Melanocytic tumours are frequent in dogs and the prognosis is based on the classical histological hallmarks of malignancy and proliferative activity. A further prognostic feature is the anatomical site, with oral, nailbed and mucocutaneous tumours being more aggressive than cutaneous and ocular ones; the reason of these differences are still unclear. Little is known about the the biology af canine melanoma.
CD117/KIT is a receptor probably involved in canine melanocytic neoplasia. This protein is the product of c-kit gene and is a tyrosine kinase receptor known to be important in the development of several cell types, including melanocytes. It is also involved in the pathogenesis of some tumours, including GIST (gastro-intestinal stromal tumours), derived from interstitial cells of Cajal, and mast cell proliferative disease in men and animals. In these tumours, evaluation of KIT expression is useful for diagnostic and prognostic purposes. Furthermore, identification of specific c-kit mutations is becoming a promising substrate for novel therapeutic approaches.
CD117/KIT is involved in proliferation, survival, migration and differentiation of melanoblasts and its role in human melanocytic tumours is still debated. Indeed former studies have demonstrated a loss of KIT expression during tumour progression, while recent ones identified several mutations of c-kit gene in distinct anatomical subtypes, associated with increased CD117 immunoreactivity.
Aim of this thesis is to review biologic and molecular characteristics of canine melanocytic tumours and to evaluate, by immunohistochemistry, KIT expression in canine melanomas from different anatomical sites.
For this purpose, a series of 66 malignant melanocytic tumors from different body sites has been selected and stained with an immunohistochemical protocol using anti-CD117/KIT antibody.
Immunoreactivity was detected in 42 samples (63,6%), being equally represented in cutaneous (71,4%), mucocutaneous (77,8%) and oral (65%) tumor, and less commonly in nailbed (57,1%), metastatic (33%) and ocular (33%) tumors; interstinglly, among positive tumors, oral ones showed the highest percentage of high grade immunoreactivity.
In a perspective scenario, this data could suggest the potential role of KIT overexpression in the pathogenesis of canine melanoma, and suggest the use of specific tyrosine-kinase inhibitors. Further studies are needed to confirm such an hypothesis.
Indice
Sommario
Summary
Introduzione e Scopo
I Parte: Stato dell'arte dei disordini melanocitari
1. Biologia dei melanociti
2. Tumori melanocitari nel cane
3. Il recettore CD117/KIT
3.1. Struttura e funzioni
3.2. Espressione del KIT in condizioni fisiologiche e patologiche
3.3. Mutazioni del KIT nei tessuti neoplastici
3.4. Potenziale utilizzo di farmaci inibitori del KIT
4. Patogenesi molecolare del melanoma
4.1. Apoptosi e melanoma
4.2. Ruolo del KIT nei disordini melanocitari
II Parte: Osservazioni personali
5. Materiali e metodi
6. Risultati
7. Discussione e Conclusioni
Indice analitico degli acronimi e delle abbreviazioni
Sezione iconografica
Bibliografia
Sommario
I tumori melanocitari sono frequenti nel cane e la prognosi è basata sulle classiche caratteristiche istologiche di atipia e attività proliferativa. Un ulteriore fattore prognostico è la localizzazione anatomica, con una maggiore aggressività da parte dei tumori del cavo orale, del letto ungueale e delle giunzioni muco cutanee rispetto ai melanomi cutanei o oculari; la ragione di queste differenze nel comportamento non è ancora chiara. La biologia del melanoma del cane è scarsamente conosciuta.
Il CD117-KIT, è un recettore probabilmente coinvolto nelle neoplasie melanocitarie. Questa proteina è il prodotto del gene c-kit ed è un recettore ad attività tirosina chinasica correlato allo sviluppo di diversi tipi cellulari, tra cui i melanociti. Esso è anche implicato nella patogenesi di alcuni tumori, inclusi i GIST (Gastro Intestinal Stromal Tumors), derivati dalle cellule interstiziali di Cajal, e nelle malattie proliferative dei mastociti dell’uomo e degli animali. In questi tumori, la valutazione dell’espressione del KIT si è dimostrata utile sia ai fini diagnostici che prognostici. Inoltre l’identificazione di specifiche mutazioni del gene c-kit sta divenendo un riferimento per nuovi approcci terapeutici.
Il CD117-KIT è un fattore implicato nella proliferazione, sopravvivenza, migrazione e differenziazione dei melanoblasti e il suo ruolo nello sviluppo dei tumori melanocitari umani è ancora dibattuto. Sebbene infatti in alcuni studi sia stata dimostrata la perdita di espressione del KIT con la progressione del tumore, in ricerche successive sono state dimostrate diverse mutazioni del gene c-kit in sottotipi anatomici distinti di melanoma, associate con un aumento dell’espressione del CD117.
Lo scopo di questa tesi è stato di riepilogare le caratteristiche biologiche e molecolari dei tumori melanocitari del cane e di valutare, tramite indagini immunoistochimiche, l’espressione del KIT nei melanomi di cani insorti in diverse sedi anatomiche.
Con queste finalità, sono stati selezionati dall’archivio del Dipartimento di Scienze Biopatologiche ed Igiene delle Produzioni Animali ed Alimenteri 66 tumori melanocitari maligni provenineti da diverse sedi anatomiche. I tessuti sono stati sottoposti ad indagine immunoistochimica con l’utilizzo di anticorpi anti-CD117/KIT.
L’espressione del recettore è stata riscontrata in 42 campioni (63,6%) con percentuali di positività simili nei tumori cutanei (71,4%), mucocutanei (77,8%) e orali (65%), mentre è di riscontro meno frequente nei tumori del letto ungueale (57,1%), metastatici (33%) e oculari (33%). È interessante notare come tra i tumori positivi, quelli orali abbiano mostrato la più alta percentuale di campioni ad elevato grado di positività.
In uno scenario prospettico, questi dati possono indicare un ruolo potenziale della sovraespressione del KIT nella patogenesi del melanoma nel cane, suggerendo l’uso di inibitori specifici delle tirosina-chinasi. Per confermare tale ipotesi sono tuttavia richiesti ulteriori studi.
Summary
Melanocytic tumours are frequent in dogs and the prognosis is based on the classical histological hallmarks of malignancy and proliferative activity. A further prognostic feature is the anatomical site, with oral, nailbed and mucocutaneous tumours being more aggressive than cutaneous and ocular ones; the reason of these differences are still unclear. Little is known about the the biology af canine melanoma.
CD117/KIT is a receptor probably involved in canine melanocytic neoplasia. This protein is the product of c-kit gene and is a tyrosine kinase receptor known to be important in the development of several cell types, including melanocytes. It is also involved in the pathogenesis of some tumours, including GIST (gastro-intestinal stromal tumours), derived from interstitial cells of Cajal, and mast cell proliferative disease in men and animals. In these tumours, evaluation of KIT expression is useful for diagnostic and prognostic purposes. Furthermore, identification of specific c-kit mutations is becoming a promising substrate for novel therapeutic approaches.
CD117/KIT is involved in proliferation, survival, migration and differentiation of melanoblasts and its role in human melanocytic tumours is still debated. Indeed former studies have demonstrated a loss of KIT expression during tumour progression, while recent ones identified several mutations of c-kit gene in distinct anatomical subtypes, associated with increased CD117 immunoreactivity.
Aim of this thesis is to review biologic and molecular characteristics of canine melanocytic tumours and to evaluate, by immunohistochemistry, KIT expression in canine melanomas from different anatomical sites.
For this purpose, a series of 66 malignant melanocytic tumors from different body sites has been selected from the archives of the Deparment of Biopathological Sciences and Hygiene of Animal and Food Productions of the Faculty of Veterinary Medicine of the University of Perugia, and stained with an immunohistochemical protocol using anti-CD117/KIT antibody.
Immunoreactivity was detected in 42 samples (63,6%), being equally represented in cutaneous (71,4%), mucocutaneous (77,8%) and oral (65%) tumor, and less commonly in nailbed (57,1%), metastatic (33%) and ocular (33%) tumors; interstinglly, among positive tumors, oral ones showed the highest percentage of high grade immunoreactivity.
In a perspective scenario, this data could suggest the potential role of KIT overexpression in the pathogenesis of canine melanoma, and suggest the use of specific tyrosine-kinase inhibitors. Further studies are needed to confirm such an hypothesis.
Introduzione e Scopo
Il melanoma costituisce per il cane una neoplasia di frequente riscontro e dal comportamento maligno ed aggressivo. In particolare le forme che insorgono nel cavo orale, nelle giunzioni mucocutanee e nel letto ungueale sono caratterizzate da un comportamento biologico estremamente maligno, con prognosi per lo più infausta a causa della elevata tendenza a formare metastasi. L’escissione chirurgica rappresenta la terapia di elezione per il melanoma, tuttavia la possibilità di asportare radicalmente il tessuto neoplastico talvolta è limitata. In particolare alcune forme, come il melanoma orale, frequentemente, già al momento della diagnosi, presentano delle micrometastasi. Per tali motivi sono in corso e sono stati effettuati molti studi al fine di identificare potenziali trattamenti adiuvanti.
Tra queste terapie, oltre alla classica chemioterapia antiblastica, sono in fase di sperimentazione protocolli immunologici, mentre è ancora in fase di studio l’applicazione di farmaci “a bersaglio molecolare”, che possano agire bloccando le vie metaboliche necessarie allo sviluppo, crescita, invasione e metastatizzazione del tumore.
I principali studi effettuati a livello molecolare per comprendere i meccanismi patogenetici del melanoma sono stati realizzati al fine di individuare potenziali bersagli terapeutici da utilizzare in medicina umana. Tra questi sta assumendo un’attenzione crescente un recettore cellulare coinvolto in diversi aspetti dello sviluppo melanocitario, dall’embriogenesi, alla migrazione, sviluppo e differenziazione dei melanociti, il CD117 o KIT. Questo recettore può essere sovraespresso nei melanomi in seguito a mutazione o amplificazione del gene che lo codifica; in entrambi i casi l’attivazione delle vie metaboliche innescate dal KIT gioca un ruolo importante, sebbene ancora non totalmente compreso, nello sviluppo e progressione del melanoma. Il blocco di questo recettore mediante specifici farmaci (inibitori delle protein-chinasi) rappresenta quindi un possibile approccio terapeutico per le neoplasie in cui si verifica questa sovraespressione. Tuttavia non tutti i melanomi esprimono il KIT, e nell’uomo sono state individuate delle differenze patogenetiche tra diversi sottogruppi di melanoma. Al fine di individuare le neoplasie che esprimono il KIT, potenzialmente trattabili con farmaci antagonisti specifici, la valutazione immunoistochimica dell’espressione della proteina rappresenta un punto di partenza fondamentale.
Nonostante il melanoma sia un tumore comune anche nel cane, pochi studi hanno indagato la sua patogenesi a livello molecolare in tale specie e, in particolare, il ruolo del KIT nel melanoma del cane non è ancora definito.
Lo scopo della presente Tesi di Dottorato è indagare l’espressione immunoistochimica del KIT nel melanoma del cane al fine di stabilire l’applicabilità di questa tecnica e gettare le basi per la valutazione di possibili correlazioni tra l’espressione del KIT, il sottotipo tumorale, la prognosi e, infine, l’applicabilità nel cane delle terapie a bersaglio molecolare già utilizzate in medicina umana.
I parte stato dell’arte dei disordini melanocitari
1. Biologia dei melanociti
I melanociti sono gli elementi responsabili della pigmentazione di cute ed annessi e dell’iride e contribuiscono alla protezione dal danno derivante dalle radiazioni ultraviolette.
I melanociti maturi che si trovano nei tessuti differenziati dei vertebrati sono una popolazione di cellule di forma dendritica di origine neuro ectodermica che originano a partire dai melanoblasti, i quali durante lo sviluppo fetale migrano dalle creste neurali alle loro sedi definitive.[1,2]
Anatomicamente i melanociti possono essere individuati nella cute, nelle mucose, nell’occhio (uvea ed epitelio pigmentato della retina), nell’orecchio (stria vascularis) e nel sistema nervoso centrale (leptomeningi). Nella cute i melanociti si distribuiscono soprattutto nello strato basale dell’epidermide e nei bulbi piliferi; alcuni melanoblasti possono rimanere nel derma e maturare come melanociti dermici. [1,2]
I melanociti epidermici sono in stretto contatto con i cheratinociti tramite i processi dendritici citoplasmatici, attraverso i quali trasferiscono la melanina da essi prodotta, provvedendo così alla pigmentazione della cute e dei peli.
La sintesi della melanina avviene all’interno di organelli citoplasmatici detti melanosomi. Il processo di sintesi è confinato a queste strutture a motivo del danno ossidativo potenziale derivato dai prodotti intermedi della sintesi, come il perossido di idrogeno, i radicali idrossilici e composti chinonici reattivi.[1]
In base a questo meccanismo fisiologico, i melanociti non accumulano melanina al loro interno; in condizioni particolari i melanociti maturi, soprattutto se iperplastici, possono essere individuati istologicamente per la presenza nel citoplasma dei melanosomi, identificabili come granuli di melanina finemente dispersa. Al contrario i melanofagi, istiociti fagocitanti melanina, contengono tale sostanza in granuli e grandi globuli di dimensioni variabili, e possono essere agevolmente differenziati dai melanociti.[3,4]
I granuli di melanina possono essere di colore variabile dal bruno-nerastro al rosso-giallastro a seconda della composizione chimica del contenuto. Esistono infatti due tipi di pigmento che, combinati in rapporto variabile, concorrono a formare la melanina: la eumelanina e la feomelanina. Entrambe hanno come precursore la tirosina, che viene idrossilata a L-DOPA (3,4-diidrossi-l-fenilalanina) e convertita dalla tirosinasi (o diidrossifenilalanina ossidasi) in dopachinone. Da qui le vie biosintetiche divergono: in assenza di composti tiolici si forma dopacromo, convertito spontaneamente in DHI (5,6-diidrossindolo) o, grazie all’enzima dopacromo tautomerasi (detto anche Tyrosinase Related Protein 2 / TRP-2), in DHIA (acido 5,6-diidrossindolo-2-carbossilico). Si forma infine da questi composti il 5,6-indolochinone, che, polimerizzando, costituisce la eumelanina, di colore bruno-nerastro. In presenza di cisteina o glutatione viene invece formato cisteinil-DOPA, da cui derivano i pigmenti feomelanici di colore rosso-giallastro, quali la feomelanina propriamente detta e i tricocromi, solubili negli acidi. Le feomelanine sono maggiormente fotolabili e tra i loro sottoprodotti possono formarsi agenti ossidanti in grado di danneggiare il DNA.[1,2]
Ogni melanocita sintetizza entrambe le forme di melanina e il rapporto tra le due è determinato dall’espressione enzimatica e dal contenuto di agenti riducenti con gruppi sulfidrilici all’interno delle cellule.
Il fenotipo pigmentario dipende, oltre che dal rapporto tra i tipi di melanina prodotta, dal numero e distribuzione dei melanosomi, mentre la quantità di melanociti in individui sani è più o meno costante. [1]
Ogni melanocita, attraverso i prolungamenti dendritici, prende contatto con i cheratinociti adiacenti, mediamente 30-40 nell’uomo e 10-20 nel cane. Negli individui dal fenotipo più scuro i melanosomi trasferiti ai cheratinociti sono più grandi e numerosi; le dimensioni maggiori ne ritardano la fisiologica degradazione lisosomiale e da ciò deriva il maggior grado di pigmentazione.
La regolazione del tipo e grado di pigmentazione dipende da numerosi fattori, sia genetici che ambientali. Uno dei fattori genetici più importante e studiato è l’interazione tra il recettore della melanocortina 1 (MC1R/ melanocortin 1 receptor) e la Agouti Signal Protein (ASP).[1]
Il recettore della melanocortina 1 è una proteina G trans-membranaria, la cui attivazione determina la produzione di AMP ciclico e, attraverso una cascata enzimatica, la produzione di eumelanina.
I principali agonisti dell’MC1R sono l’ormone stimolante i melanociti alfa (a-MSH/ alfa Melanocyte Stimulating Hormon) e l’ormone adrenocorticotropo (ACTH), entrambi derivati dalla pro-opiomelanocortina (POMC), secreta dalla pars intermedia dell’ipofisi. Nei vertebrati superiori gli ormoni di origine pituitaria hanno un ruolo di secondo piano rispetto all’a-MSH prodotto dai cheratinociti e dai melanociti stessi. [1,2].
Al contrario la ASP, comportandosi da antagonista competitivo dell’a-MSH, determina la produzione di feomelanina. [1]
Tra i fattori ambientali in grado di influenzare la melanogenesi sicuramente il più importante è l’azione dei raggi ultravioletti (UV). La pigmentazione può essere indotta da queste radiazioni in vario modo: la frammentazione del DNA ad opera delle radiazioni potrebbe stimolare la produzione melanica tramite le piccole catene nucleotidiche derivate che stimolerebbero la formazione di messaggeri attivanti, come le proteine p53, p21 o PCNA (antigene nucleare delle cellule proliferanti).[1,2]
La sintesi melanocitaria può venire inoltre stimolata dai cheratinociti irradiati tramite il rilascio di sostanze ad azione paracrina, quali b-FGF ( b Fibroblast Growth Factor / fattore di crescita dei fibroblasti beta), endotelina 1, a-MSH, ossido nitrico e SCF (Stem Cell Factor / fattore di crescita delle cellule staminali); quest’ultimo rappresenta il ligando del recettore KIT (detto infatti anche SCF Receptor).[1]
Grazie ai processi descritti la cute, principale barriera verso l’ambiente esterno, viene protetta dall’azione di radiazioni attiniche che altrimenti potrebbero indurre danni locali o neoplasie. La melanina nei cheratinociti tende a distribuirsi in sede sopranucleare formando una sorta di cappello. La protezione del DNA deriva dalle proprietà fisico-chimiche del composto polichinonico di cui è formata la melanina, che è in grado di assorbire direttamente i fotoni ultravioletti, facilitando il passaggio degli elettroni eccitati a un livello energetico inferiore, evitando così la formazione di fotoprodotti dannosi, come i dimeri di pirimidina. La melanina può inoltre partecipare a reazioni di ossido-riduzione neutralizzando gli elettroni spaiati delle specie reattive dell’ossigeno, prodotte dall’interazione dei raggi ultravioletti con le membrane lipidiche e con altri cromofori cellulari.[1]
L’importanza delle funzioni dei melanociti è dimostrata dagli effetti deleteri che si osservano nelle patologie che colpiscono queste cellule, come nei disordini melanocitari pigmentari e nel melanoma.
I disordini della pigmentazione melanica possono derivare da un difetto a livello di una qualsiasi delle tappe del processo brevemente descritto, dalla migrazione dei melanoblasti dalle creste neurali alla formazione, maturazione o trasferimento dei melanosomi.
La prima di queste tappe, la migrazione dei melanoblasti, è regolata da vari geni, tra i quali PAX3 (Paired-box 3), SOX10 (S ex-determining region Y -box 10), MITF (microphtalmia-associated transcription factor / fattore di trascrizione della microftalmia), endotelina 3 e recettore B dell’endotelina (EDNRB). MITF è un fattore di trascrizione della famiglia Myc con dominio bHLH-LZ (basic helix-loop-helix/leucine zipper) che si lega a sequenze enhancer-box stimolando l’espressione di geni che innescano la proliferazione cellulare; esso rappresenta un proto-oncogene la cui attivazione incontrollata può portare allo sviluppo di neoplasie.[2]
La deficienza del MITF si traduce fenotipicamente con l’assenza di melanociti; tale fattore è quindi essenziale per la sopravvivenza, proliferazione e differenziazione di questa linea cellulare.
Tra i fattori prodotti a seguito della stimolazione del MITF c’è l’inibitore dell’apoptosi Bcl-2 (B cell leukemia/lymphoma 2 =leucemia/linfoma a cellule B 2), il regolatore del ciclo cellulare CDK2 (Cyclin-Dependent Kinase 2 / chinasi ciclina dipendente 2) e le proteine p16 e p21. Oltre a questi fattori di sopravvivenza il MITF regola l’espressione di alcuni geni correlati alla pigmentazione, alcuni dei quali codificano per proteine con epitopi di notevole importanza diagnostica, come HMB-45 (Human Melanoma Black, codificato dal gene gp100) e Melan-A (melanoma-associated antigen / antigene melanoma-associato), conosciuto anche come MART1 (Melanoma Antigen Recognized by T-cells / antigene del melanoma riconosciuto dalle cellule T). [2]
Un altro fattore implicato nella proliferazione, sopravvivenza, migrazione e differenziazione dei melanoblasti è il recettore CD117, detto anche KIT.
Tale recettore è codificato dal gene c-kit e agisce come una tirosina chinasi.
La sua attivazione avviene tramite interazione con lo specifico ligando del KIT (KIT Ligand, KL o KIT-L), meglio conosciuto come SCF; dopo il riconoscimento del ligando da parte della porzione recettoriale si verifica una dimerizzazione della porzione citoplasmatica catalitica che ne attiva la funzione chinasica; il proenzima attivato determina fosforilazione dei residui di tirosina in diverse proteine citoplasmatiche, e porta all’attivazione della proteina Ras e a modificazioni post-traduzionali del MITF.
L’importanza del KIT nella migrazione dei melanociti è dimostrata in alcune malattie genetiche dell’uomo, in particolare il piebaldismo, una condizione caratterizzata dalla presenza di aree di cute depigmentata per lo più localizzate lungo la linea mediana. In questa malattia è stata individuata una mutazione inattivante del c-kit che impedisce la migrazione dei melanociti dalle creste neurali ai siti più distanti. [2]
Ulteriori prove sperimentali circa il ruolo di KIT nella melanogenesi sono state ottenute tramite il suo blocco funzionale con anticorpi monoclonali specifici iniettati in utero; si sono così individuate distinte fasi Kit dipendenti e indipendenti nello sviluppo melanocitario.[3]
Oltre la migrazione, anche la sopravvivenza e proliferazione dei melanociti è regolata dal KIT; in sua assenza le cellule sensibili vanno incontro ad apoptosi, mentre una sua stimolazione induce proliferazione melanocitaria, anche in concomitanza di fattori sinergici; ad esempio, si può osservare la proliferazione melanocitaria in presenza di bassi livelli di FGF, ma non nel caso in cui questo sia assente o presente ad alti livelli.[1,2]
Anche la differenziazione melanocitaria è guidata dal KIT in associazione con altri fattori, in particolare endotelina 3. Da studi sperimentali effettuati sia in vitro che in vivo, melanoblasti con mutazioni attivanti il KIT possedevano una maggiore capacità di migrazione, associata ad un minor grado di differenziazione, testimoniata da un minore contenuto di melanina, tirosinasi e MITF, oltre che da una morfologia cellulare fusata e una riduzione dei processi dendritici.[1,2]
In linee cellulari derivate da melanociti umani non neoplastici è stato osservato un aumento dell’attività della tirosinasi (DOPA ossidasi) in seguito all’esposizione a aMSH o a SCF, il ligando del KIT. Tuttavia l’espressione proteica dell’enzima non variava nelle cellule stimolate rispetto alle cellule controllo, suggerendo che il KIT stimolerebbe la melanogenesi mediante una modulazione dell’attività della tirosinasi (per esempio attraverso fosforilazione) piuttosto che tramite induzione dell’espressione enzimatica. [4]
2.Tumori melanocitari nel cane
In passato sono stati utilizzati diversi sistemi di classificazione per le proliferazioni melanocitarie, anche attraverso l’uso del termine melanoma per designare indifferentemente le proliferazioni benigne e maligne.[5,6,7].
Attualmente, in accordo con la classificazione della World Health Organization, il melanoma è definito come un tumore maligno di origine melanocitaria, la cui controparte benigna viene indicata con il termine di melanocitoma. [5]
Nella specie umana, inoltre, viene usato il termine “nevo”, con cui si definisce un’alterazione di natura iperplastica disontogenetica circoscritta e dotata di fissità e stabilità, mentre nell’uso comune il termine è utilizzato per indicare qualsiasi lesione cutanea benigna pigmentata. Le cellule che costituiscono i nevi melanocitari dell’uomo (cellule neviche) sono melanociti con lievi alterazioni istopatologiche e biochimiche (aspetto epitelioide, assenza di dendriti, tendenza ad aggregarsi per riduzione della inibizione da contatto).[6,7]
Nella specie umana il melanoma cutaneo deriva spesso dalla trasformazione di proliferazioni melanocitarie benigne preesistenti, indotta dalle radiazioni ultraviolette. La patogenesi del melanoma cutaneo nel cane non è ben compresa; la progressione da melanocitoma a melanoma, sebbene riportata, non sembra rappresentare un evento preponderante, e non è stata comunque associata alle radiazioni ultraviolette.[6]
Tra gli animali d’affezione il melanoma è più frequente nel cane rispetto al gatto.[5,6,7,8,9]
Nel cane, in particolare, il melanoma rappresenterebbe il 3% di tutte le neoplasie e il 7% di tutti i tumori maligni. Negli animali domestici le proliferazioni melanocitarie derivano più frequentemente dai melanociti della cute e delle mucose, mentre più rara è la sede di insorgenza oculare; ad esempio nel cane il 98% dei melanomi sono mucosali o cutanei e solo il 2% insorgono in altre sedi, compreso il bulbo oculare. La sede di insorgenza più frequente del melanoma canino è la cavità orale (56% del totale, figura 1); in questa sede è la neoplasia maligna di più comune riscontro ed è localizzata più frequente nelle gengive, costituendo il 33% dei tumori maligni in questa sede. Le altre sedi di insorgenza in ordine di frequenza sono la giunzione muco-cutanea orale (23% dei melanomi), la cute (11%, figura 2) e le dita (8%). Le regioni anatomiche in cui insorgono più frequentemente i melanomi cutanei sono lo scroto e la testa. [5,6,7,8,9,10,11,12,13,14]
I tumori sono quindi rappresentare più del 6-10% delle neoplasie della cute.
Gli studi epidemiologici effettuati in medicina veterinaria forniscono dati discordanti circa la percentuale di forme maligne in rapporto alla totalità dei tumori melanocitari cutanei del cane, che sarebbero comprese tra il 5% e il 33%; il melanoma costituirebbe quindi fino al 2% dei tumori cutanei.[ 5,6,7,8,9]
In questa specie nel letto ungueale il melanoma rappresenta la seconda neoplasia più frequente dopo il carcinoma squamoso (figura 3).[ 5,6,7,8,9]
I tumori di origine melanocitaria sono le più frequenti neoplasie intraoculari del cane (figura 4), con un rapporto melanocitoma (più spesso uveale anteriore) e melanoma di 4/1[10,12,13].
La sede di insorgenza è importante ai fini prognostici, con i tumori melanocitari del letto ungueale, delle mucose e delle giunzioni muco-cutanee considerati generalmente maligni (figura 5). Diversamente le lesioni della cute, anche delle labbra e delle dita come quelle della palpebra risultano spesso benigne.[5,6,7,8,9,14]
Anche nell’occhio la sede di insorgenza ha una sua importanza prognostica: i tumori melanocitari epibulbari insorgono sulla giunzione sclero corneale e sono benigni, mentre i rari melanomi ad insorgenza congiuntivale sono solitamente maligni; in sede intrabulbare, come già detto, i tumori melanocitari sono più frequentemente benigni.[10,11,12,13]
I melanomi possono essere osservati soprattutto negli animali più anziani, in cani dai 9 agli 11 anni; tuttavia è possibile che insorgano in animali anche più giovani dei 2 anni. [6,7,8,9,12,14]
In letteratura scientifica è descritta la predisposizione di molte razze di cani, tra cui Schnauzer, Scottish, Airedale e Boston Terrier, Dobermann Pinscher, Vizla, Golden Retriever, Chow Chow, Boxer, Cocker e Springer Spaniel, Setter Irlandese, Pastore tedesco, Chihuahua, risultando particolarmente predisposti i soggetti con cute e mucose fortemente pigmentate. [6,7,8,9,12,14]
Sebbene non confermata da un numero rilevante di studi epidemiologici, viene riportata una certa predisposizione dei maschi rispetto alle femmine. [6,7,8,9,12,14]
All’esame clinico i melanomi possono essere individuati come formazioni che possono andare da pochi millimetri a diversi centimetri di diametro, solitamente sessili ma a volte peduncolate, di colore solitamente grigio-brunastro o nero, a volte rossastro. Le ulcerazioni sono comuni soprattutto nelle neoplasie di dimensioni maggiori.[5,6,7,8,9]
I melanomi del cavo orale, rapidamente invasivi, spesso si associano a disfagia, alitosi, ptialismo, sanguinamento e, occasionalmente, frattura della mandibola.[8,9,14]
I melanomi che insorgono nel letto ungueale spesso non sono facilmente visibili all’esterno e gli unici segni prodotti dalla neoplasia sono rappresentati da paronichia, deformità ungueali, onicomadesi e zoppia. Nel 5% dei casi, all’esame radiografico può risultare evidente la lisi della terza falange, analogamente a quanto si osserva, ben più comunemente (all’incirca nell’80% dei casi), nel carcinoma squamoso sub-ungueale.[5,6,7,8,9]
Nell’occhio il melanoma può comparire raramente a livello congiuntivale, spesso originando dalla membrana nittitante, come neoformazione nodulare singola o multipla, frequentemente non pigmentata, che deforma il sacco congiuntivale. I tumori melanocitari che insorgono nella giunzione sclero corneale sono invece costantemente benigni e appaiono come noduli ben pigmentati, analogamente al melanocitoma della coroide. Quest’ultimo, come gli altri tumori melanocitari intrabulbari (melanocitoma e melanoma uveale anteriore), può determinare distacco della retina e glaucoma secondario. Il melanoma intraoculare nel cane raramente metastatizza. Una condizione simile al melanocitoma uveale anteriore, caratterizzata da proliferazione diffusa di melanociti che coinvolge la coroide, è la melanosi uveale diffusa. Tale rara lesione è tipica del Cairn Terrier, in cui si presenta in forma bilaterale, mentre ha insorgenza monolaterale nei soggetti di altre razze. La lesione è causa di glaucoma secondario e si rendono clinicamente evidenti ispessimento dell’iride, pupilla di forma irregolare, cecità e dolore oculare e altri sintomi secondari che vanno da cheratite, ifema e edema corneale a uveite, ipopion, glaucoma e distacco retinico.[10,11,12,13]
Il melanoma cutaneo può derivare dai melanociti di epidermide, derma e annessi; istologicamente in genere si caratterizza come una neoplasia ben delimitata ma non capsulata ad insorgenza dermica, che talvolta coinvolge l’epidermide sovrastante che appare spesso iperpigmentata.
La maggior parte dei melanomi cutanei degli animali d’affezione si osserva infatti primariamente nel derma, manca di componente epiteliale e spesso si estende in profondità nel sottocute.[5,6,7,8,9]
Quando è presente anche una componente epiteliale, il melanoma viene definito composito; in questi casi il tumore presenta anche una proliferazione intraepiteliale di cellule neoplastiche disposte in aggregati e nidi al di sopra o a ridosso della giunzione epiteliale (attività giunzionale). L’attività giunzionale si osserva soprattutto nei melanomi del letto ungueale e della giunzione muco-cutanea labiale. Talvolta le cellule dei melanomi compositi si distribuiscono in aggregati transepidermici a tutti i livelli dell’epidermide (modello pagetoide). In altri casi si può osservare una distribuzione di singoli melanociti neoplastici confinata allo strato basale (modello lentigginoso atipico). I melanociti neoplastici intraepiteliali solitamente contengono più melanina rispetto alla componente dermica ed hanno aspetto epitelioide.[5,6,7,8,9]
È probabile che le limitate analogie istopatologiche tra melanoma umano e canino siano legate al fatto che, in quest’ultima specie, i tumori sono evidenziati in una fase avanzata di sviluppo, dopo la fase di crescita verticale del melanoma all’interno del derma, venendo così a mancare le osservazioni istopatologiche degli stadi evolutivi precoci. Per questo, nel cane, sono descritti il melanoma dermico e il melanoma con attività giunzionale ma non il melanoma intraepidermico, descritto invece nella specie umana nelle varianti di lentigo maligna e melanoma a diffusione superficiale.[6]
Talvolta il coinvolgimento epiteliale, seppur presente, non è individuabile a causa delle estese ulcerazioni superficiali, frequenti soprattutto nelle masse più grandi, così come è frequente il riscontro di aree di necrosi intratumorale. In questi casi un riscontro comune è l’incontinenza pigmentaria, con melanofagi distribuiti nelle porzioni superficiali del derma non infiltrato e nel tessuto neoplastico. Possono essere presenti popolazioni cellulari infiammatorie reattive periferiche, in particolare linfociti e plasmacellule. [5,6,7,8,9]
Lo stroma di sostegno è solitamente esile; occasionalmente il melanoma cutaneo, ungueale ed orale possono mostrare metaplasia condroide o ossea.[5,6,7,8,9]
Le caratteristiche citologiche del melanoma sono molto variabili. I tumori possono essere costituiti da cellule fusate, rotonde, poligonali, dendritiche, epitelioidi e balloniformi, raramente con presenza di cellule giganti multinucleate (definite anche come “cellule mostruose”). Solitamente nello stesso tumore si osservano aree frammiste con differenziazione prevalentemente fusata o epitelioide (melanoma misto, figura 6); raramente il melanoma è puramente fusocellulare, epitelioide o a cellule balloniformi.[5,6,7,8,9,15].
Tale eterogenità dei melanociti non sembra avere un significato prognostico: nella maggior parte degli studi retrospettivi epidemiologici effettuati non è stata riscontrata una correlazione tra prognosi e tipo cellulare prevalente. Questa caratteristica può invece essere preziosa a livello diagnostico; nei tumori scarsamente o affatto pigmentati il riscontro di istotipi morfologicamente eterogenei all’interno della medesima neoplasia può orientare verso la diagnosi di melanoma.[5,6,7,8,9]
I melanociti neoplastici epitelioidi, rotondi e poligonali sono generalmente organizzati in strati e pacchetti densi, separati da esile stroma ed hanno nuclei grandi rotondo-ovalari con pattern cromatinico variabile e nucleoli prominenti. Spesso le cellule epitelioidi formano grandi nidi di cellule e mostrano abbondante citoplasma pallido eosinofilo, a volte con bordi poco distinti.[5,6,7,8,9]
Le cellule neoplastiche dendritiche hanno una forma molto angolare e stellata, in cui sono spesso visibili processi citoplasmatici allungati; i nuclei sono grandi, da ovalari ad allungati. [5,6,7,8,9]
I melanociti neoplastici fusati hanno citoplasma con margini scarsamente definiti e si organizzano in fasci intersecantisi, vortici e nidi, in modo simile alle strutture delle guaine dei nervi, con i quali peraltro condividono l’embriogenesi. I nuclei sono grandi e fusiformi, con pleomorfismo da moderato a marcato. La tipologia di cromatina è variabile, i nucleoli sono visibili e spesso prominenti.[5,6,7,8,9]
Questa tipologia di cellule prevale, risultando a volte l’unica presente, nei melanomi definiti fusocellulari; le cellule sono spesso amelanotiche e disposte in fasci e palizzate, frammiste a cellule dendritiche, con stroma connettivale spesso abbondante e pallido, talvolta con una componente fibroblastica prominente (melanoma desmoplastico). L’attività giunzionale e l’aspetto lentigginoso atipico sono solitamente presenti nei melanomi a cellule fusate e desmoplastici. [5,6,7,8,9]
La componente intraepidermica è invece assente nel melanoma a cellule balloniformi e la neoformazione risulta costituita da cellule neoplastiche grandi con citoplasma pallido eosinofilo finemente granulare. Questa variante ha un’architettura multilobulata e le caratteristiche delle cellule che lo compongono, solitamente amelanotiche, sono probabilmente espressione di una degenerazione indotta dalla coalescenza dei melanosomi associata ad una melanogenesi anomala. I nuclei delle cellule sono grandi e vescicolosi, i nulceoli prominenti, l’attività mitotica relativamente bassa.[5,6,7,8,9,16,17]
Il citoplasma delle cellule del melanoma è spesso pallido e il grado di pigmentazione va da abbondante a non identificabile (melanoma amelanotico). Tale varietà di aspetti si riscontra non solo confrontando diverse neoplasie, ma anche osservando diverse sezioni istologiche all’interno dello stesso tumore (figura 6). Quando presente in grande quantità, la melanina può oscurare gli aspetti nucleari (figura 7) per cui, al fine di valutare la morfologia cellulare e nucleare, può essere necessaria la decolorazione (bleaching). A tal fine le sezioni istologiche possono essere immerse in soluzioni contenenti perossido di idrogeno o permanganato di potassio e acido ossalico. Al contrario il citoplasma delle cellule dei melanomi amelanotici spesso presenta una fine granulazione grigiastra, la cui composizione melaninica può essere confermata con la colorazione di Fontana-Masson. Anche l’entità della pigmentazione non rappresenta un parametro prognostico ed i melanomi biologicamente molto aggressivi possono essere estremamente pigmentati, così come i tumori benigni possono presentare pochissimi granuli di melanina. [5,6,7,8,9]
L’indice mitotico del melanoma è variabile, ma nei tumori più aggressivi ad alto grado è solitamente maggiore di 3 per 10 campi ottici ad alto ingrandimento (400X), con presenza di numerose mitosi atipiche. Si possono osservare anche melanomi a basso grado di malignità o ben differenziati, con indice mitotico più basso e architettura e caratteristiche citologiche di malignità poco evidenti.[5,6,7,8,9]
I melanomi delle mucose e cutanei possono evolvere con diffusione intraepidermica come descritto nella fase di crescita radiale (radial growth phase -RGP) nei melanomi cutanei umani, oppure con invasione della sottomucosa o del sottocute. Le metastasi sono comuni, raggiungendo per via linfatica i linfonodi, il polmone e talvolta anche altri organi, comprese sedi inusuali come encefalo, cuore e milza. [5,6,7,8,9,14,16,17]
I melanomi del letto ungueale, come quelli che insorgono nella cavità orale, hanno prognosi sfavorevole e metastatizzano in un’alta percentuale di casi; la prognosi migliora se l’amputazione del dito viene effettuata prima che si verifichi l’invasione ossea.[9]
I melanomi oculari del cane, come già detto, sono per la maggior parte benigni, al contrario di quanto si verifica nell’uomo. Spesso, in seguito a enucleazione, viene riportata la presenza di materiale nerastro nei tessuti orbitali, raramente però si tratta di impianto di cellule capaci di determinare recidive o metastasi. Nei rari casi in cui queste ultime vengano a formarsi, le sedi di elezione sono sempre i linfonodi, i polmoni e meno frequentemente altri visceri [10,11,12,13]
Istologicamente non sempre è semplice rilevare le metastasi linfonodali, che possono essere erroneamente diagnosticate in presenza di melanofagi o, più raramente, di melanosi linfonodale. I macrofagi contenenti pigmento melanico possono trovarsi soprattutto nei linfonodi periferici in seguito a varie dermatopatie (iperpigmentazione postinfiammatoria). In queste condizioni riveste grande importanza la differenziazione delle cellule neoplastiche melanocitarie dai melanofagi. Tale differenziazione può essere effettuata per mezzo di colorazioni immunoistochimiche, che permettono anche di rilevare le micro metastasi non visibili con la colorazione ematossilina eosina.[6,8,9,18,19,20]
Le colorazioni immunoistochimiche vengono allestite con un pannello di anticorpi in grado di riconoscere epitopi specifici espressi dalle cellule della linea melanocitaria. I limiti della immunoistochimica nel rivelare le metastasi consistono soprattutto nel fatto che i melanofagi possono fagocitare i melanosomi ed i premelanosomi, mostrando immunoreattività agli antigeni suddetti. Di norma, comunque, i melanofagi sono identificabili grazie ai marker macrofagici mentre, diversamente dalle cellule melanocitarie, non esprimono marker come S100. Nel cane molti di questi anticorpi non sono utilizzabili e spesso la differenziazione tra melanociti e melanofagi può non essere agevole.[6,8,9,18,19,20]
La presenza di metastasi è un importante fattore prognostico correlato ai tempi di sopravvivenza.[6,7,8,9,21]
Sono stati realizzati numerosi studi per valutare i principali indicatori prognostici del melanoma canino; poiché tale lesione nella grande maggioranza dei casi insorge già in sede dermica, non è applicabile il complesso schema prognostico utilizzato in dermatologia umana, basato sulla profondità dell’invasione tissutale da parte delle cellule del melanoma ad iniziale localizzazione intraepidermica.[6,8]
In particolare nel grading del melanoma della specie umana, la fase di crescita radiale (RGP= radial growth phase) viene classificata come una lesione primaria epidermica che può determinare piccoli foci di infiltrazione dermica, mentre la fase di crescita verticale (VGP= vertical growth phase), caratterizzata da noduli o nidi di cellule che invadono il derma, viene considerata uno stadio successivo con potenziale metastatico più elevato. Comunque non tutti i melanomi evolvono attraverso queste fasi, ed entrambe possono progredire direttamente a melanoma metastatico.[6,8]
Nel melanoma del cane i più importanti indicatori prognostici sono la sede di insorgenza, l’indice mitotico e l’atipia nucleare. Quando presente, l’invasione linfatica o vasale è un ottimo indicatore prognostico negativo. Altri caratteri a cui è attribuito valore prognostico, seppure inferiore, sono la presenza di infiammazione e necrosi intratumorale ed il volume della neoplasia. [7,8,9,14,16,17,21,22] Inoltre, sono correlati al tempo di sopravvivenza la quantità di mastociti infiltranti il melanoma e la densità capillare. In particolare, tra questi ultimi due parametri, quello migliore come fattore prognostico sembra essere la presenza di mastociti, probabilmente a causa della produzione da parte degli stessi di fattori di crescita e angiogenici (eparina, triptasi, chimasi, FGF, VEGF e TNF).[22]
Non sono invece di valore prognostico alcuni caratteri come la tipologia cellulare, la presenza di cellule giganti, il diametro nucleare, l’attività giunzionale e la proliferazione intraepiteliale.[7,8,9,14,16,17,21]
Un valido aiuto nella valutazione della malignità del melanoma e nella differenziazione tra questo ed il melanocitoma può derivare da metodi più accurati della stima dell’indice mitotico per valutare l’attività proliferativa cellulare. Tra questi metodi ricordiamo la citometria a flusso e l’identificazione immunoistochimica di antigeni presenti esclusivamente nelle cellule proliferanti (PCNA, Ki-67).
L’analisi citofluorimetrica del ciclo cellulare e della ploidia delle cellule del melanoma canino non si è dimostrata di valore prognostico, non emergendo una correlazione tra attività proliferativa (fase S), ploidia e quadro citologico e tra questi parametri e i tempi di sopravvivenza.[23]
Sembrano invece avere maggiore valore prognostico gli indici di proliferazione basati sulla espressione di proteine nucleari associate con la crescita e la divisione cellulare. Tra queste sono stati identificati gli antigeni Ki67 (una proteina non istonica a cui si lega l’anticorpo MIB-1) e PCNA (Proliferating Cell Nuclear Antigen / antigene nucleare delle cellule proliferanti, una proteina nucleare essenziale per la corretta funzione della DNA polimerasi). L’indice di proliferazione può essere definito nelle sezioni istologiche come la percentuale di cellule con area nucleare positiva alla colorazione immunoistochimica per MIB-1 o per PCNA. In entrambi i casi l’indice è significativamente più alto nel melanoma rispetto al melanocitoma, ed è inoltre significativamente correlato al comportamento biologico della neoplasia, con tempi di sopravvivenza minori per i melanomi con elevato indice di proliferazione.[24,25,26,27,28,29,30] Il valore prognostico dell’indice di proliferazione (MIB-1 index) si è rivelato maggiore rispetto ai classici criteri di malignità istologici, compreso l’indice mitotico, considerato il migliore fattore predittivo di tipo istomorfologico. In particolare i criteri istologici classici (infiltratività, anisocariosi, indice mitotico) hanno un valore predittivo del comportamento biologico pari al 93% dei casi, considerando unicamente l’indice mitotico il comportamento biologico viene predetto correttamente nel 91% dei casi, mentre l’espressione di alte quantità di Ki-67 in una elevata percentuale di cellule (>15%) ha un valore predittivo del 97%.[25]
Nella specie umana queste tecniche immunoistochimiche sono state utilizzate anche per distinguere i melanomi cutanei primari (curabili chirurgicamente) dai melanomi cutanei metastatici, che spesso mostrano caratteristiche istologiche sovrapponibili alle forma primarie. Si è osservato che nelle neoplasie cutanee metastatiche l’espressione di Ki67 e PCNA è più elevata (attestandosi, rispettivamente al 21% e all’89% delle cellule) rispetto ai melanomi primari (in cui si osserva mediamente la positività per Ki67 e per PCNA, rispettivamente, nel 6% e nel 50% delle cellule). [31]
Oltre all’indice di proliferazione, la distinzione tra il melanoma e la sua controparte benigna, il melanocitoma, può essere effettuata grazie alla valutazione di una serie di caratteri indicatori di malignità, tra cui alcuni già citati come fattori prognostici.
Tra questi criteri di malignità, il più facilmente evidenziabile, prima ancora dell’esame istologico, si basa sulla sede di insorgenza: i tumori melanocitari delle mucose sono generalmente considerati maligni e mostrano tassi di mortalità più elevati.[5,6,7,8,9,14]
All’esame istologico il melanocitoma si distingue in primo luogo per il più basso indice mitotico, sempre inferiore a tre mitosi per dieci campi microscopici a forte ingrandimento (400X).[5,6,7,8,9,10,11,12,13,14]
Altri caratteri istologici caratteristici del melanoma sono l’anisocariosi, la presenza di cellule multinucleate e di figure mitotiche atipiche, l’asimmetria della massa, l’infiammazione linfoplasmacitaria marcata, la presenza di necrosi e, talvolta, l’invasione linfatica o vascolare.[5,6,7,8,9,10,11,12,13,14,15,16,17]
Al contrario, il melanocitoma ha scarso pleomorfismo cellulare e nucleare, sebbene la massa possa essere formata da una combinazione di cellule da rotonde a poligonali, epitelioidi, dendritiche, fusate o balloniformi. [5,6,7,8,9,10,11,12,13]
Il melanocitoma composito presenta attività giunzionale con aggregati neoplastici nello strato basale dell’epitelio, si differenzia così dal melanoma, nel quale l’attività giunzionale, quando presente, si esprime con un infiltrato lentigginoso atipico, composto da numerose cellule neoplastiche disposte individualmente nello strato basale, oppure con un aspetto pagetoide, con la presenza di aggregati neoplastici anche negli strati superiori dell’epitelio, che spesso appare ulcerato.[5,6,7,8,9]
La maggior parte dei melanocitomi del cane, ad eccezione del melanocitoma a cellule balloniformi, sono pigmentati, soprattutto nelle aree a cellule epitelioidi e dendritiche; la presenza di melanina è comunque solitamente visibile almeno nelle porzioni più superficiali. Come già descritto nel melanoma, la presenza di melanina nelle lesioni poco pigmentate può essere confermata con la colorazione di Fontana-Masson; più frequentemente si rende necessario decolorare le sezioni istologiche con perossido di idrogeno o permanganato di potassio e acido ossalico al fine di valutare la morfologia cellulare e nucleare.[5,6,7,8,9]
Anche le neoplasie melanocitarie intraoculari vengono differenziate in base ai criteri istologici di malignità: mentre i melanomi sono formati da popolazioni cellulari scarsamente pigmentate, a crescita invasiva e distruttiva e con caratteristiche di anisocitosi ed anisocariosi, i melanocitomi oculari, pur mostrando a volte l’impianto di cellule lungo le vie di drenaggio dell’umor acqueo, sono sempre formati da popolazioni omogenee di grandi cellule rotondo-poligonali ben pigmentate frammiste a poche cellule fusiformi scarsamente pigmentate.[10,11,12,13]
Oltre alla distinzione dalla controparte benigna, il melanoma, in considerazione dei molteplici aspetti istologici che può assumere, induce la formulazione di numerose diagnosi differenziali; per tale motivo viene spesso definito un grande simulatore.[6,7,8,9]
Le forme rotondo cellulari devono essere distinte dalle neoplasie a cellule rotonde derivanti dai tessuti immunoemopoietici, come il linfoma, il plasmacitoma, il mastocitoma scarsamente differenziato, il tumore venereo trasmissibile, l’istiocitoma, il sarcoma istiocitario, oltre che dal tumore a cellule di Merkel e, soprattutto per ciò che riguarda il melanoma a cellule balloniformi, dal carcinoma duttulare apocrino a cellule chiare.[6,7,8,9,16,17]
La distinzione viene effettuata con il rinvenimento di una componente fusata e della pigmentazione melanica, evidenziabile con la colorazione di Fontana-Masson. Il plasmacitoma mostra più comunemente nuclei multilobulari, mentre il tumore venereo trasmissibile ha citoplasma finemente vacuolizzato. Le colorazioni con blu di Toluidina e Giemsa possono permettere l’identificazione dei granuli metacromatici dei tumori mastocitari. [6,7,8,9]
Nei sarcomi istiocitari e nei sarcomi anaplastici con cellule giganti possono essere osservati aspetti evidenziabili anche nei melanomi scarsamente differenziati, come il pleomorfismo nucleare, le numerose figure mitotiche e le cellule giganti multinucleate. Le caratteristiche istologiche che distinguono il melanoma sono la diffusione lentigginosa e pagetoide dei melanociti nell’epidermide sovrastante il tumore, l’assenza di cellule schiumose e, rispetto ai sarcomi, i nuclei delle cellule giganti multinucleate del melanoma sono più vescicolosi ed hanno nucleoli prominenti.[6,7,8,9,14,32,33]
Le forme fusate e desmoplastiche devono essere distinte dal tumore delle guaine dei nervi e, soprattutto le seconde, dal fibrosarcoma: tali diagnosi differenziali sono spesso possibili solo esaminando sezioni multiple ricercando l’attività giunzionale e l’aspetto lentigginoso atipico.[6,7,8,9]
La diagnosi definitiva dei melanomi amelanotici e poco differenziati spesso richiede l’utilizzo di tecniche diagnostiche aggiuntive, tra cui l’istochimica, o tecniche più innovative, tra cui la microscopia elettronica, l’ibridazione in situ e, soprattutto, l’indagine immunoistochimica.
Tra le colorazioni istochimiche, la Fontana-Masson impiega la melanina come agente riducente l’argento in soluzione ammoniacale; poiché altre sostanze possono reagire, come la lipofuscina, questa colorazione ha lo svantaggio di essere poco specifica. Il DOPA test è più specifico ed evidenzia la presenza dell’enzima tirosinasi, responsabile della conversione della tirosina (incolore) in melanina (bruno-nerastra). Anche questa tecnica presenta uno svantaggio, legato alla necessità di utilizzare tessuti freschi; per tali motivi le tecniche istochimiche tradizionali vengono applicate raramente.[ 6,7,8,9]
Con la microscopia elettronica è possibile dimostrare la presenza di melanosomi e premelanosomi nei melanociti neoplastici. I melanosomi sono presenti, almeno in piccolo numero, anche nei melanomi amelanotici. Questi organelli mostrano una ultrastruttura lamellare, evidenziata dalla striatura che non è invece presente nei melanosomi secondari dei cheratinociti e dei macrofagi, formati dalla fusione dei lisosomi con i melanosomi primari trasferiti dai processi dendritici dei melanociti. La diagnosi tramite microscopia elettronica presenta diversi svantaggi, in primo luogo legati alla complessità della metodica, già evidente nelle fasi del campionamento (effettuato su tessuti adatti e rappresentativi della neoplasia), fino al riconoscimento dei melanosomi, che richiede l’analisi di sezioni multiple ad elevato ingrandimento. In secondo luogo, questi organelli citoplasmatici non sono in assoluto specifici delle cellule melanocitarie, in quanto sono stati osservati nei cheratinociti neoplastici e normali e in cellule neoplastiche derivanti dalle creste neurali, come nel tumore neuroendocrino delle cellule C parafollicolari della tiroide.[6,8,9]
Nella ibridazione in situ vengono utilizzate sonde di DNA complementari per mRNA che codificano la tirosinasi, contenuti sia nei melanomi melanotici che negli amelanotici. Anche l’ibridazione in situ presenta alcuni svantaggi, come la degradazione dell’mRNA in seguito alla manipolazione e fissazione del campione; inoltre sono necessarie maggiori capacità tecniche e strumentali rispetto alla immunoistochimica. [8]
Quest’ultima tecnica è quindi quella più utilizzata per effettuare una diagnosi definitiva di melanoma.
L’origine epiteliale della neoplasia può essere esclusa con l’utilizzo di anticorpi di frequente impiego, il melanoma è infatti generalmente vimentina positivo e citocheratina negativo. [8,34]
Nella specie umana vengono inoltre utilizzati numerosi anticorpi per confermare l’origine melanocitaria. Tra questi vanno ricordati gli anticorpi specifici per S100, Melan-A/MART-1, tirosinasi, TRP, HMB-45/gp100, MITF, NSE (neuron specific enolase / enolasi neurone-specifica), Mel-1, E-caderina. Gli anticorpi contro Melan-A e MART-1 riconoscono lo stesso antigene, il CD63.[6,8,9,18,35,36,37]
Solitamente le colorazioni immunoistochimiche vengono allestite con un pannello di anticorpi che riconoscono S-100 (meno specifico) e altri anticorpi più specifici come HMB-45 e, soprattutto, Melan A, indicato in alcuni studi riguardanti il melanoma umano come l’antigene più specifico in assoluto.[18,35,36,37]
In numerosi studi sperimentali è stata valutata l’espressione dei marker suddetti per la diagnosi del melanoma in Canis familiaris, tuttavia le indagini immunoistochimiche allestite con questi anticorpi talvolta esitano in risultati poco attendibili e ripetibili.[6]
Nella diagnosi di melanoma degli animali domestici gli anticorpi più utilizzati sono S100 e Melan-A. Nel gatto si è osservata l’espressione di S100 nella maggior parte dei melanomi, mentre Melan-A viene espresso in un numero inferiore di casi. La specificità di S100 nel gatto è più bassa, in quanto viene espresso dalle cellule gliali, neuroni, cellule di Schwann, cellule di Langerhan, macrofagi, mioepitelio, condrociti e tumori derivati da queste cellule. Melan-A viene espresso nei tessuti normali della corteccia surrenale, nel cervelletto e in alcune cellule cutanee e, tra le neoplasie, nell’adenoma sebaceo. Anche se meno sensibile di S100, Melan-A è più specifico per il melanoma ed è utile per differenziarlo dai più comuni tumori a cellule basali pigmentati. [38]
Nel cane, nella maggior parte dei casi (circa il 75% del totale), i melanomi esprimono S-100 e, in percentuali inferiori (circa il 62%), Melan-A/MART1. Quest’ultimo anticorpo reagisce soprattutto nei melanomi pigmentati (con percentuali di positività che raggiungono il 90%), mentre il grado di reattività nei melanomi amelanotici è piuttosto basso. Il grado di colorazione con Melan-A sembra correlato positivamente con il comportamento biologico. La percentuale di positività per l’espressione di Melan-A/MART1 può essere inferiore nelle colture cellulari derivate da melanoma. [39]
Il melanoma del cane esprime, nella maggior parte dei casi, HMB-45 (circa l’88% del totale) e, seppure in percentuali minori, Mel-1.[40]
La NSE viene espressa in un numero inferiore di casi (circa il 59% dei melanomi).[39]
Alcuni degli anticorpi citati vengono utilizzati anche nella tecnica diagnostica immunocitochimica. I risultati mostrano una buona corrispondenza rispetto a quelli ottenuti con le tecniche immunoistochimiche allestite a partire da campioni provenienti sia da masse e linfonodi metastatici che da tessuti sani di origine canina. [41]
Dai dati presenti nella letteratura scientifica si evince che nel cane S-100 è un marker sensibile per il melanoma, mentre Melan-A risulta essere più specifico. Il primo infatti viene espresso in diversi tessuti e tumori di origine non neuro-ectodermica dell’uomo e del cane, come il carcinoma delle ghiandole sebacee, l’adenocarcinoma delle ghiandole salivari, mammario e pancreatico, il carcinoma squamoso, il tessuto linfoide normale o neoplastico, le cellule mononucleate fagocitarie, i condrociti, gli osteociti, gli adipociti, così come le cellule di condrosarcomi, liposarcomi e osteosarcomi.[6,8,14,16,18,34,39,40,41]
L’antigene riconosciuto da Melan A, sia nella specie umana che in Canis familiaris, viene espresso da un numero inferiore di cellule tra cui quelle steroido-secernenti, come le cellule testicolari, ovariche e surrenaliche, normali o neoplastiche. In particolare esprimono Melan-A in alte percentuali (fino al 90% dei campioni) i tumori a cellule di Leydig, i tumori a cellule di Sertoli e gli adenomi adrenocorticali, mentre è meno frequente la positività dei campioni provenienti dai carcinomi della corticale surrenale e dai tumori a cellule della granulosa (60% circa).[42]
L’utilizzo di un adeguato pannello anticorpale aiuta ad esprimere un giudizio diagnostico definitivo permettendo di escludere alcune delle diagnosi differenziali che più frequentemente vengono enunciate.
Ad esempio, il melanoma esprime costantemente vimentina ma si differenzia dal fibrosarcoma e dal tumore delle guaine dei nervi periferici per l’espressione di antigeni specifici melanocitari, come Melan-A/MART-1, S100, HMB-45/gp100, MITF-M, tirosinasi e TRP-2.[6,8,9,18,34,35,36,37]
Le neoplasie a cellule rotonde che originano dai tessuti immunoemopoietici (tra cui il linfoma, l’istiocitoma e il sarcoma istiocitario del cane) esprimono, al contrario del melanoma, gli antigeni leucocitari comuni CD45 e CD18 e possono essere ulteriormente differenziati in base alla espressione di antigeni specifici, come CD79 (tipico dei linfociti B), CD4 (espresso dai linfociti T helper), catene leggere delle immunoglobuline k o, più frequentemente, l (espresse dai plasmacitomi). Le neoplasie di origine macrofagica esprimono vimentina, lisozima/muramidasi, ACM1, AAT (a1 antitripsina),CD68, HAM56 e Mac387, inoltre il tumore venereo trasmissibile esprime talvolta NSE e GFAP (Glial Fibrillary Acidic Protein / proteina fibrillare acida gliale).[19,43,44,45,46,47]
Diversamente dai melanomi, i carcinomi esprimono citocheratine, sebbene nei primi siano statate oservate aree focali citocheratina-positive; a complicare il quadro, i carcinomi duttulari apocrini a cellule chiare possono esprimere vimentina, Melan-A e MART-1; tali carcinomi, al contrario dei melanomi, sono positivi per CAM5.2, un anticorpo che lega le citocheratine dell’epitelio secretorio.[6,8,9,35,36]
Sono comunque descritte neoplasie con espressione antigenica aberrante, per cui anche le tecniche immunoistochimiche possono mostrarsi in rari casi poco specifiche o sensibili se non affiancate ad altri tipi di indagini.[8]
Sono descritti ad esempio melanomi che presentano marker istiocitari,come AAT, CD68, HAM56, Mac387 e Muramidasi ma non i tipici marker melanocitari S-100 e HMB-45 e, nella specie umana, istiocitomi fibrosi maligni che esprimono S-100.[48,49,50,51]
Al fine di migliorare l’interpretazione del preparato sottoposto ad indagine immunoistochimica, tale tecnica può essere affiancata alla decolorazione (bleaching) delle sezioni istologiche prima dell’incubazione con l’anticorpo primario. In tal modo si evita l’interferenza nella lettura del campione dovuta alla melanina, particolarmente evidente quando viene utilizzato come cromogeno la diaminobenzidina (DAB), di colore marrone.[8,52]
La decolorazione con perossido di idrogeno aumenta considerevolmente i tempi di esecuzione, mentre la decolorazione con potassio permanganato, seguito da acido ossalico, ritarda i tempi di risposta di soli 30-60 minuti. [8,52]
Sono stati effettuati diversi studi sperimentali per valutare le alterazioni dell’antigenicità degli epitopi tissutali in seguito a decolorazione.
L’utilizzo di perossido di idrogeno al 10% per 24 ore non sembra alterare l’antigenicità, in particolare per l’epitopo Ki67.[53,54]
L’immersione in permanganato di potassio e acido ossalico sembra invece annullare l’antigenicità di alcuni epitopi (CD3, CD31, CD45RO), ridurla per altri (hsp27) oppure aumentarla (vimentina, CD68, CD20 e CD45). Tale tecnica sembra inoltre alterare la reattività degli anticorpi UCHL1 (ubiquitina tiolo esterasi) ed L26 e aumentare la colorazione di fondo per l’actina del muscolo liscio e desmina. La reattività degli anticorpi diretti verso S100, HMB45, CD34, NKIC3 e L26 non sembra invece essere alterata.[55,56]
Tuttavia in alcuni studi riportati nella letteratura scientifica, in cui sono stati valutati anche il danno tissutale e la perdita di dettaglio citologico in seguito a decolorazione con potassio permanganato, è emerso che concentrazioni superiori a 0,25 g/l di questa sostanza determinano la perdita dell’antigenicità di HMB-45, mentre viene mantenuta l’antigenicità di S-100. A queste concentrazioni però la melanina viene rimossa in modo incompleto, non viene quindi ottenuto lo scopo della decolorazione.[52]
Per ovviare a questi inconvenienti può essere evitata la decolorazione sostituendo l’ematossilina con Azure Blue, che colora i granuli di melanina in blu-verde e li rende facilmente distinguibili dalla diaminobenzidina. Con questa tecnica la DAB non deve essere quindi sostituita con l’aminoetilcarbazolo. Tale cromogeno, essendo di colore rosso, è facilmente distinguibile dalla melanina, ma presenta diversi svantaggi, come la perdita del tono del colore nel tempo e la solubilità negli alcoli, che rende necessario l’utilizzo di mezzi di montaggio acquosi. La contro-colorazione con Azure B presenta diversi vantaggi, tra cui una maggiore conservazione degli aspetti citomorfologici e la semplicità della tecnica, che non necessita di aggiustamenti nei tempi di incubazione, richiesti invece nella decolorazione per ottimizzarne i risultati. D’altra parte la decolorazione può essere maggiormente utile nei casi in cui la pigmentazione estrema non permetta di valutare i dettagli cellulari e nucleari.[52,57]
3.Il recettore CD117/KIT
3.1. Struttura e funzioni
Il recettore ad attività tirosina chinasica KIT (detto anche CD117, o SCFR - Stem Cell Factor Receptor, o MGFR - Mast Cell Growth Factor Receptor / recettore del fattore di crescita dei mastociti) è una molecola regolatrice implicata nello sviluppo e omeostasi di numerosi sistemi cellulari, incluse le cellule ematopoietiche immature, mastocitarie, germinali e melanocitarie.
Il KIT è una proteina trans membrana del peso molecolare di 145 kDa appartenente alla famiglia dei recettori tirosina chinasici di classe III (RTK class III); è correlato ad altri recettori, come il RET ed il GDNFR (Glial Cell Derived Neurotrophic Factor Receptor / recettore per il fattore neutrotropico derivato dalle cellule gliali), ed ha strette omologie con il recettore per il PDGF (Platelet-Derived Growth Factor / fattore di crescita derivato dalle piastrine) ed i recettori dei CSF (Colony Stimulating Factors). Questi, a loro volta, comprendono il CSF1/M-CSF (macrophage CSF), il CSF2/GM-CSF (granulocyte-macrophage CSF) e il CSF3/G-CSF (granulocyte CSF).[58,59]
Il gene kit fu identificato inizialmente come un oncogene virale (v-kit) nel virus del sarcoma felino di Hardy-Zuckerman IV (HZ4-FeSV) e associato alla sua attività trasformante.[59]
Il gene c-kit rappresenta quindi l’omologo cellulare del v-kit ed è localizzato nel locus W.[59]
Il ligando del KIT (KL o KIT-L) è il c.d. “Steel Factor” (SF) detto anche MGF (Mast cell Growth Factor / fattore di crescita dei mastociti), meglio conosciuto come SCF (Stem Cell Factor / fattore di crescita delle cellule staminali); si tratta di una glicoproteina secreta da numerose cellule, tra cui cheratinociti, fibroblasti, cellule endoteliali, cellule midollari.[59]
SCF viene codificato nel locus Sl ed è sintetizzato prevalentemente come proteina trans membrana, sebbene, in seguito a clivaggio proteolitico, da questa molecola possa essere generata anche una forma solubile.[59]
Il legame della porzione extracellulare del KIT con SCF determina la dimerizzazione o oligomerizzazione delle molecole di recettore contigue, con una concomitante attivazione del dominio chinasico del KIT e modificazioni del comportamento cellulare (figura 8).[59]
La struttura molecolare del KIT è piuttosto complessa: la regione extracellulare (codificata dagli esoni 8 e 9) presenta cinque motivi ripetitivi immunoglobulina-simili (Ig-like) e una piccola regione juxtamembrana (codificata dall’esone 11). Nella porzione amino terminale dei motivi Ig-simili si trova la sequenza che determina la specificità di legame per SCF (primo, secondo e terzo dominio), seguita da un dominio (il quarto) che facilita la dimerizzazione del recettore. La porzione juxtamembrana inibisce la dimerizzazione del recettore. A questa porzione, sul lato citoplasmatico, segue il dominio chinasico (codificato dall’esone 13) e una corta regione di coda. La regione chinasica è divisa da parte di un dominio idrofilico (kinase insert region) nel dominio di legame con l’ATP e nel dominio fosfotransferasico. [59,60]
Ci sono molteplici residui serinici e tirosinici che, tramite fosforilazione, regolano l’attività del KIT e l’interazione con altre proteine. In particolare il KIT possiede nove potenziali siti di fosforilazione della tirosina che possono interagire con molteplici vie metaboliche. Anche i residui serinici possono essere fosforilati, modulando così le funzioni regolatorie del kit; ad esempio, la fosforilazione della serina nel dominio chinasico regola, tra l’altro, l’emivita del KIT. [59,60]
La stimolazione del KIT attraverso il suo ligando porta alla dimerizzazione del recettore, attivando la sua funzione intrinseca tirosina chinasica. Ciò determina la fosforilazione di residui chiave di tirosina all’interno del recettore. Questi residui di tirosina fosforilati servono da siti di legame per diverse molecole traduttrici di segnale contenenti i domini SH2 (Src Homology 2 domain), che vengono quindi reclutati ed attivati attraverso la fosforilazione da parte del recettore.[61]
Tra i substrati attivati dal recettore chinasico KIT ci sono PLC-g (fosfolipasi C gamma), PI3K (fosfatidil-inositolo 3 chinasi), le proteine della famiglia Src chinasi e la SHP2 (SH2 domain-containing protein tyrosine Phosphatase / proteina tirosina fosfatasi contenente il dominio SH2); tali proteine legano direttamente il recettore a diverse vie enzimatiche. Il KIT attiva inoltre alcune proteine adattatrici come Grb2 (growth factor receptor-bound).[59,61]
I membri della famiglia delle Src chinasi (SFK) sono proteine non recettoriali ad attività chinasica che intervengono in diverse vie metaboliche e sono implicate nella proliferazione cellulare; esse sono caratterizzate dalla presenza di un dominio tirosina chinasico, un dominio SH2 (Src Homology 2 domain, che interagisce con le fosfotirosine), un dominio SH3 (Src Homology 3 domain, che interagisce con le regioni ricche di prolina) ed un sito miristilato nella estremità N-terminale che conduce al reclutamento di membrana.[59,61]
L’attivazione e fosforilazione delle Src chinasi da parte del KIT è regolata attraverso il dominio juxtamembrana extracellulare e intracellulare.[59]
Alcuni dei substrati attivati dalle Src chinasi sono la subunità subunità regolatrice p85 della PI3K, la PLC-g, e la proteina Grb2, contenente i domini SH2/SH3.[59]
L’attivazione della PI3K avviene quindi direttamente, tramite il reclutamento della stessa verso il recettore KIT sulla membrana, oppure indirettamente, dopo attivazione delle Src chinasi. La PI3K può infatti essere trasportata sulla membrana ed attivata grazie alla proteina Gab, un adattatore proteico che viene a sua volta tirosinfosforilato e attivato dalla Grb2. La PI3K è una chinasi dei lipidi che agisce fosforilando l’anello di inositolo in posizione 3’-OH generando lipidi bioattivi che servono da segnali intermedi per attivare altre molecole connesse al controllo della proliferazione, adesione, mobilità e vitalità di vari tipi cellulari.[59]
Il KIT attiva anche le Janus chinasi (JAK), una famiglia di proteine citoplasmatiche ad attività chinasica. Le JAK, una volta attivate per dimerizzazione, vanno ad agire sui principali substrati, gli STAT (Signals Transducer and Activator of Transcription / segnali trasducenti e attivatori della trascrizione) che, una volta fosforilati, vanno incontro a dimerizzazione e vanno a localizzarsi nel nucleo, dove determinano la trascrizione genetica.[59]
Il KIT, attraverso la proteina Grb2, attiva anche la via metabolica ERK/MAPK (Extracellular-signal-Regulated Kinase or Mitogen Activated Protein Kinase = chinasi regolata dal segnale extracellulare o proteina chinasi mitogeno-attivata). Questa via metabolica comprende la RAS (rat sarcoma low molecular weight G protein), una piccola proteina G adesa al lato interno della membrana cellulare, e le protein-chinasi citoplasmatiche serina/treonina-specifiche RAF, MEK ed ERK/MAPK. La Grb2 forma un complesso costitutivo con il fattore di scambio nucleotidico SOS della RAS GDP/GTP. La traslocazione del complesso al recettore KIT e quindi alla membrana porta all’attivazione della RAS: il fattore SOS catalizza il passaggio della proteina dalla forma inattiva legata al GDP alla forma attiva legata al GTP. La RAS attivata recluta la RAF chinasi (Rapidly Accelerated Fibrosarcoma kinase) sulla membrana cellulare, la quale attiva molecole a valle della via metabolica tramite fosforilazione: in particolare la proteina MEK (mitogen activated protein kinase kinase) attiva a sua volta altri membri della famiglia MAPK (figura 9). L’attivazione della via della MAPK è cruciale per la trasformazione e regola la crescita cellulare, l’espressione genica e i segnali anti apoptotici.[59,62]
In questa via metabolica la Grb2 può agire anche indirettamente attivando le proteine della famiglia Gab che, oltre a regolare la via della PI3K regola la MAPK/ERK.[59]
Il KIT attivato infine promuove a sua volta la PLCg tramite reclutamento sulla membrana cellulare. Questo enzima genera diacilglicerolo e inositolo bi- e tri- fosfato, il primo coinvolto nella attivazione della Proteina Chinasi C (PKC), il secondo determina il rilascio del calcio dal reticolo endoplasmatico.[59]
Da quanto detto emerge che le vie regolatorie del segnale attivate dal KIT sono molteplici, esso viene quindi definito come un recettore ad azione pleiotropica (figura 10).
Ad ogni via metabolica attivata corrispondono complessi meccanismi antagonisti che contrastano l’azione del KIT.
Le Protein tirosin fosfatasi (PTPasi) fanno sì che l’incremento della fosforilazione dei residui tirosinici delle proteine cellulari sia solo transitorio. Nelle cellule trasformate con la forma oncogenica di KIT, c’è un aumento permanente della fosforilazione delle tirosine nelle proteine cellulari. Ciò può essere dovuto in parte all’alterazione dell’attività delle PTPasi, regolate da un gruppo sulfidrilico altamente conservato. Tale gruppo viene inattivato dall’ossidazione, e, nelle cellule con KIT attivato, c’è un aumento delle specie reattive dell’ossigeno. Inoltre le PTPasi possono essere regolate direttamente tramite interazione tra domini proteici; ad esempio le tirosin fosfatasi SHP1 e SHP2, contenenti i domini SH2, possono essere reclutate dal dominio juxtamembrana del KIT. SHP1 è un regolatore negativo del KIT che agisce probabilmente attraverso la defosforilazione del complesso SHP1/KIT.[59]
Esistono anche diverse fosfatidilinositolo fosfatasi che controllano la via metabolica innescata dalla PI3K, quindi indirettamente dal KIT; tra le quali le meglio caratterizzate sono le SHIP (SH2 domain-containing Inositol 5 Phosphatase / inositolo5 fosfatasi contenente il dominio SH2) e PTEN/MMAC1 (phosphatase and tensin homologue / omologo della fosfatasi e tensina o Mutated in Multiple Advanced Cancers 1).[59]
Anche i membri della famiglia Protein Chinasi C (PKC) hanno un ruolo importante nella regolazione negativa del KIT. Il legame del KIT con SCF aumenta la fosforilazione PKC dipendente del dominio chinasico, determinando una diminuzione dell’attività tirosin chinasica del KIT. PKC è inoltre implicata nell’aumento del clivaggio proteolitico del KIT a livello del dominio trans membrana e nella separazione del dominio extracellulare dalla coda citoplasmatica, con un conseguente impedimento al propagarsi del segnale indotto dal ligando.[59]
La capacità del KIT di attivare le diverse vie metaboliche descritte dipende anche dalla presenza e dallo stato di attivazione di molti altri fattori cellulari. Per tali motivi il recettore KIT non può essere visto come un semplice interruttore di accensione o spegnimento, ma come una struttura inducibile e malleabile sulla quale vengono modulati molteplici meccanismi regolatori.
Le funzioni fisiologiche del legame tra SCF e KIT sono quindi molteplici e di significato variabile a seconda della linea cellulare presa in considerazione.
L’espressione del KIT ha un’importanza primaria durante la differenziazione fetale e viene mantenuta costitutivamente negli organismi adulti in diverse linee cellulari, tra le quali le cellule staminali emopoietiche, i mastociti, le cellule germinali, i melanociti e le cellule interstiziali di Cajal.[58,63,64,65]
I geni che codificano per il KIT e per il suo ligando hanno quindi funzioni pleiotropiche, e le loro mutazioni determinano difetti nella melanogenesi, gametogenesi o ematopoiesi. [1,2,3,59,66,67,68]
In particolare i topi affetti da mutazioni del kit, a causa della alterata migrazione e differenziazione delle cellule germinali primordiali, dei melanoblasti derivati dalle creste neurali e delle cellule ematopoietiche, presentano fenotipi caratterizzati da colore bianco del pelo, spesso a macchie, sterilità, anemia e deficienza di mastociti. L’importanza del KIT nella differenziazione melanocitaria è dimostrata anche dalle conseguenze dell’iniezione di anticorpi anti-KIT in topi gravidi: i nascituri sono caratterizzati dalla presenza di aree di leucotricosi. [66,67]
Nell’uomo, le mutazioni eterozigotiche del kit determinano il piebaldismo, un difetto nella pigmentazione della cute e dei capelli dovuto ad una riduzione locale del numero di melanociti, con fenotipo caratterizzato dalla presenza di aree cutanee depigmentate, soprattutto nelle porzioni mediane di torace e addome, e da ciocche di capelli bianchi, soprattutto sulla fronte ma anche nella regione occipitale. Per tale motivo il locus contenente il gene del KIT è stato denominato W, da white spotting.[1,2,3,66]
Le mutazioni da cui derivano i fenotipi descritti nel topo sono caratterizzate da una riduzione dell’attività tirosin-chinasica del KIT e la gravità delle alterazioni fenotipiche riscontrate dipende dal tipo di mutazione, con effetti più gravi associati alla totale mancanza di attività chinasica[68]
Anche lo sviluppo e la funzionalità delle cellule interstiziali di Cajal sono regolati dal KIT, e le mutazioni del gene codificante per questo recettore sono state associate alla sindrome di Hirschsprung, caratterizzata dall’assenza di tali cellule in alcuni tratti intestinali.[59]
A seconda del tipo cellulare e della fase di sviluppo, il KIT regola in alcuni casi l’attività mitotica, in altri la morfogenesi e differenziazione.
Nei mastociti, ad esempio, il KIT ha un ruolo primario nella regolazione dell’adesione cellulare. L’adesione dei mastociti alla fibronectina e, in misura minore, alla vitronectina, tramite l’integrina VLA-5 viene infatti stimolata dallo Steel Factor, tramite il KIT, con una concentrazione cento volte più bassa di quella necessaria per indurre la proliferazione cellulare. I mastociti provenienti da topi portatori di mutazioni del gene c-kit aderiscono alla fibronectina sotto stimolazione con PMA (forbolo 12-miristato 13-acetato) ma non sotto stimolazione di SCF, dimostrando così che l’induzione della adesività delle integrine richiede l’attivazione della proteina tirosin-chinasica KIT.[69]
Le mutazioni del kit con perdita o ridotta funzionalità del recettore chinasico sono quindi correlate ad una minore vitalità in molte linee cellulari. All’opposto, la sovraespressione di KIT e SCF è coinvolta nell’insorgenza di diverse patologie neoplastiche.[58,59,60,61,62,63,64,65,66]
Nella maggior parte dei casi si tratta di proliferazioni di cellule neoplastiche portatrici di mutazioni attivanti il KIT. In altri casi è stato suggerito un meccanismo autocrino di produzione di SCF con conseguente espansione clonale delle cellule che esprimono il KIT. [58,59,60,61,62,63,64,65,66]
Sia nelle mutazioni del KIT, sia nei meccanismi autocrini e paracrini, l’attività tirosin-chinasica del CD117 è critica per la trasformazione cellulare. Il KIT mutante o sovraespresso è un potenziale bersaglio di interventi terapeutici, mirati in particolare al dominio tirosin-chinasico.[59]
3.2. Espressione del KIT in condizioni fisiologiche e patologiche
Nei tessuti, l’espressione del KIT può essere valutata con diversi metodi; tra i più semplici ma al tempo stesso efficaci, ci sono le tecniche immunoistochimiche. Con queste tecniche l’antigene può essere svelato nella sua normale localizzazione membranaria o nel citoplasma; il modello di colorazione può quindi essere sia citoplasmatico, diffuso o focale, oppure di membrana, come si osserva soprattutto nei mastociti.[58,63]
Nella specie umana l’intensità di colorazione è elevata soprattutto nelle malattie mastocitarie, nel carcinoma sieroso ovarico, nel melanoma, nel carcinoma polmonare a piccole cellule e nel carcinoma adenoide cistico.[63,65]
Tra i tessuti umani normali esaminati il KIT viene espresso ed individuato nell’epitelio mammario, gonadi (stroma ovarico, follicoli, corpi lutei, cellule germinali, quali spermatociti e ovociti, tubuli seminiferi), melanociti, cellule interstiziali di Cajal, cellule mieloidi immature, mastociti, cellule basali dell’epidermide e in alcune cellule gliali (astrociti). [63,64,65] È inoltre descritta l’espressione nei tubuli renali, cellule parotidee e, nella linea linfoide, nei progenitori precoci dei linfociti T e in alcune cellule NK.[70,71] Bassi livelli di KIT vengono espressi anche nei tireociti non neoplastici e nel 60% delle lesioni benigne della tiroide, mentre l’espressione spesso non è riscontrabile nei carcinomi tiroidei follicolari e papillari (rispettivamente nel 60 e 90% dei casi).[72]
L’espressione del KIT non è stata evidenziata nelle cellule epiteliali della prostata di uomini sani, mentre il recettore viene espresso nelle cellule epiteliali in corso di iperplasia prostatica benigna e, più raramente, in cellule neoplastiche. Con maggiore frequenza è possibile osservare l’espressione del ligando del KIT, rilievo che suggerirebbe un meccanismo autocrino e spiegherebbe il frequente rilievo di mastociti negli adenocarcinomi prostatici.[73]
Tra i tessuti neoplastici di provenienza umana si osserva l’espressione del KIT/CD117 nella quasi totalità delle malattie mastocitarie e nei disordini mastocitari sistemici, nei tumori delle cellule germinali (seminoma e disgerminoma) e nei GIST (Gastro Intestinal Stromal Tumor / tumore stromale gastro intestinale, derivato dalle cellule interstiziali di Cajal). Si rileva espressione del KIT in un numero elevato di casi anche nei carcinomi endometriali, nei carcinomi polmonari a piccole cellule, nei melanomi, nei carcinomi epiteliali ovarici (circa il 90% dei campioni) e, in percentuali variabili, nei carcinomi tiroidei. Sporadicamente si è osservata l’espressione del KIT nel carcinoma della cervice e nel carcinoma polmonare a grandi cellule, sebbene nel polmone e nella cervice, in assenza di neoplasia, non sia possibile evidenziare l’espressione del recettore. [63,64,65,72]
L’espressione di CD117 è stata osservata anche nella leucemia mieloide cronica, nella leucemia mieloide acuta e in un terzo circa dei casi di mieloma multiplo.[70,74,75]
La maggior parte dei sarcomi non esprime KIT, compresi i leiomiosarcomi, rabdomiosarcomi, mixofibrosarcomi, liposarcomi, fibrosarcomi, sarcomi sinoviali, dermatofibromi protuberanti, schwannomi, tumori della guaina dei nervi periferici, sarcomi a cellule chiare, sarcomi endometriali, sarcomi dendritici follicolari. Occasionalmente sono positivi i condrosarcomi extrascheletrici mixoidi, i tumori primitivi periferici neuroectodermici maligni, lo schawannoma melanotico e l’angiosarcoma.[76]
La valutazione immunoistochimica dell’espressione del KIT si dimostra utile per diagnosticare i GIST e distinguerli da altri sarcomi di aspetto istomorfologico simile, in particolare i leiomiomi-leiomiosarcomi. Alcuni GIST infatti (fino a un terzo dei campioni) possono esprimere anche l’actina muscolare liscia, aspetto che li accomuna ai tumori della muscolatura liscia, ma da questi si distinguono per l’espressione di CD117. Inoltre, i GIST esprimono spesso il CD34, un antigene cellulare dei progenitori ematopoietici. Tuttavia il KIT è più specifico, essendo espresso in un maggior numero di casi rispetto al CD34, ed è quindi un valido aiuto per diagnosticare i GIST CD34 negativi. [76,77,78].
I mastociti esprimono il KIT nella grande maggioranza dei casi. Per questo motivo tale recettore è anche denominato fattore di crescita dei mastociti ed è indicato come marker specifico delle malattie mastocitarie insieme all’enzima triptasi e al CD2. Poiché è frequente anche la positività per CD68 e CD43, e poiché in alcuni casi le malattie mastocitarie esprimono mieloperossidasi, la valutazione dell’espressione del Kit si rivela utile ai fini diagnostici per la distinzione dei mastociti dalle cellule delle leucemie mieloidi, dai granulociti basofili e dalle cellule della linea dei monociti/macrofagi.[79,80,81,82]
Sulla scorta delle evidenze acquisite in medicina umana, e grazie all’analogia strutturale della molecola dell’uomo e dei carnivori domestici, l’espressione del KIT è stata valutata nel cane e nel gatto.
Il gene c-kit è infatti altamente conservato e si riscontra l’omologia della sequenza nucleotidica tra il gene dell’uomo, del cane del gatto. Nei tessuti animali di entrambe le specie l’espressione di CD117 si evidenzia a carico dei mastociti, cellule interstiziali di Cajal, cellule di Purkinje del cervelletto e, in misura minore, nell’endometrio, con colorazione soprattutto citoplasmatica, mentre nei mastociti non neoplastici la colorazione è prevalentemente di membrana. Si osserva inoltre espressione del recettore in Canis familiaris nell’epitelio mammario duttale e acinare, mentre nella gatta il KIT viene espresso dagli oociti; in entrambi i casi la colorazione è soprattutto citoplasmatica. Tra i tessuti neoplastici il KIT viene espresso dai tumori mastocitari, i GIST, i tumori vascolari del cane, soprattutto maligni e, meno intensamente, dai carcinomi papillari ovarici canini, dai tumori mammari benigni e maligni, dai melanomi, seminomi, tumori a cellule interstiziali, tumori a cellule della granulosa. In particolare il recettore viene espresso dal seminoma classico ma non dal seminoma spermatocitico. Al contrario di quanto osservato nella specie umana non si evidenzia espressione del CD117 nelle cellule epidermiche basali e negli oociti di cane.[58,83,84,85]
3.3.Mutazioni del KIT nei tessuti neoplastici
Oltre alla valutazione immunoistochimica sono stati effettuati numerosi studi riguardanti la presenza di mutazioni del kit nel corso di varie patologie, soprattutto neoplastiche.
Nella specie umana le mutazioni attivanti del KIT vengono riscontrate in diverse neoplasie, come i GIST, la mastocitosi degli adulti e i tumori delle cellule germinali.[59,60,65,86,87]
Queste mutazioni portano alla fosforilazione ed attivazione ligando-indipendente del KIT ed il tipo di mutazione riscontrato varia a seconda della origine delle cellule tumorali.
Le mutazioni del KIT nella leucemia mieloide cronica coinvolgono la regione extracellulare mentre le mutazioni nelle neoplasie a cellule germinali coinvolgono prevalentemente il dominio chinasico intracellulare.
Il GIST ha un’alta frequenza di mutazioni del KIT, che nella maggior parte dei casi sono a carico dell’esone 11, che codifica la regione juxtamembrana, nella porzione citoplasmatica che segue immediatamente il dominio trans membrana. Sono descritte anche mutazioni del KIT nel dominio extracellulare (esone 9) e nel dominio chinasico (esone 13).[59,60,65]
Anche nella mastocitosi degli adulti sono frequenti le mutazioni attivanti del KIT: questa forma è sporadica ed è caratterizzata da una espansione della popolazione mastocitaria che è tipicamente persistente o progredisce verso la leucemia mastocitica, al contrario della forma pediatrica che è solitamente transitoria e si associa raramente a mutazioni che, se presenti, sono per lo più disattivanti.[59]
La presenza di mutazioni del KIT in corso di patologie neoplastiche è stata valutata anche negli animali domestici, soprattutto in Canis familiaris.
In tale specie è stato preso in considerazione soprattutto il mastocitoma. Tale neoplasia è molto frequente nel cane e rappresenta circa un quinto delle neoplasie ad insorgenza cutanea ed un quarto dei tumori maligni della cute. Al contrario dell’uomo, nel quale le proliferazioni mastocitarie hanno nella maggior parte dei casi prognosi benigna, nel cane il comportamento biologico è molto variabile, con una prevalente malignità. Nella valutazione prognostica del mastocitoma si prende in considerazione soprattutto il grado istologico che presenta come inconveniente la soggettività dell’operatore. Inoltre un’alta percentuale di casi viene classificata come grado intermedio.[59,88,89]
È stata dimostrata con la RRT-PCR (reazione a catena della polimerasi con trascrittasi inversa in tempo reale) l’espressione ad alti livelli del c-kit nel tessuto tumorale dei mastocitomi, oltre alla presenza di mutazioni del gene codificante.[89]
Le mutazioni del KIT nel mastocitoma canino sono state identificate soprattutto nel dominio juxtamembrana e consistono in duplicazioni tandem e, più raramente, delezioni, dell’esone 11, che portano alla sintesi di recettori attivati costitutivamente, in assenza del ligando.[88,89,90,91,92]
Le mutazione del gene sono associate alla localizzazione citoplasmatica del KIT che si riscontra sottoponendo la neoplasia ad indagini immunoistochimiche. Sia la mutazione del gene codificante che la localizzazione citoplasmatica del recettore proteico sono correlate al comportamento maligno del mastocitoma, con maggior tasso di recidiva e minor tempo di sopravvivenza.[91,92]
Inoltre la presenza della mutazione del KIT e la sua localizzazione aberrante citoplasmatica, con colorazione intensa del campione, sono più frequenti nei mastocitomi di grado istologico più elevato, quindi sono correlati indirettamente ad un comportamento biologico più maligno. Analogamente le mutazioni del KIT e la localizzazione citoplasmatica si associano agli indici di proliferazione più elevati (valutati tramite tecnica immunoistochimica per Ki67 e PCNA) e di progressione (valutato con la colorazione istochimica per le regioni di organizzazione nucleolare argirofile-AgNOR), a loro volta correlati a mortalità più elevata e alla recidiva locale o a distanza.[88,91,93]
Anche nel gatto è stata valutata la presenza di mutazioni del kit. In particolare nei tumori mastocitari felini sono state individuate mutazioni somatiche di raro riscontro del gene c-kit in corrispondenza degli esoni 8 e 9, codificanti il quinto dominio simil-immunoglobulinico, caratterizzate solitamente da una duplicazione tandem, da cui deriva l’inserzione di aminoacidi nella regione. In alcuni casi sono state eseguite terapie sperimentali con imatinib e, frequentemente, si è osservata una risposta positiva con riduzione delle masse tumorali e del numero di mastociti circolanti nel sangue periferico in corso di mastocitosi sistemica.[60,94,95]
3.4. Potenziale utilizzo di farmaci inibitori del KIT
La frequenza delle mutazioni del KIT e l’elevata espressione proteica in numerosi tumori ha portato alla considerazione che tale recettore possa rappresentare un valido bersaglio per terapie antineoplastiche.
Gli inibitori delle tirosin-chinasi figurano tra i primi esempi di agenti chemioterapici la cui attività antineoplastica non è causa di meccanismi citotossici aspecifici ma della inibizione di determinati bersagli molecolari. Tra le prime molecole a basso peso molecolare indirizzate contro il KIT è stato sviluppato un derivato 2-fenil-aminopirimidinico, l’STI571 (imatinib mesitilato). L’imatinib fu inizialmente progettato per inibire la tirosina chinasi ABL nell’oncoproteina BCR-ABL, espressa dalle cellule neoplastiche della leucemia mieloide cronica. Successivamente fu scoperto che l’imatinib interagisce con il KIT nel dominio di legame dell’ATP, inibendone l’attività tirosina chinasica. Sono stati quindi sviluppati o sono in fase di sperimentazione altri farmaci antagonisti del KIT.[59,65]
I risultati positivi derivati dall’uso di antagonisti del KIT come agenti antineoplastici nella terapia di alcuni tipi di neoplasie ha incoraggiato gli studi sperimentali finalizzati alla valutazione dell’espressione del KIT in cellule normali e neoplastiche, sia nella specie umana che in animali da laboratorio e domestici, oltre alla ricerca di mutazioni del gene codificante.
Il trattamento con imatinib in medicina umana è già ampiamente utilizzato. Oltre alla terapia della leucemia mieloide cronica, viene ampiamente utilizzato nella terapia del GIST e nella maggior parte dei pazienti si osserva remissione, anche se spesso non completa [59,65]. Anche nella mastocitosi degli adulti e nei tumori polmonari a piccole cellule (SCLC) si osserva una risposta positiva agli antagonisti del KIT. Altre neoplasie che esprimono il recettore e che sono potenzialmente trattabili con antagonisti del Kit sono il seminoma e l’adenocarcinoma tiroideo. [59,65]
Inoltre, tra i farmaci ad uso veterinario, è stato individuato un agente antineoplastico inibitore delle tirosina chinasi, il masitinib, che si è dimostrato particolarmente efficace nel cane per il trattamento del mastocitoma.[96,97,98,99,100]
La possibilità di raggiungere analoghi risultati terapeutici nella cura del melanoma utilizzando gli antagonisti del KIT, rende di grande interesse la valutazione dell’espressione del recettore nei melanociti neoplastici.
4. Patogenesi molecolare del melanoma
L’incidenza del melanoma nella specie umana sta aumentando rapidamente negli ultimi anni e tale neoplasia rappresenta una delle più aggressive tra quelle ad insorgenza cutanea. Il melanoma, se diagnosticato rapidamente, può essere curato efficacemente attraverso l’escissione chirurgica. I metodi attuali di stadiazione hanno dei limiti nell’individuare i pazienti predisposti a sviluppare metastasi; in tali casi, analogamente a quanto si verifica nel cane, la neoplasia ha prognosi per lo più infausta, essendo refrattaria alla maggior parte delle terapie. Questi aspetti hanno portato a condurre numerosi studi di biologia molecolare sul melanoma, la gran parte dei quali finalizzati allo sviluppo di indicatori prognostici clinico-molecolari e di nuovi approcci terapeutici, applicabili alla specie umana e, in parte, al cane.[62]
Nello sviluppo e nella progressione del melanoma sono state identificate 4 fasi molecolari critiche: l’inizio della instabilità genetica, l’aumentata o inappropriata proliferazione cellulare, l’acquisizione di caratteristiche invasive e metastatiche e la promozione dell’angiogenesi tumorale. Le caratteristiche finali delle neoplasie maligne sono l’autosufficienza nei segnali di crescita, l’insensibilità ai segnali contrari alla crescita, la capacità di sfuggire all’apoptosi, il potenziale replicativo illimitato, l’angiogenesi elevata, l’invasione tessutale e la formazione di metastasi. Ciascuna di queste caratteristiche comporta una regolazione alterata di alcune vie metaboliche che normalmente controllano la vita della cellula, e, quindi, l’alterata espressione di alcuni geni. Tuttavia, l’evoluzione verso queste caratteristiche biologiche non deriva da un singolo difetto genico, bensì dalla deregolazione di due categorie fondamentali di geni: gli antioncogeni (geni oncosoppressori), la cui funzione è sottoregolata, e gli oncogeni, le cui funzioni sono inappropriatamente sovraregolate o aumentate. I proto-oncogeni sono geni i cui prodotti proteici, solitamente fattori di crescita e recettori dei fattori di crescita, sono essenziali per la normale crescita e proliferazione cellulare; se questi vengono alterati, anche attraverso mutazioni puntiformi, amplificazioni e traslocazioni, si trasformano in oncogeni che promuovono una proliferazione cellulare atipica. Inoltre può rappresentare un fattore di sviluppo della neoplasia anche la perdita dei fattori di adesione.[101]
Gli studi a livello biomolecolare dei melanomi della specie umana permettono di classificare tale neoplasia in vari sottotipi, corrispondenti a diverse caratteristiche istologiche e clinico-topografiche. La localizzazione potrebbe infatti determinare un diverso movente patogenetico, soprattutto in considerazione della esposizione variabile ai raggi ultravioletti. [62,102,103]
Nell’uomo si distinguono quindi quattro principali tipologie di melanoma:
a) Melanoma CSD (melanoma on skin with chronic sun-induced damage / melanoma cutaneo associato a danno cronico indotto dall’esposizione al sole): insorge nella cute in associazione a segni evidenti di danno solare cronico, caratterizzato da elastosi solare marcata; morfologicamente è definito lentigo maligna, compare soprattutto nelle persone anziane.[8,62,102, 103]
b) Melanoma non CSD (melanoma in skin without chronic sun-induced damage / melanoma cutaneo non associato a danno cronico indotto dall’esposizione al sole): insorge in aree in cui la pelle è esposta saltuariamente ai raggi ultravioletti, in particolare è correlato ad episodi di ustioni solari avvenute in giovane età; morfologicamente viene definito melanoma a diffusione superficiale (SSM/ Superficial Spreading Melanoma) per la sua componente periferica prevalentemente intraepidermica; questa tipologia è di gran lunga la più frequente e insorge solitamente in età giovanile in persone dalla pelle chiara e con molti nevi melanocitari; probabilmente in queste persone c’è una maggiore suscettibilità alle radiazioni ultraviolette.[8,62,102, 103]
c) Melanoma acrale: insorge nei palmi delle mani, suole dei piedi e letto ungueale, non si associa quindi ad esposizione agli ultravioletti; morfologicamente viene definito melanoma acrale lentigginoso (ALM/ Acral Lentiginous Melanoma); rappresenta la tipologia di melanoma più frequente nelle popolazioni non caucasiche. [8,62,102, 103]
d) Melanoma delle mucose: insorge nelle mucose, soprattutto nel cavo orale e nella regione ano-genitale; è la forma più rara e con il comportamento biologico più aggressivo. [8,62,102,103]
A questi diversi tipi clinico-patologici di melanoma corrispondono probabilmente meccanismi patogenetici diversi che possono coinvolgere diverse vie di segnalameno intracellulare cruciali per lo sviluppo del melanoma.
Nei melanociti, come in altre linee cellulari, la via del RAS/RAF/MEK/ERK è un importante meccanismo regolatore della vita cellulare. Tale via è attivata, oltre che dal Kit attraverso il fattore delle cellule staminali (SCF), da altri fattori di crescita, come il fattore di crescita dei fibroblasti (FGF) e il fattore di crescita degli epatociti (HGF), che singolarmente inducono un’attivazione momentanea della ERK, con effetto mitogeno modesto (figure 9 e 10). Per la proliferazione è quindi richiesta l’attivazione combinata di diversi fattori di crescita per stimolare una attività forte e sostenuta di ERK nei melanociti.[62]
ERK è iperattivata nel 90% delle neoplasie melanocitarie di provenienza umana; ciò può essere dovuto ad un meccanismo di stimolazione autocrina o all’attivazione mutazionale di recettori e fattori di crescita, come il KIT, o di una delle proteine della via MAPK/ERK.[62,102,103]
Nel melanoma umano tra gli oncogeni frequentemente coinvolti da mutazioni sono presenti i membri della famiglia ras, come N-ras, H-ras, K-ras. Tra questi in particolare il gene più interessato è N-ras, la cui attivazione costitutiva viene considerata correlata alla progressione del melanoma umano.[62,101,102,103]
Altri geni comunemente mutati nel melanoma umano, funzionalmente correlati alla via metabolica MAPK/ERK, sono quelli appartenti al gruppo raf. Il gruppo è rappresentato da tre geni, B-raf, A-raf e C-raf; mentre questi ultimi sono raramente coinvolti da mutazioni, il primo, che codifica la proteina BRAF, è frequentemente mutato. [62,102,103,104]
BRAF è mutata nel 50-70% dei melanomi e stimola il segnale prodotto da ERK, determinando proliferazione e sopravvivenza e provvedendo a funzioni essenziali di crescita e mantenimento tumorale. Oltre ad attivare ERK, BRAF contribuisce alla neoangiogenesi stimolando la secrezione autocrina di VEGF (fattore di crescita vascolare endoteliale) ed è implicato in varie vie, incluse quelle che codificano il MITF e BRN-2 (fattore di trascrizione di classe 3 con dominio POU), la ciclina D1 (regolatore del ciclo cellulare) e p16, oltre agli enzimi di mantenimento tumorale della matrice come metalloproteinasi 1 e la forma inducibile della ossido nitrico sintasi. [62,104]
Una mutazione attivante del gene B-raf è stata identificata in circa il 60% dei melanomi cutanei umani, ma raramente in quelli che insorgono sulle mucose. Nelle cellule che presentano questa mutazione è dimostrabile un aumento dei livelli basali di ERK fosforilata. Anche nei melanomi con mutazioni di N-ras è rilevabile l’aumento dell’attivazione di ERK per fosforilazione, dimostrabile con tecniche di immunoistochimica. [62,102]
Le mutazioni di B-raf prevalgono significativamente nei melanomi non-CSD, in percentuali fino al 59%, mentre è poco comune nei melanomi CSD ed è praticamente assente nei melanomi acrali e delle mucose. Anche i nevi melanocitari, da cui frequentemente originano i melanomi non CSD, presentano spesso mutazioni di B-raf. Probabilmente in alcune persone, a causa di una maggiore suscettibilità alle radiazioni ultraviolette, aumenta la probabilità di acquisire mutazioni di B-raf.[62,102]
In melanomi di tutti i sottotipi, con un’incidenza compresa tra il 10% e il 20%, la via della MAPK è attivata tramite mutazioni di N-ras, che si riscontrano mai contemporaneamente a mutazioni di B-raf. [62,103]
L’assetto biomolecolare del melanoma nel cane è meno definito; tuttavia nei melanomi orali del cane non sono state riscontrate le mutazioni di B-raf comunemente riscontrate nei melanomi cutanei dell’uomo.[105]
Anche l’attivazione della via della PI3K, regolando la sopravvivenza cellulare, la proliferazione, la crescita e la mobilità, costituisce un evento cruciale nella progressione del melanoma umano. L’antagonista di tale via è il regolatore negativo PTEN/MMAC1, la cui funzione spesso è persa in molti melanomi. Ciò avviene solitamente per delezione o mutazione del gene codificante. Inoltre, il principale effettore della PI3K, la protein-chinasi B (PKB, conosciuta anche come AKT) è sovraespressa nel 60% dei melanomi umani.[62,101,102]
Tali eventi sono spesso associati a mutazioni di B-raf, ma non di N-ras; nei melanomi infatti le mutazioni di N-ras e B-raf si escludono a vicenda, come le mutazioni di N-ras e PTEN, mentre le mutazioni di B-raf e PTEN coincidono nel 20% dei casi. [62,102]
Questo dato potrebbe essere correlato alla capacità della RAS, e della forma mutante oncogenica NRAS, di attivare sia la via enzimatica del PI3K che, attraverso BRAF, la via della MAPK/ERK. Le mutazioni aggiuntive di questi ultimi enzimi non sono necessarie, in quanto questi due componenti sono già attivati. Al contrario PTEN e BRAF non si attivano mutualmente e sono necessarie mutazioni separate per attivare entrambe le vie. La mutazione di RAS, attivando entrambe le vie enzimatiche, è più efficiente nella trasformazione dei melanociti rispetto alla sola BRAF oncogenica. [62,102]
La correlazione positiva tra la perdita di PTEN e le mutazioni di BRAF supportano l’idea che la via del PI3K è un target somatico indipendente che viene frequentemente attivato nel melanoma primario.[102]
Le mutazioni descritte potrebbero cooperare con altre modificazioni metaboliche nella trasformazione dei melanociti.
Il MITF, regolando la sopravvivenza dei melanoblasti, oltre all’espressione di proteine melanogeniche come la tirosinasi e MART-1, potrebbe avere un ruolo chiave nello sviluppo del melanoma nell’uomo. Sebbene l’espressione continua di questo fattore sia essenziale per la sopravvivenza e la proliferazione delle cellule del melanoma, queste lo esprimono a livelli significativamente più bassi rispetto ai melanociti differenziati, e un aumento dei livelli di MITF riduce la proliferazione delle cellule di melanoma in presenza di BRAF oncogena. Probabilmente alti livelli di MITF predispongono le cellule all’arresto del ciclo e alla differenziazione, mentre livelli molto bassi portano all’apoptosi; solo a livelli intermedi sarebbe favorita la proliferazione.[62]
Inoltre, MITF potrebbe cooperare con BRAF nella trasformazione dei melanociti che hanno evaso le vie della senescenza tramite la sovraespressione della telomerasi (TERT telomerase reverse trascriptase) o di CDK4 o tramite riduzione di p53. [62]
Nell’uomo, in alcune tipologie di melanoma, sono presenti anche aberrazioni genetiche del kit, ascrivibili a mutazioni attivanti o amplificazioni, inversamente crrelate alle mutazioni attivanti di B-raf. In particolare le mutazioni del kit sono state osservate nella specie umana nel 39% dei melanomi delle mucose, nel 36% degli acrali, nel 28% dei CSD e in nessuno dei non-CSD, mentre, con un modello a specchio, le mutazioni di B-raf sono state riscontrate rispettivamente nel 3%, 21%, 6% e 56% dei melanomi. In particolare i melanomi anali dell’uomo, ascrivibili al gruppo dei melanomi delle mucose, mostrano spesso espressione del KIT (23%), in ¾ dei casi associata a mutazione somatica eterozigotica L576P dell’esone 11 (nel dominio juxtamembrana, come già descritto nei GIST) mentre l’aumento del numero di copie di kit sembra un evento raro. In questa sede solitamente il melanoma non mostra mutazioni di B-raf e solo nel 5% dei casi si riscontra mutazione di N-ras. [103,104,106]
Come riferito, oltre all’attivazione degli oncogeni, nel determinismo dei tumori rientra anche la disattivazione di alcuni geni regolatori dell’omeostasi cellulare, definiti oncosoppressori. Nel melanoma alcuni di questi geni sono mutati o deleti, di conseguenza viene ridotta o persa la funzione delle proteine da essi codificate. In particolare nel melanoma del cane le più frequenti anomali osservate sono la riduzione o perdita dell’espressione di PTEN e p16 e la esclusione dal compartimento nucleare di p53 e Rb (proteina del retinoblastoma). [62,101, 102,107,108]
Le proteine p16 (conosciuta anche come CDKN2A, Cyclin-Dependent Kinase iNhibitor2A / inibitore della chinasi ciclina dipendente 2A, o come INK4, INhibits cdK4) e p21 (conosciuta anche come CDKN1A e WAF-1) sono degli inibitori delle chinasi ciclina-dipendenti (CKI), un gruppo di proteine che, in base alla struttura, vengono suddivisi in due famiglie. Le proteine p16, p15, p18 e p19, appartengono alla famiglia CDKN2A e agiscono inibendo specificamente le chinasi ciclina dipendenti CDK4 e CDK6, mentre le proteine p21, p27 e p57 appartengono alla famiglia CIP/KIP e inibiscono la maggior parte delle CDK (chinasi ciclina dipendenti). Le CKI evitano quindi che le chinasi ciclina dipendenti attivate formino complessi con le cicline D. Tali complessi inattiverebbero, tramite fosforilazione, le proteine codificate dai geni oncosoppressori come la proteina Rb; a sua volta la proteina Rb nelle cellule quiescenti forma un complesso con i fattori di trascrizione della famiglia E2F. Tale complesso recluta la istone deacetilasi (HDAC1), evitando così l’induzione dell’espressione di geni associati alla crescita e proliferazione cellulare (come i fattori di trascrizione c-myc e c-myb). Questo meccanismo è considerato il principale regolatore del ciclo cellulare, governando il punto R (di restrizione) in cui la cellula, dalla fase di quiescenza G0/G1, passa alla fase S di sintesi del DNA. [62,101,102,107]
Spesso la mutazione inattivante della p16 è fondamentale per la progressione verso la malignità di cellule melanocitarie con mutazioni di B-raf. Con p16 attiva, infatti, i melanociti portatori di mutazioni di B-raf o N-ras proliferano e successivamente vanno incontro a senescenza, costituendo i nevi melanocitari umani, mentre nel caso in cui ci sia un difetto dell’espressione di p16 si osserva progressione verso la neoplasia.[62]
La delezione nel locus CDKN2A è stata evidenziata nel 50% dei melanomi umani, costituendo la regione genomica che viene persa più spesso, con maggior frequenza nei melanomi metastatici, nei melanomi acrali e in quelli mucosali.[62,102]
Nei melanomi acrali e delle mucose sono frequenti le aberrazioni cromosomiche ed in particolare le amplificazioni. La regione genomica che più frequentemente presenta amplificazioni corrisponde al gene CCND1 (CyCliN D1) e l’aumento del numero di copie di tale gene è inversamente proporzionale alla presenza di mutazioni di B-raf. L’aumentata espressione della proteina CCND1 si osserva non solo nei campioni che mostrano amplificazioni del gene che la codifica, ma anche nei campioni con mutazioni di B-raf o N-ras. Questo aspetto, unito alla correlazione inversa con le mutazioni di B-raf, lascia supporre che l’aumento dei livelli della proteina CCND1, risultante dall’amplificazione del gene codificante o da mutazioni di geni codificanti per proteine regolatorie, rappresenta un evento cruciale nella progressione del melanoma. [62,102]
Un altro gene implicato nello sviluppo del melanoma umano è il CDK4, codificante per la chinasi ciclina dipendente 4, proteina partner di CCND1. Questo gene è spesso amplificato nei melanomi, soprattutto in quelli ad insorgenza acrale e delle mucose. Nei melanomi che presentano amplificazione di CDK4 generalmente non viene rilevata contemporaneamente una mutazione di B-raf o N-ras o l’amplificazione di CCND1. In conclusione melanomi CSD, acrali e delle mucose, mostrano aumento del numero di copie di CCND1 e CDK4 con una correlazione inversa rispetto al riscontro di mutazioni di B-raf.[62,102]
La delezione omozigotica di CDKN2A avviene esclusivamente in campioni che non presentano l’amplificazione di CDK4; si potrebbe ipotizzare che per la progressione del melanoma l’amplificazione di CDK4 fa si che non sia necessaria la delezione di CDKN2A, in quanto in entrambi i casi verrebbe perso il controllo del checkpoint per entrare nella fase S. [62,102]
Anche le mutazioni del gene CDKN1A hanno probabilmente un ruolo nella trasformazione maligna, sia nel melanoma umano che nel melanoma canino.[101]
In diversi studi di medicina umana viene chiaramente dimostrato un diverso modello di alterazioni genetiche nei quattro gruppi di melanoma precedentemente definiti: in quelli acrali e mucosali c’è un’alta frequenza di amplificazioni e delezioni, sebbene tra i due gruppi il tipo di aberrazioni dimostrate sia differente, probabilmente come risultato di caratteristiche biologiche sito-specifiche. I melanomi non-CSD frequentemente hanno mutazioni di B-raf e delezione di PTEN o solamente mutazioni di N-ras, mentre i melanomi CSD raramente presentano mutazioni di B-raf e frequentemente hanno amplificazioni del gene CCND1.
Nel melanoma del cane sono stati considerati ulteriori oncogeni che sembrano avere un ruolo nella progressione del melanoma, tra cui c-myc (avian myelocytomatosis viral oncogene homologue / omologo cellulare dell’oncogene del virus della mielocitomatosi aviare)e c-erb-B2 (o Her2/neu = Human Epidermal growth factor Receptor 2), quest’ultimo in grado di codificare per una proteina trans membrana tirosina chinasica.[101,107]
Questi studi sui melanomi nella specie umana suggeriscono l’applicazione di terapie specifiche in relazione alle aberrazioni genetiche più comuni nei diversi tipi di melanoma; in particolare, nei melanomi non CSD si potrebbero utilizzare farmaci che abbiano come target la vie enzimatiche del PI3K e della protein chinasi mitogeno-attivata (RAS-RAF-ERK), mentre altri tipi di melanoma potrebbero non rispondere a tali terapie.
4.1. Apoptosi e melanoma
La sopravvivenza delle cellule del melanoma dipende anche dall’evasione dei meccanismi di apoptosi (figura 10).[62,101,107,108,109]
Tutti i meccanismi dell’apoptosi convergono sulla membrana mitocondriale per modulare la funzione delle proteine proapoptotiche ed antiapoptotiche al fine di attivare le caspasi (cysteine aspartate proteases). Un primo meccanismo intrinseco risponde a generici stress cellulari attivando la via detta, per l’appunto, delle SAPK (Stress Activated Protein Kinases / protein-chinasi stress-attivate); un secondo meccanismo intrinseco è innescato da un danno del DNA o un disturbo della progressione del ciclo cellulare ed è mediato dalle proteine nucleari p53 e c-Myc; infine l’apoptosi può essere innescata da un meccaniscmo estrinseco che coinvolge l’interazione recettore-ligando delle proteine del gruppo Fas-FasL (fibroblast associated and Fas ligand) e il recettore del TNF (Tumor Necrosis Factor / fattore di necrosi tumorale).[107]
Tra i più potenti inibitori di questi meccanismi ci sono i membri antiapoptotici della famiglia BCL2 (BCL2, BCLXL, BCLW), che contiene anche membri proapoptotici (BAX, BAD, BIM, BCLXS, BAK, BOK).[101,107,109]
I principali regolatori positivi dell’apoptosi sono quindi p53, Bid (Bcl-2 interacting domain), Noxa, PUMA (P-53 Upregulated Modulator of Apoptosis), Bax (Bcl-2-associated X protein), TNF, TRAIL (TNF-related apoptosis-inducing ligand), Fas/FasL, PITSLRE, IFN (interferon) e, probabilmente, c-KIT/SCF.[109]
I principali fattori antiapoptotici sono invece Bcl-2 (B cell leukemia/lymphoma 2), Bcl-X (Bcl-2 long isoform), Mcl-1 (induced myeloid leukaemia cell differentiation protein), NF-kB (nuclear factor k B), survivina, livina e ML-IAP (melanoma inhibitors of apoptosis).[109]
Esistono anche molecole con effetti sia pro- che anti- apoptotici, come TRAF-2 (TNF-receptor-associated factor), c-Myc, endoteline ed integrine.[109]
Come detto l’apoptosi può essere indotta sia per via mediata dai mitocondri (via intrinseca) che per via estrinseca, attraverso i cosiddetti recettori della morte (Fas, recettori del TNF e il recettore del TRAIL). L’interazione di questi recettori della morte con i rispettivi ligandi determina la trasmissione dei segnali apoptotici tramite domini detti DDs (death domains), DED (death effector domains) e CARD (caspase recruitment domains). Il risultato finale di entrambi i meccanismi è l’attivazione delle caspasi effettrici e la frammentazione del DNA nucleare, quindi la morte cellulare. [109]
I DDs si trovano in proteine transmembrana, come Fas, recettore 1 del TNF e recettori 1 e 2 del TRAIL, e in proteine citoplasmatiche, come FADD (Fas associated protein with Death Domain), TRADD (TNF Receptor-Associated protein with Death Domain) e RIP (Receptor-Interacting Protein). [109]
I DED si trovano in molecole adattatrici e nelle procaspasi 8 e 10; l’interazione di queste due classi di molecole determina la formazione del DISC (Death-Inducing Signalling Complex) che innesca la cascata delle caspasi. [109]
I CARD mediano l’attivazione di proteine adattatrici come RAIDD (RIP-associated ICH1/CED3-homologous protein with death domain) e procaspasi 2 e 9. [109]
Questi eventi possono essere regolati da FLIP (FADD-Like Interleukin-1 b -Converting Enzyme=FLICE inhibitory protein), che previene le caspasi iniziatrici, e IAPs (inhibitors of apoptosis), che previene sia le caspasi iniziatrici che effettrici. Gli IAPs a loro volta possono essere antagonizzati dal legame con gli attivatori mitocondrio-derivati delle caspasi (SMAC/DIABLO) e HtrA2 (human homologue of Drosophila transformer 2). [109]
Gli eventi apoptotici mediati dai mitocondri sono indotti da varie proteine, come le proteine BH3 (Bcl-2 homology domain 3), che comprendono la Bid, Bad (Bcl-2 associated death promoter), Noxa e PUMA. Queste molecole determinano l’assemblaggio delle proteine proapoptotiche Bax e Bak sui pori della membrana esterna mitocondriale, con modificazioni della permeabilità dell’organulo e rilascio di fattori apoptotici nel citosol, inclusi il citocromo c (cyt-c), AIF (apoptosis inducing factor) e SMAC/DIABLO. [101,109]
I fattori antiapoptotici al contrario agiscono inibendo il rilascio del citocromo c da parte dei mitocondri. [101,109]
I meccanismi dell’apoptosi portano alla formazione degli aptosomi, complessi proteici formati dal citocromo c, Apaf-1 (Apoptotic Protease-Activating Factor-1), procaspasi 9 e ATP. In questi complessi viene attivata la caspasi 9, considerata, come la caspasi 8, ad azione iniziatrice, e di conseguenza vengono attivate le caspasi effettrici 6, 7 e, soprattutto, la caspasi 3. Quest’ultima a sua volta attiva la CAD (caspase activated deoxyribonuclease) che degrada il DNA del nucleo. [101,109]
Questi meccanismi possono essere alterati nel melanoma.[62,101,107,108,109]
Tra le mutazioni genetiche riscontrate nel melanoma umano, sono state osservate mutazioni nel gene di p53, con la produzione di una proteina anomala o in quantità inferiori alla norma. La funzione di p53 è quella di arrestare il ciclo cellulare tra G1/S, indurre apoptosi in cellule con DNA danneggiato e interagire con altre molecole che partecipano a questo meccanismo, inducendo l’attività di proteine come Bax, Noxa e PUMA e aumentando l’espressione di Fas.[62,101,107,108,109]
La proteina p53 può andare incontro a inattivazione non mutazionale come conseguenza di mutazioni dei geni che codificano per il segnale di localizzazione nucleare, o per il dominio di interazione di MDM2, principale inibitore della proteina. Nel primo caso è impedito il trasporto della p53 nel nucleo; nel secondo caso la proteina viene fosforilata e indirizzata verso la degradazione nei proteosomi. [62,101,107,108,109]
Nel melanoma umano è stata osservata anche la perdita di espressione di Apaf-1, soprattutto in conseguenza di delezione genetica.[62,109]
Per quanto riguarda la famiglia delle proteine Bcl-2, nei melanomi umani è stata osservata la sovra espressione di Bcl-2, mentre talvolta si assiste ad una ridotta espressione di questa proteina antiapoptotica e la sovraespressione della proteina proapoptotica Bax; questi segnali che conducono all’apoptosi sono solitamente compensati dalla sovraespressione delle proteine antiapoptotiche Mcl-1 e Bcl-X.[62,101,109]
I melanomi sembrano essere resistenti all’apoptosi mediata dal TNF, sebbene producano costitutivamente recettori per questi fattori. La resistenza è probabilmente imputabile alla sovraespressine di NF-kB, con conseguente produzione di fattori di sopravvivenza. Nell’ambito delle stesse vie del segnale il melanoma sovraesprime frequentemente TRAF-2 e GCK (germinal centre kinase), che a loro volta attivano la NIK (NF- k B inducing kinase) e, di conseguenza, NF-kB. Le cellule del melanoma sono spesso resistenti all’apoptosi indotta da TRAIL a causa di una bassa espressione del suo recettore DR4 (death receptor 4), o per una sovraespressione del suo antagonista FLIP.[109]
Le cellule del melanoma sono, inoltre, spesso resistenti all’apoptosi mediata dal Fas probabilmente per scarsa espressione di tale recettore.[101,109]
Nei melanomi l’apoptosi può essere indotta anche dall’IFNa e, soprattutto dall’IFNb, che agiscono aumentando la produzione di p53 e diminuendo quella di Bcl-2.[109]
La famiglia di IAP comprende proteine sovraespresse nelle cellule del melanoma, come survivina, livina e ML-IAP. La livina ha attività antiapoptotica maggiore rispetto alla survivina, che è associata fisicamente al fuso mitotico e agisce indirettamente associandosi alla CDK4, portando alla inibizione della caspasi 3 da parte di p21. Anche ML-IAP agisce inibendo le caspasi. Infine un ruolo nella regolazione dell’apoptosi sembrano averlo anche le endoteline e le integrine, quest’ultime importanti soprattutto per l’acquisizione di capacità invasive.[109]
L’acquisizione della capacità di invadere i tessuti e formare metastasi è fondamentale nel corso della progressione maligna del melanoma ed è correlata alla perdita dei segnali inibitori della motilità cellulare, alla produzione autocrina o paracrina di fattori di crescita, alla degradazione delle proteine strutturali delle giunzioni epiteliali e della matrice extracellulare e alla capacità di migrare e invadere attraverso il compartimento stromale.[101]
La perdita delle connessioni delle cellule neoplastiche può derivare da modificazioni delle due principali classi di molecole di adesione, le caderine e le integrine. La prima classe è costituita da molecole che connettono le cellule tra loro; nei melanociti in particolare, viene espressa soprattutto la E-caderina, che è legata al citoscheletro tramite proteine dette catenine. La porzione esterna forma legami con altre molecole di E-caderina espresse dai cheratinociti. L’adesione con le altre cellule può essere perso per mutazioni del gene codificante per le E-caderine o per diminuita espressione, oppure possono essere assenti o non funzionali le catenine.[101]
Le integrine legano le cellule alla matrice extracellulare, avendo anche una funzione recettoriale attraverso la regolazione della espressione di alcuni geni, come quelli che codificano per le metalloproteinasi. Nel melanoma avviene la sovraespressione di una integrina, la vitronectina, che sembra importante nel passaggio da una crescita a diffusione superficiale al fenotipo invasivo verticale.[101]
Il recettore KIT potrebbe avere la funzione di mantenere i melanociti aderenti ai cheratinociti. Nella progressione del melanoma si osserva una perdita di funzionalità del KIT associata ad un aumento dell’espressione della MUC18/MCAM (Melanoma Cell Adhesion Molecule / molecola di adesione delle cellule di melanoma), con passaggio ad un fenotipo invasivo.[101]
Il TGF-b1 (Transforming Growth Factor / fattore di crescita trasformante) determina un aumento dei proteoglicani solfati nello stroma, i quali hanno funzioni regolatrici della adesione cellulare, proliferazione e migrazione.[101]
Oltre alla alterazione delle molecole di adesione, al fine di acquisire motilità deve realizzarsi una degradazione della matrice extracellulare. L’espressione di metalloproteinasi (MMP) appare coinvolta nella formazione di metastasi nel melanoma; in particolare vengono espresse MMP-2 e MMP-9, che degradano il collagene IV, e MMP-1 che degrada il collagene I. L’FGF potrebbe essere coinvolto nella interazione tra cellule del melanoma e fibroblasti circostanti.[101]
Infine per la produzione di metastasi le cellule del melanoma devono invadere i vasi sanguigni. Per realizzare una adeguata vascolarizzazione deve aumentare la produzione di fattori angiogenici, come il VEGF, bFGF, IL-8, TGF-a e TGF-b. Contemporaneamente, diminuisce la produzione di inibitori dell’angiogenesi, come la trombospondina, IFN-a, IFN-b e l’angiostatina. Tra le molecole elencate, il ruolo maggiore sembra essere svolto da VEGF e IL-8; quest’ultimo si è dimostrato anche un fattore mitogeno, mentre il primo è fortemente indotto dall’ipossia del microambiente tumorale tramite il fattore indotto dall’ipossia (HIF). La necrosi tumorale inoltre può indirettamente determinare angiogenesi reclutando macrofagi che a loro volta producono fattori angiogenici, come VEGF, TNF-a, IL-8 e b-FGF.[101]
L’interazione con l’ambiente circostante è quindi fondamentale per la progressione del melanoma, sia per la proliferazione cellulare che al fine di formare metastasi. Le cellule del melanoma esprimono quindi numerosi recettori per fattori di crescita e le stesse cellule neoplastiche producono fattori di crescita che agiscono sui tessuti circostanti o sulla neoplasia con meccanismi autocrini.
I fattori di crescita e le citochine prodotte, in percentuali e con intensità variabili, dalle cellule neoplastiche provenienti da melanomi umani sono IL1a, IL1b, IL5 IL6, IL7, IL8, IL10, catena p35 di IL12, le proteine MGSA/GRO (Melanoma Growth Stimulatory Activity/ Growth Regulated Oncogene) e RANTES, TGF a e b, PDGF A e B, TNF a e b, LIF (Leukaemia Inhibitory factor), IFNb e bFGF (fattore basico di crescita dei fibroblasti). [110]
I fattori di crescita espressi dai melanomi e, in quantità inferiori, anche in melanociti non neoplastici e cellule neviche sono TGFa, EGF, TGFb, ECGF (Endotelial Cell Growth Factor), bFGF, NGF (Nerve Growth Factor). Le cellule neviche inoltre esprimono TNFa, IL8 e il recettore del TGFb.[110,111,112]
Nei melanomi si osserva frequentemente la coespressione di ligando e recettore per TGFb e IL6, suggerendo un meccanismo di crescita autocrino.[112]
Il bFGF è considerato uno dei principali fattori di stimolazione autocrina delle cellule del melanoma; esso riveste un ruolo anche nell’angiogenesi e nella fibrogenesi con formazione dello stroma fibroso, nell’attivazione di enzimi proteolitici, nella promozione dell’adesività delle cellule tumorali alla matrice e all’endotelio ed nella soppressione della immunità locale. [113]
Il bFGF viene normalmente prodotto dai cheratinociti e fibroblasti della cute e promuove principalmente l’angiogenesi e la formazione dello stroma fibroso. I melanociti, come le cellule dei nevi (soprattutto non displastici) e dei melanomi, esprimono il recettore 1 dell’FGF (FGFR-1). Mentre i melanociti normali necessitano per la loro crescita e differenziazione di bFGF esogeno, nei nevi non displastici e nei melanomi si osserva frequentemente la coespressione del recettore e del bFGF, evidenziando quindi un “loop autocrino” responsabile della proliferazione autonoma delle cellule. Il bFGF viene espresso soprattutto dalla componente dermica dei melanociti nevici e neoplastici, probabilmente come adattamento al microambiente tissutale.[114,115]
Anche l’SCF potrebbe rappresentare un importante fattore di crescita per il melanoma. Tale fattore viene normalmente prodotto nella cute dai cheratinociti, fibroblasti e cellule endoteliali. Nell’uomo l’espressione del suo recettore, il KIT, si osserva sia nei nevi che nei melanomi e la coespressione dei due fattori si osserva, oltre che nel melanoma, anche nei nevi melanocitari displastici, mentre è raramente riportata nei nevi non displastici. La coespressione dei due fattori nel melanoma lascia supporre un meccanismo di crescita autocrino che differenzierebbe le cellule che compongono i nevi melanocitari e il melanoma dai melanociti, che necessitano per la loro crescita e differenziazione dell’espressione esogena di SCF.[114,115,116,117,118]
4.2. Ruolo del KIT nei disordini melanocitari
Nonostante l’espressione del recettore CD117-KIT sia un fattore implicato nella proliferazione, sopravvivenza, migrazione e differenziazione dei melanoblasti, il suo ruolo nello sviluppo dei tumori melanocitari nell’uomo e negli animali è ancora dibattuto. Tale recettore, osservato nelle cellule trasformate del melanoma, è stato considerato in alcune circostanze un fattore primario di proliferazione, in altre come un fattore apoptotico; altri studi sperimentali ne hanno evidenziato l’importanza come fattore di adesione cellulare
Sebbene nella letteratura scientifica venga descritta la perdita di espressione del KIT con la progressione del tumore, in studi successivi è stato dimostrato l’aumento dell’espressione del CD117 in sottotipi anatomici distinti di melanoma, associato spesso a mutazioni del gene c-kit.[103,104,106,119,120,121,122,123,124]
Sono stati effettuati numerosi studi sperimentali sia in vivo che in vitro e anche nelle colture cellulari derivate da melanomi si osservano quadri variabili.
Le funzioni pleiotropiche del recettore KIT e le numerose vie metaboliche intracellulari da esso innescate possono essere responsabili di effetti diversificati, talora contraddittori, sulle cellule neoplastiche, evidenti in vitro e probabilmente esistenti anche in vivo.
Frequentemente le linee cellulari derivate da melanoma esprimono il ligando del KIT, associata in molti casi all’espressione di SCF, tale da fare ipotizzare un meccanismo autocrino di stimolazione alla crescita.[125,126,127]
Al contrario, in alcune colture cellulari derivate da melanomi metastatici umani la crescita risulta inibita dall’aggiunta di SCF. Poichè nelle linee cellulari derivate da melanomi che esprimono il KIT l’esposizione in vivo e in vitro SCF innesca l’apoptosi, è stato ipotizzato che la perdita dell’espressione del recettore possa permettere alle cellule neoplastiche di evadere dai meccanismi di apoptosi mediati dal legame KIT-SCF.[119,127,128]
Il KIT viene anche considerato un fattore di differenziazione; in colture cellulari derivate da melanomi metastatici umani che esprimono KIT si evidenzia, in seguito alla stimolazione con SCF, una riduzione delle citochine normalmente sovraespresse durante la progressione maligna ed un aumento della differenziazione cellulare con organellogenesi. In particolare, SCF non modifica l’espressione di NOS ma aumenta l’espressione dell’antigene di superficie HLA-DR sulla membrana delle cellule di melanoma metastatico; si osserva inoltre un aumento degli organelli (soprattutto melanosomi) e della tirosinasi nel citoplasma, una riduzione dell’espressione delle citochine associate alla progressione, come IL7, IL10, IL8, GM-CSF e TGFb, e la diminuzione della proliferazione cellulare.[129]
D’altra parte i melanociti provenienti da topi mutanti omozigoti nel locus W per la regione catalitica del KIT mostrano una forte diminuzione della capacità di sopravvivenza una volta espiantati. Nelle linee cellulari sopravvissute alcune cellule mostrano cambiamenti compatibili con trasformazione maligna e, reimpiantate in ospiti immunosoppressi, formano tumori invasivi di tipo melanoma amelanotico. Lo svantaggio dovuto alla mutazione può selezionare melanociti che mobilitano vie enzimatiche più efficienti, portando alla neoplasia.[130]
Tali risultati andrebbero però interpretati considerando le particolari condizioni riscontrate in vitro nelle culture cellulari che differiscono significativamente da quelle osservate in vivo con le numerose interazioni cellulari stromali.
In modelli sperimentali murini sono state utilizzate cellule provenienti da melanomi umani che mostravano una elevata tendenza metastatica in topi nudi; in seguito all’induzione dell’espressione del KIT tramite trasfezione del gene codificante, è stata dimostrata una diminuzione del potenziale metastatico e di crescita delle stesse. In tali studi è stato osservato che SCF induce apoptosi nelle linee cellulari provenienti dal melanoma umano che esprimono KIT, sia in vivo che in vitro.[128]
Come detto in alcuni melanomi si osserva la perdita dell’espressione del KIT, che si correla con la perdita di espressione del fattore di trascrizione AP-2. La AP-2 è una proteina di 52 kDa espressa dalle cellule derivate dalle creste neurali ed è regolata da diversi segnali, tra cui gli esteri del forbolo e il c-AMP, che ne inducono l’attività indipendentemente dalla sintesi proteica. Il promotore del c-kit contiene 3 siti di legame per AP-2, per cui può essere regolato da questa proteina. Nelle linee cellulari di melanoma altamente metastatiche si è osservata una scarsa espressione del KIT correlata alla scarsa espressione di AP-2. Inoltre, valutando alcune lesioni melanocitarie umane benigne e maligne si è osservata una significativa correlazione negativa tra il livello di espressione del fattore di trascrizione AP-2 e lo spessore dei melanomi. La riespressione di questa proteina in linee cellulari in cui è stato clonato il gene che codifica per AP-2 risulta in una riespressione del KIT con inibizione della crescita delle cellule e del loro potenziale metastatico. La perdita dell’espressione di AP-2 potrebbe essere un evento cruciale nello sviluppo del melanoma, in conseguenza del fatto che altri geni coinvolti nella progressione di questa neoplasia sono regolati da questo fattore, come MCAM/MUC18, E-caderina, MMP-2 (la metalloproteinasi che degrada il collagene tipo IV) e p21/WAF-1 oltre a HER-2 e Bcl-2.[67,101,131,132,133]
In particolare questo fattore regola positivamente l’espressione di E-caderina e Kit e negativamente MCAM/MUC18. Pertanto, la perdita di espressione di AP2 nei melanomi in fase di progressione avanzata si correla ad un aumento dell’espressione della molecola di adesione MCAM/MUC18 caratteristica delle forme metastatiche. Il cambio di espressione di queste proteine potrebbe essere coinvolto nelle fasi tardive di progressione del melanoma e potrebbe essere responsabile della progressione dalla forma localmente invasiva alla metastasi.[67,101,131,132,133]
L’attivazione del KIT potrebbe avere conseguenze molto più importanti nel promuovere l’adesione cellulare che nel promuovere la crescita e proliferazione. Il recettore attivato infatti stimolerebbe l’adesività tramite le integrine a concentrazioni più basse di quelle richieste per regolare la crescita cellulare. L’effetto è mediato dall’integrina a5b2 (detta anche integrina VLA5 o recettore della fibronectina), che è sovra-espressa nei melanomi in fase di progressione avanzata. L’espressione del KIT nel melanoma potrebbe quindi, da un lato, correlarsi alla differenziazione e all’apoptosi, dall’altro, l’espressione del recettore, anche in piccole quantità, potrebbe avere implicazioni più importanti nel determinare l’adesività delle cellule tumorali. La scarsa espressione riscontrata nelle lesioni VGP potrebbe essere sufficiente per promuovere l’invasione, la propagazione e la formazione di metastasi.[69,121,133]
Nel melanoma della specie umana, l’utilizzo delle tecniche immunoistochimiche permette di osservare l’espressione del KIT, nei casi positivi, soprattutto nella fase di crescita radiale nelle porzioni superficiali (epidermica e giunzionale), mentre è minore o assente nella fase di crescita verticale e nelle forme metastatiche. Anche nei nevi melanocitari l’espressione non è uniforme, ma localizzata nella componente giunzionale e dermica superficiale. Questi aspetti potrebbero derivare dalla necessità dei melanociti epidermici di rimanere in contatto con i cheratinociti, i quali, esprimendo la forma legata alla membrana di SCF, stimolerebbero l’espressione del KIT. Diversamente, i melanociti dermici possono aver perso la loro dipendenza dal ligando del KIT per la sopravvivenza e la proliferazione. [103,114,118]
Il coinvolgimento del segnale del KIT nella migrazione e homing verso l’epidermide basale dei melanociti è dimostrato anche dal fatto che i melanomi con alterazioni del KIT hanno tipicamente un tipo di crescita lentigginosa, caratterizzata da melanociti allineati come singole cellule lungo l’epidermide nella fase di progressione che precede la crescita invasiva. In contrasto, i melanomi non-CSD, che solitamente non hanno mutazioni del KIT o copie multiple, mostrano tipicamente un tipo di crescita pagetoide con melanociti distribuiti attraverso l’epidermide.[103]
La perdita del recettore nelle lesioni VGP ne suggerirebbe il ruolo di regolatore del ciclo cellulare nei melanociti e, in base a questa possibilità, si è ipotizzato che la progressione del melanoma sia associata ad una perdita dell’espressione del KIT. [119,120,122,123]
Tuttavia, come già riportato, la valutazione dell’espressione del KIT nei melanomi della specie umana ha dato risultati discordanti e in altri studi l’espressione del recettore è stata identificata anche in melanomi metastatici. Si potrebbe ipotizzare l’esistenza di una via di progressione neoplastica del melanoma, meno frequente, che non coinvolge le mutazioni frequentemente riportate di BRAF e di altri proto-oncogeni o la perdita del KIT, ma la sua attivazione per mutazione somatica.[103,104]
Inoltre, sebbene il KIT possa essere espresso negli stadi precoci della neoplasia per poi venire perso con la progressione, la sua valutazione potrebbe acquisire un significato terapeutico.[134,135]
La valutazione immunoistochimica dell’espressione del Kit nei melanomi umani assume una importanza ulteriore se questi vengono classificati in sottotipi anatomici distinti. [103,106,136]
Il melanoma della coroide, ad esempio, esprime frequentemente il KIT (fino al 75% dei casi), con un modello di colorazione di membrana. L’espressione del KIT si associa in maniera significativa con l’attività mitotica della neoplasia. Anche le metastasi provenienti da melanomi oculari esprimono frequentemente il CD117 (fino al 65% dei casi). [136]
Nei melanomi cutanei, più frequenti, l’espressione del KIT è stata identificata con maggiore frequenza nei melanomi acrali e nei melanomi CSD, mentre risulta sporadica nei melanomi non-CSD.[103]
I melanomi delle mucose esprimono Kit in percentuali ancora più alte.[103,106]
Nei melanomi muco-cutanei l’espressione del CD117 è spesso correlata ad aberrazioni genetiche del c -kit, ascrivibili a mutazioni attivanti o amplificazioni. In queste lesioni l’espressione immunoistochimica del KIT nella fase di crescita verticale può risultare aumentata. Anche in assenza di mutazioni può essere comunque osservata un’aumentata espressione del KIT nella fase di crescita verticale.[103, 104,106]
La discordanza rispetto ad altri dati riportati nella letteratura scientifica può derivare dal fatto che sono spesso basati sullo studio di linee cellulari da melanoma, spesso derivate dal sottotipo non CSD, con elevata frequenza di mutazioni di BRAF e rare mutazioni del KIT.[103]
Nei melanomi della specie umana sono state osservate soprattutto mutazioni somatiche dell’esone 11, riportate precedentemente nel GIST. Come già riferito, tali mutazioni colpiscono il dominio juxtamembrana, promuovendo la dimerizzazione del KIT in assenza del ligando, portando ad una attivazione costitutiva. È interessante notare che altri tipi di tumore sensibili a inibitori delle tirosina-chinasi, come l’imatinib e il masitinib, hanno mutazioni nella regione juxtamembrana.[104,106] I melanomi che più frequentemente presentano mutazioni del KIT, gli acrali e mucosali, sono poco frequenti nelle popolazioni caucasiche ma sono particolarmente aggressivi e rappresentano una sostanziale proporzione dei melanomi rispetto alla popolazione mondiale.[8,62,102,103,137]
In particolare, i melanomi anali dell’uomo, ascrivibili al gruppo dei melanomi delle mucose, mostrano spesso espressione del KIT (23%), con colorazione forte e diffusa, sia nella componente intraepiteliale che nella componente invasiva. In ¾ dei casi la immunoreattività si associa a mutazione somatica eterozigotica L576P dell’esone 11 (nel dominio juxtamembrana, come nei GIST) mentre l’aumento del numero di copie di ki t sembra un evento raro. In questa sede solitamente il melanoma non mostra mutazioni di BRAF e solo nel 5% dei casi si riscontra mutazione di NRAS. [103,104,106]
L’importanza dello studio della espressione del Kit ha dirette implicazioni nella terapia delle neoplasie. In medicina umana la terapia con imatinib dei GIST KIT-positivi rappresenta un esempio di terapia antitumorale mirata che richiede l’identificazione immunoistochimica per individuare i pazienti più responsivi, con un iter simile all’identificazione dei pazienti affetti da tumori mammari positivi per HER-2 (proto-oncogene correlato ma distinto dal fattore di crescita epiteliale EGF) trattabili con trastuzumab (Herceptin ®). L’iter dello sviluppo dei due farmaci appare piuttosto diverso: mentre il trastuzumab fu progettato specificamente per inibire la proteina HER-2, sviluppando contemporaneamente un metodo di identificazione dei tumori potenzialmente responsivi, l’imatinib fu utilizzato per inibire la proteina di fusione BCR/ABL della leucemia mieloide cronica. Successivamente venne scoperto che l’imatinib aveva effetti sui GIST KIT positivi e furono sviluppati altri antagonisti dei recettori ad attività tirosina chinasica. Numerosi studi hanno valutatoo gli effetti di questi farmaci nei confronti dei tumori KIT-positivi di varia origine e attualmente uno di questi, il masitinib, è disponibile per l’uso in medicina veterinaria ed è specificamente indicato per il trattamento del mastocitoma canino con mutazioni del c-kit. [59,65,96,97,98,99,100]
Il trattamento con antagonisti del KIT è stato proposto anche per alcuni particolari tipi di melanoma nella specie umana e studi in vitro dimostrano una elevata capacità di questi farmaci di indurre apoptosi in linee cellulari derivate da melanomi che esprimono il KIT.[106,134]
II PARTE osservazioni personali
5. Materiali e metodi
Nello studio sono stati considerati 66 campioni selezionati dall’archivio della Sezione di Patologia Veterinaria del Dipartimento di Scienze Biopatologiche ed Igiene delle Produzioni Animali e Alimentari, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Perugia.
Sono stati riconsiderati i preparati bioptici riferibili a tumori melanocitari, in particolare sono inseriti nella casistica le neoplasie maligne, diagnosticate in base ai criteri istopatologici abitualmente utilizzati (anisocitosi, anisocariosi, attività mitotica, invasività, presenza di metastasi).
Tutti i campioni, provenienti da cani di varie razze, sesso ed età, sono stati rivalutati e selezionati in modo aleatorio, sebbene siano stati privilegiati i campioni con un’adeguata porzione di tessuto scarsamente pigmentata, alla luce del fatto che questo parametro non costituisce un criterio di malignità. L’esclusione dei tumori caratterizzati da pigmentazione melanica intensa e diffusa è stata eseguita al fine di evitare interferenze nella valutazione della morfologia e della immunoreattività. In tal modo i tessuti sono stati esaminati senza essere sottoposti a tecniche di decolorazione, al fine di non compromettere la stabilità degli epitopi antigenici riconosciuti dall’anticorpo utilizzato, evitando così interferenze con la reazione immunoistochimica.
Per la natura retrospettiva del lavoro è risultato impossibile corredare i dati istologici al follow-up delle lesioni.
I campioni selezionati, rappresentati da preparati fissati in formalina neutra tamponata al 10%, sono stati normalmente processati, inclusi in paraffina, tagliati con microtomo in sezioni sottili di circa 4 µm di spessore e sottoposti ad indagine immunoistochimica con metodo avidina-biotina-perossidasi (ABC).
A tal fine le sezioni istologiche reidratate sono state sottoposte a smascheramento antigenico tramite trattamento termico con microonde in soluzione tampone di Tris EDTA a pH 9.
Il blocco della perossidasi endogena è stato effettuato incubando le sezioni con perossido di idrogeno in soluzione al 3,5% in metanolo per 5 minuti.
I campioni sono stati quindi incubati per un’ora a temperatura ambiente in camera umida con l’anticorpo primario (anticorpo policlonale di coniglio anti-CD117/c-kit-umano, DAKO A4502), diluito in rapporto 1:200 nel Dako Antibody Diluent. Dopo lavaggio con tampone TBS Tween a pH 7,6 le sezioni sono state incubate a temperatura ambiente in camera umida con l’anticorpo secondario (IgG anti-coniglio coniugate con biotina) per 15 minuti, quindi con il complesso streptavidina-perossidasi per altri 15 minuti. Le sezioni, dopo l’incubazione in soluzione di substrato cromogeno 3-Amino 9-Etil Carbazolo (AEC) per 8 minuti, sono state sottoposte a lavaggio con acqua corrente, controcolorate con ematossilina e montate con Dako Faramount Acqueous Mounting Medium.
Come controllo positivo la reazione è stata testata su mastociti di cane all’interno di sezioni istologiche provenienti da un mastocitoma ben differenziato di primo grado.
Al fine di individuare eventuali positività aspecifiche alla colorazione, sono stati allestiti dei controlli negativi utilizzando delle sezioni seriate dei tessuti in esame; tali preparati sono stati sottoposti allo stesso protocollo omettendo l’anticorpo primario.
I campioni sono stati valutati sulla base dell’espressione del KIT.
Nei campioni positivi è stata registrata la percentuale di cellule immunoreattive, le quali sono state considerate “rare” quando rappresentavano meno del 10% del totale, “disseminate” se costituivano tra il 10% e il 50% delle cellule della neoplasia, “diffuse” se la positività era evidente in oltre il 50% delle cellule neoplastiche. Nelle cellule positive è stata valutata l’intensità di reazione (debole, moderata, forte) oltre al il modello di colorazione (perimembranario, citoplasmatico focale e citoplasmatico diffuso).
Inoltre è stato registrato il “modello di distribuzione” delle cellule positive all’interno della massa neoplastica.
Al fine di aggregare alcuni di questi dati è stato approntato un sistema di valutazione a punteggio (tabella 1), assegnando 1 punto ai melanomi in cui le cellule positive sono rare, 2 punti ai melanomi con cellule positive disseminate e 3 punti ai melanomi con cellule positive diffuse. Analogamente sono stati assegnati 1, 2 e 3 punti ai melanomi in cui le cellule mostrano intensità di colorazione, rispettivamente, debole, moderata e forte. La positività è stata quindi considerata bassa nei melanomi il cui punteggio totale è risultato pari a 2 o 3 (figura 11), sono stati considerati mediamente positivi i melanomi con punteggio pari a 4 (figura 12), infine sono stati considerati melanomi a positività alta quelli con punteggio pari a 5 o 6 (figure 13, 14 e 15).
6.Risultati
Tra i 66 campioni esaminati l’espressione del KIT è stata individuata in 42 casi, pari al 63,6% (tabella 2). I gradi di positività alto, medio e basso sono apparsi equamente distribuiti, essendo stati assegnati ciascuno a 14 campioni (21,2% del totale)
I campioni sono stati inoltre suddivisi in gruppi in base alla sede di insorgenza poiché, oltre a rappresentare un importante fattore prognostico, la localizzazione è considerata, soprattutto nella specie umana, un fattore determinante nella patogenesi del melanoma.
Sono stati così raggruppati i melanomi cutanei (21 campioni, pari al 31,8% del totale), i melanomi orali (20 campioni ciascun gruppo, pari al 30,3%), i melanomi delle giunzioni muco-cutanee (9 campioni, pari al 13,7% del totale, di cui 4 di provenienza labiale, 4 provenienti dalle palpebre e 1 dal tartufo), i melanomi del letto ungueale (7 campioni, pari al 10,6% del totale), i melanomi metastatici (6 campioni, pari al 9% del totale) e i melanomi oculari (3 campioni, pari al 4,6% del totale).
Nei melanomi delle giunzioni muco-cutanee è stata osservata la più alta percentuale di positività, pari al 77,8% (7 campioni su 9, di cui 5 campioni con grado di positività basso, 1 medio e 1 ad alto grado di positività). Anche nei melanomi cutanei la percentuale di positività è elevata, pari al 71,4% (15 campioni su 21, con positività bassa, media e alta, rispettivamente, in 5, 8 e 2 campioni). I melanomi orali hanno mostrato positività nel 65% dei casi (13 campioni su 20, con grado di positività basso in 2 casi, medio in 3 e alto in 8 campioni). I melanomi del letto ungueale hanno mostrato positività in percentuali inferiori, pari al 57,1% (4 casi su 7, con positività in 1 caso di grado basso, in 2 campioni medio e in 1 alto). Infine le percentuali inferiori di positività, pari al 33% dei campioni, sono state riscontrate nei melanomi oculari e nelle metastasi (rispettivamente in 1 caso su 3, con basso grado di positività, e in 2 casi su 6, con grado di positività elevato) (tabella 2).
Il modello di distribuzione della positività è stato molto eterogeneo, e risulta difficile da equiparare, considerando i molteplici aspetti istomorfologici osservati; in particolare alcuni tumori presentavano una superficie, cutanea o mucosale, estesamente ulcerata e quindi rendevano difficoltosa la valutazione della porzione superficiale della neoplasia; ciononostante, nei campioni in cui questa valutazione è stata possibile, si è notato che in diversi casi il tumore presentava una intensa positività da parte degli aggregati di melanociti intraepidermici, sia in quelli con modello lentiginoso che negli aggregati di aspetto pagetoide, mentre la positività diventava disseminata nelle porzioni immediatamente subepiteliali (derma superficiale) e rara o addirittura assente nelle porzioni profonde della neoplasia (figure 16, 17, 18).
Il modello di positività cellulare osservato è stato quasi sempre citoplasmatico diffuso, con presenza di rinforzo iuxtamembranario e aggregati intracitoplasmatici; in rari casi la positività, lieve, era limitata alla superficie di membrana (figure 19, 20, 21).
Sono risultate positive sia le cellule epitelioidi con abbondante citoplasma stipato di melanina, che le cellule fusate, più spesso povere di pigmento melanico; anche le cellule giganti, occasionalmente presenti in alcuni tumori, e le cellule dei tumori più indifferenziati, quindi morfologicamente atipiche, sono risultate positive, al pari delle cellule meglio differenziate (figura 22).
7.Discussione e Conclusioni
I risultati delle indagini immunoistochimiche effettuate per valutare l’espressione del CD117/KIT nei tumori melanocitari del cane si discostano alquanto dai dati riportati nella specie umana. Sebbene confrontando i dati riportati nella letteratura scientifica riguardanti il melanoma umano le percentuali di espressione del KIT siano variabili, queste sono di norma inferiori a quelle riportate in questo studio (63,6%), attestandosi solitamente al di sotto del 30% [65,104,106]. Anche suddividendo i melanomi umani in gruppi in base alla sede di insorgenza, la percentuale di positività raggiunge i livelli più alti nei melanomi delle mucose, mantenendosi comunque al di sotto del 40% [103,106] mentre il raro melanoma della coroide esprime KIT in percentuali piuttosto elevate (fino al 75%).[136]
La discordanza dei risultati potrebbe essere imputabile a specifiche diversità patogenetiche e di specie tra uomo e cane. Anche il livello di cut-off della positività potrebbe aver portato ad una sopravalutazione della positività in questo studio; in molti lavori riferibili alla medicina umana, i tumori venivano considerati positivi solo se una percentuale >10% delle cellule mostrava una positività inequivocabile. Nel presente studio è stato deciso di considerare positivi anche tumori con una bassa percentuale di cellule reattive in quanto il KIT è implicato in molte vie metaboliche, ed in particolare risulta di fondamentale importanza nella proliferazione di elementi più immaturi ed indifferenziati, quali le cellule staminali (da qui il termine di Stem Cell Factor Receptor); in questa logica anche la presenza di una piccola percentuale di cellule positive potrebbe avere importanza ai fini della dinamica delle cellule tumorali. E’ noto infatti che in alcuni tumori esiste un comparto di cellule staminali che, dotate di scarsa attività replicativa, sono relativamente al riparo dagli effetti delle terapie antineoplastiche antiblastiche normalmente utilizzate; queste cellule, tuttavia, sono di fondamentale importanza, in quanto garantiscono al tumore la capacità di accrescersi, rappresentando un comparto di cellule di riserva da cui derivano in fasi successive le cellule neoplastiche proliferanti ed invasive.
Infine le diverse tecniche di laboratorio utilizzate possono, anche esse, aver determinato questa differenza; va rammentato infatti che la tecnica immunoistochimica presenta normalmente delle differenze tra laboratori, anche significative, e che i risultati sono in larga parte influenzati dalle manipolazioni preanalitiche del campione (soprattutto la fissazione). [65] Per quanto riguarda il protocollo immunoistochimico per la valutazione dell’espressione del KIT, esso è già ampiamente impiegato in medicina veterinaria ed è dimostrata l’omologia del recettore nell’uomo e nel cane e la conservazione interspecifica del sito antigenico riconosciuto dall’anticorpo policlonale A4502 anti-CD117/KIT-umano, costituito da una porzione della componente trasmembrana e citoplasmatica. [58,65]
Probabilmente le discrepanze sono imputabili anche a differenze di specie e biomolecolari. In particolare nella specie umana, come già riferito, i melanomi si sviluppano soprattutto in soggetti con cute chiara e sono associati a episodi di ustioni solari, avvenuti soprattutto in giovane età, e alla presenza di molti nevi melanocitari. Spesso i melanomi originano proprio da queste lesioni e si sviluppano con un pattern istologico a diffusione superficiale. Dal punto di vista molecolare presentano spesso mutazioni attivanti di B-raf, che si correlano inversamente alle mutazioni del c-kit.
Al contrario, nel cane, l’insorgenza del melanoma non si correla all’esposizione ai raggi ultravioletti o alla presenza di lesioni melanocitarie preesistenti, e, diversamente dall’uomo, sono predisposti i soggetti con cute e mucose fortemente pigmentate e, dal punto di vista biomolecolare, le mutazioni di B-raf non sembrano avere un ruolo primario nella trasformazione e progressione neoplastica.[105]
Queste caratteristiche accomunano il melanoma del cane al melanoma delle mucose dell’uomo, caratterizzato tra l’altro, da una maggiore espressione del KIT, per cui si potrebbe avanzare l’ipotesi di un parallelismo tra le due lesioni neoplastiche.
Il CD117/KIT, oltre ad essere fondamentale per la proliferazione e differenziazione dei melanociti, molto probabilmente nel cane è implicato, come nella specie umana, nella migrazione e homing dei melanociti, sia normali che neoplastici.
Nello studio si è infatti frequentemente evidenziata l’espressione del KIT nelle porzioni superficiali dei melanomi e nei nidi neoplastici intraepiteliali; frequentemente i tumori che presentavano questi aspetti non mostravano reattività nelle parti più profonde, analogamente a quanto osservato da alcuni autori nella fase di crescita verticale dei melanomi cutanei dell’uomo (figure 16, 17, 18).
Questi aspetti potrebbero derivare dalla necessità delle cellule neoplastiche superficiali di rimanere in contatto con le cellule epiteliali le quali, esprimendo la forma legata alla membrana di SCF, stimolerebbero l’espressione del Kit. Le cellule delle parti più profonde della neoplasia possono invece aver perso la loro dipendenza dal ligando del KIT per quanto riguarda la sopravvivenza e la proliferazione. [118]
Il modello di espressione del KIT osservato nella maggior parte dei campioni è caratterizzato dalla distribuzione delle cellule positive anche negli strati profondi della neoplasia.
Questo aspetto, unito al riscontro della positività in alcuni melanomi metastatici, lascia supporre che l’espressione del KIT nel melanoma del cane, come è stato ipotizzato per la specie umana, possa essere messa in relazione con l’adesività delle cellule neoplastiche.
Nel melanoma del cane quindi l’espressione del KIT potrebbe essere correlata sia alla proliferazione cellulare che alla progressione neoplastica e all’acquisizione del potenziale metastatico.
A tal proposito si può porre l’attenzione sul fatto che nello studio in questione, le neoplasie più differenziate e con basso indice mitotico, in particolare una cutanea e una proveniente dalla cavità orale, non hanno mostrato espressione del recettore. Al contrario, tra i sei melanomi metastatici osservati, due di essi, analogamente alla neoplasia primaria esaminata da cui derivavano, non esprimevano il KIT; tra altri quattro, la cui origine era sconosciuta, due esprimevano KIT con un grado di positività elevato.
Un altro aspetto valutato nelle sezioni istologiche è stato il modello di colorazione immunoistochimica cellulare; sono stati riscontrati tutti i modelli descritti nella letteratura scientifica, ossia il modello membranario, il modello citoplasmatico diffuso e quello citoplasmatico focale. Tali modelli sono stati correlati nelle neoplasie mastocitarie alla progressione verso la malignità. Nello studio effettuato, sebbene il modello citoplasmatico focale sia stato riscontrato raramente, diversi aspetti appaiono coesistere all’interno della medesima neoplasia; per tale motivo non è stata attribuita significatività a tale reperto.
Appare invece interessante notare la differenza nelle percentuali di positività tra i vari raggruppamenti di melanomi.
Le percentuali più alte sono state riscontrate nei melanomi delle giunzioni mucocutanee (77,8%), seguiti dai melanomi cutanei (71,4%) e dai melanomi orali (65%). Questi ultimi, sebbene abbiano mostrato una percentuale di positività inferiore ai due gruppi citati precedentemente, hanno presentato una maggiore proporzione di campioni con alto grado di immunoreattività, intesa come intensità di colorazione delle cellule e distribuzione delle stesse, pari a 8 campioni su 13 positivi.
Diversamente da quanto atteso dai dati riportati per la specie umana nella letteratura scientifica, i melanomi oculari hanno mostrato una bassa percentuale di immunoreattività (33%), sebbene il numero di casi preso in esame nello studio sia tra i più contenuti (3/66 = 4,6%).
Infine nei melanomi del letto ungueale è stata osservata una percentuale di positività intermedia (57,1%).
In base a questi dati è possibile ipotizzare, analogamente alla specie umana, che il melanoma del cane presenti diversi meccanismi patogenetici e biomolecolari di trasformazione e progressione a seconda della localizzazione, probabilmente correlati alla differenza di comportamento biologico.
La natura retrospettiva dello studio e l’assenza di dati relativi al follow up dei pazienti rendono impossibile ogni valutazione sul possibile significato prognostico dell’espressione del KIT.
Si potrebbe ipotizzare una correlazione positiva tra prognosi ed espressione del KIT, in quanto, tra le categorie anatomiche di melanomi, la percentuale di positività più alta è stata riscontrata nelle forme cutanee, che di norma hanno prognosi migliore rispetto ai tumori di altre sedi. Al tempo stesso il grado di positività più elevato è stato riscontrato con maggior frequenza nei melanomi del cavo orale, generalmente indicati come i più aggressivi e con prognosi peggiore; tale reperto potrebbe indicare un nesso tra espressione del KIT e malignità della lesione.
Questo studio rappresenta una delle prime indagini finalizzate a valutare l’espressione immunoistochimicadel KIT nei tumori melanocitari del cane. Simili ricerche sono state già condotte nei mastocitomi e, recentemente, negli emangiosarcomi e nei seminomi del cane; in questi tumori l’espressione del recettore è stata riscontrata in una elevata percentuale di casi. Questo dato ha spinto i ricercatori a considerare l’attivazione della via di segnalazione del KIT cruciale per la patogenesi delle rispettive neoplasie, suggerendo quindi l’utilizzo di farmaci inibitori della tirosin-chinasi per la terapia di quei tumori che esprimono KIT. In particolare nel mastocitoma l’espressione immunoistochimica del KIT rappresenta, secondo alcuni studi, un fattore prognostico, essendo stati individuati tre modelli di espressione del KIT (“KIT pattern”) correlati rispettivamente ad una prognosi progressivamente meno favorevole.
Nel melanoma tali esperienze non sono ancora riconosciute e, sebbene l’utilizzo dei farmaci a bersaglio molecolare cominci ad essere proposto anche nella terapia del melanoma, mancano ancora le basi scientifiche per tale utilizzo. In particolare non è ancora chiara se e quale correlazione esista, nel melanoma, tra l’espressione immunoistochimica del KIT e la presenza di mutazioni attivanti del gene c-kit, come verificato nel melanoma dell’uomo e nel mastocitoma del cane. In tumori dove la mutazione sia riconosciuta, le metodiche biomolecolari orientate all’individuazione diretta della mutazione in questione rappresentano sicuramente un approccio più corretto, semplice e sicuro rispetto ad una tecnica, come l’immunoistochimica, che è fortemente influenzata dalle condizioni di laboratorio, dal trattamento preanalitico del campione e dall’interpretazione dell’operatore. Fino a che l’esistenza di mutazioni specifiche del gene c-kit non sia individuata anche nel melanoma del cane, l’indagine immunoistochimica può ritenersi un metodo di screening per evidenziare tumori che esprimano alte quantità della proteina, potenzialmente trattabili tramite i farmaci a bersaglio molecolare.
Si può quindi concludere che il ruolo di KIT nei tumori melanocitari del cane meriti ulteriori indagini, anche in considerazione degli importanti risvolti nella terapia di tale neoplasia.
Sebbene originati da un numero limitato di casi, questi risultati potrebbero rappresentare un punto di partenza per ulteriori studi prospettici finalizzati a valutare l’espressione del KIT e del suo m-RNA in sottotipi distinti di melanoma in relazione a sede anatomica, comportamento biologico e prognosi, e ad indagare la presenza di mutazione genetiche somatiche attivanti del c-kit in tale neoplasia, analogamente a quanto effettuato nella specie umana.
Indice analitico degli acronimi e delle abbreviazioni
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Sezione iconografica
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Figura 1- Melanoma della cavità orale Figura 2- Melanoma cutaneo (dall’archivio della Facoltà di Medicina (dall’archivio della Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi Veterinaria, Università degli Studi di Perugia) di Perugia)
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Figura 3- Melanoma del letto ungueale Figura 4- Melanoma oculare (dall’archivio della Facoltà di Medicina (dall’archivio della Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi Veterinaria, Università degli Studi di Perugia) di Perugia)
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Figura 5- Melanoma della giunzione muco-cutanea della palpebra (dall’archivio della Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Perugia)
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Figura 6- Melanoma misto in cui è possibile osservare aree frammiste con differenziazione fusata ed epitelioide e aree più o meno pigmentate. Ematossilina-eosina, 200x
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Figura 7- Tumore melanocitario intensamente e diffusamente pigmentato. Ematossilina-eosina, 200x
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Figura 8- Il legame della porzione extracellulare del KIT con SCF determina la dimerizzazione o oligomerizzazione delle molecole di recettore contigue, con una concomitante attivazione del dominio chinasico del KIT (da https://liferaftgroup.org/understanding-gist/biology-genes-and-proteins/).
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Figura 9- Rappresentazione schematica della via MAPK/ERK attivata dai recettori di membrana (tra cui il KIT) attraverso Grb2 (da http://flipper.diff.org/app/pathways/Ras-Raf-MEK-ERK-MAPK%20pathway%20).
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Figura 10- Rappresentazione schematica delle vie di trasduzione del segnale e dei complessi meccanismi regolatori del ciclo cellulare (da http://www.wikiwand.com/it/Myc_(biologia)).
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Figura 11- Colorazione IIC per KIT, positività bassa (rare cellule, immunoreattività moderata) è visibile un mastocita fortemente positivo
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Figura 12- Positività media (diffusa, di debole intensità)
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Figura 13- Positività di alto grado (immunoreattività forte e diffusa)
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Figura 14- Positività di alto grado (immunoreattività forte e disseminata)
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Figura 15- Positività di alto grado (immunoreattività moderata e diffusa)
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Figura 16- Espressione del KIT nei melanociti iperplastici dello strato basale dell’epitelio
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Figura 17- Espressione del KIT nell’infiltrato neoplastico lentiginoso della giunzione epiteliale
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Figura 18- Espressione del KIT negli aggregati neoplastici intraepiteliali e perdita dell’espressione nelle porzioni profonde.
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Figura 19- Modello di colorazione immunoistochimica perimembranario
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Figura 20- Modello di colorazione Figura 21 - Modello di colorazione immunoistochimica citoplasmatico focale immunoistochimica citoplasmatico diffuso
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Figura 22- Espressione del KIT in cellule giganti di melanoma
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Tabella 1- Sistema di valutazione del grado di positività con punteggio
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Tabella 2- Risultati dell’indagine immunoistochimica
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- Citar trabajo
- Dr Gino Angelo Santarelli (Autor), 2011, Canine Melanoma: immunohistochemical evaluation of CD117/KIT receptor expression, Múnich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/429869
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