intellettuale. Il piano della lettura e quello dell’esperienza esistenziale tornano a collimare. Proprio in questo, forse, sta la differenza che separa Lucini da Mallarmé.
Con Lucini la parola riscopre la vita, la realtà, la storia. Il poeta delle Revolverate segna, sotto questo profilo, una fase di quel “difficile ritorno alle cose” che la poesia ha dovuto cercare di compiere dopo l’esasperata accentuazione mallarmeana dell’autonomia e dell’autoreferenzialità del segno e del simbolo; un processo, quest’ultimo, che aveva rischiato di condurre la poesia ad un’interna consunzione, ad una paradossale perdita d’identità per eccesso di autocoscienza, a qualcosa di simile alla “distruzione critica” di cui parlava Sartre: totale rarefazione, irreversibile annichilimento, completa dispersione o “abolizione” dei significati (3).
2. Anche Lucini, comunque, deve, come Mallarmé, difendersi da un’”injure d’obscurité”. Proprio a causa di lettori che non sapevano leggere, “l’originalità si tradusse, in lingua povera, per oscurità!”. “Noi desideravamo non più l’ordine e la continuità della maniera classica. (...) Noi volevamo il libro a nostra simiglianza, filosofico, lirico, storico, entusiasta, riflessivo (...). E questa era l’oscurità che obbligavamo al lettore; perché interponesse spazio tra periodo e periodo, sostando, per interpretare attentamente, per poter intenderci meglio; perché si esercitasse a nostro paragone, emulandoci, creando, dalla indicazione a sé stesso l’imagine completa, ricreandosi a foggia, non inerte o distratto, ma collaboratore”. In rapporto al poeta - aveva già scritto, come si ricorderà, Angelo Conti più di dieci anni prima - il critico “non è soltanto un comentatore, ma, in maniera indiretta, un collaboratore”. Si rinnovava così, in seno al simbolismo italiano, la parabola baudelairiana del lettore complice, “semblable” e “frère” del poeta non solo per l’”ipocrisia”, la doppiezza, la “mezza verginità” che li accomunava, ma anche, in pari tempo, perché entrambi partecipi e “collaboratori” al processo della significazione poetica. E il lettore era apparentato al poeta anche perché ques’ultimo era, a sua volta, in primis lettore e critico di se stesso; e Lucini, in limine alla Ragion poetica, parlava, come si è accennato, di una critica intesa come autocritica. “Il carattere, che è un modo di vivere, (...) torna riflesso in una bellezza particolare” e “informa l’espressione”; di conseguenza, “perché poeti, filosofi ed artisti, sono delli iniziatori e non dei valletti, essi si trovano obbligati a volgersi autocritici a loro stessi, per divulgarsi, per dare alli altri (...) la cifra più esatta donde una scienza critica o storia (...) spieghi (...) la fenomenologia del divenire e del perpetuo svolgimento”.
Non so se questa fenomenologia possa già intendersi, come ha ipotizzato qualcuno, già in senso anceschiano o husserliano, anche se la concettualizzazione di Lucini è già straordinariamente lucida e, a suo modo, rigorosa; siamo ormai alle soglie del “saper leggere”, della “collaborazione alla “poesia”, insomma della critica “vociana” - e intendo ed uso questa categoria per pura comodità espositiva, perfettamente consapevole della genericità -; siamo, insomma, alle soglie di quello che è stato definito il “neoimpressionismo critico” novecentesco. Ed è qui che, nell’ideale continuità che unisce, fin nella veste tipografica, il Marzocco alla Voce, l’eredità del fare critico luciniano si salda con quella della “critica estetica” dei marzocchiani.
Rievocando, sul Marzocco del 13 maggio 1909, l’esperienza di Conti, Prezzolini gli riconosceva - pur se nel quadro di un giudizio non privo di riserve - “la capacità di scandire in prosa ricca e numerosa, gli oracoli e i responsi di una critica fondata sul sentimento”. Sotto lo sguardo rapido e illuminante del critico artista, “le opere d’arte, continuazione umana della natura, si rianimavan lentamente nelle penombre discrete dei musei”. Non è difficile scorgere, in questa rievocazione, precisi echi dannunziani: dall’idea - che da Séailles rimbalza al Giorgione di Conti e alla prefazione del Trionfo della morte - dell’arte che deve “non imitare, ma continuare la natura”, ai “numeri della mia prosa recente”, rievocazione simbolista del modello classico dell’”oratio numerosa et apta”, intorno a cui ruota la tarda autocelebrazione del Libro segreto. Si univano, alla radice di una delle varie linee, ancora in larga parte da indagare, dell’eredità lasciata al Novecento dalla “critica estetizzante” del Simbolismo e dell’Estetismo, due aspetti fondamentali di quest’ultima: il surnaturalisme e l’enfasi posta sul concetto di prosa.
Il “saper leggere”, certo, si sarebbe sviluppato soprattutto in seno alla “seconda Voce”, alla Voce “bianca”, dopo la separazione dagli intenti imperialistici e bellicistici del fondatore; quest’ultimo, nondimeno, nella sua commemorazione metteva in evidenza un aspetto fondamentale dell’”impressionismo” critico - senza, ovviamente, che questa definizione abbia alcuna implicazione spregiativa -, tanto secondottocentesco quanto novecentesco. Conti era un “lirico nato, lirico in prosa; (...) la prosa gli prendeva spesso l’andamento della poesia”. Era, questo, uno degli aspetti fondamentali di un metodo critico che poneva l’accento su di un ideale di prosa che assommasse in sé da un lato la ricchezza stilistica e formale del “capitolo”, della “prosa d’arte”, del poème en prose, dall’altro il carattere creativo, “autobiografico”, “indipendente” della scrittura critica. “La critica”, avrebbe scritto De Robertis nel ’15, in pagine assai note, “viene insieme con la poesia. Partecipa della natura della poesia”. Non ci si stupisce che il critico, molto più tardi, e dopo aver abbondantemente nutrito di filologia il suo “impressionismo”, annoverasse fra i suoi maestri, anzi fra i suoi “testi”, Poe, Baudelaire, Mallarmé, Valéry (4)... Attraverso una probabile mediazione marzocchiana - e si ricorderà che De Robertis si formò a Firenze, in quello stesso Istituto di Studi Superiori che un decennio prima era stato frequentato da Gargàno e da Garoglio... -, cui si sovrapponeva, forse ancor più vivido e fecondo, il magistero di Valéry, il “saper leggere” vociano recepiva la grande lezione della critica simbolista: una critica che, come spero di aver mostrato, aveva adibito a strumenti formali ed espositivi, se non addirittura metodologici, della critica, modi, forme e strutture - come l’analogia e la sinestesia - che erano propri della poesia, e di cui non poteva fare a meno di appropriarsi una critica che voleva “partecip are della stessa natura della poesia”. E nella genesi di questo metodo poteva avere avuto un qualche peso anche il modello offerto da Wilde, le cui Intentions erano state integralmente tradotte nel 1906 da Raffaello Piccoli, non a caso saltuario collaboratore della Voce; è inoltre significativo che il metodo critico derobertisiano - qui assunto quale esempio paradigmatico - sia stato autorevolmente posto in relazione con la “critique voluptueuse” di Jules Lemaître (5), che, come si è visto, i marzocchiani invocavano quale antecedente o modello della loro “critica estetica”.
Anche la critica vociana, proprio come la “critique amusante et poétique” del simbolismo, dovette difendersi da accuse di “estetismo, misticismo, e tanti, tanti ismi” (6)... Fino ad allora - si legge in Collaborazione alla poesia - “neppure una esperienza tormentata, conscia, sostituitasi d’un tratto a un temperamento istintivo, ha potuto collaborare (...) alla ricerca di uno stile che almeno agevolasse l’avvento di una poesia consapevolmente nuova”. Ancora la centralità del concetto di stile; uno stile che, come De Robertis scriverà nella Promessa del ’14, “significa scrivere sotto la specie d’una suprema necessità”, d’una simpatetica aderenza tra cosa e parola data a priori, nel cuore profondo della coscienza linguistica. poche righe dopo, invocando un’”assoluta modernità di spiriti e di forme” - “il faut être absolument modernes”... -, il critico non poteva che rifarsi a Mallarmé e a Rimbaud, suggerendo altresì, forse sulla scia del recupero, tentato dalla décadence, della prosa del “Medioevo incubatorio”, “uno studio attento, geniale, (...) di alcuni mistici: Cavalca, Passavanti...” (7); e già D’Annunzio, in un articolo sul Mattino di Napoli, poche settimane dopo aver celebrato, sulle colonne dello stesso quotidiano, la “suprema” “scienza delle parole” e le sovrumane virtù del Verbo, per mezzo del quale “tutto esiste”, raccomandava, ai fini dell’”educazione stilistica” degli scrittori, proprio la lettura di autori quali Cavalca, Passavanti, santa Caterina (8)... Sono peraltro note le riserve di De Robertis, e in genere dei “moralisti” e dei “frammentisti” vociani” - altre categorie, queste, qui assunte per pura e semplice comodità espositiva -, nei riguardi del D’Annunzio più paludato ed oratorio; ma non escluderei che la stessa tesa, analogica, abrupta paratassi di Saper leggere, specie nella parte finale, debba qualcosa al fraseggio spezzato ed ansante, alle soglie del verso libero, che pervade la prosa del D’Annunzio “notturno”, di cui le Faville, che avevano da poco incominciato ad apparire - siamo nel ’15 -, rappresentano il primo laboratorio. Nelle pagine dedicate al Libro segreto in Scrittori del Novecento, De Robertis parlerà - con espliciti e impegnativi paralleli mallarmeani e rimbaudiani - di una “malinconia” vista come “estenuazione di esperienza stilistica”, “prosa ‘filigranata’ di poesia, cioè di ritmo”, “sensualità senza carne”, temporaneamente placata e risolta nell’icona del corpo-parola, nell’estasi di un dionisiaco sublimato e trasceso nell’estasi dell’invenzione verbale. Così potevano, forse, trovare ristoro anche l’”irrequietudine moderna” e la “sensibilità malata” che si attribuiva il De Robertis di Collaborazione alla poesia, per poi mostrare, subito dopo, tra le righe, di non essere immune dalle suggestioni dell’estetismo, dalla malìa della Parola che è divina, del Verso che è tutto: “il verso!... Cosa divina, nella sua vibrante fattura, nella sua unità brulicante, nel ritmo ricco, a ogni accento, di movimenti nuovi, di tremito” (9). ). Il critico sembra contaminare passi tratti da alcune fra le più pregnanti dichiarazioni di poetica dell'estetismo: da un lato le famose pagine del Piacere in cui si ha la definizione, di ascendenza schopenhaueriana, del verso come organismo logico e verbale già quasi lessicalizzato, che "esisteva già, preformato, nell'oscura profondità della lingua"; dall'altro la definizione mallarmeana, presente in Crise de vers, del verso come struttura che "de plusieurs vocables refait un mot total, neuf, étranger à la langue et comme incantatoire", ma, forse, anche la linea di metaforizzazione, sottesa in più punti alla riflessione teorica del poeta di Hérodiade, legata alla percezione e alla rappresentazione delle parole che compongono il verso come lampi e bagliori che si rincorrono in un immateriale e virtuale spazio mentale, illuminandosi cito ancora da Crise de vers di "réflets réciproques comme une virtuelle traînée de feux sur des pierreries” quelle, proverbiali, della poesia parnassiana, ma anche quelle che adornano la sterile bellezza di Erodiade -; "riflessi reciproci" paragonabili a "coloris" e "allure" che, in una sinestetica nuance di impressioni acustiche e suggestioni luminose, "existent dans l'instrument de la voix", e graduano "timbri qui oscuri, là chiari" e anche per Serra, come si vedrà tra breve, l'atto critico comportava, tra le altre cose, un assiduo "far chiaro lo scuro e poi oscuro il chiaro", scintillando come "alternatives lumineuses simples".
E non escluderei, infine - e questa non vuole essere, per ora, che un’ardita ipotesi -, che il Petrarca “ermetico” e “mallarmeano”, ostentatamente anacronistico, degli Studi, debba qualcosa al Petrarca di Conti, in cui, assai modernamente - e peraltro sulla base di una suggestione schopenhaueriana -, “i suoni quasi non esistono più come mezzi, ma esistono in sé e per sé”, e le parole sono “simboli di parole” - “parole nate”, dice De Robertis, “(...) da un’intima armonia; e segni, meglio che parole, di un’altra realtà” (10). Nell’ Introduzione al saggio su Petrarca, De Sanctis - cui Conti voleva arditamente, e certo in modo velleitario, per quanto significativo, contrapporsi - scorgeva un pericolo nell’accentuazione, in sede interpretativa non meno che creativa, di questa componente di sublimazione e rarefazione del reale attraverso la parola poetica: e stigmatizzava, significativamente, un “indirizzo” con cui “il poeta opera come critico”, e “ ci dà allegorie, simboli, astrazioni”...
E’, in fondo, una stessa condizione che sta alla base dell’esperienza del D’Annunzio notturno e, insieme, di ogni critica intesa come autobiografia: una presa di coscienza che passa attraverso la scrittura, che trasferisce il dominio dell’autocoscienza esistenziale in quello dell’autocoscienza letteraria, e viceversa, in una circolarità irrisolta, e talora disperante. E un Carlo Bo forse troppo presto dimenticato, e liquidato dal Wellek come “inconsistente”, parlava, già nel ’54, della lettura derobertisiana e serriana come “lettura del corpo (...), fatta di sughi e di polpe come il segno d’un frutto riconosciuto” - le “parole carnee” di Stelio Effrena... -, come “pazienza” e “valore” di un “testo che si fa dentro di noi come avanti si era fatto nella fantasia dello scrittore”; una lettura che “vede il disegno di una lirica, che crede al discorso interiore, quasi fisico di una voce” (11); e c’è, in questo sinestetico intrecciarsi di suono ed immagine, qualcosa del “riverbero”, della “riflessione”, dell’”imago vocis” prima richiamata per Mallarmé.
3. La lettura, dunque, come presa di coscienza, del testo e, specularmente, di se stessi; un aspetto, questo, che Lucini, nel terzo capitolo della Ragion poetica, accentuava in modo sensibile rispetto alla peraltro evidente “fonte” mallarmeana. Richiamo brevemente il passo prima esaminato. “Un solitario e tacito concerto mentale si disviluppa dal leggere”, perché leggere è “sempre interpretare”; “è un riconoscere parte di sé stesso, prima ignorata, dietro le indicazioni del poeta”; altrove, come si è visto, nella lettura era esplicitamente indicata una modalità di “collaborazione” all’atto poetico, di necessario completamento, da parte del lettore, del contenuto e del valore del testo. Già in un sorprendente appunto giovanile il poeta delle Revolverate aveva rifiutato certi “semiritmi”, certi versi pseudo-liberi del tardo simbolismo - ma vi può forse essere, in quell’espressione, una malevola allusione ai Semiritmi di Capuana -, perché tale forma di espressione poetica “indica va una cosa troppo definita e non contempla va l’intervento della suggestione del lettore” (12). Una “suggestione” che può essere accostata alla “suggestion”, alla “traccia” di cui parla Wilde, così come al “suggérer”, all’”évoquer” mallarmeano. Da questa poetica di “suggestione” ed “evocazione” Lucini prenderà in séguito, come si è visto, le distanze; ma resterà viva, in lui, l’aspirazione ad una lettura critica che abbia in sé una componente immaginativa e poetica, e che si ponga quale integrazione o inveramento degli intrinseci valori testuali.
Non a torto, dunque, si è potuta scorgere, proprio nella critica di Lucini, nella sua concezione della critica come “genialità creativa”, oltre che come “integrale” esame del contesto storico e sociale in cui matura una certa produzione letteraria, un’anticipazione del metodo di un Serra e di un Boine. Gli sparsi e sporadici giudizi sul Lucini critico e teorico che si incontrano nell’ Epistolario serriano e nei Frantumi di Boine - insieme alla sintomatica e a sua modo rivelatrice “reazione” di De Robertis ad Antidannunziana sulla Voce del 15 dicembre 1914 - sono in generale improntati a quell’”antipatia temperata di stima” di cui parlava Serra in una lettera a Linati. Sembra dunque configurarsi un Lucini “odiosamato maestro di tutta una generazione”, “letto, adoperato, e subito avversato e messo in disparte con fastidio, taciuto, perché ingombrante, irritante, ‘mauvaise conscience’ di tutt’una situazione” (13).
Comunque, almeno nel caso specifico di Boine, e della sua concezione dell’oggetto dell’atto critico come elemento che, letteralmente, “esprime” il lettore e lo “rivela a se stesso”, e della critica come “storia dell’autore come uomo” (quasi neoromantica “histoire d’une âme”), oltre che come completamento e integrazione dell’intrinseco significato dell’opera, bisogna tener conto del probabile diretto influsso, puntualmente segnalato da Giuliana Benvenuti, dell’ Ermeneutica di Schleiermacher, secondo cui l’ermeneuta deve “saperne di più dell’autore stesso” (14).
Ed è proprio l’idea di coscienza - non troppo lontana, in fondo, dalla “self-consciousness” wildiana, che si cela con discrezione dietro l’apparente, provocatoria frivolezza del dandy - a rivestire un’importanza cruciale nell’esperienza vociana; una coscienza che, come si è accennato, si precisa e prende consistenza proprio dal contatto con il testo. “Anch’io sono un altro”, esclama Serra rendendo grazie ad una ballata di Paul Fort, nel vivo di una scrittura mossa ed inquieta, tutta intarsiata di risonanze simboliste, e che accompagna e mima i trasalimenti e i sussulti che scandiscono le tappe di un cammino condotto fino al cuore dell’agnizione letteraria. “Je est un autre”, come voleva Rimbaud; e non è forse azzardato dire che Serra vive, come i simbolisti, l’esperienza di un Soggetto che - direbbe oggi Agosti - si aliena, e insieme si riconosce e si invera, nel Linguaggio. Ed è sempre il Serra del Ringraziamento a parlare del “turbamento quasi misto di rancura e di durezza” con cui si era sentito attratto da Rimbaud, e del “sorriso di delizia” con cui si era “piegato verso le opere di Verlaine”. La lettura “è un andare e venire, un riprendere e lasciare, strofa a strofa, verso a verso, sillaba a sillaba; far chiaro lo scuro e poi oscuro il chiaro; l’analisi minuta” si risolve in sintesi, “ridiventa corrente e fluente, e torna al suo principio, alla strofa, alla musica, da cui tutte le altre si dilatano, come cerchi propagati l’uno dall’altro sull’acqua, in una continuità silenziosa che si potrà rilassare ma spezzare non si può”.
Il “silenzioso e tacito concerto” che, per Mallarmé e per Lucini, “si dispiega dal leggere”, si traduce qui in “continuità silenziosa” tra creazione e fruizione del testo, e in insoluta e ricorsiva circolarità e interconnessione di suono e silenzio, chiarezza e oscurità; e Serra sembra, come Mallarmé e come Lucini, far fronte all’”injure d’obscurité” proprio invocando la complicità e la collaborazione di un “lettore che sa leggere”. “ Si vive” - dirà De Robertis in Saper leggere - “di attimi brevi, di illuminazioni momentanee, che ci fan vedere un passo avanti, e poi: buio pesto daccapo. Gl’intervalli ciechi son troppo lunghi, e non consolati che da rari punti luminosi”. La catabasi serriana fino al cuore profondo dell’espressione poetica - fino, forse, a quell’”oscura profondità della lingua” da cui già D’Annunzio, memore dei Supplementi di Schopenhauer, traeva il suo verso -, dalla strofa al verso alla sillaba, dal chiaro allo scuro, rischiava di rendere impossibile o vano il riemergere alla luce della coscienza letteraria. La parola critica arrivava ad un passo dall’annegare o dall’annullarsi in quella che Bo chiama la “realtà probabile” del testo, nell’indistricabile dedalo delle “disposizioni anteriori al testo”; l’allegoria della lettura rischia di essere allegoria di una regressione, di un accecamento, di uno smarrimento.
La parola del critico - e insieme l’”illumination” della gnoseologia simbolista - si confronta con la quasi mistica, e insieme disperante, esperienza dell’ hyperphotos gnophos, della “luminosissima tenebra” del testo poetico, un testo paradossalmente oscuro per eccesso di senso, impenetrabile per l’abissale spessore e l’insondabile densità della significazione; testo, d’altro canto, in cui anche il silenzio e il bianco possono, paradossalmente, significare.
Dirà un poeta del Novecento: “tendono alla chiarità le cose oscure, / si esauriscono i corpi in un fluire / di tinte; queste in musiche: svanire / è dunque la ventura delle venture”. Questi versi descrivono e sintetizzano quella che è, a ben vedere, la parabola dell’ obscurisme mallarmeano: l’avventura di una parola poetica e critica che danza, circonfusa e quasi protetta dalla sua stessa abissale, inesauribile, e nondimeno ragionata e programmata ambiguità, sul sottile confine che divide la luce dalla tenebra, la voce dal silenzio, il Verso dall’Informe.
4. “E’, come dicono” - scrive Serra nelle Lettere -, “il momento della critica” - momento che, in una prospettiva europea, datava almeno da Baudelaire. “Non si dice la critica in quanto erudizione e inventario storico, com’era nella generazione precedente”. L’onda lunga della polemica marzocchiana contro l’eruditismo di scuola storica non si era ancora, a un quindicennio di distanza, arrestata del tutto. Serra propugnava una “critica come esigenza e problema del pensiero, passione dell’animo e forma dell’arte. (...) La critica (...) ha dato (...) alla nostra letteratura una coscienza, che è diventata tormento e legge del pensiero come della poesia”. Già Prezzolini, rievocando, nei citati articoli del 1909, l’esperienza del primo Marzocco, menzionava significativamente, accanto a Gargàno e al Borgese “artifex oppositus artifici”, proprio Serra, “un giovane che promette d’essere (...) un critico robusto”, e che in quello stesso anno aveva dato alle stampe, sulla Romagna, il saggio su Pascoli - invero, per il fondatore della Voce, “più appunti che articoli”. “Noi sappiamo” - continuano le Lettere - “che quel che importa è la coscienza; e questa è sveglia, pronta, mobile, nuova; ironia talvolta e aridità e contrattura quasi nell’apparenza” - e Arturo Onofri, in Tendenze, articolo vociano del ’15, in una sottile ed acuta variazione sul tema della coscienza letteraria, parlava di un ancora dannunziano e dionisiaco “culto orgiastico del lirismo”, ma “esasperato dalle più frenetiche allucinazioni”, e “dissolennizzato” ed “ilarizzato dalla coscienza che è ironia”. La modernità è un continuo superamento, attraversamento, “riesame completo del vecchio”, nella formula derobertisiana, “per gettar le basi del nuovo”; un processo che non può non lasciare spazio, talora, alla “moda”, al “fuggitivo”, al “transitorio”. “E’ la intensità (...) e la rapidità della vita moderna”, si chiede Serra, “che consuma in un anno quel che bastava per un secolo ai nostri avi; o non è meglio l’attitudine divenuta prevalentemente critica della nostra coscienza letteraria, che ci obbliga a codesto travaglio assiduo di revisione e rinnovamento di tutti i valori?”. Già per Conti e per D’Annunzio il critico era “la coscienza dell’artista”. In Serra e in De Robertis - che proprio alla “coscienza letteraria” intitolerà la prefazione all’edizione degli Scritti serriani - questa coscienza si fa, certo, più profondamente sofferta e sentita, essenziale, vitale, non interamente risolta nel dominio dell’artificio verbale; una coscienza che nell’ultimo Serra, a cui forse, come a Soffici, i libri ripugnavano ormai “come cadaveri di vecchi amici”, avvertirà la vitale esigenza di sfondare il cielo di carta della letteratura, di rientrare, anche a costo del sacrificio e dell’autoannientamento, nella collettività e nella storia.
“Io non mi fo” - scrive De Robertis in Saper leggere - “collaboratore dei poeti contemporanei (...), ma di me stesso. (...) Vivo della stessa instabilità ed inquietudine che si manifesta in tutta l’opera dell’ultima stagione. Sono della stessa razza”. “Non posso leggere la Divina Commedia e i Canti che per mio piacere ed esperienza personale, come un artista, (...) fermandomi a certi passi dove il mio gusto, la mia sensibilità, il mio bisogno di trovare un corrisposto, e una giustificazione, una riprova insomma alla poesia moderna, si pacificano pienamente, e ne riescono arricchiti, con una coscienza più aperta e più addestrata”. L’ideale simbolista del critico artista trovava così il suo più pieno compimento; la “self-consciousness” che in un Wilde rischiava, pur se innegabilmente presente, di restare abbagliata o annullata dall’ allure talora un po’ frivola e dai paradossi volte un po’ stentati del dandy, giungeva ora, nutrita di filologia e di più attente e meditate letture, alla sua più feconda maturità, che avrebbe dato nel Novecento i suoi frutti migliori.
NOTE
NOTE ALL'INTRODUZIONE
1) P. V. MENGALDO, Introduzione a Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 1990, p. XIX.
2) U. ECO, Come si fa una tesi di laurea, Bompiani, Milano 1997, p. 20.
3) L. ANCESCHI, Che cos’è la poesia, Zanichelli, Bologna 1990, p. 103.
4) F. CURI, L’umorismo di Pirandello nel sistema della modernità letteraria, in Studi sulla modernità, Clueb, Bologna 1989, p. 11.
5) ibidem, p.10.
6) Cfr. T. W. ADORNO, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1970, soprattutto le pp. 573-5.
7) L. ANCESCHI, Autonomia ed eteronomia dell’arte, Garzanti, Milano 1992, p. 19.
8) ibidem, p. 219.
9) V. la voce Poesia in ID., Dizionario di filosofia, UTET, Torino 1993, pp. 673-8.
10) N. FRYE, Anatomia della critica, Einaudi, Torino 1969, p.10.
11) ibidem, p. 9.
12) ibidem, p. 11.
13) ibidem.
14) L. ANCESCHI, Gli specchi della poesia, Einaudi, Torino 1989, p.184.
15) ibidem, p. 113.
16) ibidem, p.116.
17) T. S. ELIOT, Sulla poesia e sui poeti, Bompiani, Milano 1960, p. 125.
18) ID., L’uso della poesia e l’uso della critica e altri saggi, Bompiani, Milano 1964, pp. 237-8.
19) E. GUIDORIZZI, La poesia parla ma chi insegna non l’ascolta, in Poesia, VIII (1995), n. 80, p. 45.
20) L. ANCESCHI, Gli specchi, cit., p. 146.
21) C. SEGRE, I segni e la critica. Fra strutturalismo e semiologia, Einaudi, Torino 1969, pp. 7-8.
22) La critica salvata dalla poesia - intervista con Geoffrey Hartman, a cura di R. BONADEI, in “Poesia”, V (1992), n. 49, pp. 19-23.
23) L. ANCESCHI, Gli specchi, cit., p. 145.
24) ibidem.
25) R. SANESI, Alcune annotazioni su Eliot critico-poeta, introd. a T. S. ELIOT, L’uso della poesia, cit., pp. 5 e 11.
26) ibidem, p. 8.
27) N. FRYE, Anatomia, cit., p. 15.
28) L. ANCESCHI, Fenomenologia della critica, Patron, Bologna 1966, p. 81.
29) ibidem, p. 3.
30) P. K. FEYERABEND, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1979, p. 24.
31) L. ANCESCHI, Fenomenologia, cit., p. 3.
32) N. SAPEGNO, La critica, in Storia della letteratura italiana, vol. IX, Garzanti, Milano 1969, p. 883.
33) A. SIMONINI, Cent’anni di riviste - la vittoria della critica sulla letteratura, Calderini, Bologna 1993, p. 3.
34) G. FERRONI, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, Einaudi, Torino 1996, pp. 138-9.
35) Cfr. A. NOFERI, Le poetiche critiche novecentesche, Le Monnier, Firenze 1970, p. 151.
36) G. FERRONI, Dopo la fine, cit., p. 43.
37) P. D’ANGELO, L’estetica italiana del ‘900, Laterza, Bari 1997, p. 185.
38) A. NOFERI, Le poetiche critiche, cit., p. 4.
39) G. BENVENUTI, Friedrich Nietzsche: verso una nuova interpretazione dell’accadere, in Studi sulla modernità, Clueb, Bologna 1989, p. 89.
184
40) V. FORTUNATI, Prefazione a G. H. HARTMAN, La critica nel deserto, Mucchi, Modena 1980, p. XI.
41) F. CURI, Introduzione a Studi sulla modernità, cit., p. 7.
42) Cit. in E. KRUMM, Nelle opere e nei giorni, in Poesia, IV (1991), n. 45, pp. 9-20, pp. 13-17.
NOTE AL PRIMO CAPITOLO
1) CH. BAUDELAIRE, Oeuvres complètes, vol. II, Gallimard, Paris 1976, p. 793.
2) W. BINNI, Poetica, critica e storia letteraria (1963), Laterza, Bari 1970, p. 18 n. 2.
3) ibidem, p. pp. 19-20.
4) ibidem, p. 17. Questa nitida e, a suo tempo, relativamente innovativa idea di “poetica” come “consapevolezza critica” - comunque subordinata all’”immediatezza della sensibilità” - “che il poeta ha della propria natura artistica”, come “ideale estetico” e “programma di lavoro”, aveva preso forma assai per tempo nella mente di questo grande critico. Si veda l’ancor oggi utile La poetica del decadentismo (1936), Sansoni, Firenze 1961, soprattutto alle pp. 3-30.
5) ibidem, p.128.
6) J. MARITAIN, Art et scolastique, La Librairie de l’Art Catholique, Paris 1920, pp. 57-8.
7) L. ANCESCHI, Gli specchi della poesia, Einaudi, Torino 1989, p. 144.
8) J. MARITAIN, Situation de la poésie (1938), Desclée de Brouwer, Paris 1964, p. 68.
9) ibidem, pp. 74-5. Maritain, comunque, interpreta quest’ultima affermazione, croce e delizia degli esegeti, in chiave strettamente intuizionistica, anche se, ovviamente, sulla base di un intuizionismo più bergsoniano che crociano, per quanto del tutto scevro di implicazioni radicalmente irrazionalistiche. “Il fuoco dell’intuizione creatrice” - di quella “creative intuition in art and poetry” che sarà al centro delle “lezioni americane” del 1953 - “dev’essere abbastanza ardente da consumare” i “materiali” costituiti dal “ruolo dell’intelligenza” e dall’”importanza dell’intelligibilità”, “e non essere spenta da essi”. Questi “materiali” devono essere “condotti alla sorgente segreta del refrigerio e della pace (...) per esservi trasfigurati e vivificati, e portati, per così dire, allo stato creatore, poiché vi sono divenuti conoscenza poetica” (p.105). Resta inteso che le mirabolanti e contorte acrobazie argomentative attraverso le quali Maritain, già in Art et scolastique, pretende di identificare questa “connaissance poétique” con la conoscenza per “connaturalità affettiva” teorizzata dalla neoscolastica, possono interessare più agli storici del tomismo che ai teorici della letteratura.
10) F. CURI, La scrittura e la morte di Dio. Letteratura, mito, psicoanalisi, Laterza, Bari 1996, p. 121.
11) Cfr. M. GILMAN, Baudelaire the critic (1943), Octagon Books, New York 1971, pp. 185-226.
12) ibidem, p. 224.
13) R. SANESI, Osservazioni su Eliot critico-poeta, in T. S. ELIOT, L’uso della poesia e l’uso della critica e altri saggi, Bompiani, Milano 1974, p. 20. Per quanto riguarda i rapporti tra Eliot e il simbolismo - cui qui, per ovvie ragioni, si può appena accennare - il testo fondamentale resta AA. VV., Il simbolismo nella letteratura nord-americana, La Nuova Italia, Firenze 1965, soprattutto gli interventi di M. Praz (pp. 1-29) e M. Pagnini (pp. 31-53). Gli elementi che più differenziano il poeta anglo-americano dai simbolisti si riassumono e si sustanziano, specie dopo la conversione, nel suo contrapporre all’oscura e labirintica “foresta di simboli” baudelairiana e mallarmeana un saldo, universale, “spersonalizzato” allegorismo di ascendenza dantesca, profondamente impregnato di imperiose istanze etiche. Tutto ciò sfocia in una poetica che evolve, con un movimento non certo infrequente nei poeti-critici, in metodo critico e, nel contempo, parametro di giudizio morale e gnoseologico.
14) Oeuvres, cit., pp. 417-420.
15) T. S. ELIOT, L’uso della poesia, cit., p. 234.
16) ibidem, p. 235.
17) ibidem.
18) ibidem, p. 348.
19) ID., Il bosco sacro, Muggiani, Milano 1946, p. 80.
185
20) ibidem, p. 235.
21) M. GILMAN, Baudelaire, cit., p. 5.
22) L. ANCESCHI, Gli specchi della poesia, cit., p. 27.
23) L. ANCESCHI, Autonomia ed eteronomia dell’arte (1936), Garzanti, Milano 1992, p. 114.
24) M. GILMAN, Baudelaire, cit., p. 161-162.
25) Cfr. G. ZANETTI, Estetismo e modernità. Saggio su Angelo Conti, Il Mulino, Bologna 1996, p. 146.
26) Cfr. H. FRIEDRICH, La struttura della lirica moderna (1956), Garzanti, Milano 1989, p. 57.
27) L. ANCESCHI, Gli specchi della poesia, cit., p. 67. L’idea che gli studi, l’erudizione e la riflessione metaletteraria siano una condizione necessaria per la creazione poetica, è variamente presente in tutte le civiltà letterarie, e viene quasi a rappresentare, su di un piano assoluto e metastorico, uno dei tratti distintivi e fondanti dell’idea stessa di letteratura. Cfr. A. MARINO, Teoria della letteratura, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 74-88.
28) ID., Fenomenologia della critica, Pàtron, Bologna 1966, p. 79.
29) ID., Che cosa è la poesia?, Zanichelli, Bologna 1987, p. 71. Anceschi ha forse in mente, qui, quei non numerosi luoghi omerici da cui emerge nitidamente una precisa coscienza dell’organismo poetico e dei princìpi che lo governano, e la cui conoscenza e il cui completo dominio sul piano tecnico garantiscono al poeta stima e prestigio sul piano sociale, o arrivano addirittura ad innalzarlo, come Demodoco nell’VIII libro dell’ Odissea, exocha broton, “al di sopra di tutti i mortali”; e sembra già delinearsi, agli albori della civiltà letteraria occidentale, una qualche aurorale forma di “razionalità estetica”, se è vero che la thespis aoide, l’”amabile canto” dell’aedo deve snodarsi con ordine, chiarezza, disciplina formale, kata moiran e kata kosmon, cioè secondo quel kosmos che, nello spirito greco, deve contrapporsi al kaos, al magma, all’indistinto, al folle e precipite decorso degli eventi, cercando, forse in modo illusorio, di rimuoverlo o di porvi ordine. Il passo appena menzionato, secondo Guido Paduano, “è importante perché è tra i pochissimi nell’epos omerico dove assume dignità di esperienza esistenziale la meditazione della poesia sopra se stessa: ampia e appassionata esaltazione di un privilegio raro, attribuito dagli dei, straordinaria fonte di emozione” (Il racconto della Letteratura Greca, a cura di G. Paduano, vol. I, Zanichelli, Bologna 1991, p. 197). Dunque un’embrionale forma di riflessione metapoetica non era del tutto inconciliabile neppure con la “metafisica sentita e immaginata” dei primi uomini “di niuno raziocinio, tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie”, come li ha voluti una lunga e solida tradizione culturale.
30) L. ANCESCHI, Che cosa..., cit., p. 71.
31) T. W. ADORNO, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1975, p. 574.
32) L. ANCESCHI, Che cosa ..., cit., p. 71.
33) L. ANCESCHI, Fenomenologia della critica, cit., p. 74. Accettando questa prospettiva storiografica, del resto ormai invalsa, non si vogliono certo ignorare i complessi rapporti - finora, che io sappia, mai studiati in modo sistematico - che uniscono i fondamenti concettuali e metodologici della critica baudelairiana a certi aspetti delle teorizzazioni dei romantici tedeschi, di cui poteva essere giunta al poeta delle Fleurs una qualche eco attraverso le traduzioni francesi (Cfr. N. ACCAPUTO, L’estetica di Baudelaire e le sue fonti germaniche, Bottega d’Erasmo, Torino 1964, soprattutto le pp. 111-122).
Una parte cospicua delle teorizzazioni della Frühromantik è legata, come dimostrò la famosa dissertazione benjamininana (Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, Torino, Einaudi 1982, pp. 5-117), proprio alla rivendicazione del carattere “creativo” e “poetico” della critica. Un movimento che si presentava come “militante” e battagliera sovversione dei dogmi classicisti e del razionalismo settecentesco aveva, d’altro canto, l’assoluta necessità del supporto di una critica fiancheggiatrice e collaboratrice. “Il Romanticismo (...) fa per la prima volta della letteratura una teoria della letteratura, una costante auto-implicazione e auto-riflessione. E’ una pratica che produce la sua teoria; una unità di creazione (poesia) e di filosofia (critica). La poesia romantica come l’arte romantica pensa, la sua visionarietà è una forma di mediazione concettuale” (V. FORTUNATI, Il pensiero poetante e la poesia pensante: dai romantici alla critica poststrutturalista, in AA. VV., Modernità dei romantici, Liguori, Napoli 1988, pp. 53-61; interessante, nello stesso volume, il bel saggio di Paola Colaiacono, Il poeta romantico come critico, pp. 159-169).
Per avere un’idea della questione, entro i limiti di una nota a piè di pagina, si può prendere, tra i tanti esempi possibili, quello offerto da un testo notissimo, annoverato tra i “manifesti” del romanticismo, cioè il frammento n. 116 della rivista Athenäum, scritto da Friedrich Schlegel. “La poesia romantica”, vi si legge, “(...) vuole e deve (...) ora mescolare ora amalgamare poesia e prosa, genialità e critica, poesia d’arte e poesia ingenua”.
Nel romanticismo, tuttavia, come notava Benjamin, “ogni conoscenza critica di un prodotto formato è, in quanto riflessione in esso insita, nient’altro che un suo superiore grado di coscienza spontaneamente sorto”. Il nucleo ispirativo essenziale restava, dunque, assolutamente inalterato, mentre in Baudelaire, come si vedrà più oltre, la riflessione, la “razionalità estetica”, l’”analyse la plus sevère” penetrano fin nel cuore della creazione poetica e ne turbano e ne pregiudicano la “spontaneità” e la “naturalezza”, che, quando vi siano, saranno sempre ritrovate e “ricostruite” attraverso un intervento della volontà, e indelebilmente intrise di “esprit analytique”. Nel manifesto schlegeliano, invece, sull’analisi e sulla “costruzione” finiscono per prevalere nettamente il “sospiro” e il “bacio”, “emessi dal bambino-poeta” - già platonico e poi pascoliano - “in un canto spontaneo”. Per i romantici, come nota la Fortunati, la poesia è “una pratica che produce la sua teoria”, una poesia che sviluppa ed articola al proprio interno e al proprio fianco una poetica senza, però, che l’essenzialità lirica del nucleo ispirativo risulti turbata da questo processo; Baudelaire, invece, negli scritti su Poe - in particolare nella Genèse d’un poème, che riprende e rielabora la Philosophy of Composition del poeta americano -, arriva a formulare e concettualizzare un’idea di poetica che viene prima della poesia, la precede, la prepara, quasi la rende possibile - altra forma della “coazione alla teoria” di cui si è parlato nell’introduzione -, tanto che il poeta “prétend que le poème” - nella fattispecie il poemetto The Raven - “a été composé d’après sa poétique”, sulla base e sulla scia di un ideale estetico e di una prassi compositiva attentamente ponderati, calcolati, messi a punto “a freddo”, nell’attrezzatissimo laboratorio del “parfait chimiste”. Vero è che nella citata Genèse, poche righe dopo, Baudelaire stesso ventila la possibilità che proprio l’incessante lavorio della riflessione critica e dell’elaborazione tecnico-retorica abbia indebolito, nello scrittore americano, la forza nativa, “romantica” dell’ispirazione; ma è altrettanto vero che nelle Notes nouvelles sur Edgar Poe vengono sottolineate, tra le più ammirevoli qualità dell’autore di The Raven, proprio la “science”, il “travail”, l’”analyse”, la “méthode” - espressioni e concetti, questi, assai prossimi alle idee di “constructive ability”, “faculty of analysis”, “machinery”, “energy or industry”, enucleate da Poe nei Marginalia.
Per Schlegel, inoltre, “tutta la poesia è o deve essere romantica”, poiché la poesia romantica è “universale progressiva”, “infinita” e “libera”. In quest’ottica, scrive ancora Benjamin, “la critica è (...) il medium in cui la limitatezza della singola opera si rapporta metodicamente all’infinità dell’arte e, infine, viene trasferita in essa, poiché l’arte, in quanto medium della riflessione, è, ovviamente, infinita”. In nome di questo ideale d’arte universale, infinito e indistinto, il romanticismo arriva ad affermare (fr. 117 Lycaeum) che “la poesia non può essere criticata se non dalla poesia”; in nome della bellezza assoluta ed infinita, la critica si risolve o si dissolve in poesia, e tanto la critica quanto la poesia trascolorano e svaporano nell’Assoluto. Per Novalis, una critica della poesia che non si identifichi con la poesia in tutto e per tutto, nella forma e nella sostanza, è addirittura “un’assurdità”. All’idea del Bello Assoluto si ricollega, nell’àmbito dell’estetica romantica, anche la convinzione, poi fatta propria da Baudelaire, che la miglior descrizione e la migliore analisi critica di un’opera d’arte figurativa possano essere affidate ad un testo poetico. Come scriveva, tra gli altri, Karl Philipp Moritz, “il primo a riunire nella sua opera tutte le idee (...) che determineranno il profilo dell’estetica romantica” (cfr. T. TODOROV, teorie del simbolo, a c. di C. De Vecchi, Garzanti, Milano 1991, pp. 201 e 214), “la poesia descrive il bello delle arti figurative, in quanto coglie con delle parole le stesse relazioni che le arti figurative significano mediante il disegno”. Veniva, in tal modo, ripreso e nuovamente articolato il principio classicistico dell’ ut pictura poësis. Nei romantici, l’identità o l’intercambiabilità di rappresentazione pittorica e descrizione poetica è garantita e resa possibile sempre dall’idea del Bello assoluto ed infinito: come scrive Moritz, “in una descrizione del Bello mediante le parole, queste parole (...) devono essere, esse stesse, il bello. (...) Le opere autentiche dell’arte poetica sono (...) le sole vere descrizioni, mediante le parole, del bello nelle arti figurative”. Nel noto passo del Salon de 1846, invece, l’ ut pictura poësis viene affermato sulla base di una lucida teorizzazione di una “critique amusante et poétique”, senza ricorrere alla mediazione dell’idea di un Bello Assoluto, tale da accomunare, come due sue diverse ipostasi od emanazioni, il segno pittorico e quello poetico; e forse non è casuale che Baudelaire non si avvalga, in senso assoluto, della generica nozione di Poesia, ma faccia riferimento a due precise, concrete, storicamente e tecnicamente determinate forme attraverso le quali la poesia e il poetico possono manifestarsi: “le meilleur compte rendu d’un tableau pourra être un sonnet ou une élégie”.
In Baudelaire il Bello Assoluto si relativizza, si aliena, si oggettiva nella figura del dandy, uomo di mondo e di città; nel poeta delle Fleurs, come poi, e ancor più tragicamente, nel Mallarmé più “mistico”, l’Assoluto è e resta inattingibile ed ineffabile, e la poesia precisa i suoi limiti, e insieme il suo statuto retorico, proprio in relazione a questa ineffabilità, a alla conseguente impuissance. Nelle Notes nouvelles sur Edgar Poe il dandy è definito come “suprême incarnation de l’idée du beau transportée dans la vie materielle, celui qui dicte la forme et règle les manières”. Sulla base di questa concezione del Bello calato nella “vita materiale”, si arriverà all’immagine, decisamente antiromantica, del poeta che tratta le sue opere come “des pièces méchaniques défectueuses” di cui sanare “les vices de fabrication”, attraverso la techne più scaltrita e più “impoetica”.
La critica, dal canto suo, si tiene ben lungi dal “risolversi” totalmente in poesia, ma sopravvive come “genere” autonomo, pur se strettamente legato alla poesia; alla poesia la critica baudelairiana deve buona parte dei propri strumenti concettuali e formali, ma, pur collaborando ad essa, ne resta distinta, e proprio per questo necessita degli articolati e complessi fondamenti teorici che sto cercando, almeno in parte, di ricostruire.
Analoghe considerazioni potrebbero poi essere sviluppate a proposito del concetto di “poesia della poesia”, che nasce proprio con i romantici. “Essa”, come chiarisce Benjamin, “è la poesia cosciente di se stessa e, poiché secondo la dottrina primo-romantica, coscienza è solo una forma spirituale intensificata di ciò di cui essa è coscienza, perciò stesso, la coscienza della poesia è, essa stessa, poesia. E’ poesia della poesia”. La poesia si fa, dunque, critica di se stessa, riflessione su se stessa, e l’autorispecchiamento riflessivo diviene una delle sue principali modalità di esistenza. In quanto, paradossalmente, poesia di se stessa e del proprio essere poesia, la poesia vive una condizione essenzialmente ed eminentemente ironica. “L’universo, in quanto realizzazione dell’infinito nel finito, è già di per sé un’opera d’arte, poesia, e l’arte romantica è, ironicamente, poesia di tale poesia” (F. JESI, Romanticismo, in “Enciclopedia Europea”, vol. IX, Garzanti, Milano 1979, p. 972-74, corsivo mio). Quest’idea di “poesia della poesia”, con la condizione di tipica “ironia romantica” che vi è connessa, anticipa, per certi versi, alcuni aspetti della poetica dei simbolisti e soprattutto di Mallarmé. Per quest’ultimo la poesia è molto spesso - se non addirittura, come voleva il Friedrich, sempre e soltanto - poesia della poesia e del fare poesia, riflessione sulla poesia, poème critique, critica in versi. Tuttavia, la concezione romantica della “poesia della poesia” nasce e si sviluppa dalla fiduciosa convinzione che la natura e la realtà che sono oggetto di poesia siano espressione e manifestazione dell’Infinito e dell’Assoluto, e che, dunque, proprio in virtù della sua condizione “ironica” il poeta romantico abbia in sé qualcosa di divino, e venga ad essere voce e parola dell’Assoluto. La parola del poeta - potrà ancora scrivere Hugo - “è il logos di Dio”. Diverso, e per certi versi opposto, è il processo che porta alla “poesia della poesia” nei simbolisti. Soprattutto da Baudelaire in poi, ma in parte già con Poe, la poesia è indotta, e quasi forzata, a farsi critica di se stessa, a riflettere sulle proprie modalità, la propria natura, la propria “legittimità”, non più in nome di un Assoluto che l’ha eletta ed innalzata a propria suprema e sublime epifania verbale, ma al contrario, e più concretamente, in relazione ad un contesto sociale che l’ha messa ai margini, l’ha dichiarata inutile, l’ha privata di ogni giustificazione e di ogni legittimazione sul piano istituzionale.
L’Assoluto della poesia moderna dai simbolisti in poi è quella che Hugo Friedrich definisce una “vuota trascendenza”, un interlocutore muto ed assente, una sfera inattingibile e “misticamente” ineffabile, cupo ed insondabile abisso della morte di Dio. Di fronte a questa vuota trascendenza la parola del poeta, non più nutrita e sospinta dall’afflato divino, si arresta e ammutolisce, cogliendo, nel contempo, l’occasione per determinare, sia pure per negazione, il proprio campo di dicibilità, e per delimitare, e insieme definire in modo più concretamente e tecnicamente “critico”, le proprie possibilità espressive. E allora l’ironia di Baudelaire e di Mallarmé non sarà più l’ironia romantica, ravvivata dalla fiducia in una trascendenza “piena”, potente, generosa, vivificante; sarà, al contrario, un’ironia già “novecentesca”, angosciata, lacerata, irrisoltamente sospesa tra la negazione del reale e l’inattingibilità del trascendente - un’ironia che, proprio come il particolare risvolto metapoetico dell’ironia romantica, è strettamente legato alla poesia e al poetico, oltre e prima ancora che ad una condizione esistenziale o ad una costruzione speculativa.
Si può prendere, ad esempio, il famoso Cygne. In uno scenario poetico fatto di “baraques” che si affiancano a “palais neufs” e “vieux faubourgs”, e in cui la “prosa della vita reale” e il sublime d’en bas hanno fatto, forse per la prima volta, la loro violenta irruzione, il cigno - prosopopea della poesia e del poeta, come già, e ancor più esplicitamente, l’albatro, “exilé sur le sol au milieu des huées” - protende il collo verso un “ciel ironique”, una trascendenza che al poeta - “chiuso fra cose mortali”, come dirà Ungaretti - non ha più nulla da comunicare, se non la propria insondabile ed incolmabile lontananza. In questo il cigno può essere assimilato, con ardita brachilogia, all’”homme d’Ovide”, cui la natura ordinò di “coelum tueri” ed “erectos ad sidera tollere vultus”. L’ironia, ormai consapevolmente e corrosivamente critica, assume, qui, attraverso l’erudito e insieme parodistico richiamo intertestuale, una marcata valenza metaletteraria: l’inverosimile e un poco grottesca “allégorie” del cigno rievoca, e implicitamente sconsacra e demistifica, la classica immagine ovidiana della dignità e della superiorità dell’uomo. Questo cielo “ironique et cruellement azur” rimanda poi, sulla scorta di un lampante nesso intertestuale, ad un tipico “poème critique” mallarmeano, la Prose pour Cazalis. Nel quadro di una probabile, oscura parodia del misticismo estetico che anima l’altra e più celebre Prose, quella per Des Esseintes, ecco balenare e risplendere, beffardamente “gioioso”, un “ciel ironique”, atteggiato ad ineffabile ed impenetrabile sorriso, luogo ed emblema della trascendenza negata e del “Dio nascosto”; e già nel primo inno in prosa della Symphonie littéraire il cielo aveva temporaneamente “perdu l’ ironie de sa beauté”. “Cruellement azur” era il cielo baudelairiano; azzurro di quell’”Azur” che sarà poi invocato da Mallarmé: “De l’éternel azur la sereine ironie”... All’Assoluto dei romantici, che ispira ed esalta il poeta, e lo induce a svalutare ironicamente le convenzioni sociali e il grigiore della realtà guardandoli sub specie aeternitatis, dall’alto della superiorità che è accordata all’infinità dell’Io, si è ormai sostituita quest’ironia gelida, imperturbabile ed ossessionante: “ironie splendide étalée sur les douleurs humaines”, come notò finemente uno dei primi lettori. “Indolentemente” e parnassianamente “belle comme les fleurs”, questa trascendenza ineffabile ed immutabile assilla “Le poète impuissant qui maudit son génie / A travers un désert stérile des Douleurs”. Un concetto di ironia che si lega strettamente al tema, tipicamente mallarmeano, dell’ impuissance, legata ad un eccesso di autocoscienza critica che finisce per paralizzare il poeta e impedirgli di creare. Agli occhi di Mallarmé “Le Ciel est mort”: si assiste al “bluff del cielo”, al “naufragio della metafisica” idealistica e romantica, e “il dramma di una coscienza atea che ha ucciso e Dio e il sentimento (...) si atteggia nei termini di una incomprensibile lotta tra la luce e il buio, tra la vita e il nulla”. Il poeta avverte, “con lucido strazio, il divario esistente tra mondo fenomenico e mondo noumenico, tra le effimere apparenze della realtà e un cielo senza speranza” (L. DE NARDIS, Situazione di Mallarmé, in L’usignolo e il fantasma. Saggi francesi sulla civiltà letteraria dell’Ottocento, Cisalpino, Milano 1970, pp. 107-113; interessante, dello stesso autore, L’ironia di Mallarmé, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1957).
Conviene, poi, almeno accennare a un altro aspetto - anch’esso strettamente legato al problema del rapporto tra poesia e critica - dell’”attraversamento” del romanticismo compiuto da
Baudelaire.
Come scrive Giovanni Macchia in un suo fondamentale studio, “è visibile che le Fleurs du mal hanno una propria architettura, e corrispondono ad un’idea e ad una sistemazione volontaria” (G. MACCHIA, Baudelaire critico, Sansoni, Firenze 1939, p. 3). Proprio la presenza, all’interno e alla base della raccolta, di un preciso e sofisticato disegno macrostrutturale, già da tempo individuato ed analizzato, può fungere per così dire da “reagente” per evidenziare e far risaltare le diverse impostazioni metodologiche dei vari critici. Scriveva, ad esempio, Benedetto Croce, sulla base della sua ben nota contrapposizione tra poesia e struttura: “alla poesia del Baudelaire manca quella purezza di forma, alla quale l’autore pur tendeva con tutti gli sforzi”. Tra le cause di questa mancanza Croce annovera, prime fra tutte, “l’intellettualità e la riflessione, (...) che s’insinua qua e là nel suo comporre, e per la quale egli tanto teneva all’aver dato al suo volume di liriche un disegno generale, un principio, mezzo e fine” (B. CROCE, Baudelaire, in Poesia e non poesia, Laterza, Bari 1923, p. 262).
In questo disegno strutturale, specchio e prodotto di una consumata e scaltrita consapevolezza critica delle forme e dei modi del proprio poiein, è stato giustamente ravvisato uno dei fattori che più distanziano Baudelaire da certi aspetti deteriori del sentimentalismo primoromantico. “Il fatto che Baudelaire abbia dato a Les Fleurs du Mal una costruzione architettonica, dimostra il suo distacco dal Romanticismo, i cui libri lirici sono semplici raccolte e anche formalmente ripetono nella disposizione non premeditata la casualità dell’ispirazione” (H. FRIEDRICH, La struttura della lirica moderna, Garzanti, Milano 1989, p. 39, ove si può trovare anche una sintetica ma dettagliata descrizione analitica della struttura dell’opera e della sua articolazione nelle diverse sezioni). Non so fino a che punto sia legittimo estendere senza distinzioni questa “casualità”, sia ispirativa che strutturale, a tutti i “libri lirici” del romanticismo, soprattutto se pensiamo a un’opera come le Contemplations di Hugo, con la loro vasta, maestosa, bilanciata struttura bipartita, che fu indicata ed illustrata dall’autore stesso; esse, del resto, precedono le Fleurs solo di un anno. E’ chiaro, comunque, che la “razionalità estetica” e la “coazione alla teoria” che contraddistinguono l’opera baudelairiana si manifestano in misura rilevante anche sul piano strutturale; e ugualmente severa e rigorosa sarà la struttura che Mallarmé vorrà dare al suo Livre, stando a quanto lo stesso poeta scrive nella lettera autobiografica a Verlaine del 1866: “un livre qui soit un livre, architectural et prémédité, et non un recueil des inspirations de hasard, fussent-elles merveilleuses ...”.
In generale, è interessante notare che anche un estetologo come Franco Rella, intento a dimostrare e a documentare, nell’ottica di una dichiarata militanza neoromantica, una tuttora viva ed operante modernità dei romantici, deve comunque riconoscere che spetta a Baudelaire il merito di aver compiuto il primo “tentativo di dare una teoria all’esperienza della modernità” (F. RELLA, L’estetica del romanticismo, Donzelli, Roma 1997, p. 83).
Credo che anche questo specifico aspetto possa confermare una prospettiva storiografica già da tempo definita, e che Giovanni Macchia ha ottimamente sintetizzato: “il primo romanticismo, splendido ed eroico, cedeva il posto ad un’epoca forse meno ricca, ma più sicura e decisa nei suoi mezzi. Si sostituiva una generazione più intelligente, una generazione ‘critica’, che aveva sull’arte idee molto chiare e, tra le armi a sua disposizione, non trascurava quella dell’ironia, sempre efficace nel controllare gli slanci del cuore e della passione a vantaggio della forma” (G. MACCHIA, Introduzione a CH. BAUDELAIRE, Scritti di estetica, Sansoni, Firenze 1948, p. 4).
34) S. PEGORARO, Passione e intersensorialità. La critica sinestetica di Baudelaire, in CH. BAUDELAIRE, Sinestesie critiche, Bulzoni, Roma 1992, p. XIV.
35) H. FRIEDRICH, La struttura, cit., pp. 31-32.
36) E. AUERBACH, “Les Fleurs du Mal” di Baudelaire e il sublime, in ID., Da Montaigne a Proust - ricerche sulla storia della cultura francese, Garzanti, Milano 1960, p. 220.
37) F. CURI, La scrittura e la morte di Dio, cit., p. 120.
38) L. ANCESCHI, Che cos’è la poesia (1986), Zanichelli, Bologna 1990, pp. 100 e 102.
39) S. PEGORARO, Passione e intersensorialità, cit., p. XVIII.
40) Per tutta questa problematica, rimando a E. RAIMONDI, Prefazione a CH. BAUDELAIRE, 190 Scritti sull’arte, trad. di G. Guglielmi ed E. Raimondi, Einaudi, Torino 1981, pp. VII-LIII.
41) CH. BAUDELAIRE, Oeuvres, cit., pp. 525-544.
42) Cfr., comunque, l’eruditissimo e assai utile M. A. RUFF, L’Esprit du Mal et l’esthétique baudelairienne, Colin, Paris 1955, soprattutto le pp. 367-374. Il libro offre utili indicazioni anche per ricostruire il complesso panorama del libertinismo e del “satanismo” romantico in Francia prima di Baudelaire.
43) Cfr. M. GILMAN, Baudelaire, cit., pp. 64-65 e 80.
44) Cfr., per un sintetico sguardo d’insieme, D. BARONCINI, Leopardi e l’innocenza dell’antico. Dialogo con i classici, “Università Aperta - Terza Pagina”, VIII (1998), n. 2, p. 3. E’ evidente che, come sottolinea la studiosa, in autori come Baudelaire e Mallarmé - e ancor più, come si vedrà, in Wilde o in D’Annunzio -, “questa idea del classico appare profondamente segnata dal senso cupo della decadenza e della rovina”.
Mentre Vico o Leopardi non erano, nell’orizzonte culturale di Baudelaire, nulla più che nomi, è possibile che un più decisivo influsso sia stato esercitato sul suo pensiero dagli autori tedeschi, alla luce della vasta divulgazione dei loro scritti nell’ambiente culturale parigino e delle numerosissime traduzioni francesi che ne erano state edite, in special modo tra il 1810 e il 1840. Cfr., al riguardo, il prezioso studio di N. ACCAPUTO, L’estetica di Baudelaire e le sue fonti germaniche, Bottega d’Erasmo, Torino 1964, soprattutto le pp. 111-122.
45) G. BATAILLE, Baudelaire, in La littérature et le mal, Gallimard, Paris 1957, pp. 37-73.
46) CH. BAUDELAIRE, Oeuvres complètes, cit., pp. 687-694.
47) Cfr., nelle Illuminations, Matinée d’ivresse, in A. RIMBAUD, Opere complete, Einaudi-Gallimard, Parigi 1992, pp. 392-4.
48) Faccio riferimento al paragrafo Du travail journalier et de l’inspiration, in Oeuvres complètes, cit., p. 18.
49) Approfondite ricerche al riguardo furono compiute negli anni ’30 da T. Clapton. Cfr. M. GILMAN, Baudelaire, cit., p. 53.
50) C. PAPINI, Introduzione a CH. BAUDELAIRE, Pagine sull’arte, Fratelli Melita, La Spezia 1992, pp. IX-X.
51) CH. BAUDELAIRE, Oeuvres complètes, cit., vol. I, pp. 496-498.
52) M. COLESANTI, Introduzione a CH. BAUDELAIRE, Paradisi artificiali, Newton Compton, Roma 1996, pp. 7-13.
53) A. PIZZORUSSO, Da Montaigne a Proust, Bulzoni, Roma 1971, p. 244.
54) Sarà proprio Rimbaud, il “grande criminale” e il “grande maledetto”, a cogliere - nella sua veste, privata ed occasionale, di geniale e profetico storico della letteratura - il carattere essenzialmente “critico” dell’attraversamento del romanticismo compiuto da quel “vrai Dieu” che l’autore delle Fleurs rappresentava ai suoi occhi. Scrive Rimbaud nella seconda e più ampia delle due Lettres du Voyant (Opere complete, cit., pp. 132-147): “on n’a jamais bien jugé le romantisme. Qui l’aurait jugé? Les critiques!!” Mi sembra che sia qui trasparente - siamo ormai nel 1871 - il riferimento tanto al biografismo di Sainte-Beuve, quanto al determinismo del Taine. E si incontrerà, poco dopo, l’ingeneroso riferimento all’”odieux génie” che ha ispirato il “La Fontaine commenté par M. Taine”; espressione, quest’ultima, nel cui gioco ecolalico (“La Fon taine... Taine”) sembra di intravedere il ghigno dello sberleffo, e in cui l’insofferenza per la fredda ironia e il moralismo un poco stucchevole del secentista si riversa, quasi per osmosi, sull’autore dell’ Histoire de la littérature anglaise. “Les seconds romantiques”, scrive più oltre il poeta, “sont très voyants”; nell’eclettico “canone” così abbozzato, questi “secondi romantici” - tra cui Baudelaire è significativamente annoverato accanto ai Parnassiani - sono riusciti a superare gli schematismi della critica accademica e, insieme, i limiti che ancora trattenevano un Hugo “trop cabochard” o un Musset addirittura “quatorze fois exécrable” al di qua della piena voyance e del più totale e consapevole dérèglement.
55) L. ANCESCHI, Autonomia ed eteronomia dell’arte (1936), Garzanti, Milano 1992, p. 117.
56) G. H. HARTMAN, La critica nel deserto, Mucchi, Modena 1991, p. 37.
56 bis) Per questi ultimi due aspetti, cfr., rispettivamente, R. BARILLI, Pascoli e il Simbolismo, in ID., Giovanni Pascoli, La Nuova Italia, Firenze 1984, pp. 6-27; M. A. BAZZOCCHI, Circe e il
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fanciullino. Interpretazioni pascoliane, La Nuova Italia, Firenze 1993, pp. 39 e 50.
57) Cfr. il commento di L. FREZZA a CH. BAUDELAIRE, I fiori del male, Rizzoli, Milano 1997, p. 457.
58) G. H. HARTMAN, La critica, cit., p. 234.
59) O. SPENGLER, Il tramonto dell’Occidente, II, 3, 17, Longanesi, Milano 1957, p. 1078-1105.
60) Cito dalla bella versione di Carlo Pellegrini, apparsa dapprima nel 1920 e riprodotta in CH. BAUDELAIRE, Pagine sull’arte, Fratelli Melita Editori, La Spezia 1992, p. 77.
61) La critica salvata dalla poesia, cit.
62) Le notizie e le citazioni che seguono sono tratte da E. STARKIE, Baudelaire et l’Angleterre, in Baudelaire - Actes du colloque de Nice, Minard, 1968, pp. 201-209.
63) CH. BAUDELAIRE, Oeuvres complètes, cit., vol. II, pp. 694-697.
64) Proprio il carattere soggettivo, ancorché non “soggettivistico”, della critica di Baudelaire induce a dubitare che si possa parlare di una “quasi identità” fra l’estetica del poeta francese e quella di Hegel, identità che andrebbe “sino ad una quasi identità nel procedere dei due pensieri ai fini dello ‘aboutissement’ ad una stessa conclusione” (N. ACCAPUTO, L’estetica..., cit., p. 197). Il fatto che il poeta francese “mise a punto e chiarì definitivamente la sua estetica conoscendo il pensiero di Hegel” (ibidem, p. 198) non significa, ovviamente, che ne sia stato influenzato in modo determinante. E’ comunque interessante, ai fini di questa ricerca, un possibile locus parallelus hegeliano segnalato da Accaputo (p. 192) a proposito di una famosa proposizione baudelairiana contenuta nel saggio su Wagner, e già esaminata: “tous les grands poètes deviennent naturellement, fatalement critiques. Je plains les poètes que guide le seul instinct; je les crois incomplets”. Ecco, a riscontro, il testo hegeliano, che Baudelaire leggeva, con ogni probabilità, nella traduzione francese del Bénard, Cours d’esthétique par W. Fr. Hegel, apparsa a Parigi nel 1840: “néanmoins cette disposition” (quella primitiva e naturale) “ne constitue pas tout le talent et le génie, parce que l’oeuvre d’art est en même temps une création de l’esprit, ayant conscience de lui-même”. Mi sembra, comunque, che tra le due enunciazioni non vi sia se non una vaga corrispondenza o consonanza concettuale, senza che si possa parlare di raccordo intertestuale o di vera e propria citazione; inoltre nella peculiare “metafisica soggettiva” che sta alla base della concezione baudelairiana della relazione critica ad “avere coscienza di se stesso” è non tanto lo Spirito inteso come entità assoluta ed incondizionata, quanto l’individualità creatrice del singolo poeta e del singolo critico, calati nella “temporalità concreta ed empirica” a cui soggiacciono sia l’atto della creazione poetica che quello dell’interpretazione critica. Comunque con Baudelaire, come già con i primi romantici, alla “durezza della ragione” che permea il pensiero hegeliano si sostituisce un “pensiero poetante”, “una ragione (...) che non è solo ragionante, ma che si articola in concetti, in immagini, in figure” (F. RELLA, L’estetica del romanticismo, Donzelli, Roma 1997, pp. 51 e 54).
65) L. ANCESCHI, Fenomenologia della critica, cit., p. 58.
66) Su questo aspetto si è soffermata, ad esempio, l’attenzione del Crane in alcune sue lezioni, che rappresentano uno dei rarissimi tentativi di trattazione sistematica del problema, tanto cruciale quanto troppo spesso trascurato, del linguaggio o dei linguaggi della critica considerati nei loro rapporti con la strutture della poesia; strutture che la critica dovrebbe cercare, se non di “mimare”, almeno di descrivere nel modo più efficace. Scrive Crane: “la degenerazione del critico letterario (...) è forse, il più delle volte, un amore per il paradosso, a cui si associa piuttosto spesso una propensione per l’uso irresponsabile dell’analogia, una preferenza per l’espressione metaforica a scapito di quella letterale, e una tendenza a sostituire la retorica all’indagine come linea guida” (R. S. CRANE, The structure of poetry and the languages of criticism, University of Toronto Press, 1953, p. 183). Il critico di oggi dovrebbe certo guardarsi dalle insidie di un “irresponsible analogizing”, che rischia di rendere evanescente ed inconsistente l’oggetto dell’indagine, spostando l’attenzione del lettore sulle doti stilistiche, vere o presunte, del critico; non credo si debba però trascurare, sul piano storico, l’importanza che ebbero, nell’àmbito del sistema letterario del simbolismo europeo, certe forme di “mimetismo” stilistico, che portarono ad un frequentissimo ed assai efficace uso, nella scrittura critica, di metafore, analogie, sinestesie. Come sosteneva De Robertis - che non a caso annoverava tra i suoi maestri, accanto a Foscolo e Leopardi, anche Poe, Baudelaire, Mallarmé e Valéry -, una critica che “viene insieme con la poesia” e “partecipa della stessa natura della poesia”, “collaborando” alla sua creazione, non può che assumerne parte delle strutture, delle forme e dei modi. Lo stesso Crane deve riconoscere, anche per evitare forme di “dogmatismo esclusivo”, un certo “diritto di cittadinanza” a forme di critica “meno rigorosa o più creativa”, che potrebbero svolgere un’utile funzione, se non altro, nel “concentrare l’attenzione su aspetti delle poesie che solo un nuovo modello o analogia può mettere in luce, nel formulare e promuovere nuovi ideali di eccellenza poetica, o nuovi stili poetici, nel suggerire ai poeti potenzialità inespresse sul piano dei contenuti e del linguaggio” (p. 193).
67) Cfr. L. ANCESCHI, D’Annunzio e il sistema dell’analogia, in D’Annunzio e il simbolismo europeo, Il Saggiatore, Milano 1976, p. 80.
68) L. ANCESCHI, Autonomia ed eteronomia, cit., p. 120.
69) M. GILMAN, Baudelaire, cit., p. 87.
70) L. ANCESCHI, Gli specchi della poesia, Einaudi, Torino 1989, p. 167.
71) M. RAYMOND, Da Baudelaire al surrealismo, Torino, Einaudi 1948, p. 24.
72) Secondo Pirandello Alberto Cantoni, paradigma di “critico fantastico”, “soffriva moltissimo dello sdoppiamento” tra istinto e ragione, fantasia e razionalità, insomma, pirandellianamente, “vita” e “maschera”; “soffriva di non poter essere ingenuo, come prepotentemente in lui la natura avrebbe voluto; e mordeva in sé e negli altri col veleno dello stile lo scaltro capriccioso che si metteva a far le smorfie all’ingenuo e a beffarlo, il monello della riflessione che acchiappava per la coda la lodoletta del sentimento nell’atto ch’essa spiccava il volo” (L. PIRANDELLO, Saggi, poesie ..., cit., p. 376). Il contesto culturale di Pirandello è, innegabilmente, diverso da quello di Baudelaire; il poeta francese, inoltre, non figura tra le “fonti” dell’autore dell’ Umorismo, forse più intensamente suggestionato da certi aspetti del pensiero germanico, come il contrasto tra “ingenuo” e “sentimentale”, che aveva potuto assimilare nel periodo di studi trascorso a Bonn. Il passo citato, comunque, offre, come molti altri, utile materiale teorico.
73) CH. BAUDELAIRE, Oeuvres, cit., vol. II, pp. 619-623.
74) A. PRETE, Il demone dell’analogia. Da Leopardi a Valéry: studi di poetica, Feltrinelli, Milano 1986, p. 136.
75) F. CURI, Struttura del risveglio. Sade, Sanguineti, la modernità letteraria, Il Mulino, Bologna 1991, p. 83.
76) CH, BAUDELAIRE, Oeuvres complètes, cit., vol. II, p. 129-141.
77) Per un quadro generale e una rassegna delle testimonianze epistolari, rimando al capitolo Poe and de Maistre, in M. GILMAN, Baudelaire the critic, cit.
78) W. BENJAMIN, Il compito del traduttore, in ID., Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, Einaudi, Torino 1982, pp. 167-8.
79) C. PAPINI, Introduzione a CH. BAUDELAIRE, Pagine sull’arte, cit., p. XXI.
80) V. L. PARRINGTON, Storia della cultura americana, vol. II, Einaudi, Torino 1969, pp. 72-75.
81) Può essere interessante accennare, a questo proposito, a una delle tante incomprensioni crociane. Croce, nel suo scritto Intorno ai saggi di Poe sulla poesia (1947), usa e forza spregiudicatamente le enunciazioni del Principio poetico per puntellare la propria estetica, interpretando in chiave rigidamente intuizionistica la distinzione della Bellezza dalla Verità e dal Dovere. Arrivato all’ Analisi del Verso, Croce non coglie l’importanza dello stretto legame che Poe, anticipando simbolismo ed estetismo, istituisce tra la rivendicazione dell’automia dell’arte e l’approfondimento, sul piano tecnico e critico-teorico, della definizione e dell’analisi degli strumenti metrici e tecnici del poiein. Per Croce i “concetti empirici” che riguardano la concreta costruzione del verso sono “tanto estranei alla poesia che, come è noto, un verso può essere metricamente del tutto impeccabile ma altrettanto brutto” (B. CROCE, Letture di poeti, Laterza, Bari 1950, p. 215). Indubbiamente un verso può essere “metricamente impeccabile” ma ugualmente brutto; per Poe, tuttavia, il problema era un altro: fare in modo che la poesia, con il supporto di quella “critical art” e di quei “critical precepts” di cui il poeta parla diffusamente all’inizio del saggio sul Barnaby Rudge dickensiano, potesse trovare e creare la propria dignità, il proprio valore e la propria giustificazione in se stessa, nei suoi valori formali, stilistici, tecnici, senza divenire succube della Verità, della Morale o, peggio ancora, del mero result sul piano delle vendite.
82) Cito da E. A. POE, Complete poems and selected essays, Everyman Library, London 1993, pp. 154-174. Tutte le citazioni degli scritti di Poe saranno tratte da questa edizione.
83) S. T. COLERIDGE, Biographia literaria, a cura di P. Colaiacono, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 242. In Coleridge - che non a caso Anceschi annoverava tra i teorici dell’autonomia dell’arte - è dunque già delineato il concetto di “poesia pura”, pure poetry, che appare, nelle più diverse sfumature ed accezioni, in vari altri autori, dal Settecento fino a Bremond e a Valéry, con la mediazione degli scritti di Baudelaire su Poe (cfr. R. WELLEK, Storia della critica moderna, vol. VIII, Il Mulino, Bologna 1996, p. 121); e già in Coleridge prende forma anche il fondamentale nodo teorico della distinzione tra piacere e verità come fini della poesia.
84) Cfr. L. KOCH, Introduzione a E. A. POE, Filosofia della composizione e altri saggi, Guida, Napoli 1986, p. 13.
85) S. T. COLERIDGE, Biographia literaria, cit., p. 25.
86) T. S. ELIOT, From Poe to Valéry, in To criticize the critic and other writings, Faber and Faber, London 1965, pp. 27-43.
87) Faccio riferimento a R. WELLEK, Storia della critica moderna, vol. III (L’età di transizione), Il Mulino, Bologna 1969, pp. 210-232 (Emerson, Thoreau e gli altri trascendentalisti).
88) Cito da The best poems and essays of Edgar Allan Poe, a c. di S. Cody, McClurg, Chicago 1916, pp. 116-9.
89) A. MARINO, Teoria della letteratura, Il Mulino, Bologna 1994, p. 440.
90) S. AGOSTI, Pensiero e linguaggio in Paul Valéry, in P. VALERY, Varietà, SE, Milano 1990, pp. 323-341. Per una contestualizzazione della critica di Valéry in relazione alla linea che, da Poe a Baudelaire a Mallarmé, la precede e la prepara, rinvio ad A. TRIONE, Valéry - metodo e critica del fare poetico, Guida, Napoli 1983, utile anche per un inquadramento teorico generale.
91) S. MALLARMÉ, Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1945, pp. 261-5.
92) F. PISELLI, commento a Opere di Stéphane Mallarmé. Poemi in prosa e opera critica, Lerici, Milano 1963, p. 529.
93) G. MACCHIA, Baudelaire critico, Sansoni, Firenze 1939, p. 35
94) CH. BAUDELAIRE, Oeuvres complètes, vol. II, cit., pp. 590-598.
95) L. GRECO, Se un poeta si commenta, in ID., Montale commenta Montale, Pratiche, Parma 1980, pp. 7-24.
96) F. PISELLI, Mallarmé e l’estetica, Mursia, Milano 1969, p. 48, corsivo mio.
97) ibidem, pp. 34-35.
98) B. CROCE, Letture di poeti, Laterza, Bari 1950, pp. 166 e 229.
99) L. DE NARDIS, Impressionismo di Mallarmé, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1957. Dello stesso, v. anche Situazione di Mallarmé, in L’usignolo e il fantasma, Cisalpino, Milano 1970, pp. 107-13.
100) Citato in J. REWALD, La storia dell’impressionismo, Mondadori, Milano 1976, p. 490.
101) S. MALLARME, Correspondance, vol. I, Gallimard, Paris 1959, pp. 341-4.
102) F. PISELLI, Mallarmé e l’estetica, cit., p. 105.
103) L. DE NARDIS, Situazione di Mallarmé, cit., pp. 109 e 111.
104) Cito da Opere di Stéphane Mallarmé, cit., pp. 410-1.
105) F. CURI, Perdita d’aureola, Einaudi, Torino 1977, pp. 16 e 19.
106) Cfr. I. MARGONI, Note per Des Esseintes, in J. K. HUYSMANS, Controcorrente, Einaudi, Torino 1989, p. 220.
107) F. CURI, Perdita d’aureola, cit., pp. 16 e 18.
108) Il passo che verrà esaminato si trova in S. MALLARME, Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1945, pp. 294-5.
109) F. PISELLI, Mallarmé e l’estetica, cit., p. 158.
110) Cfr. ancora L. DE NARDIS, Situazione di Mallarmé, cit.
111) Cfr. F. PISELLI, Mallarmé e l’estetica, cit., pp. 152-177.
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112) Cfr. N. DI GIROLAMO, Cultura e coscienza critica nell’”Hérodiade” di Mallarmé, Patron, Bologna 1969.
113) Citerò da S. MALLARME, Oeuvres complètes, cit., pp. 399-400.
114) U. DETTORE, Nota biobibliografica a J. K. HUYSMANS, A Ritroso, introduzione di C. BO, Rizzoli, Milano 1992, p. 14. Da questa edizione sono tratte tutte le citazioni che compaiono in questa trattazione.
115) G. H. HARTMAN, La critica nel deserto, cit., p. 26.
116) A. TRIONE, L’estetica della mente dopo Mallarmé, Cappelli, Bologna 1987, pp. 39-40.
117) G. H. HARTMAN, La critica nel deserto, cit., p. 26.
118) S. MALLARME, Oeuvres complètes, cit., p. 360-8
119) S. MALLARME, Divagations, Charpentier, Paris 1953, pp. 367-372.
120) A. MARINO, Teoria della letteratura, cit., pp. 144-5.
121) M. LUZI, Introduzione a Opere di Stéphane Mallarmé, cit., p. XXI.
122) S. MALLARME, Oeuvres complètes, cit., p. 374.
123) ID., Opere. Poemi in prosa ed opera critica, cit., p. 10
124) E. R. CURTIUS, Letteratura europea e medioevo latino, La Nuova Italia, Firenze 1992, p. 169.
125) M. LUZI, Introduzione a Opere di Stéphane Mallarmé, cit., p. XIX.
126) S. MALLARME, Oeuvres complètes, cit., pp. 455-6.
NOTE AL SECONDO CAPITOLO
1) G. FLAUBERT, Correspondance - troisième série (1854-1869), Charpentier, Paris 1898, p. 386.
2) Non va peraltro dimenticato che proprio l’autore dei Portraits littéraires, con la sua aspirazione ad una critica che fosse “invention” e “création perpétuelle”, sembra per certi versi fiancheggiare o addirittura anticipare la concezione, che stava maturando in seno all’estetismo, di una critica intesa come attività creatrice - in Sainte-Beuve, peraltro, non ancora pienamente “autonoma” - e come genere della letteratura. “La letteratura propriamente detta”, scriveva il critico in Mes poisons, “è sentimento e gusto poetico e critico”. Emerge, come nella lettera flaubertiana, il concetto di “gusto”, adibito a fungere da fattore comune ed elemento unificante tra poesia e critica, nel quadro di una solida ed unitaria idea di Letteratura, tale da accomunare e fondere, in solidale unità, tutte le sue diverse, particolari manifestazioni ed oggettivazioni, sia creative che critiche (cfr. A. MARINO, Teoria della letteratura, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 443-4). Credo possano bastare queste poche citazioni per far sorgere il sospetto che solo a prezzo di uno sclerotico e schematico irrigidimento sia possibile, nel vasto e variegato panorama della critica europea del secondo Ottocento, contrapporre nettamente, senza alcuna mediazione o sfumatura, il “biografismo” e il “determinismo” dei Taine e dei Sainte-Beuve da un lato, e la critica creativa e collaboratrice, “piacevole e poetica”, dei Baudelaire e dei Wilde, dall’altro. E’ certo, nondimeno - e il concetto di critica sviluppato dall’estetismo italiano lo mostra in modo evidente -, che l’assimilazione e l’”uso” del positivismo e del determinismo da parte dei “critici-artisti” sono sempre mediati da un processo di “attraversamento” e di “falsificazione”.
3) G. FLAUBERT, Correspondance - deuxième série (1850-1854), Charpentier, Paris 1900, pp. 331-2.
4) Cfr., per una buona traduzione italiana, VOLTAIRE, Dizionario filosofico, BIT, Milano 1995, pp. 124-129.
5) Cfr. B. CROCE, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Laterza, Roma-Bari 1909, p. 424.
6) R. ELLMANN, Oscar Wilde, ovvero il critico come artista, in “Tempo presente”, XII (1967), n. 1, pp. 21-34; poi, in inglese, come saggio introduttivo a The Artist as Critic. Critical writings of Oscar Wilde, London 1970.
7) Cfr. V. REGGI, Oscar Wilde e il New Hellenism, in “Il Lettore di provincia”, XXV (1994), n. 89, 195 pp. 37-49.
8) Ho citato da M. ARNOLD, Essays in criticism - first series, a c. di T. M. Hoctor, The University of Chicago Press, Chicago-London 1964, p. 8.
9) ibidem, p. 11.
10) ibidem
11) ibidem, p. 18.
12) ibidem, pp. 28 e 29.
13) ibidem, p. 30.
14) ibidem, p. 180.
15) ibidem.
16) ibidem, pp. 181-2.
17) Cito dall’ancor oggi preziosa versione di Virgilio Bondois, O. WILDE, Intenzioni, Facchi, Milano 1920, p. 270.
18) Cit. in T. M. HOCTOR, Introduzione a M. ARNOLD, Essays, cit., p XV.
19) Cit. ibidem, p. XXIV-V.
20) ibidem, p. 5.
21) ibidem, pp. 45 e 52.
22) Cfr. A. MARINO, Teoria della letteratura, cit., pp. 326-332.
23) M. LUZI, Introduzione a Opere di Stéphane Mallarmé - poemi in prosa e opera critica, trad. di F. Piselli, Lerici, Milano 1963, p. XIX.
24) W,. PATER, Il Rinascimento, a cura di M. Praz, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1965, pp. 15-21.
25) ibidem, p. 131.
26) O. WILDE, Essays and lectures, Garland, New York-London 1978, p. 136, corsivi miei.
27) W. PATER, Il Rinascimento, cit., pp. 211-9
28) R. ELLMANN, Oscar Wilde ovvero il critico come artista, cit., p. 24.
29) Cit. ibidem, p. 25.
30) ibidem, p. 24.
31) R. WELLEK, Storia della critica moderna, vol. III, Il Mulino, Bologna 1969, pp. 20 e 44.
32) N. ABBAGNANO, Filosofi e filosofie nella storia, vol. III, Paravia, Torino 1992, pp. 285 e 286.
33) E. RAIMONDI, Prefazione a CH. BAUDELAIRE, Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 1981, p. XVII.
34) O. WILDE, Il Critico come Artista - L’Anima dell’Uomo sotto il socialismo, introduzione di Silvio Perrella, traduzione e cura di Alessandro Ceni, con testo a fronte, Feltrinelli, Milano 1995, p. 65. Da questa edizione sono tratte, per comodità, tutte le numerose citazioni - sia in italiano che inglese - che seguiranno. Si segnala anche la buona versione di Masolino D’Amico in O. WILDE, Opere, a cura di M. D’Amico, Mondadori, Milano 1979. Ancor oggi utile, per i saggi di Intentions non inclusi nell’edizione mondadoriana, la traduzione di Virgilio Bondois (Facchi, Milano 1920). Ha, invece, un valore oramai sorattutto documentario la pionieristica e volenterosa versione di Raffaello Piccoli (Bocca, Torino 1906).
35) ID., Opere, cit., p. 542.
36) G. A. BORGESE, Oscar Wilde critico e giornalista, in “Il Corriere della Sera”, 19 novembre 1912.
37) M. D’AMICO, Oscar Wilde. Il critico e le sue maschere, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1973, p. 35.
38) M. ARNOLD, Essays in criticism, cit., p. 23.
39) E. MARIANO, Repertorio biografico critico e bibliografico, in Orfeo. Il tesoro della lirica universale, Sansoni, Firenze 1974, p. 1814.
40) O. WILDE, Essays and lectures, cit., p. 120.
41) J. JOSEPH-RENAUD, Préface a O. WILDE, Intentions, Stock, Paris 1905, p. XXVI.
42) ID., Essays and lectures, cit., p. 135.
43) Cfr. M. ARNOLD, Essays in Criticism, cit., p. 18.
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44) J. HABERMAS, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Bari 1997, p. 9.
45) O. WILDE, Essays and lectures, cit., p. 142.
46) O. WILDE, Il ritratto di Dorian Gray, Mondadori, Milano 1982, p. 170.
47) CH. BAUDELAIRE, Oeuvres complètes vol. II, Gallimard, Paris 1976, p. 694.
48) ibidem, p. 695.
49) TH. W. ADORNO, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1977, p. 37.
50) ibidem, p. 61.
51) CH. BAUDELAIRE, Oeuvres complètes, vol. II, cit., p. 695.
52) J. HABERMAS, Il discorso filosofico, cit., p. 9.
53) Th. W. ADORNO, Teoria estetica, cit., p. 39
54) ibidem, p. 36.
55) ibidem, p. 30.
56) ibidem, p. 39.
57) O. WILDE, Il ritratto, cit., pp. 166-7.
58) L. FREZZA, Commento a CH. BAUDELAIRE, Poesie, Rizzoli, Milano 1997, p. 533.
59) Cfr. G. FERRONI, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, Einaudi, Torino 1966. In questo studio, propriamente, la “condizione postuma” di cui parla l’autore è riferita principalmente all’era postmoderna; tale condizione, d’altro canto, è, per molti aspetti, consustanziale all’idea stessa di letteratura, e come tale variamente presente fin dall’antichità, come l’autore stesso documenta con ammirevole erudizione.
60) G. A. BORGESE, Oscar Wilde critico e giornalista, in Studi di letterature moderne, Treves, Milano 1915, pp. 175-183.
61) O. WILDE, Essays and lectures, cit., pp. 109-157.
62) ID., Il ritratto, cit., p. 168.
63) C. IZZO, Storia della letteratura inglese, vol. I, Sansoni, Firenze 1961, p. 398.
64) Cfr. F. CURI, La scrittura e la morte di Dio. Letteratura, mito, psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 117-125.
65) G. D’ANNUNZIO, Prose, Garzanti, Milano 1983, p. 558.
66) B. SNELL, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino 1963, p. 381.
67) O. WILDE, Il Critico come Artista, Feltrinelli, Milano 1995, p. 221.
68) Cfr., tra gli altri, la “voce” di Louis Menand in The Johns Hopkins guide to literary theory and criticism, The Johns Hopkins University Press, Baltimore-London 1994, pp. 730-1; I. HASSAN, Il critico come innovatore: una sequenza paracritica in X cornici, in Postmoderno e letteratura. Percorsi e visioni della critica in America, a cura di P. Carravetta e P. Spedicato, Bompiani, Milano 1984, pp. 61-86 (contributo interessantissimo anche per la sua forma espositiva, che traduce, anche visivamente e tipograficamente, l’autonomia e la creatività della scrittura critica in “cornici”, “montaggi” e “cornici dentro cornici”); G. H. HARTMAN, La critica nel deserto, Mucchi, Modena 1980, soprattutto alle pp. 232-234.
69) F. NIETZSCHE, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano 1994, p. 27. Da questa edizione sono tratte tutte le citazioni che seguiranno.
70) W. PATER, Mario l’Epicureo, Einaudi, Torino 1970, pp. 108-9.
71) T. S. ELIOT, Tradizione e talento individuale, in Il bosco sacro, Muggiani, Milano 1946, p. 145.
72) Cit. in F. CURI, “L’umorismo” di Pirandello nel sistema della modernità letteraria, in AA. VV., Studi sulla modernità, a cura di F. CURI, Clueb, Bologna 1989, pp. 9-37.
73) I. HASSAN, Il critico come innovatore, cit., p. 65.
NOTE AL TERZO CAPITOLO
1) Prologo, in Il Marzocco, anno I, n. 1, 2 febbraio 1896, p. 1.
2) ibidem
3) P. ORVIETO, Croce o D’Annunzio. La critica in Italia dal 1900 al 1915, Salerno Editrice, Roma 1988, p. 41.
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3bis) Cfr. G. OLIVA, I nobili spiriti, Minerva Italica, Roma 1979, pp. 112-3.
4) ibidem
5) Cfr., ad esempio, T. TODOROV, Teorie del simbolo, a cura di C. De Vecchi, Garzanti, Milano 1991, p. 376-7; C. SEGRE, I segni e la critica, Einaudi, Torino 1969, p. 24.
6) P. ORVIETO, Croce o D’Annunzio, cit., p. 41.
7) In F. DE SANCTIS, Saggi critici, a cura di L. Russo, Laterza, Bari 1953.
8) Cfr. G. GUGLIELMI, L’ultima pagina della “Storia della letteratura italiana del De Sanctis, in La parola del testo. Letteratura come storia, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 45-63.
9) F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, a cura di L. Russo, vol. II, Feltrinelli, Milano 1960, pp. 460-2 passim.
10) Utili, per un quadro generale, P. ORVIETO, Croce o D’Annunzio, cit., pp. 40 e segg.; E. SCARANO LUGNANI, Dalla “Cronaca bizantina” al “Convito”, Vallecchi, Firenze 1970, pp. 42 e segg.; R. LUPERINI, La crisi del positivismo, la critica letteraria, le riviste giovanili, in La letteratura italiana. Storia e testi, vol. IX, t. I, Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 3 e segg. Utili indicazioni offre ancora il giovanile intervento di G. A. BORGESE, Metodo storico e critica estetica (1903), apparso dapprima sul Leonardo e poi ripreso in ID., Poetica della unità, Treves, Milano 1934, pp. 249-273.
11) G. SALVADORI, Editorucoli, in “Domenica letteraria”, 8 luglio 1883.
12) Ho citato, nell’ordine: E. COLI, Necroscopia letteraria, in “Il Marzocco”, anno I, n. 1, 2 febbraio 1896, pp. 2-3; G. S. GARGANO, Questioni di critica, in “Il Marzocco”, anno II, n. 36, 10 ottobre 1897, pp. 1-2; D. GAROGLIO, Il metodo storico e la specializzazione in Germania, in “Il Marzocco”, anno II, n. 50, 10 gennaio 1897, pp. 2-3.
13) G. A. BORGESE, Metodo storico, cit., p. 262.
14) Citerò da G. D’ANNUNZIO, Scritti giornalistici, a cura di F. Roncoroni, Mondadori, Milano 1996, pp. 944-7.
15) Si veda, al riguardo, V. RODA, D’Annunzio critico e l’estetica del Taine, in “Atti della Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna - Classe di Scienze Morali”, vol. LIX (1970-1), pp. 98-146.
16) G. D’ANNUNZIO, Scritti giornalistici, cit., pp. 1076-8.
17) Proemio, in “Il Convito”, tomo I, gennaio 1895.
18) Di G. BARBERI SQUAROTTI cfr. Il simbolo dell’”artifex”, in D’Annunzio e il simbolismo europeo, a cura di E. Mariano, Il Saggiatore, Milano 1976, pp. 163-195 (soprattutto le pp. 163 e 172-3); Bellezza e volgarità: D’Annunzio e l’ideologia borghese, in ID., Poesia e ideologia borghese, Liguori, Napoli 1976; ID., Invito alla lettura di D’Annunzio, Mursia, Milano 1982, soprattutto le pp. 103-5 e 113-6, relative, queste ultime, al Fuoco - su cui si dovrà tornare tra breve -, visto come romanzo della “morte dell’arte e della bellezza”.
19) Cfr. V. RODA, D’Annunzio critico, cit., pp. 123-4.
20) ID., Trionfo della morte, Mondadori, Milano 1956, p. 9.
21) U. OJETTI, Alla scoperta dei letterati, Le Monnier, Firenze 1946, p. 339.
22) CH. BAUDELAIRE, Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1950, p. 226.
23) Cfr. G. S. GARGANO, Arte e scienza, in “Il Marzocco”, anno I, n. 29, 16 agosto 1896, p. 1.
24) Cfr. M. LUZI, Studio su Mallarmé, Sansoni, Firenze 1952, soprattutto le pp. 64-71.
25) G. S. GARGANO, Stefano Mallarmé, in “Il Marzocco”, anno III, n. 34, 25 settembre 1898, pp. 1-2.
26) Cfr. G. D’ANNUNZIO, Scritti giornalistici, cit., p. 850.
27) Cfr. A. BERTONI, Dai simbolisti al novecento. Le origini del verso libero italiano, Il Mulino, Bologna 1995 (per il Ghil, v. p. 120).
28) Cit. in G. ZANETTI, Estetismo e modernità. Saggio su Angelo Conti, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 67-8.
29) G. D’ANNUNZIO, Il Piacere, Mondadori, Milano 1990, p. 244. Da questa edizione sono tratte anche tutte le citazioni che seguiranno.
30) V. RODA, Totalità ed antitotalità nel ciclo della “Rosa”, in “Il Verri”, settima serie (1985), n. 7-8, pp. 79 e 81.
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31) G. ZANETTI, Estetismo e modernità, Il Mulino, Bologna 1996, p. 314.
32) N. LORENZINI, D’Annunzio, l’irrazionale, il linguaggio del corpo, in “Il Verri”, settima serie (1985), n. 7-8, p. 148, corsivo mio.
33) Cfr. G. BARBERI SQUAROTTI, Invito alla lettura, cit., pp. 210-11.
34) G. D’ANNUNZIO, Il Fuoco, a cura di A. M. Mutterle, Mondadori, Milano 1967, p. 164. Da questa edizione sono tratte tutte le citazioni che seguiranno.
35) Cfr. ID., rispettivamente Alcyone o la poesia del fare poesia, in “Il Verri”, cit., p. 85; Invito alla lettura, cit., p. 145.
36) Cfr. G. PULLINI, “Il Piacere” di D’Annunzio e l’autocoscienza critica, in “Miscellanea di studi in onore di Marco Pecoraro”, vol. II, Olschki, Firenze 1991, pp. 215-229.
37) G. D’ANNUNZIO, Prose, cit., p. 511.
38) G. TOSI, D’Annunzio et le symbolisme français, in D’Annunzio e il simbolismo europeo, Il Saggiatore, Milano 1976, p. 268.
39) V. RODA, Totalità ed anti-totalità, cit., p. 92.
40) G. D’ANNUNZIO, Prose, cit., pp. 559-60.
40bis) Per le lettere, si farà riferimento a G. D'ANNUNZIO, Lettere ad Enrico Nencioni, a c. di R. FORCELLA, "Nuova Antologia", 1939, fasc. 1611, pp. 3-31; G. FATINI, D'Annunzio e Nencioni, "Quaderni dannunziani", vol. XVIII-XIX
(1960), pp. 648-705. Per i rapporti con D'Annunzio, interessante anche l'intervento di Nencioni (Questioni ardenti) in Alla ricerca della verecondia, Sommaruga, Roma 1884, pp. 87-109.
Per i testi, ci si deve rifare ancora alle prime edizioni: E. NENCIONI , Saggi critici di letteratura italiana, Le Monnier, Firenze 1898, con l'illuminante introduzione di D'Annunzio Per la morte di un poeta; ID., Saggi critici di letteratura italiana, ivi 1898; ID., Saggi critici di letterature straniere, ivi 1909. Utile anche Le più belle pagine di Enrico Nencioni, a cura di B. CICOGNANI, Garzanti, Milano 1943.
41) A. CONTI, Giorgione. Studio, Fratelli Alinari, Firenze 1894, p. 78. Da questa edizione sono tratte tutte le citazioni che seguiranno.
42) Per un quadro generale, vedi il già citato, monumentale studio di Zanetti, vero e proprio definitive work sull’argomento.
43) G. A. BORGESE, Poetica dell’Unità. Cinque saggi, Treves, Milano 1934, pp. 128 e 223. Da questa edizione sono tratte le citazioni che seguono.
44) Cfr. G. ZANETTI, Estetismo, cit., pp. 115-6.
45) CH. BLANC, Grammaire des arts du dessin, Renouard, Paris 1880, pp. 9, 17 e 20.
46) CH. BLANC, Grammaire, cit., p. 16.
47) N. LORENZINI, D’Annunzio, l’irrazionale, il linguaggio del corpo, in “Il Verri”, cit., p. 149 n. 34.
48) G. ZANETTI, Conti, D’Annunzio e l’”improvviso”, in “Il Verri”, settima serie (1985), n. 7-8, pp. 134-5.
49) A. CONTI, La beata riva. Trattato dell’oblio, Treves, Milano 1900, p. 81. Da questa edizione sono tratte tutte le citazioni che seguiranno.
50) G. PASCOLI, Prose, vol. II, Mondadori, Milano 1952, pp. 3-5.
50bis) F. AMIGONI, Pascoli e l’ermeneutica, in “Intersezioni”, anno IX (1989), n. 2, p. 349.
51) E. RAIMONDI, La critica simbolica, in Metafora e storia, Einaudi, Torino 1970, pp. 3 e 6.
52) ibidem, p. 5.
53) M. FUBINI, Compito pedagogico o momento simbolico della critica?, in ID. Critica e poesia, Laterza, Bari 1966, pp. 250-7.
54) G. S. GARGANO, Questioni di critica, in “Il Marzocco”, anno II, n. 36, 10 ottobre 1897, pp. 1-2.
55) Per la distinzione tra simbolo e allegoria nelle poetiche romantiche, v. T. TODOROV, Teorie del simbolo, a cura di C. De Vecchi, Garzanti, Milano 1991, pp. 254 e segg.
56) “Il Marzocco”, anno II, n. 41, 14 novembre 1897.
57) TH. CARLYLE, Sartor resartus, a cura di F. e G. Chimenti, Laterza, Bari 1924, pp. 214-223.
57bis) Cfr., comunque, per un esauriente sguardo d’insieme, G. OLIVA, I nobili spiriti, cit.
199
58) Cfr. L. BIANCONI, D’Annunzio critico, Sansoni, Firenze 1940.
59) Cfr. L. STEFANINI, “voce” Critica d’arte, in Enciclopedia filosofica, Lucarini, Roma 1982, pp. 642-3.
60) L. BIANCONI, D’Annunzio, cit., p. 230.
61) ibidem, pp. 232 e 3.
62) “Il Marzocco”, anno II, n. 42, pp. 2-3.
63) U. OJETTI, “La ballata del carcere di Reading”, anno III, n. 44, pp. 1-2.
64) E. RAIMONDI, Prefazione a CH. BAUDELAIRE, Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 1981, p. XLIX
65) O. WILDE, Il critico come artista, introduzione di Silvio Perrella, traduzione di Alessandro Ceni, con testo a fronte, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 116 e 118.
66) A. CONTI, La beata riva, Treves, Milano 1900, pp. 34-5.
66bis) I passi di Pater citati si trovano in W. PATER, Plato and platonism. A series oæ lectures, Macmillan, London 1910 (in particolare pp. 131 sgg.). Per il "platonismo" di Conti e D'Annunzio, non privo di
illuminazioni e di intuizioni che varcavano addirittura i limiti del sapere storiografico dell'epoca, cfr. P. TREVES , Un altro platonismo italiano, in ID. Tradizione e rinnovamento della storiografia, Ricciardi, Milano-Napoli 1992, pp. 231-241.
67) Citato in A. M. Mutterle, Introduzione a G. D’ANNUNZIO, Il Fuoco, cit., p. VI.
68) F. NIETZSCHE, Così parlo Zarathustra, a cura di M. Montinari e G. Colli, Adelphi, Milano 1993, p. 162
69) E. RAIMONDI, D’Annunzio e il simbolismo, in D’Annunzio e il simbolismo europeo, cit., p. 64.
70) L. ANCESCHI, D’Annunzio e il sistema dell’analogia, in D’Annunzio e il simbolismo europeo, cit., p. 88, corsivo mio.
71) O. WILDE, Il Critico come artista, cit., pp. 69 e 71.
72) ID., Opere, a cura di M. D’Amico, Mondadori, Milano 1979, p. 721.
73) A. CONTI, I poeti d’oggi in Francia, in “Il Marzocco”, anno V, n. 38, p. 3.
74) E. RAIMONDI, D’Annunzio e il simbolismo, in D’Annunzio e il simbolismo europeo, cit., p. 48.
75) G. H. HARTMAN, La critica nel deserto, traduzione di P. Prezzavento, Mucchi, Modena 1991, p. 16.
76) ibidem, pp. 17 e 34 n. 7.
77) Per questo riferimento come per il precedente, cfr. S. AGOSTI, Il Fauno di Mallarmé, Feltrinelli, Milano 1991.
78) G. D’ANNUNZIO, Note su Giorgione e su la critica, in “Il Convito”, libro I (gennaio 1895), pp. 69-86. Il testo si legge anche, con una preziosa nota introduttiva, in G. D’ANNUNZIO, Pagine sull’arte, a cura do S. Fugazza, Electa-Bruno Mondadori, Milano 1986, pp. 57-72.
79) P. ORVIETO, D’Annunzio o Croce, cit., p. 137.
80) Cfr., ad esempio, G. ZANETTI, Estetismo e modernità, cit., p. 146; A. M. Mutterle, La “mano casta e robusta”: interpretazione di un luogo di “Maia”, in “Il Verri”, settima serie (1985), n. 5-6, pp. 121 ss.
81) In Saggi critici, a cura di L. RUSSO, Laterza, Roma-Bari 1953.
82) B. CROCE, Primi saggi, Laterza, Roma-Bari 1919, p. 88.
83) ibidem, p. VIII.
84) ibidem, p. XIV.
85) Cfr., ad esempio: Angelo Conti e altri estetizzanti, in La letteratura della nuova Italia, vol. VI, Laterza, Bari 1945, pp. 184-200; Esempio di critica estetizzante, in Problemi di estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana, Laterza, Bari 1910, pp. 46-50. Un breve ma illuminante, e pur sempre spregiativo accenno, su cui si tornerà, al “metodo incomunicabile” della critica estetizzante, e ai suoi stretti legami con un dato modo, ad essa speculare, di intendere e di praticare la poesia, è nel noto saggio Di un carattere della più recente letteratura italiana (1907), in Letteratura della nuova Italia, IV, Laterza, Bari 1964, pp. 194-212.
86) B. CROCE, Gabriele D’Annunzio (1903), in La letteratura della nuova Italia, vol. IV, Laterza, Bari 1947, p. 198; ID., Esempio di critica estetizzante, cit., p. 50.
87) D. GAROGLIO, A proposito di Torquato Tasso. La critica estetica, in “Il Marzocco”, anno I, n. 29, p. 2.
88) Cfr. P. ORVIETO, D’Annunzio o Croce, cit.
89) M. BACIOCCHI, Della critica, in “Il Marzocco, anno IV, n. 23, 9 luglio 1899, p. 3.
90) Cfr. R. PICCOLI, Introduzione a O. WILDE, Intenzioni, Bocca, Torino 1906, p. XLII. Sull’affascinante problema delle radici e delle “fonti” filosofiche della prospettiva di soggettivismo gnoseologico che sta alla base della concezione wildiana del fine della critica come “to see the object as in itself it really isn’t”, si è brevemente soffermata anche Valeria Reggi (Oscar Wilde e il New Hellenism, cit., p. 39, n. 9), rinviando al relativismo e allo scetticismo scientifico degli empiristi.
90bis) A. CONTI, Alcune idee della critica, in “La Rassegna Nazionale”, volume LXXIV, anno XV (1893), fascicolo 2o, 16 novembre 1893. Come si vede, questo scritto precede le dannunziane Note su Giorgione di più di un anno. La polemica antidesanctisiana di D’Annunzio aveva infatti avuto inizio con un articolo apparso sulla Tribuna nello stesso ’93.
91) Cit. in G. D’ANNUNZIO, Poesie, teatro, prose, a cura di M. Praz e F. Gerra, Ricciardi, Milano-Napoli 1966, p. 19 n.
92) Cfr., per quest’ultimo passo e per il precedente, E. RAIMONDI, Gabriele D’Annunzio, in Storia della letteratura italiana, vol. IX, t. I, Garzanti, Milano 1987, pp. 422 e 429.
93) G. ZANETTI, Conti, D’Annunzio e l’improvviso, in “Il Verri”, nn. 7-8, settembre-dicembre 1985, p. 139.
94) ID., Estetismo e modernità, cit., p. 386.
95) Cfr. L. ANCESCHI, D’Annunzio e il sistema dell’analogia, in D’Annunzio e il simbolismo europeo, cit., p. 81.
95 bis) G. LEUCADI, Per una stilistica dell’inconscio, in AA.VV. Studi sulla modernità, Clueb, Bologna 1989.
96) Cfr. F. CURI, Parodia e utopia, Liguori, Napoli 1987, p. 97. 97) ID., Analogia e allegoria, in “Il Verri”, settima serie (1985), n. 5-6.
98) pp. 74-5. Da questi due testi sono tratte le citazioni che seguiranno.
98 bis) M. A. BAZZOCCHI, Modelli narrativi del romanzo dannunziano (dalla ripetizione all’allegoria), Tesi di laurea discussa all’Università di Bologna nell. A. a. 1985/’86, Rel. E. Raimondi, pp. 167 e 169.
99) Cfr. G. ZANETTI, Estetismo e modernità, cit., p. 146.
100) A. MARINO, Teoria della letteratura, Il Mulino, Bologna 1994, p. 443
101) S. FERRI, “voce” Critica dell’arte nell’Antichità Classica, in Enciclopedia dell’Arte Antica, vol. II, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1959.
102) A. ROUVERET, “voce” Critique d’art (Antiquité gréco-romaine), in Encyclopaedia Universalis, vol. VI, Paris 1990, pp. 828-832.
103) A. SCAGLIONE, Croce’s definition of Literary Criticism, in The Journal of Aesthetics and Art Criticism, XVII (1959), n. 4, p. 449.
104) Sul carattere fluttuante ed inconsistente del concetto di stile in Croce, cfr. il capitolo Il concetto dello stile, in P. D’ANGELO, L’estetica di Benedetto Croce, Laterza, Bari 1982, pp. 65-70.
105) P. ORVIETO, D’Annunzio o Croce, cit., p. 8.
106) G. A. BORGESE, Metodo storico e critica estetica, in Poetica dell’Unità, cit., pp. 260-1.
107) L. ANCESCHI, Fenomenologia della critica, Patron, Bologna 1966, p. 69.
108) ID., Gli specchi della poesia, Einaudi, Torino 1989, p. 128.
109) F. RELLA, Illuminazioni. Baudelaire e Rimbaud, in ID., L’estetica del romanticismo, Donzelli, Roma 1997, pp. 81-87.
110) C. SALINARI, Miti e coscienza del decadentismo italiano (1960), Feltrinelli, Milano 1984, p. 16.
111) P. L. CERISOLA, Dall’impegno sociale al disimpegno dal testo: la critica dei nostri giorni,
201
in Storia della critica letteraria in Italia, a cura di G. Baroni, UTET, Torino 1997, p. 540.
112) G. VIAZZI, nota introduttiva ai testi di G. P. Lucini, in Poesia italiana. Il Novecento, Garzanti, Milano 1988, pp. 3-4.
113) M. GUGLIELMINETTI, in Enciclopedia Europea, vol. XII, Garzanti, Milano 1984, p. 452.
114) in G. P. LUCINI, Per una poetica del simbolismo, a cura di G. Viazzi, Guida, Napoli 1971, pp. 11-21.
115) ibidem, pp. 21-59.
116) ibidem, pp. 59-109.
117) ibidem, pp. 163-193.
118) U. FOSCOLO, Opere, vol. II, I Classici Rizzoli, Milano 1966, pp. 691-2.
119) Cfr., per la complessa problematica del rapporto tra simbolo, analogia e allegoria in Lucini e nei futuristi, L. ANCESCHI, Le poetiche del Novecento in Italia, Paravia, Torino 1973, pp. 133 e segg.
120) Cfr. ancora F. CURI, Analogia e allegoria, cit.,
121) Cfr. G. VIAZZI, Studi e documenti per il Lucini, Guida, Napoli 1972, p. 56 n. 150.
121bis) G. P. LUCINI, Scritti critici, a cura di L. MARTINELLI, De Donato, Bari 1971, p. 24.
122) Cfr. G. P. LUCINI, D’Annunzio al vaglio dell’Humorismo, a cura di E. Sanguineti, Genova, Costa e Nolan 1989, p. IX.
123) J. STAROBINSKI, La malinconia allo specchio, Garzanti, Milano 1990, p. 55.
124) G. VIAZZI, premessa ai testi di G. P. Lucini, in Dal Simbolismo al Déco, tomo I, Einaudi, Torino 1981, p. 5.
125) S. MALLARME, Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1945, p. 368.
125 bis) F. CURI, Per uno straniamento di Lucini, in “Il Verri”, n. 33/34, quarta serie, ottobre 1970, p. 207.
126) Sta in G. VIAZZI, Studi e documenti, cit., pp. 219-220.
127) Per il Lipparini poeta, mi rifaccio a Dal Simbolismo al Déco, cit., pp. 123-129; Dai nostri poeti viventi, a cura di E. LEVI, Bemporad, Firenze 1903, p. 215; La voce d’Italia nei secoli, a cura di G. Dolci, vol. III, tomo II, La Prora, Milano s. a., p. 818.
128) Per questo sorprendente Lucini “fenomenologo”, cfr. G. Viazzi, Studi e documenti, cit., p. 68.
129) Cfr., anche per questo, ibidem, p. 71.
130) In G. VIAZZI, Studi e documenti, cit., pp. 221-231.
131) Cfr. E. SANGUINETI, prefazione a G. P. LUCINI, D’Annunzio al vaglio dell’Humorismo, a cura di E. SANGUINETI, Costa e Nolan, Genova 1989, pp. IX e segg.
132) Cfr. J. H. WOODHOUSE, Creative plagiarism, in The italian lyric tradition, Cardiff 1893, pp. 91-107.
133) In Per una poetica del Simbolismo, cit., pp. 209-229.
134) G. P. LUCINI, L’Ora Topica di Carlo Dossi. Saggio di critica integrale, A. Nicola e C., Varese 1911, p. 203
135) ID., Antidannunziana, Studio Editoriale Lombardo, Milano 1914, p. 20. 136) G. VIAZZI, nota ai testi in Poesia italiana, cit., p. 3.
137) G. P. LUCINI, D’Annunzio al vaglio dell’Humorismo, cit., p. 10.
138) Id., Antidannunziana, cit., p. 111.
139) ibidem, p. 110.
140) ibidem, p. 137.
141) ibidem, p. 211, corsivi nel testo.
142) G. P. LUCINI, D’Annunzio al vaglio dell’Humorismo, cit., p. 9., corsivo mio.
143) E. SANGUINETI, prefazione a G. P. LUCINI, D’Annunzio al vaglio dell’Humorismo, cit., pp. IX e XI.
144) F. CURI, L’ordinata progettazione del disordine nell’avanguardia, in S. BRIOSI, Da Croce agli strutturalisti, Calderini, Bologna 1971, p. 390.
144bis) G. VIAZZI, Studi e documenti, cit., p. 98.
145) P. BÜRGER, Teoria dell’avanguardia, Bollati Boringhieri, Torino 1990, pp. 41-2.
146) ibidem, p. 59.
147) ibidem, p. 42.
148) ibidem, p. 59.
149) Th. W. ADORNO, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1977, p. 38, corsivo mio.
150) Cit. in E. RAIMONDI, Gabriele D’Annunzio, cit., p 392.
151) G. BARBERI SQUAROTTI, Invito alla lettura, cit., p. 161.
152) Cit. ibidem, pp. 414 e 427.
153) E. RAIMONDI, Gabriele D’Annunzio, cit., p. 424.
154) Cfr. AA. VV. Storia della critica letteraria in Italia, UTET, Torino 1997, pp. 478-9.
155) F. Curi, Per uno straniamento, cit., p. 212.
156) Cit. in L. MARTINELLI, Prefazione, cit., pp. XVII-XVIII.
NOTE ALL'EPILOGO
1) Cfr. J. CULLER, On Deconstruction. Theory of Criticism after structuralism, Routledge and Kegan Paul, London 1983, p. 144.
2) ibidem, pp. 145 e 209-211.
3) Cfr. A. TRIONE, L’estetica della mente dopo Mallarmé, Cappelli, Bologna 1987, pp. 115 e segg.
4) G. DE ROBERTIS, Studi, Le Monnier, Firenze 1944, p. 47.
5) Cfr. F. DEL BECCARO, Giuseppe De Robertis, in Letteratura italiana. I Critici, vol. III, Marzorati, Milano, 1969, pp. 2243-2265.
6) ID., Scritti vociani, Le Monnier, Firenze 1967, p. 52.
7) ibidem, p. 62.
8) Cit. in E. SCARANO, Dalla “Cronaca Bizantina” al “Convito”, cit., p. 78.
9) G. DE ROBERTIS, Scritti vociani, cit., p. 65.
10) ID., Studi, cit., pp. 37-8. Le citazioni contiane si riferiscono all’ Introduzione ad uno studio su Francesco Petrarca, Roma 1892.
11) Bo: una “lettura del corpo”, in S. BRIOSI, Da Croce agli strutturalisti, Calderini, Bologna 1971, pp. 130-3.
12) Cfr. F. CURI, Per uno straniamento, cit., p. 234.
13) Cfr., anche per le notizie appena riportate, G. VIAZZI, Studi e documenti, cit., pp. 102-3.
14) Cfr. G. BENVENUTI, Introduzione a G. BOINE, L’esperienza religiosa e altri scritti di filosofia e letteratura, Pendragon, Bologna 1997, pp.. 54-5.
BIBLIOGRAFIA
“A me che, vedendomi passare sotto gli occhi quotidianamente tanti libri nuovi, gli domandavo, non senza smarrimento, (...) come si facesse ad essere informati con sicurezza su tutto quanto si viene pensando e scrivendo nel campo degli studi, - il Labriola rispose: - Non ti affliggere! (...) Potresti sul serio proporti di stare a sentire tutto ciò che la gente dice in tutte le cinque parti del mondo? ascoltane quel che puoi, e poi fa’ da te” (B. CROCE, Pagine sparse, a cura di G. Castellano, serie terza (Memorie, schizzi biografici e appunti storici), Ricciardi, Napoli 1920, p. 110).
Questo giovanile e gustoso aneddoto narrato da Croce si presta molto ad essere posto in limine ad un repertorio bibliografico che è - stando almeno a quel poco che sono riuscito ad “ascoltare” - il primo espressamente dedicato al problema del rapporto tra poesia e critica, pur se limitato al contesto specifico e ben determinato cui ha fatto riferimento la mia trattazione, e che, per di più, vorrebbe non essere soltanto un arido, e sostanzialmente inutile, elenco di nomi e di titoli.
Mi è ovviamente impossibile, almeno per ora, fornire una bibliografia che voglia e possa aspirare alla completezza; e la compilazione di una bibliografia di tal genere sarebbe, nel mio caso, impresa disperata, vista l’enorme mole di contributi esistente intorno a ciascuno dei diversi autori che ho avuto l’incoercibile desiderio - e forse l’incoscienza - di inserire nel mio percorso.
Se da un lato non è quasi mai possibile, a mio parere, per quanto limitato o addirittura angusto sia l’argomento di cui il malcapitato vuole o deve occuparsi, ottemperare all’aureo, ma assai raramente osservato, precetto di leggere tutto ciò che è stato scritto al riguardo, dall’altro lato sarebbe assai incauto limitarsi, come suggeriva il Labriola al giovane Croce, ad “ascoltare quello che si può”; d’altro canto, già De Sanctis - a dispetto delle accuse di scarso scrupolo documentario che poi gli sarebbero state rivolte dalla scuola storica - sottolineava, nella prolusione al corso leopardiano del 1876, che se si ignorasse “quello che s’è scritto e pensato sulla materia”, “i lavori sarebbero sempre un tornare da capo, il mondo starebbe sempre ad Adamo”. A mio parere, tra l’auspicabile ma sovrumano tutto e “quello che si può”, è bene cercare di scegliere, con tutti i rischi che ciò comporta, il giusto mezzo.
Come che sia, ora enumererò, nell’elenco che segue, sia i testi che ho di volta in volta citato in nota, sia quelli di cui mi sono variamente servito, sia quelli che sarebbero potuti, a giudicare dalle indicazioni di cui ero in possesso, risultare utili ai fini della ricerca, ma di cui non mi è stato possibile, per varie ragioni, prendere visione. Tra le edizioni delle opere, ho segnalato solo quelle dai cui apparati o dalle cui introduzioni ho tratto qualche indicazione o qualche spunto.
Per i problemi teorici, assai complessi e, forse, ancora in parte da indagare, legati al rapporto tra poesia e critica, sono in grado di segnalare varie opere, assai diverse per epoca, impostazione e metodologia, e accostate in modo fatalmente rapsodico, e senza pretendere di suggerire nulla più che qualche possibile percorso di ricerca.
Innanzitutto, offrono utilissimi spunti, pur se da una posizione “anomala” e sostanzialmente isolata, gli scritti estetici pirandelliani; l’ Umorismo (che si può leggere nell’edizione curata da S. Guglielmino, Mondadori, Milano 1986) può essere fatto proficuamente interagire con saggi come Un critico fantastico e La menzogna del sentimento in arte (soprattutto la parte seconda), che si leggono in L. PIRANDELLO, Saggi, poesie, scritti vari, a cura di M. Lo Vecchio-Musti, Milano, Mondadori 1960, ma anche, poniamo, con l’introduzione ai Sei personaggi, o con quella, meno nota, alla prima redazione di Suo marito. Colgo l’occasione per segnalare, al riguardo, tra i numerosissimi contributi, lo studio di E. N. GIRARDI, L’estetica di Pirandello. Creatività e riflessività da “Arte e scienza” ai “Sei personaggi”, in “Esperienze letterarie”, anno XVII (1992), n. 3, pp. 53-65, in cui vengono chiariti alcuni aspetti della distinzione tra il poeta-critico ottocentesco e romantico e quello pienamente e consapevolmente “moderno”.
Si deve rendere merito al pionieristico, e ormai dimenticato, A. GALLETTI, Teorie di critici ed opere di poeti, Vecchioni, L’Aquila 1930, ambizioso studio sul rapporto tra dottrine estetiche e creazione poetica da Goethe a Pirandello; ad ogni modo, lo studio è viziato dal noto antinovecentismo del critico, e da un’impostazione neoromantica che lo spinge a negare, nella grande poesia, “ogni autorità della riflessione sull’impulso”.
Sarebbe poi interessante rispolverare U. SPIRITO, La Vita come arte, Sansoni, Firenze 1948, soprattutto le pp. 299-327; in cui però critica e arte, secondo una fenomenologia difficilmente applicabile alle esperienze della modernità, vengono addirittura totalmente identificate e fuse, nel dominio di una “coscienza” prerazionale ed alogica, e in quanto tale distinta dall’”autocoscienza”.
Una prospettiva del tutto peculiare sulle “regole dell’arte”, con esplicito riferimento a Baudelaire, è aperta da J. MARITAIN, Art et Scolastique, La Librairie de l’Art Catholique, Paris 1920.
Segnalo qui, per la nozione di “stile” chiamata in causa nel secondo e soprattutto nel terzo capitolo, il postcrociano G. MORPURGO TAGLIABUE, Il concetto dello stile. Saggio di una fenomenologia dell’arte, Bocca, Milano 1951, forse meritevole di essere rivisitato.
In un contesto completamente diverso, accentuò il carattere “creativo” e “collaborativo” insito nell’atto della lettura L. PAREYSON, Estetica - teoria della formatività, Edizioni di Filosofia, Torino 1954, soprattutto le pp. 200 e segg.
Meno utilizzabile mi sembra, oggi, il curioso impasto, in funzione antiromantica, di aristotelismo e marxismo che sta alla base di G. DELLA VOLPE, Critica del gusto, Feltrinelli, Milano 1960, e ID., Poetica del Cinquecento, Laterza, Bari 1954 (anche se è comunque rilevante l’accentuazione, in senso anticrociano, della componente razionale e tecnica insita nell’agire poetico).
Per l’ermeneutica romantica, cui si è fatto riferimento più volte, resta fondamentale W. BENJAMIN, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, Einaudi, Torino 1982 (la dissertazione è alle pp. 5-113), da collegare magari al saggio sulle Affinità elettive in Angelus Novus, cit., e a La tecnica del critico in 13 tesi, in ID., Strada a senso unico, Einaudi, Torino 1983.
Fondamentali, ovviamente, su di un piano teorico generale, gli studi di Anceschi, da cui questa tesi ha preso le mosse: Autonomia ed eteronomia dell’arte (1936), Garzanti, Milano 1992 (utile anche per un globale inquadramento sul piano storico-letterario); Della critica letteraria e artistica, in ID., Progetto di una sistematica dell’arte, Milano 1962, pp. 23-47, soprattutto 29-30); Fenomenologia della critica, Patron, Bologna 1966; Che cosa è la poesia (1986), Zanichelli, Bologna 1990; Gli specchi della poesia, Einaudi, Torino 1989 (testo, quest’ultimo, che accentua più degli altri, sul piano teorico, il problema della “critica dei poeti”, e introduce ed articola il basilare concetto di “riflessione”).
Esemplare, nel vasto quadro della “critica dei poeti”, il grande magistero eliotiano: v. T. S. ELIOT, Il bosco sacro, con trad. e introduzione di L. Anceschi, Muggiani, Milano 1946, soprattutto i saggi Del perfetto critico (in cui la tentazione del creative criticism si scontra, assai fecondamente, con le istanze dell’”impersonalità”) e Tradizione e talento individuale; ID., Sulla poesia e sui poeti, trad. di A. Giuliani, Bompiani, Milano 1960 (soprattutto i saggi Le frontiere della critica e La critica e la poesia di Johnson); ID., To criticize the critic, Faber and Faber, London 1965 (fondamentale, per la linea Poe-Baudelaire-Mallarmé-Valéry nel segno del rapporto tra poesia e critica, il saggio From Poe to Valéry, del ’40, pp. 27-43); ID., L’uso della poesia e l’uso della critica e altri saggi, Bompiani, Milano 1974, soprattutto i saggi Baudelaire, Arnold e Pater (interessante anche il saggio introduttivo di R. SANESI, Osservazioni su Eliot critico-poeta, con riflessioni teoriche generali sulla critica dei poeti).
Per vari aspetti legata a quella di Eliot è la riflessione metaletteraria di E. POUND, di cui è da vedere soprattutto - per i problemi teorici legati alla lettura e per la funzione sociale che il poeta svolge, pur se “maledetto” e “disprezzato”, “mantenendo efficiente il linguaggio” - il saggio Come bisogna leggere, in ID., Saggi letterari, con prefazione di T. S. ELIOT, Garzanti, Milano 1957, pp. 39-73.
Accanto a Pound ed Eliot, non si può non menzionare P. VALERY, Varietà, SE, Milano 1990, in cui interessano, per il rapporto tra poesia e critica, soprattutto Situazione di Baudelaire e Poesia e pensiero astratto (oltre al saggio introduttivo di S. Agosti, Pensiero e linguaggio in Paul Valéry).
Un affascinante viaggio nella “critica creativa” novecentesca, dal “saper leggere” derobertisiano alla critica ermetica alla “nouvelle critique”, per giungere fino ai primi fermenti del decostruzionismo, e senza ignorare le radici simboliste, è il volume di A. NOFERI, Le poetiche critiche novecentesche, Le Monnier, Firenze 1970.
Per l’assai arduo problema dello statuto simbolico della scrittura critica, ancora utile M. FUBINI, Critica e poesia, Laterza, Roma-Bari 1966, pp. 250-7. Al concetto di “simbolo” nei simbolisti non dedicano che un breve accenno sia U. ECO, Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino 1984, sia T. TODOROV, Teorie del simbolo, a cura di C. De Vecchi, Garzanti, Milano 1991, sia - tra i molti altri - il recentissimo E. FRANZINI - M. MAZZOCUT-MIS, Estetica. I nomi, i concetti le correnti, Bruno Mondadori, Milano 1996 (utili, comunque, le parti dedicate a “Gusto”, “Immaginazione”, “Decostruzione”). Cfr. anche gli studi di E. FISER, La théorie du symbole littéraire, Paris 1941, e Le symbole littéraire chez Baudelaire, Mallarmé, Bergson et Proust, ivi 1942.
Un solido inquadramento storico-teorico della genesi della “critica simbolica, in relazione alle poetiche simboliste e postsimboliste, è in E. RAIMONDI, La critica simbolica, premessa a ID., Metafora e storia, Einaudi, Torino 1970. Si segnala anche M. KRIEGER, Creative criticism: a Broader View to Symbolism, in “Sewanee Rewiev”, LVIII (1950), pp. 36-51.
Illuminante e documentatissimo A. MARINO, Teoria della letteratura, Il Mulino, Bologna 1994 (il problema del rapporto poesia-critica è esaminato soprattutto alle pp. 441-449). Sul rapporto tra il linguaggio della critica e il linguaggio della poesia, R. S. CRANE, The languages of criticism and the structure of poetry, University of Toronto Press, Toronto 1953 (sostanzialmente fedele, peraltro, a quel “concordato arnoldiano” su cui oggi ironizzano i decostruzionisti).
Nozioni assai funzionali (il “plaisir du texte”, la “relation critique”, la critica come “coincidence de deux consciences”) giungono dalla sfaccettato universo della “nouvelle critique” e dell’”école de Genève”. Al riguardo, accanto alle riflessioni contenute nella brillante “voce” di R. ETIEMBLE, Littéraire (Critique), in Encyclopaedia Universalis, Paris 1982, pp. 898-904, segnalo, sullo specifico aspetto della componente creativa della critica: J. STAROBINSKI, L’oeil vivant II - la relation critique, Gallimard, Paris 1970, soprattutto il capitolo che dà il titolo al volume (pp. 9-34) e L’interprète et son cercle (pp. 154-174); R. BARTHES, Il piacere del testo, Einaudi, Torino 1975; ID. Critique et vérité, Seuil, Paris 1966 (tr. it. Einaudi, Torino 1971); G. POULET, Phenomenology of reading, in New literary History, vol. I, n. 1, 1969, pp. 53-68; ID., La coscienza critica (1971), Marietti, Genova 1991; G. GENETTE, Palimpsestes. La littérature au second degré, Paris 1982; e l’elenco, assai eterogeneo, non è certo completo.
Un posto a sé occupano la definizione, da una particolare angolatura, della critica come “arte”, ma anche la sostanziale, implicita sottovalutazione della “critique amusante et poétique” del secondo Ottocento, che si trovano in N. FRYE, Introduzione polemica ad Anatomia della critica, Einaudi, Torino 1969 (opera, questa, che in generale appare valida più per le singole osservazioni e definizioni che per l’impostazione globale, archetipica e metastorica).
Altre indicazioni giungono dai decostruzionisti. Anche a questo proposito, sono in grado di dare solo alcune indicazioni. Basilare, innanzitutto, quel vero e proprio “vangelo” della decostruzione che è G. H. HARTMAN, La critica nel deserto, Mucchi, Modena 1980, di cui appaiono utili, ai fini della mia ricerca, soprattutto le pagine (234 e segg.) sulla “critica demonica”, da Poe a Baudelaire a Wilde, con propaggini in Derrida).
Altre indicazioni in Postmoderno e letteratura. Percorsi e visioni della critica in America, a cura di P. Carravetta e P. Spedicato, Bompiani, Milano 1984, (da vedere soprattutto, per l’eredità di Wilde, il saggio di I. Hassan, Il critico come innovatore, e per quella di Mallarmé lo scritto Ch. Altieri, Dal pensiero simbolista all’immanenza). Sempre in àmbito decostruzionista, v. J. CULLER, On Deconstruction. Theory and Criticism after Structuralism, Routledge and Kegan Paul, London-Melbourne 1983.
Mi sono servito, per la chiarificazione di alcuni concetti, di R. DIODATO, Decostruzionismo, Editrice Bibliografica, Roma 1966. Della Johns Hopkins Guide to Literary Criticism, a cura di M. Groden e M. Kreiswirth, Johns Hopkins University Press, Baltimore-London 1994 (di cui sarebbe utilissima una traduzione italiana), ho sfruttato soprattutto la “voce” Mallarmé and French Symbolism e quelle su Wilde e Poe.
Fondamentali, anche per l’eredità novecentesca, tra Eliot e Valéry, di quella che si potrebbe definire come “critica simbolista”, gli studi di A. TRIONE, Valéry: metodo e critica del fare poetico, Guida, Napoli 1983; L’estetica della mente dopo Mallarmé, Cappelli, Bologna 1987.
Interessanti, pur se non direttamente legati all’argomento della trattazione, D. MUSCÒ, Piero Bigongiari: lo specchio magico del critico scrittore, “Arenaria”, anno XII (1996), vol. XXIV, nn. 35-36, pp. 10-19, che affronta, pur se en passant, il problema, non ancora pienamente indagato, degli influssi baudelairiani e wildiani su espressioni novecentesche in sé assai diverse, quali il saggismo eliotiano o la critica ermetica (e colgo l’occasione per segnalare, nell’àmbito di quest’ultima, almeno gli illuminanti C. BO, Della lettura e altri saggi, Firenze, Vallecchi 1953; P. BIGONGIARI, La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Rizzoli, Milano 1972; ID., Il critico come scrittore, a c. di P. F. Iacuzzi, Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme 1994; M. LUZI, L’Inferno e il Limbo, SE, Milano 1996, soprattutto i saggi L’idea Simbolista e Naturalezza del poeta).
Per la nozione di Analogia e il rapporto tra “classicismo” e “romanticismo” in Baudelaire, v. F. CURI, Parodia e utopia, Liguori, Napoli 1987, pp. 93 e segg.
Nel volume Studi sulla modernità, a c. di F. Curi, Clueb, Bologna 1989, si possono vedere: F. CURI, “L’umorismo” di Pirandello nel sistema della modernità letteraria (vi si introduce il fondamentale concetto della “coazione alla teoria” come tratto distintivo della modernità letteraria); G. LEUCADI, Per una stilistica dell’inconscio (con interessanti osservazioni sull’orazione di Stelio Effrena nel Fuoco, in una prospettiva prenovecentesca).
Sul contesto letterario: Utilissime indicazioni offre ancora, pur muovendosi nell’àmbito di una categoria storiografica la cui funzionalità è stata, in anni recenti, messa in dubbio da molti, W. BINNI, La poetica del decadentismo (1936), Sansoni, Firenze 1961 (3a ed.): accanto a qualche residuo crociano, vi è un primo tentativo di cogliere gli aspetti teorici, programmatici e metaletterari che rappresentano la nota caratterizzante della décadence. Dello stesso Binni, preziose indicazioni anche in Poetica, critica e storia letteraria, Laterza, Roma-Bari 1970 (utili soprattutto, per un’efficace nozione di “coscienza critica” come “consapevolezza attiva dell’ispirazione”, le pp. 17 e segg.).
Sulla metamorfosi, in senso “impersonale” e quasi “minerale”, del genere lirico nell’età postbaudelairiana, v. J. ORTEGA Y GASSET, La disumanizzazione dell’arte (1925), Lerici, Cosenza 1980; per la sintomatica genesi dell’ art pour l’art come reazione alla perdita dell’”aura”, v. W. BENJAMIN, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1965; e si potrebbe completare questo possibile percorso storico-teorico con Th. W. ADORNO, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1977 (fondamentali le nozioni di “razionalità estetica”, “necessitazione all’estetica” e “costruzione” dell’opera d’arte) e P. BÜRGER, Teoria dell’avanguardia, Bollati Boringhieri, Torino 1990 (con la discussa concezione del passaggio dall’estetismo all’avanguardia come transizione dall’autonomia all’eteronomia del “sottosistema arte”).
Sulla nozione di modernità, e sulla sua fondazione storica e concettuale, v. J. HABERMAS, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 1997.
Per quanto attiene al versante della produzione critica, è opera di utilissima consultazione la Storia della critica moderna di R. WELLEK, voll. VIII, Il Mulino, Bologna 1958-1996 (per l’arco cronologico a cui si riferisce questo lavoro, si fa riferimento soprattutto al vol. IV, Dal Realismo al Simbolismo, ivi 1969). Tuttavia, il problema del rapporto tra poesia e critica, e della critica “creativa” e “poetica”, è completamente ignorato; le Lettres du Voyant di Rimbaud non sono, per l’autore, altro che - letteralmente - “una bravata”, e i fondamenti teorici dell’”independent criticism” wildiano gli appaiono “insostenibili e inconsistenti”...
Utile guida, per quanto concerne la produzione poetica, H. FRIEDRICH, La struttura della lirica moderna, Garzanti, Milano 1989 (pur tenendo conto delle riserve avanzate da A. BELARDINELLI nella postfazione, Le molte voci della poesia moderna). Qualche spunto può ancora offrire M. RAYMOND, Da Baudelaire al surrealismo, Einaudi, Torino 1968. Stupende pagine in E. WILSON, Il castello di Axel. Studio sugli sviluppi del simbolismo tra il 1870 e il 1930, Il Saggiatore, Milano 1965 (testo assai complesso, e che forse, a rileggerlo oggi, accentua eccessivamente, specie nelle pagine introduttive, le “sensazioni”, le emozioni individuali” e le “particolari intuizioni” del poeta rispetto al carattere essenzialmente intellettualistico, criticamente consapevole, se non “disumanizzato” ed “impersonale”, delle poetiche simboliste).
Per il contesto storico e sociale in cui matura la “necessitazione all’estetica” che caratterizzerà in modo eminente la modernità letteraria, v. soprattutto le pagine introduttive F. CURI, Perdita d’aureola, Einaudi, Torino 1977 (v. soprattutto, per la nozione di Verbo, fondamentale nel simbolismo, le pp. 16 e segg.); ID., La scrittura e la morte di Dio. Letteratura, mito, psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari 1996, soprattutto le pp. 117-125, in cui, tra le altre cose, sono concettualizzate in modo rigoroso, e assai funzionali, le nozioni di modernité e di sublime d’en bas.
Su Baudelaire. Uno dei tanti esempi dell’applicazione del concetto di “struttura” - pur se nel quadro di un giudizio equanime e sostanzialmente positivo - in B. CROCE, Baudelaire, in Poesia e non poesia, Laterza, Roma-Bari 1923, pp. 252-265. Croce - che nella sua pur ampia rassegna sul Baudelaire critico omette prudentemente di segnalare le affermazioni sui grandi poeti che divengono inevitabilmente critici... - apprezzava, in Baudelaire, quel poco che in lui sopravviveva del sentimentalismo romantico; è assai nota, del resto, la sua incomprensione della poesia moderna, su cui si può vedere almeno Di un carattere della più recente letteratura italiana, in Letteratura della nuova Italia, vol. IV (1907), Laterza, Roma.Bari 1964, pp. 194-212 (in cui si trova la definizione, a suo modo illuminante, della critica degli esteti come “un ditirambo del ditirambo, un ritmo della ritmicità”.
Interessante, sul piano documentario, la ristampa della prima antologia degli scritti estetici baudelairiani, apparsa nel ’20 sotto palese influsso crociano: CH. BAUDELAIRE, Pagine sull’arte, Fratelli Melita, Milano 1992 (assai utile, comunque, la nuova introduzione di C. PAPINI, pp. VII-XXXV).
Interessante, per una pionieristica definizione del tratto distintivo della modernité baudelairiana come “delirio di sensibilità mentale, d’intellettualità plastica e sensitiva”, il volumetto di U. TOLOMEI, Appunti sulla formazione del Baudelaire critico, La Nuova Italia, Firenze 1942 (la citazione è a p. 123).
Per il “satanismo” e il “demonismo” di Baudelaire - senza, però, diretti riferimenti al problema del metodo critico -, v. M. A. RUFF, L’esprit du mal et l’esthétique baudelairienne, Colin, Paris 1955 (ricchissimo di informazioni, ma, forse, ancora troppo legato all’ipotesi dell’”idée catholique” - di cui peraltro fu lo stesso Baudelaire a parlare, al fondo della genesi delle Fleurs).
Per una contestualizzazione dell’autore dei Salons nel quadro della storia della critica d’arte, e per il significato dei suoi giudizi su pittori quali Delacroix e Ingres, ancora utili le pagine a lui dedicate in L. VENTURI, La storia della critica d’arte, Firenze 1948.
Per i rapporti con il Parnasse, v. P. MARTINO, Parnasse et symbolisme, Colin, Paris 1964; Antologia dei poeti parnassiani, Mondadori, Milano 1996, a cura di M. LAROCCHI (concisa ma assai centrata l’introduzione della Larocchi, La parola imbalsamata, pp. V-VIII).
Sul concetto e sulle funzioni dell’analogia, v. A. PRETE, Il demone dell’analogia, Feltrinelli, Milano 1986; per quanto concerne l’impiego - già a suo tempo segnalato da Anceschi - dell’analogia e della sinestesia in sede di discorso critico, v. S. PEGORARO, Passione e intersensorialità. La critica sinestetica di Baudelaire, premessa a Ch. B., Sinestesie critiche, Bulzoni, Roma 1992.
Sul Baudelaire critico, la migliore monografia resta, probabilmente, lo studio cronologico di
M. GILMAN, Baudelaire, the critic, Octagon Books, New York 1971, strumento imprescindibile.
Fondamentali, ovviamente, gli studi di G. MACCHIA: per quanto attiene in modo specifico all Baudelaire critico, v. l’ Introduzione a CH. B., Scritti di estetica, Sansoni, Firenze 1948; v. inoltre G. MACCHIA, Baudelaire critico, Sansoni, Firenze 1939.
Sinuoso ed affascinante il percorso interpretativo di E. RAIMONDI nella prefazione a CH. B., Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 1981.
Sul delicatissimo problema dei rapporti fra la critica di Baudelaire e l’ermeneutica primoromantica (per cui cfr. anche la nota 33 del primo capitolo di questa tesi), v. N. ACCAPUTO, L’estetica di Baudelaire e le sue fonti germaniche, Bottega d’Erasmo, Torino 1964 (anche se non pare accettabile l’ipotesi di una totale derivazione dei princìpi dell’estetica baudelairiana dal pensiero del filosofo tedesco). Si aggiunga R. LLOYD, Baudelaire’s literary criticism, Cambridge University Press, Cambridge 1981.
Tra gli atti di convegni, AA. VV., Baudelaire poeta e critico (Atti del VII Convegno di Lingua e Letteratura francese), Bologna 1978. Altra raccolta di atti congressuali (con relazioni, tra gli altri, di Ch. Mauron, G. Michaud e G. Poulet) in Baudelaire - Actes du Colloque de Nice, Annales de la Faculté des Lettres et Sciences Humaines de Nice, 1967.
Per l’ imagery, tipicamente baudelairiana e rimbaudiana, di un’infanzia perversa e polimorfa, v. A. PIZZORUSSO, Da Mointaigne a Baudelaire, Bulzoni, Roma 1971, pp. 243-261. Per il realismo e il “génie de l’improprieté” nelle Fleurs, v. E. AUERBACH, “Les Fleurs du mal di Baudelaire e il sublime, Da Montaigne a Proust, Garzanti, Milano 1970, pp. 192-222.
Quasi scontato è, poi, il rinvio a W. BENJAMIN, Angelus novus, Einaudi, Torino 1962, pp. 87-154 (soprattutto Parco centrale, pp. 127-139, per la caratterizzazione del poeta-critico come “grande rimuginatore”). Per la nozione di allegoria, e per il concetto di una “volontà d’arte” che caratterizza le epoche di decadenza, v., dello stesso Benjamin, l’introduzione al Dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1971.
Per gli sparsi spunti interpretativi concernenti alcune Fleurs, mi sono talora avvalso del commento di L. FREZZA (il primo apparso in Italia) a CH. BAUDELAIRE, I fiori del male, Rizzoli, Milano 1997 (prima ed. 1980), in cui è da segnalare anche il portrait di G. MACCHIA (pp. 5-19).
Su Mallarmé. Un agile ed utile commento, a livello liceale, si trova in S. MALLARMÉ, Oeuvres choisies, a cura di L. DE NARDIS, Signorelli, Roma 1957. Dello stesso De Nardis si devono peraltro ricordare scritti di respiro ben maggiore: Impressionismo di Mallarmé, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1957; L’ironia di Mallarmé, ivi 1962; e, soprattutto, L’usignolo e il fantasma. Saggi francesi sulla civiltà letteraria dell’Ottocento, Cisalpino, Milano 1970 (da vedere soprattutto Situazione di Mallarmé).
Molto accurato - e purtroppo non integrale - il commento di L. FREZZA a S. MALLARMÉ, Poesie, trad. di L. De Nardis, Feltrinelli, Milano 1966. Tra i commenti, mi sono servito anche di quello - certo inferiore al precedente - di M. GRILLANDI, S. M., Poesie, Newton Compton, Roma 1986.
Ovvio il ricorso agli studi di S. AGOSTI; ai fini della mia ricerca, interessa soprattutto, per la visione della poesia mallarmeana come vasta, ininterrotta allegoria della riflessione metaletteraria, Il Fauno di Mallarmé, Feltrinelli, Milano 1991 (soprattutto, per il “campo noètico della concettualità” e il “meta-discorso”, le pp. 41 e segg).
Mantiene meno di quanto promette nel titolo N. DI GIROLAMO, Cultura e coscienza critica nell’”Hérodiade” di Mallarmé, Pàtron, Bologna 1969, che si risolve in un minuzioso catalogo delle “fonti”, trascurando i risvolti metapoetici.
Imprescindibile viatico per affrontare il pensiero estetico mallarmeano è F. PISELLI, Mallarmé e l’estetica, Mursia, Milano 1969. Allo stesso Piselli si deve una provvidenziale, e pressoché integrale, traduzione italiana del corpus degli scritti critici mallarmeani : S. MALLARMÉ, Opere. Poemi in prosa e opera critica, Lerici, Milano 1963 (davvero illuminante la prefazione di M. LUZI, che segna, forse, l’ideale trait d’union tra critica simbolista e critica ermetica). Dello stesso Luzi, si segnala, per la simpatetica ed “ermetica” compartecipazione al testo (oltre che per l’identificazione, forse arbitraria, dello stesso Mallarmé con la figura di Erodiade), lo Studio su Mallarmé, Sansoni, Firenze 1952.
V., sempre per i risvolti metapoetici, L. ANCESCHI, Atmosfere di Mallarmé, in ID., Saggi di poetica e di poesia, Firenze 1942.
Perfetto esempio di lettura critica come “coincidence de deux consciences”, secondo il verbo della “nouvelle critique”, esercitata su di uno dei testi più ardui di tutta la poesia moderna, è G. POULET, La “Prose” di Mallarmé, in ID., Le metamorfosi del cerchio, Rizzoli, Milano 1971, pp. 399-418.
Densissimo e assai complesso, a tratti impenetrabile, l’approccio decostruzionista di J. DERRIDA, La doppia seduta, in ID., La disseminazione, a cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1989, pp. 199-300.
Su Wilde: Interessanti, sul piano documentario, le prime traduzioni di Intentions: quella, pionieristica, di R. PICCOLI (Fratelli Bocca, Torino 1906, con introduzione ancor oggi utile); quella di V. BONDOIS, Facchi, Milano 1920; quella francese di J. JOSEPH-RÉNAUD, Stock, Paris 1905, con introduzione anch’essa (di cui esiste una copia con annotazioni autografe di D’Annunzio).
Per la critica, sarebbero da recuperare, innanzitutto, due geniali e dimenticati scritti di G. A. BORGESE (un “critico creativo” che legge simpateticamente, pur se non senza riserve, un altro “critico creativo”): Oscar Wilde critico e giornalista, in “Il corriere della sera”, 19 novembre 1912; Oscar Wilde critico e giornalista, in “Studi di letterature moderne”, Treves, Milano 1915, pp. 175-183 (che riprende, con ampliamenti sostanziali, l’elzeviro appena citato).
Per il Wilde “critico militante”, v. M. D’AMICO, Oscar Wilde - il critico e le sue maschere, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1973. Dello stesso D’Amico, v. l’ Introduzione ad O. WILDE, Opere, Mondadori, Milano 1979; v. anche, sempre di D’Amico, Ultime di Oscar Wilde, in “Paragone”, 218 (1968).
Un interessante, anche se non completo, esame delle “fonti” della critica estetica wildiana è in V. REGGI, Oscar Wilde e il New Hellenism, in “Il lettore di provincia”, anno XXV (1994), fascicolo 89, pp. 37-49.
Imprescindibili gli studi di R. ELLMANN: Oscar Wilde - una biografia, Rizzoli, Milano 1991 (assolutamente sorda ai pettegolezzi e agli aneddoti frivoli, e attenta, semmai, a ricondurre l’esperienza esistenziale dell’autore alla sua autocoscienza letteraria); Oscar Wilde, ovvero il critico come artista, in “Tempo presente”, Anno XII (1967), numero 1, pp. 21-34. Lo stesso Ellmann ha scritto anche una prefazione a O. WILDE, The artist as Critic: critical writings of Oscar Wilde, London 1970.
V. anche G. FRANCI, Il sistema del dandy, Pàtron, Bologna 1977. Sul fenomeno del dandysmo, cfr. anche E. MOERS, Storia inimitabile del dandy, Rizzoli, Milano 1965; M. LEMAIRE, Le dandysme de Baudelaire à Mallarmé, Paris 1978.
Sempre della Franci, v. Leggendo Oscar Wilde: il dandy, il profeta, il critico antinomico, in ID., Porta di parole, Mucchi, Modena 1990.
Interessante F. BUFFONI, Un esteta tra critica e poetica, pref. a O. WILDE, Intenzioni e altri saggi, Rizzoli, Milano 1993, con bibliografia.
Su Conti: Fondamentale, innanzitutto, G. ZANETTI, Estetismo e modernità, Il Mulino, Bologna 1996, quasi un definitive work sull’argomento, anche se lo specifico problema del “critico come artista” vi è solo sfiorato, soprattutto alle pp. 146-150 (comunque in apertura di un paragrafo significativamente intitolato Lo sguardo moderno). Variamente utili anche S. GENTILI, Trionfo e crisi del modello dannunziano. “Il Marzocco” - Angelo Conti - Dino Campana, Nuovedizioni Vallecchi, Firenze 1981 (forse un po’ scolastico, ma che ha comunque il merito di contestualizzare il dannunzianesimo in una prospettiva protonovecentesca); P. ORVIETO, D’Annunzio o Croce. La critica in Italia dal 1900 al 1915, Salerno Editrice, Roma 1988 (prezioso per gli sparsi accenni, da me sviluppati nell’ Epilogo, all’eredità novecentesca della “critica estetizzante”); R. RICORDA, Dalla parte di Ariele. Angelo Conti nella cultura di fine secolo, Bulzoni, Roma 1993.
Per i rapporti con Pater, e per una sintetica rassegna antologica, v. R. Assunto e V. STELLA, L’assoluto della bellezza, in Grande Antologia Filosofica, vol. XXX, Marzorati, Milano, 1978.
Per la biografia, e per rapidi cenni sulla “fortuna” primonovecentesca, v. la “voce” di M. CARLINO, in Dizionario biografico degli italiani, vol. XXVIII, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1983, pp. 348-351.
La “voce” su Conti di G. BARBERI SQUAROTTI, in Grande dizionario Enciclopedico, vol. V, UTET, Torino 1986, pp. 619-20, coglie nel segno parlando, a proposito della critica contiana, pur se nel quadro di un giudizio negativo, di “immaginazione mobile e varia”, “suggestioni più verbali che concettuali”, “invenzioni sensuali”, “accensioni improvvise”
Di non grande interesse F. ROMBOLI, Gabriele D’Annunzio e Angelo Conti. Il poeta e l’estetismo, in “Filologia e critica”, anno XIV (1989), fasc. II, pp. 189-223, che sopravvaluta la componente mistica e “francescana” dell’esperienza di Conti.
Su D’Annunzio: utili indicazioni si annidano nelle lettere indirizzate ad altri “critici artisti”: v. ad esempio G. D’ANNUNZIO, Lettere ad Enrico Nencioni (1880-1896), a cura di R. Forcella, in “Nuova Antologia”, anno 74 (1939), fasc. 1611, pp. 3-31; ID., Lettere al “Dottor Mistico”, “Nuova Antologia”, anno XVII (1939), vol. CDI, pp. 10-32.
Nel volume D’Annunzio e il simbolismo europeo (Il Saggiatore, Milano 1976), che raccoglie gli atti di un convegno che impresse una vera svolta agli studi dannunziani, hanno particolare attinenza con l’argomento della mia trattazione le relazioni di E. RAIMONDI (D’Annunzio e il simbolismo europeo), L. ANCESCHI (D’Annunzio e il sistema dell’analogia), F. ULIVI (D’Annunzio e le arti), G. BARBERI SQUAROTTI (Il simbolo dell’”artifex”).
Imprescindibili gli studi raimondiani, raccolti in Il silenzio della Gorgone, Zanichelli, Bologna 1980, in cui è raccolto, insieme ad altri scritti, D’Annunzio, una vita come opera d’arte, già presente nella garzantiana Storia della letteratura italiana.
Illuminanti, per la “poetica della parola” - e, en passant, sul concetto di stile e i rapporti con Conti -, le osservazioni di L- ANCESCHI, Le poetiche del Novecento in Italia, Paravia, Torino 1973, pp. 85 e segg.
Per un tentativo di contestualizzazione del romanzo dannunziano in una prospettiva prenovecentesca, v. G. PULLINI, “Il Piacere” di D’Annunzio e l’autocoscienza critica, in Miscellanea di studi in onore di Marco Pecoraro, vol. II (Dal Tommaseo ai Contemporanei), Olschki, Firenze 1991, pp. 215-229; per la scrittura autobiografica come referto dell’autocoscienza letteraria, M. GUGLIELMINETTI, Il “Notturno”, un diario che si fa commentario, in AA. VV., Il testo autobiografico nel ‘900, Guerini, Milano 1993, pp. 201-9; per le modalità di un’esperienza vitale e sensuale che deve ineludibilmente tradursi e concretarsi in parola scritta, fondamentale N. LORENZINI, Il segno del corpo, Bulzoni, Roma 1984.
Molto interessante, per la funzione delle figure di ripetizione, del simbolo e dell’allegoria, fino al loro annullamento in una dimensione “tragica”, la dissertazione di M. A. BAZZOCCHI, Modelli narrativi del romanzo dannunziano (dalla ripetizione all’allegoria), discussa all’Università di Bologna nell’A. a. ’85/’86, relatore E. Raimondi.
Non vastissima, a dispetto di quanto ci si potrebbe aspettare, la bibliografia espressamente dedicata al D’Annunzio critico e teorico della critica. Utili indicazioni, anche per una contestualizzazione della “critica estetizzante” entro un più vasto àmbito europeo, offre ancora, al di là di qualche scoria crociana, il vecchio L. BIANCONI, D’Annunzio critico, Sansoni, Firenze 1940.
Fondamentale, e forse non adeguatamente sfruttato, lo studio di V. RODA, D’Annunzio critico e l’estetica del Taine, in “Atti della Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna - Classe di Scienze Morali”, vol. LIX (1970-1), pp. 98-146.
Buone indicazioni nei “cappelli” introduttivi di S. FUGAZZA in G. D’ANNUNZIO, Pagine sull’arte, Electa-Bruno Mondadori, Milano 1986; dello stesso Fugazza, si può consultare anche il volume Simbolismo, Arnoldo Mondadori Arte, ivi 1991.
Il pregevole studio di M. T. MARABINI MOEVS, Gabriele D’Annunzio e le estetiche della fine del secolo, Japadre, L’Aquila 1976, non dedica allo specifico problema del metodo critico che pochi cenni, alle pp. 101-2, 114-5 e 131-2 (in cui peraltro The Critic as Artist sembra essere erroneamente considerato come una delle “fonti” del Piacere, edito tre anni prima di Intentions).
Interessante, per alcuni rapidi ma illuminanti accenni al rapporto esistente tra le Note su Giorgione e il Fuoco, l’introduzione di A. M. MUTTERLE a G. D’ANNUNZIO, Il fuoco, Mondadori, Milano 1992, pp. V-XXXI (con bibliografia e antologia della critica).
Per il D’Annunzio “divulgatore” ed “esteta per l’informazione” - immagine, questa, che peraltro rischia di occultare l’importanza della componente teorica e metaletteraria della sua opera - v. l’introduzione di A. ANDREOLI a G. D’ANNUNZIO, Scritti giornalistici, vol. I (1882-1888), Mondadori, Milano 1996.
Preziosissimo, per l’inquadramento storico-culturale delle riviste dell’estetismo fiorentino e la raccolta di testi inediti o sparsi, G. OLIVA, I nobili spiriti, Minerva Italica, Bergamo 1979; anche in questo studio, tuttavia, il problema del metodo critico viene toccato solo di sfuggita, e viene sottovalutata la forte componente antidesanctisiana delle Note di D’Annunzio.
Sempre per l’inquadramento del contesto storico-culturale che vide la graduale evoluzione degli studi letterari dalla crisi dell’eruditismo positivista alla nascita del “saper leggere”, utile, anche per la rassegna antologica, R. LUPERINI, La crisi del positivismo, la critica letteraria, le riviste giovanili, in La letteratura italiana. Storia e testi, vol. IX, t. I, Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 3-60 (la critica degli esteti vi viene peraltro liquidata come “generico dilettantismo estetizzante”, anche se è giustamente còlta la valenza anticipatrice della critica luciniana).
V. anche G. GULLACE, D’Annunzio teorico dell’arte e della critica, in “D’Annunzio”, “Annali d’Italianistica”, vol. V (1987), pp. 21-42 (diligente rassegna di testi e testimonianze, con qualche interessante ancorché isolato raffronto con l’estetica di Baudelaire e Pater). Nello stesso numero, v. anche gli interventi di V. RODA, Appunti sulla costruzione del personaggio dannunziano, e N. LORENZINI, La divina statua mobile. Per un’esegesi del “Fuoco”.
Altra varia e utilissima rassegna di contributi, spesso da me citati nel corso della trattazione, in Ego sum Gabriel, in “Il Verri”, settima serie (1985), nn. 5-6 e 7-8 (specificamente dedicati alla critica, rispettivamente di D’Annunzio e di Conti, i contributi di A. M. MUTTERLE, La “mano casta e robusta”: interpretazione di un luogo di Maia, e G. ZANETTI, Conti, D’Annunzio e l’”improvviso”).
Per la figura di Acri, cfr. P. TREVES, Tradizione classica e rinnovamento della storiografia, Ricciardi, Milano-Napoli 1992.
Utile, per i commenti, l’edizione G. D’ANNUNZIO, Alcyone, a c. di P. Gibellini, prefazione e note di I. Caliaro, Einaudi, Torino 1995 (mi sono avvalso soprattutto del commento a Il Fanciullo, pp. 28 e segg).
Feconda, e a suo modo, pur se e contrario, illuminante, l’incomprensione crociana: B. CROCE, L’ultimo D’Annunzio (1935), in La letteratura della Nuova Italia, vol. VI, Laterza, Roma-Bari 1945, pp. 247-261; analogo discorso per i giudizi sul Conti critico e teorico, ad esempio Angelo Conti e altri estetizzanti, in La letteratura della Nuova Italia, vol. VI, cit., pp. 184-200.
Su Lucini: per una lettura della Ragion poetica, difficilissima da reperire nell’edizione originale, è utile l’antologia, peraltro discussa, G. P. LUCINI, Il Verso Libero-Proposta, a cura e con introduzione di M. Bruscia, Argalia, Urbino 1971.
Della dissertazione di A. BERTONI, Lucini e il simbolismo, discussa all’Università di Bologna nell’A. a. 1977/’78, relatore E. Raimondi, possono avere attinenza con la mia tesi soprattutto le pp. 269-312 e 310-12 (in cui viene còlta molto acutamente la paradossale affinità di fondo esistente tra l’aspirazione luciniana ad una critica che fosse anche “genialità creativa” e le teorizzazioni sviluppate, pochi anni prima, nel Giorgione di Conti e nelle Note di D’Annunzio).
Per la “poetica della parola”, v. ancora L. ANCESCHI, Le poetiche del Novecento, cit., pp. 136 e segg.; per quanto attiene allo specifico aspetto della genesi del verso libero, v. A. BERTONI, Dai simbolisti al novecento, Il Mulino, Bologna 1995, pp. 95-173.
Fondamentale F. CURI, Per uno straniamento di Lucini, in “Il Verri”, n. 33/34, quarta serie, ottobre 1970 (numero monografico su Lucini e il futurismo), pp. 199-248. Sullo specifico aspetto del retaggio culturale del Lucini critico, v., nello stesso numero, il breve ma denso contributo di G. BEZZOLA, Pagine del Lucini su Foscolo, pp. 311-316.
Pianamente informativa la “voce” di E. VILLA nella seconda edizione del Dizionario critico della letteratura italiana, vol. II, UTET, Torino 1986, pp. 637-641.
Sulla “critica integrale”, v. R. BALDASSARI, Carlo Dossi nella critica di Gian Pietro Lucini, in “Il Ponte”, 30, 1974; utile, della stessa, Lucini, La Nuova Italia, Firenze 1974 (con preziosa bibliografia ragionata, quasi una storia della fortuna o sfortuna critica).
Sul “saper leggere” novecentesco, nel senso più lato, cui si è variamente accennato alla fine del terzo capitolo e nell’ Epilogo, non posso dare che qualche sparsa indicazione: E. RAIMONDI, D’Annunzio, Serra e il Novecento, in ID., Il silenzio della Gòrgone, Zanichelli, Bologna 1980, pp. 3-41; ID., Il lettore di provincia. Renato Serra, Le Monnier, Firenze 1964; ancora su Serra, le riflessioni di F. CURI in Parodia e utopia, cit.; R. SCRIVANO, Borgese critico, in Letteratura italiana. I critici, vol. III, Marzorati, Milano 1969, pp. 2243-2265; A. CAVALLI PASINI, L’unità della letteratura. Borgese critico scrittore, Pàtron, Bologna 1994 (soprattutto le pp. 31-50, per il contrastato rapporto con Serra e la concezione dell’ artifex oppositus artifici); F. DEL BECCARO, Giuseppe De Robertis, in Letteratura italiana. I critici, cit., pp. 2329-2357 (parla di un “saper leggere” come catena di “‘chimismi lirici’ ad uso della critica”). Ancora su De Robertis, v. L. ANCESCHI, in “Letteratura”, n. 18, 1941.
- Citation du texte
- Matteo Veronesi (Auteur), 1998, Artifex additus artifici. Creazione poetica e riflessione critica tra simbolismo ed estetismo, Munich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/444995
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