Nella prima sezione di questa tesi sono riportate delle generalità relative alle principali problematiche di tipo sanitario e manageriale riscontrate nell’allevamento degli psittacidi. Nella seconda vengono riportati alcuni dati relativi ad una ricerca riguardante la potenziale diffusione di parassiti ematici (Haemoproteus spp., Leucocytozoon spp., Plasmodium spp., Trypanosoma spp. e microfilarie) in pappagalli d’importazione e non, in zone del Centro Italia.
Dai risultati ottenuti si osserva che solo alcuni soggetti d’importazione sono stati riscontrati positivi per Haemoproteus handai, supportando l’ipotesi di una infezione contratta nel Paese di origine. Nei capi positivi non erano presenti sintomi clinici e alterazioni dell’esame emocromocitometrico. In nessuno dei soggetti esaminati, inoltre, è stato possibile evidenziare la presenza degli altri emoparassiti ricercati.
Indice
1. Introduzione
2. Norme per la detenzione degli psittacidi
3. Allevamento
3.1. Quarantena
3.2. Strutture ed attrezzature
4. Alimentazione
5. Riproduzione
6. Incubazione delle uova
7. Neonatologia
7.1. Allevamento naturale
7.2. Allevamento artificiale
8. Gli emoparassiti degli psittacidi
8.1. Ciclo biologico
8.1.1. Genere Haemoproteus
8.1.2. Genere Leucocytozoon
8.1.3. Genere Plasmodium
8.1.4. Genere Trypanosoma
8.1.5. Microfilarie
8.2. Parte sperimentale
8.2.1. Materiali e metodi
8.2.2. Risultati
8.2.3. Considerazioni e conclusioni
9. Bibliografia.
Sommario
Nella prima sezione di questa tesi sono riportate delle generalità relative alle principali problematiche di tipo sanitario e manageriale riscontrate nell’allevamento degli psittacidi.
Nella seconda vengono riportati alcuni dati relativi ad una ricerca riguardante la potenziale diffusione di parassiti ematici (Haemoproteus spp., Leucocytozoon spp., Plasmodium spp., Trypanosoma spp. e microfilarie) in pappagalli d’importazione e non, in zone del Centro Italia.
Dai risultati ottenuti si osserva che solo alcuni soggetti d’importazione sono stati riscontrati positivi per Haemoproteus handai, supportando l’ipotesi di una infezione contratta nel Paese di origine. Nei capi positivi non erano presenti sintomi clinici e alterazioni dell’esame emocromocitometrico. In nessuno dei soggetti esaminati, inoltre, è stato possibile evidenziare la presenza degli altri emoparassiti ricercati.
Parole chiave
Psittacidi, Emoparassiti, Haemoproteus spp.
Summary
The principal management and sanitary problems of psittacine farming are globally considered in the first section of this thesis. Data related to the incidence of blood parasites (Haemoproteus spp., Leucocytozoon spp., Plasmodium spp., Trypanosoma spp. and microfilariae) in psittacine birds of central Italy, imported and not, were also reported.
The results evidenced Haemoproteus handai only in some imported psittacine birds, supporting the hypothesis of the infection presence in original country. No clinical signs were present in positive subjects and the hemochrome examinations did not show values different from those reported in literature. Other blood parasites were not evident in all birds examined.
Key words
Psittacine, Blood parasites, Haemoproteus spp.
1. Introduzione
Gli ultimi anni hanno visto crescere nel nostro Paese il numero di possessori di animali esotici, come rettili, anfibi e uccelli di varie specie (soprattutto pappagalli), che, al pari di cani e gatti sono entrati a far parte della schiera degli animali da compagnia.
La provenienza di questi animali è sia di cattura che di allevamento; anche in Italia sono presenti allevamenti di animali esotici, di psittacidi in particolare.
La tipologia di allevamenti di psittacidi è varia, alcuni sono specializzati nella produzione di pappagalli di piccola taglia, quali Pappagallini ondulati (Melopsittacus ondulatus), Inseparabili (Agapornis spp.) e Calopsitte (Nymphicus hollandicus).
Altro tipo di allevamento è quello dei medi e grandi pappagalli (gen. Ara, Amazona, Cacatua, Psittacus), generalmente costituiti da poche decine di coppie, poiché si tratta di animali dal valore economico elevato.
Alcuni allevamenti infine sono di tipo misto, con pappagalli di piccola, media e grossa taglia.
Questa situazione ha portato ad una richiesta crescente di veterinari che sappiano fornire consigli sulla gestione di questi animali e, in risposta a questa necessità di informazione, si è assistito ad un notevole aumento delle ricerche sulla medicina degli animali esotici da parte di veterinari, laboratori diagnostici, mangimifici, case farmaceutiche ed in genere da parte di coloro che gravitano intorno al settore dei piccoli animali.
Nella prima parte di questa tesi sono riportate delle generalità relative all’allevamento degli psittacidi con cenni alle principali problematiche di tipo sanitario e manageriale.
Sono riportati inoltre nella seconda sezione i dati relativi ad una ricerca riguardante la potenziale diffusione di parassiti ematici in psittacidi di importazione ed in soggetti nati e allevati nel Centro Italia.
2. Norme per la detenzione degli psittacidi
La Convenzione di Washington è un trattato internazionale che, fin dal 1973, si propone di regolamentare il commercio internazionale delle specie animali e vegetali in pericolo di estinzione. Al trattato l’Italia aderisce dal 31/12/1979. Conosciuta anche con l’acronimo di CITES (Convention on International Trade in Endangered Species) la Convenzione suddivide le specie animali e vegetali, in base alla consistenza numerica delle popolazioni selvatiche ed al rischio che il commercio ne limiti ulteriormente il numero, in tre elenchi denominati Appendici:
- Appendice I: specie minacciate di estinzione per le quali, salvo
condizioni eccezionali, è vietato il commercio;
- Appendice II: specie che al momento attuale non sono minacciate di
estinzione, ma per le quali deve essere effettuato il controllo delle attività di commercio per limitare l’eccessivo sfruttamento delle popolazioni selvatiche;
- Appendice III: specie considerate a rischio di estinzione in uno degli Stati Parte e per le quali è necessaria la cooperazione degli altri Stati per impedirne e/o limitarne lo sfruttamento.
Ogni due anni e mezzo si riunisce la Conferenza degli Stati Parte della Convenzione durante la quale vengono adottati emendamenti alle Appendici e formulate raccomandazioni volte a migliorare gli aspetti tecnico-operativi della Convenzione. In tutte le Conferenze fino ad ora effettuate sono state apportate delle modifiche alle singole Appendici, per cui è possibile che una specie possa passare da un’Appendice ad un’altra a seconda del grado di incremento o decremento numerico raggiunto dalle popolazioni selvatiche.
In sede di Unione Europea è stato approvato il Regolamento del Consiglio n. 338/97, modificato dal Regolamento della Commissione n. 1332/2005, relativo alla protezione delle specie di flora e fauna selvatiche mediante il controllo del loro commercio. Successive modifiche ed integrazioni hanno definito l’attuale normativa in vigore in tutta l’Unione Europea.
Il nuovo regolamento comunitario dà piena attuazione alla Convenzione di Washington integrando nel suo testo quello della Convenzione stessa insieme alle altre normative comunitarie in materia di tutela delle specie selvatiche animali e vegetali. Le specie elencate nelle Appendici della Convenzione sono state, così, inserite in quattro elenchi (Allegati) insieme a specie non appartenenti alla CITES.
In linea di massima, le specie in Appendice I sono comprese nell’Allegato A quelle in Appendice II nell’Allegato B, le specie in Appendice III sono comprese nell’ Allegato C.
Tutte le specie di psittacidi, ad esclusione del Pappagallino ondulato (Melopsittacus ondulatus), della Calopsitta (Nymphicus hollandicus), dell’Inseparabile faccia rosa (Agapornis roseicollis) e del Parrocchetto dal collare asiatico (Psittacula krameri) sono soggette a controllo. Molte specie sono inserite in allegato A, il parrocchetto dal collare africano è inserito in allegato C, tutte le specie rimanenti in allegato B.
Fanno parte dell’allegato VIII del Regolamento della Commissione n. 939/97 alcune specie per le quali è riconosciuta la facilità di riproduzione ed allevamento in cattività. Gli esemplari appartenenti a queste specie possono essere commercializzati senza il rilascio del documento CITES di cui all’art. 10 del Reg. CE n. 338/97, sempre che siano regolarmente marcati secondo le disposizioni dell’art. 36 del Reg. CE n. 939/97. Tali disposizione si applicano anche agli ibridi ed alle mutazioni. Le specie di nostro interesse sono: Kakariki fronte rossa (Cyanoramphus novaezelandiae) e Parrocchetto dal cappuccio (Psephotus dissimilis).
Il possessore di uccelli protetti dalle normative comunitarie è tenuto a rispettare alcune regole che risultano significativamente più restrittive se la specie in questione si trova in Allegato A. Gli ibridi derivati da due specie incluse in differenti Allegati seguono la normativa relativa alla specie inserita nell’Allegato più restrittivo, così come per i soggetti portatori di mutazioni sono valide le prescrizioni previste per i soggetti ancestrali della stessa specie.
La detenzione, vendita o cessione di specie incluse nell’Allegato A è vietata, a meno che non si tratti di soggetti nati in cattività o ai quali possano applicarsi le altre deroghe previste dall’art. 8 del Reg. CE n. 338/97 (fini scientifici o di ricerca o di riproduzione). Per questi animali, come per quelli in Allegato B, è necessario che il possessore sia sempre in condizione di produrre, ad ogni eventuale controllo, i documenti di acquisizione (fattura di acquisto, dichiarazione di cessione, denuncia di nascita) sui quali devono essere specificati gli estremi dei documenti da cui sia possibile risalire alla provenienza degli uccelli.
Le modalità di applicazione del regolamento CE n. 338/97 sono elencate nel regolamento CE n. 1808/2001.
Ogni esemplare in Allegato A in possesso dell’allevatore deve essere opportunamente marcato: può essere applicato un anello inamovibile nei primi giorni di vita (di dimensioni tali che successivamente non possa essere asportato) che non presenti alcuna interruzione o segno di saldatura o, in alternativa, è possibile identificare gli uccelli impiantando un radiosegnalatore a microcircuito non modificabile.
I piccoli delle specie in Allegato A vanno denunciati al Servizio Certificazione CITES del Corpo Forestale dello Stato (CFS) entro 10 giorni dalla nascita inviando una raccomandata con ricevuta di ritorno o consegnando a mano la denuncia stessa. È facoltà del CFS accertare l’effettiva nascita dei piccoli dichiarati così come sottoporre gli animali a prelievo di sangue per eseguire, in particolare per le specie in Allegato A, opportune prove volte, attraverso l’esame del DNA (esame di fingerprinting), ad accertarne la discendenza.
Solo per gli esemplari selvatici in Allegato A è obbligatorio denunciarne l’avvenuto decesso presso il più vicino ufficio del CFS (Legge 150/92 modificata dalla Legge 426/98).
È fatto obbligo a chiunque detenga esemplari selvatici in Allegato A di comunicare le eventuali variazioni del luogo di custodia presso il più vicino ufficio del CFS. Lo spostamento di questi uccelli è subordinato all’autorizzazione del CFS (con rilascio di un certificato) a meno che ciò non avvenga per urgenti trattamenti veterinari (comunque da documentare).
L’introduzione nella Comunità di esemplari di cui all’Allegato A e B è subordinata all’attuazione di verifiche e alla presentazione, presso l’ufficio doganale di introduzione, di una licenza di importazione, mentre l’introduzione di esemplari di specie inserite negli Allegati C e D è subordinata alla presentazione di notifiche di importazione. Inoltre, per l’esportazione e riesportazione dalla Comunità di esemplari di specie inserite negli Allegati A, B e C è necessario presentare presso gli uffici doganali delle licenze di esportazione o certificati di riesportazione.
3. Allevamento
Nella gestione di un allevamento di psittacidi, in particolare in relazione all’alimentazione, alle strutture, alle attrezzature, alla riproduzione, al benessere degli animali, vanno tenuti in considerazione dei principi che hanno origine essenzialmente dalla conoscenza dei fabbisogni comportamentali di base degli psittacidi.
I pappagalli sono animali particolarmente sensibili e quindi predisposti a subire stress: essi reagiscono in maniera esagerata a fattori negativi quali sovraffollamento, temperatura ed umidità sfavorevoli, cambiamento del luogo dove sono abituati a vivere, perdita del compagno o introduzione di un nuovo soggetto nella voliera, forti rumori e manipolazione da parte di estranei. Teniamo sempre conto che l’animale in cattività non può difendersi come farebbe in condizioni di libertà, fuggendo da quella che considera una fonte di pericolo. Spesso non gli è data neanche la possibilità di un riparo all’interno della voliera dove possa sentirsi al sicuro. Uno stress prolungato provoca frequentemente nell’animale comportamenti anormali come il fenomeno dell’autodeplumazione (Liberti, 1995); si può avere anche una riduzione delle difese immunitarie che nei casi limite permette ad agenti infettivi opportunisti di intervenire come causa di malattia o addirittura di morte (Flammer, 1986). Molti stati di malattia o di morte si manifestano nelle prime due settimane dall’introduzione di un soggetto in un allevamento o dall’acquisto da parte di un privato.
3.1. Quarantena
La quarantena degli uccelli è una pratica finalizzata a prevenire l’introduzione di microrganismi patogeni in un allevamento o in ambiente domestico. È importante che gli uccelli da inserire in un allevamento provengano da fonti sicure e si presentino in perfetta salute. Al fine di prevenire la diffusione di malattie infettive, gli uccelli di importazione diversi dal pollame, in base al Decreto Legislativo n. 633 del 12/11/96, devono provenire da un’azienda non soggetta a misure restrittive nei riguardi della Malattia di Newcastle e in cui non si siano verificati casi di Influenza Aviare nei trenta giorni precedenti la spedizione. Gli psittacidi in particolare devono essere identificati mediante apposizione di un anello alla zampa o di un microchip e devono provenire tutti da aziende in cui non si siano verificati casi di Clamidiosi (Psittacosi) da almeno due mesi.
Tutti gli uccelli provenienti da Stati non facenti parte della Comunità Europea devono trascorrere un periodo di quarantena della durata di almeno trenta giorni, durante il quale sono sotto vincolo sanitario e soggetti ad osservazione veterinaria (O.M. 30/4/59 e O.M. 23/6/72). Tuttavia per l’evidenziazione di alcune patologie è preferibile sottoporre tutti gli psittacidi ad un periodo di quarantena di almeno sessanta giorni.
I requisiti degli impianti di quarantena destinati ad accogliere uccelli diversi dal pollame provenienti da paesi terzi sono stabiliti dalla decisione della Commissione della Comunità Europea del 16/10/00.
La struttura deve essere posta ad una distanza da altri allevamenti di volatili ritenuta idonea ad impedire la diffusione per via aerogena dei virus della Malattia di Newcastle e dell’Influenza aviare, gli ambienti e tutte le attrezzature contenute in essi devono essere facilmente lavabili e disinfettabili, ciascuna unità di quarantena deve essere separata dalle altre.
La normativa prevede inoltre la ricerca delle clamidie in soggetti sospetti e il ricorso a due esami virologici a partire da campioni fecali o tamponi cloacali per escludere la presenza della Malattia di Newcastle e dell’Influenza aviaria, da effettuarsi uno al momento dell’acquisto e l’altro alla fine del periodo di quarantena su un campione di sessanta volatili (o l’intera partita se il numero di soggetti è inferiore). Nella eventualità della presenza di psittacosi si procede con un trattamento adeguato dei soggetti e la proroga della quarantena di almeno sessanta giorni dall’ultimo caso accertato.
Gli uccelli in quarantena devono essere accuditi per ultimi ed è consigliabile utilizzare delle sovravesti e calzari usa e getta al fine di evitare la diffusione di eventuali malattie infettive.
La procedura per la valutazione dello stato sanitario degli uccelli dovrebbe comprendere alcuni test quali: la registrazione del peso, indagini sierologiche per la clamidia, strisci di feci colorati con il metodo di Gram, ricerca di parassiti intestinali attraverso uno striscio diretto o tramite flottazione e, soprattutto nei soggetti destinati alla riproduzione, test per la ricerca del Polyomavirus e del virus della Malattia del Becco e delle Penne. Possono essere eventualmente eseguiti tamponi cloacali ed esami colturali per la ricerca di batteri enteropatogeni ed esami del sangue in cui verranno valutati i parametri ematochimici ed ematologici e l’eventuale presenza di emoparassiti (Norman, 1992).
3.2. Strutture ed attrezzature
Il luogo in cui sorge un allevamento di psittacidi dovrebbe avere alcune caratteristiche particolari. Innanzitutto, considerando che i pappagalli non amano rumori improvvisi, è bene che nelle vicinanze dell’allevamento non ci siano sorgenti di inquinamento acustico; non bisogna dimenticare d’altro canto che i pappagalli stessi sono molto rumorosi e la loro presenza potrebbe disturbare la quiete dei confinanti
(Johnson et al., 1992). Le gabbie verranno poste in modo tale che non sia necessario passarvi continuamente vicino per le operazioni di routine. E' sconsigliabile la presenza di altre specie di volatili nelle vicinanze degli psittacidi, tanto meno la presenza di allevamenti intensivi che potrebbero essere fonte di diffusione di malattie infettive.
I pappagalli possono essere allevati in gabbie o in voliere.
Le prime, adatte a specie di piccole dimensioni, come Parrocchetti australiani, Inseparabili, Calopsitte, Ondulati, offrono come vantaggi l’economicità, la facilità di pulizia e la possibilità di spostamento da un luogo all’altro.
Le gabbie sono solitamente posizionate in batterie all’interno di locali (stanze di allevamento) (fig. 1). Tra le gabbie poste fianco a fianco ove sono alloggiati i pappagalli di specie molto territoriali, quali ad esempio i Parrocchetti australiani, per impedire che questi combattano tra loro, è opportuno porre un divisorio in modo che non si vedano (Flammer, 1986).
L’alloggiamento delle ciotole del cibo dovrebbe essere raggiungibile dall’esterno senza aprire la porta della gabbia. Un sistema adatto a questo scopo consiste nel porre una sorta di “cestino” di rete metallica sotto il pavimento della gabbia, con una apertura-chiusura a scatto ove porre la ciotola. Un foro sul pavimento della gabbia permetterà all’uccello di raggiungere il cibo e avrà dimensioni tali che il pappagallo non potrà rovinare o rovesciare la ciotola (Johnson et al., 1992). Possono inoltre essere utilizzate delle mangiatoie girevoli (fig. 2). La gabbia avrà aperture su più lati in modo che con il braccio si possa raggiungere qualunque punto della gabbia stessa per cambiare i posatoi e per catturare l’animale.
Le voliere sono indicate per pappagalli di grossa taglia quali le Ara, i Cacatua, le Amazzoni e i Cenerini; le dimensioni, maggiori delle gabbie, permettono a questi uccelli grande possibilità di movimento e di volo. Questa tipologia di allevamento dovrebbe essere circondata da una recinzione che abbia funzione di frangivento, barriera acustica e barriera visiva allo scopo di proteggere la privacy dei volatili e di impedire l’accesso ai nocivi sia domestici che selvatici (cani, gatti, volpi, faine, ecc.), che potrebbero predare i volatili o trasmettere malattie infettive. Tale recinzione può essere costruita in rete metallica in associazione ad una siepe o a teli ombreggianti ed eventualmente ad una banda elettrificata nella parte superiore.
Le voliere sono normalmente poste in serie; il lato comune è costituito da rete nella parte bassa e da uno schermo visivo nella fascia dove sono posti i posatoi, per evitare che nel periodo degli accoppiamenti i maschi, vedendo negli uccelli confinanti dei rivali, si distraggano simulando dei combattimenti.
Considerando l’abitudine dei pappagalli di masticare qualsiasi cosa per combattere la noia, è opportuno che la struttura portante sia in metallo e non in legno: le voliere saranno quindi costruite con rete metallica di dimensione e diametro adeguato alla specie che devono contenere; per pappagalli come le Ara viene utilizzata addirittura la rete elettrosaldata. Oltre alla parte all’aperto, dove i pappagalli compiono gli esercizi di volo e trascorrono gran parte del tempo, le voliere si compongono di una zona chiusa, il ricovero (fig. 3), all’interno del quale i pappagalli
possono ripararsi da freddo, pioggia e quando sono disturbati. Queste due zone devono poter essere raggiunte singolarmente.
All’interno della parte chiusa è posta la cassetta-nido (fig. 4), costruita in legno e, spesso, con fascette di protezione in metallo sugli spigoli. La forma e le dimensioni del nido variano in relazione alla specie considerata, per i pappagalli di taglia grande sono molto utilizzati i nidi a “L” rovesciata (fig. 5).
Il calcestruzzo è il materiale più adatto per la pavimentazione in quanto se verniciato con smalti lavabili facilita le operazioni di pulizia e disinfezione; inoltre non permette l’accesso ai nocivi. A volte vengono utilizzati pavimenti coperti con sabbia; essi presentano come svantaggi la difficoltà nella pulizia e la possibilità di provocare ostruzione intestinale nei pappagalli che ingeriscano eccessive quantità di tale materiale (Flammer, 1986).
Le voliere sono spesso sostituite da gabbie sospese, il cui pavimento grigliato è appoggiato su supporti che le isolano dal terreno; ciò permette alle feci di cadere così che l’uccello non si ricontamini con le sue stesse deiezioni, bloccando il ciclo di eventuali parassiti. Così pure il cibo cadendo attraverso la griglia riduce la possibilità che l’animale lo assuma sporco e contaminato.
All’interno della voliera potranno essere posti dei rami di alberi, purchè non velenosi, che permettono all’animale di posarsi e di arrampicarsi (fig. 6). La sostituzione dei posatoi deve essere agevole, poiché i pappagalli tendono a distruggerli con facilità. Nelle voliere con più uccelli i posatoi devono essere posti alla stessa altezza per evitare le lotte dovute al fatto che gli uccelli desiderano stare sul posatoio più alto (Flammer, 1986).
Le ciotole con il cibo e l’acqua, come nelle gabbie, devono poter essere raggiunte dall’esterno da un apposito sportellino. L’alloggiamento ideale dei contenitori con il cibo consiste in un supporto, posto ad una certa altezza dal suolo, sovrastato da una tettoia che impedisca alla pioggia di bagnare il cibo e agli uccelli di defecarvi; sotto il supporto della ciotola può essere posizionato un vassoio che impedisca al cibo scartato dal pappagallo di cadere a terra dove potrebbe attirare i roditori. Ovviamente davanti al supporto della ciotola è sistemato un posatoio. Nel caso si adottino dei dispencer automatici di semi, questi devono essere controllati quotidianamente per quanto riguarda il livello e la funzionalità.
Per impedire la fuga degli animali usciti accidentalmente dalle gabbie, è opportuno che la zona antistante le porte sia protetta da una sorta di seconda gabbia. La protezione può essere realizzata mediante una rete di nylon a maglie sottili di adeguata robustezza, che avvolga completamente la zona dove sono poste le gabbie. Questo tipo di rete non permette al pappagallo fuggito di romperla con il becco, ha un costo minimo e la versatilità nell’adattarsi a circondare alberi o asperità del terreno la rende molto utile allo scopo di creare la zona di sicurezza (safety net) (Johnson et al., 1992).
La zona di sicurezza può essere realizzata anche ponendo le voliere in serie in file parallele e coprendo con rete metallica i corridoi formatisi tra le file (fig. 7). Ai corridoi si accede tramite una doppia porta che garantisce maggiore sicurezza in caso di fughe. Può essere anche adottato un altro metodo, particolarmente ingegnoso: l’operatore si sposta tra le voliere all’interno di una sorta di gabbia con le ruote chiusa su tre pareri e sul soffitto, accostando e facendo combaciare il lato aperto sulla parete della gabbia dove si trova la porta.
Per quanto riguarda la disposizione dei pappagalli nell’ambito dell’allevamento andranno prese in considerazione le esigenze delle singole specie; ad esempio uccelli abituati a nidificare in colonia come le Ara, potranno essere posti in voliere vicine tra loro; i Cacatua, amanti della tranquillità, andranno sistemati lontani dalle rumorose Ara (Flammer, 1986).
Nell’allevamento non deve mancare un locale adibito ad infermeria che sia luminoso e facilmente riscaldabile. Questo locale deve essere separato dalle voliere e dalla zona della quarantena.
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Figura 1- Gabbie con nidi a cassetta verticale per pappagalli di piccole dimensioni
Figura rimossa per motivi di privacy
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Figura 2- Mangiatoie girevoli.
Figura rimossa per motivi di privacy
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Figura 3- Voliere con ricovero poste in serie.
Figura rimossa per motivi di privacy
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Figura 4- Ricovero con nidi; l’accesso è separato dalla parte esterna della voliera.
(da http://www.babyparrots.it).
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Figura 5- Nido a “L” rovesciata
(da http://www.terenziani.it).
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Figura 6- Gabbie sospese arredate internamente con rami di alberi.
Figura rimossa per motivi di privacy
Abbildung in dieser Leseprobe nicht enthalten
Figura 7- Zona di sicurezza realizzata chiudendo il corridoio tra le voliere.
Figura rimossa per motivi di privacy
4. Alimentazione
I fabbisogni alimentari dei pappagalli sono estremamente complessi e molto variabili nell’ambito dello stesso ordine degli Psittaciformi.
A seconda dell’habitat naturale ove questi vivono, ci saranno soggetti che si alimentano di semi, altri di nettare e polline, altri ancora integrano la loro dieta con insetti e frutti (Long, 1984).
II cibo che deve essere fornito ad un pappagallo non solo deve essere il più simile possibile a quello che la specie mangerebbe nel suo habitat, ma, soprattutto se l’animale è allevato a scopo riproduttivo, deve essere nutrizionalmente bilanciato. La convinzione infatti che un pappagallo sappia istintivamente riconoscere quale sia il cibo più adatto ai suoi fabbisogni è completamente errata: molti soggetti, in particolare i grandi psittacidi, tendono a manifestare il cosiddetto fenomeno del monofagismo, cibandosi di uno o pochi alimenti tra quelli che vengono loro messi a disposizione (Kollias, 1995). Se si verifica una situazione di questo tipo, peraltro difficile da correggere, è bene eliminare il cibo preferito dal soggetto presentandogli un pastoncino umido dove i componenti siano ben miscelati. Il pericolo del monofagismo è che si creino pericolosi stati carenziali che minacciano la salute del pappagallo. Le malattie legate direttamente o indirettamente ad una dieta non bilanciata sono tra le più frequenti nei pappagalli (Jones, 1979; Tol- lefson, 1982). I motivi della facilità con cui si hanno carenze nutrizionali negli psittacidi sono essenzialmente legati alla scarsità di studi specifici sui fabbisogni nutrizionali di questi animali. Le stesse miscele di semi che si trovano in commercio, spesso, non sono adeguate ai fabbisogni dei pappagalli che, come detto all’inizio del capitolo, trovano nei semi solo una parte dei costituenti della loro dieta. Stati carenziali possono verificarsi anche se il pappagallo ha problemi di conformazione del becco, lesioni alla lingua o presenta vomito e diarrea (Lawton, 1992). Spesso la dieta offerta ai pappagalli contiene un eccesso di sostanze grasse ed è invece carente per l’apporto proteico, vitaminico e minerale; le principali patologie conseguenti sono l’obesità, la lipidosi epatica, l’ipovitaminosi A, la carenza di calcio e di vitamina D3 e la carenza di iodio (Wallach, 1967; Wallach, 1970; Wallach, 1979; Pitts, 1983; Turner, 1985; Lowestine, 1986).
Il fabbisogno energetico teorico (espresso in Kcal al giorno) per il mantenimento degli uccelli adulti in generale secondo Dolphin (1987), può essere calcolato con questa formula:
Fabbisogno energetico basale = (log peso corporeo in grammi / 0,021) - 1,128
Ovviamente la quantità di energia richiesta da un uccello varierà in funzione della specie, età, attività fisica, temperatura ambientale, taglia (minori sono le dimensioni di un uccello, maggiore è il fabbisogno energetico in rapporto al peso) e stato riproduttivo. Indicativamente un soggetto di 53 gr ha bisogno di 21 Kcal al giorno, pari a 400 Kcal/Kg (Earle et al., 1991). Gli uccelli utilizzano come fonti energetiche i grassi, i carboidrati e le proteine.
Per quanto riguarda il fabbisogno proteico, alcuni studi riguardanti i Pappagallini ondulati, indicano una percentuale del 10% di proteine per gli adulti in mantenimento e valori del 15% per i soggetti in accrescimento (Depper et al., 1988); tale valore va elevato al 20% per le giovani Calopsitte (Roudybush et al., 1986).
L’abitudine di fornire ad libitum il cibo ai pappagalli è sostanzialmente scorretta per diversi motivi: innanzitutto non si può verificare la quantità di alimento assunta dal soggetto e il cibo stesso può andare incontro a deterioramento, in particolare se umido e se la temperatura ambientale è alta. Inoltre fornire il pasto suddiviso in diversi momenti della giornata, mantiene vivo l’interesse e la curiosità del pappagallo impedendogli di annoiarsi.
Correggere una dieta sbilanciata può essere piuttosto difficile e delicato per i pappagalli di grosse dimensioni. Il passaggio dalla vecchia alla nuova dieta deve essere graduale sostituendo mano a mano il nuovo cibo al vecchio. Il soggetto può essere invogliato ad assaggiare il nuovo pasto unendo al miscuglio degli alimenti particolarmente graditi quali carote, frutta, zucchero di canna, ecc. (Kollias, 1995). È stato inoltre osservato un aumento dell’appetibilità del pasto integrando quest’ultimo con gli aromi naturali dei prodotti dolci da forno, come l’essenza di vaniglia; anche simulare di mangiare il nuovo alimento può stimolare quei pappagalli che abitualmente imitano il loro proprietario.
Per quanto riguarda i pappagalli tenuti in gruppo nella stessa voliera è probabile che non appena uno di questi si converta alla nuova dieta, tutti gli altri si adegueranno imitandolo. Nel caso il pappagallo sia restio ad assumere il nuovo alimento, l’allevatore dovrà controllare costantemente il suo stato di salute poiché questo può arrivare a rifiutare completamente il pasto anche se costituito dalla vecchia dieta (ipofagia) (Kollias, 1995); in tal caso il soggetto andrà alimentato per qualche giorno attraverso una sonda con quantità di cibo variabili in funzione delle dimensioni del pappagallo (Quesenberry, 1994). In ogni caso un pappagallo restio andrà alimentato al mattino con il nuovo alimento e al pomeriggio con il vecchio per evitare che il digiuno serale lo porti di notte ad uno stato ipoglicemico (Kollias, 1995). Per sopperire ad eventuali carenze che si possono creare durante il passaggio dal vecchio al nuovo regime alimentare si tende a somministrare integratori vitaminici e minerali.
La varietà di alimenti che può entrare a far parte della dieta di un pappagallo è rappresentata da granaglie, come tutte le varietà di grano, avena, grano saraceno, mais grossolanamente spezzato, girasole, canapa, cartamo, orzo, niger, panico e miglio; quest’ultimo può essere fornito anche in rametti e si dimostra utilissimo nel periodo della muta e per invogliare a mangiare da soli i giovani pappagalli appena usciti dal nido che hanno difficoltà a nutrirsi dalla ciotola.
I legumi, quali piselli, fagioli e soia, possedendo un alto contenuto di proteine e basso contenuto di grassi, sono ideali per l’alimentazione di quei pappagalli che tendono ad ingrassare, come Amazzoni, Pionus e Cacatua (Stoodley et al., 1992). Tutti i semi elencati, i legumi in particolare, possono essere somministrati agli uccelli dopo essere stati posti in acqua a germinare per due o tre giorni.
La frutta e le bacche sono generalmente ben accette dai pappagalli se ben mature. Si possono fornire mele, pere, prugne, pesche, uva (anche passita), fichi (anche secchi), piccoli frutti quali lamponi, more, ecc., bacche di biancospino, di ginepro, di prugnolo e di sambuco. Graditissimi anche nocciole, pinoli ed arachidi, che devono essere però accuratamente razionati per l’alto contenuto di grassi, mentre possono essere somministrati in maggiore quantità alle Are e ai Cacatua di taglia grande, che necessitano di una dieta particolarmente energetica.
Si possono anche somministrare verdure (sedano, carote, crescione, erba medica, lattuga) ed erbe selvatiche quali il senecione e il tarassaco. Rametti di alberi non velenosi, quali noccioli o alberi da frutto, sono generalmente graditi ai pappagalli che mangeranno foglie, germogli e probabilmente utilizzeranno la corteccia come materiale per foderare il nido.
Possono essere inoltre somministrati grit, ossi di seppia ed integratori vitaminico-minerali, soprattutto alle specie africane, come il Pappagallo cenerino, che necessitano di un maggiore apporto di calcio nella dieta ed in particolare nei periodi della muta e della riproduzione.
Alcuni alimenti tradizionalmente legati all’alimentazione umana possono essere tranquillamente dati ai pappagalli; tra questi troviamo uova sode, yogurt, ricotta, formaggi duri, pane, pasta e riso bolliti e carne cotta. È da evitare invece il latte poiché contenente lattosio, zucchero non digerito dagli uccelli.
Un discorso a parte va fatto per i Lori, che in natura si cibano quasi esclusivamente di polline e nettare. Riprodurre fedelmente la loro dieta è chiaramente impossibile e molti allevatori hanno delle personali ricette per preparare un “nettare” adatto alle esigenze di questi volatili costituito generalmente da verdure disidratate in polvere, multicereali per bambini, succhi di frutta, zucchero, acqua e integratori.
Particolarmente interessanti sono i mangimi estrusi e pellettati, probabilmente i migliori dal punto di vista nutrizionale, sanitario e pratico e per la prevenzione del fastidioso fenomeno del monofagismo. Esperienze d’allevamento indicano quale migliore dieta quella composta al 40% da cibo preparato in allevamento e al 60% da mangime pellettato (Ullrey et al., 1991). Nelle tabelle 1, 2 e 3 sono riportate rispettivamente le caratteristiche di mangimi estrusi in commercio per pappagalli di piccole e grandi dimensioni e di un alimento per nidiacei di pappagalli di grossa taglia.
Tabella 1 - Caratteristiche di un mangime estruso in commercio per pappagalli di piccole dimensioni.
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Tabella 2 - Caratteristiche di un mangime estruso in commercio per pappagalli di grosse dimensioni.
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Tabella 3 - Caratteristiche di un mangime in commercio per nidiacei di pappagalli di taglia grande.
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5. Riproduzione
L’obbiettivo di un allevatore è di ottenere il maggior numero possibile di giovani soggetti sani dalle proprie coppie. I pappagalli possono essere tenuti a scopo riproduttivo in colonia o in coppie a seconda delle abitudini delle singole specie e delle esigenze dell’allevatore. L’infertilità, intesa come incapacità a produrre uova o a produrre uova feconde, è un’evenienza frequente negli uccelli da gabbia.
Una stretta collaborazione tra veterinario ed allevatore è fondamentale per una corretta diagnosi d’infertilità poiché la causa, nella maggior parte dei casi, va ricercata in problemi di tipo manageriale piuttosto che di tipo medico.
Una delle ragioni maggiori di insuccesso riproduttivo sono le coppie omosessuali (Stoodley et al., 1992). Il comportamento in questi soggetti è del tutto simile a quello di una coppia eterosessuale: il soggetto dominante può persino rigurgitare il cibo per quello più debole e quest’ultimo può covare uova chiare per lunghi periodi fino a deperire (Stoodley et al., 1992). Questi soggetti, se vengono separati, soffriranno molto della mancanza del compagno e si chiameranno insistentemente. In questi casi è bene allontanare dall’allevamento uno dei due soggetti. Riformare una nuova coppia, ponendo un nuovo partner, è difficile e richiede tempo poiché i soggetti potrebbero essere aggressivi o ignorare il nuovo compagno a lungo. Pertanto è essenziale effettuare il sessaggio dei soggetti prima possibile in quelle specie che non manifestano dimorfismo sessuale.
In molti casi, infatti, maschio e femmina della stessa specie sono morfologicamente indistinguibili (specie monomorfiche), mentre alcune specie presentano un chiaro dimorfismo sessuale che semplifica il riconoscimento del sesso. Negli Psittacidi le specie dimorfiche sono diffuse soprattutto nel sud-est asiatico (l’80% delle specie presenta dimorfismo sessuale), mentre quelle monomorfiche sono diffuse in particolare in Sud America (l’87% delle specie sudamericane non presenta dimorfismo) ed in minor misura in Africa (66%) ed in Oceania (58%). Precedentemente all’avvento delle tecniche chirurgiche e genetiche la determinazione del sesso era improntata su caratteristiche morfologiche ed etologiche dei volatili ritenute dagli avicoltori sufficientemente valide. Tali metodi, non sempre attendibili, vengono qui di seguito elencati:
- Colore del piumaggio. Tale caratteristica è l’elemento principale per sessare la maggior parte delle specie dimorfiche in cui esiste una evidente differenza cromatica in alcune zone del corpo tra i due sessi. Nell’Ecletto tali differenze sono tanto pronunciate (il maschio ha un piumaggio verde smeraldo mentre la femmina è colorata di rosso e blu) che in passato maschio e femmina erano, erroneamente, ritenuti appartenere a specie diverse. Nelle Roselle la livrea del maschio adulto è più brillante ed intensamente colorata di quella femminile. Le differenze possono essere più o meno accentuate. Molte delle caratteristiche cromatiche tipiche del sesso maschile si evidenziano solo negli individui adulti (ad esempio il collare rosa-nero che contraddistingue il maschio del Parrocchetto dal collare appare solo al terzo anno di vita) ed i soggetti giovani assomigliano, generalmente, alle femmine. In molte mutazioni di colore, inoltre, la differenza cromatica tra i sessi, tipica dei soggetti ancestrali, viene ad essere perduta con la nuova colorazione.
- Colore della cera. Nel maschio adulto del Pappagallino ondulato il
colore della cera è blu mentre nella femmina è marrone (nei giovani è azzurrino-violaceo). Tale caratteristica non si riscontra in alcune mutazioni di colore.
- Colore degli occhi. In molti Cacatua l’iride del maschio è nera o bruno
scura, mentre quella della femmina è rossastra. I giovani di ambo i sessi hanno l’iride di colore bruno-scuro. Le eccezioni sono possibili.
- Dimensioni corporee. In alcune specie il maschio presenta dimensioni maggiori della femmina; la differenza, tuttavia, può essere molto lieve, specie se non si ha l’occasione di confrontare più animali. L’esistenza di varie sottospecie, sovente di dimensioni differenti, può ulteriormente ingannare.
- Forma della testa e del becco. Alcuni allevatori usano sessare gli
uccelli in base alle dimensioni della testa e del becco, ritenute maggiori nei soggetti di sesso maschile. Il metodo, non privo di un elevato margine di errore, risulta di difficile attuazione se ci si trova in presenza di un solo individuo (mancanza di confronti) o di soggetti giovani.
- Ampiezza della pelvi. L’ampiezza della pelvi, misurabile empiricamente ponendo un dito in corrispondenza del basso ventre del volatile, dovrebbe essere maggiore nelle femmine per permettere il passaggio dell’uovo. Sebbene femmine che abbiano deposto possano avere il canale pelvico più ampio dei maschi, tale metodo ha un’affidabilità molto scarsa per la variabilità delle dimensioni del bacino anche in soggetti dello stesso sesso. Alcuni mesi dopo la deposizione, inoltre, le ossa pelviche della femmina possono nuovamente riavvicinarsi.
- Comportamento. In molte specie il comportamento di nidificazione può permettere l’identificazione dell’uno o dell’altro sesso a seconda delle caratteristiche di specie. Spesso i maschi tendono ad allontanare o aggredire i giovani dello stesso sesso. In molti casi, tuttavia, le condizioni di alloggiamento inadeguate o l’ambiente sfavorevole impediscono agli uccelli di esprimere in pieno il proprio comportamento riproduttivo. Inoltre il comportamento sessuale può ingannare poiché, come è stato già precedentemente riportato, è frequente osservare coppie costituite da individui dello stesso sesso (Bendheim, 1999).
Tra i metodi di laboratorio per la determinazione del sesso ricordiamo l’analisi ormonale e i metodi genetici.
La prima tecnica rileva, attraverso il dosaggio radioimmunologico, la presenza degli ormoni sessuali nelle feci ed il rapporto tra testosterone ed estrogeni. Il metodo è fortemente condizionato da fattori fisiologici ed ambientali (età dei volatili, ciclo riproduttivo stagionale, ore di luce) e non trova, al momento, sufficiente applicazione.
I metodi genetici consistono nell’analisi cromosomica e nell’impiego di sonde molecolari a DNA (sequenze di sintesi di nucleotidi marcati adatte a riconoscere la sequenza complementare del DNA che si vuole individuare).
Attraverso l’esame del cariotipo è possibile conoscere il sesso del volatile ed individuare anche eventuali anomalie cromosomiche. A differenza di quanto avviene nei mammiferi i cromosomi sessuali degli uccelli sono indicati dalle lettere W e Z e il sesso eterogametico è il femminile (ZW), mentre quello omogametico è il maschile (ZZ). In caso di soggetto di sesso femminile quindi sarà possibile osservare, tra le coppie formate da cromosomi omologhi (autosomi) una coppia costituita da due elementi di forma differente (eterocromosomi) (Halverson, 1997; Pence, 1996).
La determinazione chirurgica del sesso consiste nell’esecuzione di un’endoscopia dal fianco sinistro (nella femmina il solo ovaio sinistro è funzionante).
Alcune ore di digiuno prima dell’intervento sono necessarie solo per quegli uccelli che ingeriscono cibi molto voluminosi (come i Lori alimentati con nettare artificiale). Il proventricolo particolarmente disteso potrebbe rendere difficile la visualizzazione delle gonadi ed essere inavvertitamente lesionato all’atto dell’introduzione del trequarti.
Il volatile deve essere attentamente esaminato prima dell’intervento, che andrebbe evitato in soggetti non in perfetta salute ed in condizione di iperventilazione.
Attraverso la sonda dell’endoscopio è possibile visualizzare la gonade, collocata posteriormente alla ghiandola surrenale e in posizione craniale e leggermente ventrale rispetto al lobo anteriore del rene.
L’ovaio della femmina matura ha il tipico aspetto di “grappolo d’uva” per la presenza dei follicoli in vario stadio di sviluppo. Nei soggetti immaturi l’organo ha la forma di una virgola ed è appiattito con superficie irregolare e solcata. In femmine particolarmente giovani l’ovaio può essere confuso con un testicolo, ma, a differenza di questo, non presenta le estremità arrotondate L’esame endoscopico dell’apparato riproduttore trova applicazione non solo per la determinazione del sesso, ma anche per diagnosticare (ed in alcuni casi risolvere per via endoscopica) alcune patologie quali malformazioni, neoplasie e sclerosi delle gonadi, infezioni delle vie genitali, presenza di uova ectopiche, cisti ovariche, stenosi dell’ovidutto o dei dotti deferenti ed aerosacculite con aderenze a livello delle gonadi. È possibile sessare chirurgicamente anche i nidiacei; tuttavia, la relativa maggiore grandezza degli organi addominali (in particolare del proventricolo) ed il minor volume dei sacchi aerei rendono l’osservazione delle gonadi particolarmente impegnativa.
È consigliabile, in ogni modo, non sessare soggetti di età inferiore alle 6 settimane (8 per le specie di grande taglia).
Questa tecnica chirurgica, se eseguita correttamente in volatili in buona salute, è rapida e sufficientemente sicura; tuttavia, trattandosi di una laparoscopia, esiste sempre la possibilità, seppure rara, che si osservino alcune complicanze. Tra queste la più frequente è l’arresto cardiaco; possono verificarsi anche lesioni degli organi interni, emorragie, enfisema sottocutaneo e traumi alle strutture muscolari o nervose determinanti zoppia, in particolare negli uccelli di piccola taglia.
Nella stragrande maggioranza dei casi, tuttavia, gli uccelli rispondono perfettamente al sessaggio chirurgico riacquistando rapidamente l’originaria vivacità ed alimentandosi già dopo poche ore dall’intervento.
Dopo averne determinato il sesso il volatile viene identificato mediante apposizione (alla zampa destra se maschio, sinistra se femmina) di un apposito anello di acciaio recante un numero progressivo ed una sigla identificativa del veterinario sessatore.
I vantaggi della determinazione chirurgica del sesso sono rappresentati dalla possibilità di conoscere lo stato di funzionalità delle gonadi, dalla immediatezza della risposta (l’esame del DNA richiede non meno di una settimana di attesa per il risultato) e, nel caso in cui vi siano da esaminare più uccelli, dal minore costo economico. Il sessaggio genetico, d’altra parte, non comporta nessun rischio per la salute del volatile e può essere eseguito anche in uccelli molto giovani. È preferibile ricorrere, quindi, all’analisi genetica nel caso in cui si voglia conoscere il sesso di un solo volatile (specie se si tratta di un “pet bird” di cui si conosca già l’età), di un uccello in non buone condizioni generali od in un soggetto di particolare valore (economico od affettivo) per il quale il proprietario non sia disposto a rischiare la minima possibilità di insuccesso. In tutti gli altri casi risulta più conveniente ricorrere al sessaggio chirurgico (Taylor, 1994).
6. Incubazione delle uova
L’incubazione delle uova dei pappagalli può avvenire in modo naturale (la cova avviene ad opera della coppia riproduttrice o di “balie”) od artificiale (le uova sono poste in incubatrice).
L’incubazione artificiale è consigliata per uova di taglia e forma anomala al fine di poterne controllare meglio lo sviluppo ed aumentarne le possibilità di schiusa. Viene inoltre attuata per incrementare il numero di soggetti nati (generalmente se vengono sottratte le uova ad una coppia seguirà una nuova deposizione), nei casi di decesso dei riproduttori, di cove irregolari e di disturbi comportamentali (uova deposte fuori dal nido o divorate) (Clubb et al., 1992).
Per gli stessi motivi si ricorre frequentemente all’uso di altre coppie, della stessa o di altra specie, che fungono da “balie”: si può infatti aumentare la produzione di soggetti di particolare pregio demandando a coppie di minor valore economico l’onere di allevare la nidiata. Alcune specie sono particolarmente predisposte a covare ed allevare la prole altrui. Spesso per le uova di pappagalli di taglia medio-grande sono impiegate come balie le galline di razze nane (come le “bantams”); è ovvio che in questi casi i pulcini devono essere prelevati alla nascita ed allevati artificialmente poiché non sarebbero alimentati dalla chioccia.
Di grande importanza è verificare lo stato di salute dei genitori adottivi che potrebbero essere portatori di germi patogeni per i neonati, soprattutto se appartengono ad una specie molto diversa da quella della prole adottata.
Nell’incubazione naturale molti maschi rigurgitano il cibo per la compagna che sta covando e “dialogano” con essa dal foro d’ingresso, altri come le Calopsitte o i Cacatua si alternano con la femmina nella cova. Durante il periodo della cova la femmina, generalmente, lascia le uova una o due volte al giorno per bere e defecare. Se viene disturbata, potrebbe rientrare nel nido troppo presto e danneggiare gli embrioni (Stoodley et al., 1992).
Una settimana dopo l’inizio dell’incubazione le uova devono essere sperate con un apparecchio portatile senza spostarle dal nido, al fine di rimuovere immediatamente le uova chiare.
Per quanto riguarda il numero di uova prodotte dalle varie specie, il periodo d’incubazione e la stagione riproduttiva si rimanda alla tabella 4.
In alternativa alla cova naturale c’è l’utilizzo delle macchine incubatrici che stanno entrando sempre più frequentemente negli allevamenti dei volatili ornamentali, riscuotendo un notevole successo presso gli allevatori di grandi psittacidi (fig. 8).
I vantaggi che si hanno con l’impiego di queste nuove tecniche di allevamento, oltre a quelli citati, sono legati all’allevamento artificiale dei piccoli, conseguenza dell’impiego dell’incubatrice.
Nel momento in cui avviene la deposizione, l’uovo ha la stessa temperatura corporea del volatile che lo ha deposto e va incontro, successivamente, ad un rapido raffreddamento. In queste condizioni si verifica all’interno dell’uovo una pressione negativa che potrebbe permettere, oltre al passaggio di aria, l’introduzione di microrganismi (batteri, miceti, virus), potenzialmente patogeni, presenti sul guscio. La contaminazione del guscio può essere ridotta dalla pulizia accurata del nido al termine di ogni ciclo riproduttivo e dal mantenere la gabbia in buone condizioni igieniche.
La raccolta delle uova deve essere fatta più volte al giorno con le mani ben pulite o protette da guanti di lattice, evitando così che queste si contaminino con le deiezioni presenti nel nido. Nelle stagioni più calde, in cui la temperatura all’interno del nido è simile a quella della macchina incubatrice, la raccolta deve essere più frequente, in quanto le uova potrebbero andare incontro al fenomeno della pre-incubazione con gravi danni a livello embrionale.
Il lavaggio delle uova non è raccomandato poiché viene ad essere allontanata la cuticola protettiva posta sul guscio; se questo è umido, inoltre, sarà più facile il passaggio dei microrganismi attraverso i pori. Nel caso in cui il guscio dell’uovo fosse particolarmente sporco converrà allontanare le particelle più grossolane utilizzando semplicemente una spazzola a setole morbide. È attuabile, sebbene sia raramente impiegata, la disinfezione delle uova nell’incubatrice utilizzando il permanganato di potassio o fumigazioni di formaldeide o nebulizzazioni con sostanze a base di cloro, in modo particolare nei primi giorni d’incubazione, mentre con il progredire dello sviluppo aumentano i rischi di tossicità per l’embrione.
Prima di essere poste nell’incubatrice le uova dovrebbero essere sempre numerate con una matita morbida in modo da poterne seguire individualmente lo sviluppo.
Molti allevatori, al fine di programmare la schiusa delle uova di specie diverse e deposte in periodi differenti, le conservano per alcuni giorni e successivamente, in ragione della diversa durata del periodo di incubazione, le pongono in incubatrice con il proposito di farle schiudere contemporaneamente. Bisogna considerare, però, che la conservazione delle uova influisce negativamente sulla schiusa. Più è lungo il periodo di conservazione delle uova, più deve essere bassa la temperatura alla quale le uova devono essere mantenute; tale temperatura deve avere valori di 15°C-20°C per le uova conservate per circa tre giorni, fino a valori di 12°C-14°C per quelle mantenute oltre 12 giorni. Si consiglia, comunque, di non prolungare tale periodo oltre 7-10 giorni.
Le uova nel periodo di conservazione vengono poste con il polo acuto rivolto verso il basso e possono essere disinfettate.
E' consigliabile preriscaldare le uova ad una temperatura di 23°C per circa 6-12 ore elevando la temperatura a 28°C due ore prima dell’immissione in incubatrice al fine di evitare la formazione di condensa.
In condizioni naturali gli uccelli non incubano costantemente le uova, ma di tanto in tanto abbandonano il nido per alimentarsi e defecare. Le uova, conseguentemente, subiscono un lieve raffreddamento che, in alternanza al successivo riscaldamento che avviene col ritorno dei genitori nel nido, risulta essenziale per un corretto sviluppo embrionale. Tale alternanza di temperatura, detta ritmo d’incubazione, è molto difficile da riprodurre artificialmente. Per tale motivo l’incubazione naturale delle uova dei pappagalli dà sempre risultati migliori di quella artificiale. Ciò è valido soprattutto per le specie di piccola taglia come Conuri, Calopsitte, Inseparabili e Parrocchetti: probabilmente le vibrazioni del motore della macchina incubatrice, la rotazione automatica delle uova e la turbolenza della ventola, sono troppo forti per gli embrioni di queste specie (Clubb et al., 1992).
Un valido compromesso per aumentare la produzione e mantenere una buona percentuale di schiusa potrebbe essere quello di permettere ai genitori (o alle balie) di incubare le uova, per trasferirle tra i 7 e i 17 giorni dalla deposizione in incubatrice. Parametri di incubazione e di schiusa Temperatura - Questo parametro influenza la velocità di sviluppo embrionale; essa deve mantenersi il più costantemente possibile su valori di 37,3°C-37,4°C; nel primo terzo del periodo di incubazione l’innalzamento della temperatura anche di un solo grado può determinare la morte dell’embrione, o comportare alterazioni del becco e delle zampe, mentre nell’ultimo terzo le variazioni di temperatura incidono in modo minore poiché il feto presenta una lieve capacità termoregolativa. Minore influenza negativa ha il lieve abbassamento di temperatura che può esitare semplicemente in un ritardo della schiusa.
Umidità - Le uova durante il periodo di incubazione perdono acqua sotto forma di vapore attraverso i pori del guscio. Tale perdita dipende dalla grandezza e dal numero dei pori e dalla umidità ambientale. Per ottenere una buona schiusa, l’uovo durante tutto il periodo dell’incubazione deve presentare una perdita di peso che si aggira su valori prossimi al 15% (Stoodley et al., 1992); pesando le uova ogni 3 giorni ed intervenendo variando il tasso di umidità è possibile ottenere la perdita di peso prevista. Questa operazione è riservata agli allevatori più esperti, in quanto l’uovo sottoposto a continua manipolazione può subire dei traumi.
Le esigenze di umidità variano a seconda delle specie, in particolare le uova di Cacatua necessitano di valori pari al 47%-48%, mentre quelle di Ara e di Amazzone rispettivamente di valori del 50%-51% e del 51%-52%. Nel caso si vogliano incubare contemporaneamente uova di specie differenti l’umidità consigliata è del 48%-49% (Clubb et al., 1992; Stoodley et al, 1992).
Valori più bassi di umidità relativa sono particolarmente critici nel primo terzo dell’incubazione poiché interferiscono con la mobilitazione del calcio dal guscio e di conseguenza con lo sviluppo dell’embrione. Un’eccessiva umidità determina in molte specie la schiusa di pulcini edematosi con mancato assorbimento del sacco vitellino.
Ventilazione - L’immissione forzata di aria dall’esterno, che deve avere valori di temperatura intorno ai 24°C, permette di fornire l’ossigeno e parte dell’umidità; inoltre rimuove l’anidride carbonica prodotta dalle uova ed il calore in eccesso.
Rotazione - È di fondamentale importanza che le uova subiscano una rotazione di 45°, in alternanza nelle due direzioni, ogni 4 ore.
Questa pratica previene l’adesione dell’embrione alle membrane del guscio, fenomeno abbastanza frequente nella prima settimana; essa inoltre favorisce lo sviluppo delle membrane embrionali. Col progredire dello sviluppo embrionale l’importanza della rotazione va diminuendo e le uova potrebbero essere ruotate meno frequentemente con l’approssimarsi della schiusa. Le migliori incubatrici possiedono sistemi di rotazione automatica reversibili. Durante l’incubazione l’uovo deve essere posto in posizione orizzontale e non verticale come avviene nelle uova di pollo, pena il verificarsi di malposizioni nel feto. La rotazione dell’uovo deve, inoltre, avvenire solo lungo il proprio asse maggiore, vale a dire quello che corre dal polo acuto al polo ottuso.
Le uova, 48 ore circa prima della schiusa, vengono sottoposte ad un’ulteriore speratura per verificare se vi siano malposizioni del feto (fig. 9) e per eliminare le uova con mortalità fetale; dopo di che vengono poste nella camera di schiusa e non più sottoposte a rotazione.
La temperatura richiesta nella camera di schiusa è di 36,5-36,9 °C con umidità pari al 70-80 %. L’alto tasso di umidità è utile a mantenere le membrane umide così che queste non aderiscano al feto mentre si muove all’interno dell’uovo nell’intento di rompere il guscio (Clubb et al., 1992).
Le uova devono essere maneggiate rapidamente per evitarne il raffreddamento, ma con cautela, in quanto in questo momento esse sono molto fragili a causa dell’utilizzo del calcio del guscio da parte del feto per lo sviluppo scheletrico: eventuali rotture del guscio possono essere letali per il verificarsi di emorragie.
Verso il termine dell’incubazione la testa del feto ruota dalla sua posizione originaria (rivolta verso il polo acuto dell’uovo) verso la camera d’aria.
L’aumento della pressione di CO2 induce una contrazione dei muscoli del collo il cui movimento determina la lacerazione della membrana della camera d’aria attraverso una struttura posta sulla sommità del becco nota come “dente dell’uovo”. A questo punto il feto entra in contatto con l’aria ed i suoi polmoni cominciano a funzionare. Parallelamente viene a chiudersi la comunicazione tra cuore destro e sinistro e la contrazione dei muscoli addominali permette la retrazione del sacco vitellino in cavità celomatica. In alcune specie il pulcino è in grado, a questo stadio, di emettere delle vocalizzazioni.
L’ambiente all’interno dell’uovo diviene presto saturo di CO2 inducente nuove contrazioni dei muscoli del collo che permettono la progressiva frammentazione del guscio e la definitiva fuoriuscita del pulcino.
Il periodo che trascorre tra il primo foro nel guscio e la schiusa è molto variabile ed è generalmente compreso tra le 24 e le 48 ore, ma in alcune specie (Are e Cacatua di grande taglia) sono documentati periodi più lunghi (fino alle 96 ore).
Figura 8- Incubatrice.
Figura rimossa per motivi di privacy
Malpositions observed in Psittacine Embryos at ABRC
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Position of parrot embryo that closely resembles normal position of chicken embryo. Head is rarely under the wing.
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Beak is rotated away from the air cell, equivalent Malposition IV of poultry.
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Breast is toward chorioallantoic membrane.
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Head is in the small end of the egg, equivalent of Malposition II of poultry.
Figura 9- A sinistra in alto posizione normale dell’embrione di pappagallo, in basso aderenza alla membrana del guscio a livello del torace, a destra due esempi di malposizione fetale.
(da Clubb et al., 1992)
Tabella 4 -
Caratteristiche riproduttive di alcune specie di pappagalli
(da Harrison and Harrison, 1986).
Abbildung in dieser Leseprobe nicht enthalten
7. Neonatologia
Tutti gli psittacidi generano prole inetta, bisognosa per un periodo più o meno prolungato, a seconda della specie, di appropriate cure parentali. Dal periodo neonatale fino allo svezzamento i pappagalli possono incorrere in varie patologie, sia che si trovino nel nido sotto le cure dei genitori sia che vengano allevati artificialmente in apposite incubatrici.
7.1. Allevamento naturale
L’allevamento naturale dei nidiacei presenta alcuni vantaggi: evita il considerevole lavoro di cui necessita l’allevamento artificiale, inoltre i pappagalli allevati dai genitori spesso sviluppano precocemente e possono acquisire tratti comportamentali specie-specifici di cui possono essere carenti i nidiacei allevati a mano.
Tale tipo di allevamento presenta anche degli svantaggi, per cui molti allevatori ricorrono all’allevamento artificiale per gli psittacidi di grandi dimensioni e più costosi, mentre l’allevamento naturale è più utilizzato per specie di piccole dimensioni, più prolifiche e di scarso valore commerciale, come Ondulati, Calopsitte e Inseparabili. Nell’allevamento naturale per un periodo di circa quindici giorni dopo la schiusa, il maschio rigurgita il cibo nel becco della compagna; questa lo tiene nel gozzo finché non assume una consistenza liquida ed è pronto per essere rigurgitato ai piccoli. Questo liquido contiene la flora batterica che si trova normalmente nel gozzo. Dopo qualche giorno il materiale che la femmina rigurgita diviene sempre più consistente fino ad apparire “grumoso” dopo una settimana o più dalla nascita.
Quando i pulli sono cresciuti ulteriormente e richiedono molto cibo il maschio stesso entra nel nido e rigurgita il materiale del gozzo ai piccoli (Stoodley et al., 1992). Al cibo che deve essere a disposizione delle coppie che alimentano i piccoli possono essere aggiunti biscotti, verdure, riso bollito, cereali da prima colazione ammorbiditi con latte o succo di frutta, uova sode (Harrison, 1986). Se il maschio è ammalato o muore o in ogni caso non è in grado di alimentare la compagna che si trova all’interno della cova, l’allevatore stesso dovrebbe provvedere a portare il cibo alla femmina. Può anche accadere che entrambi i genitori siano incapaci per qualsiasi motivo di alimentare i piccoli. In entrambi i casi la soluzione più semplice è l’adozione da parte di un’altra coppia abile che abbia pulli della stessa età e dimensione e che ovviamente fornisca ai piccoli un’alimentazione adatta alla specie. I pulli (in quantità di uno o al massimo due) dovranno essere introdotti nel nido quando la femmina è assente (Stoodley et al., 1992).
Quando i giovani lasciano la cassetta-nido non sono in grado di volare correttamente come i genitori e non conoscono i confini della voliera; pertanto prima che escano la prima volta è opportuno predisporre molti posatoi e per rendere visibile la rete che costituisce la voliera si possono applicare fuori di essa dei rametti frondosi. Qualora i giovani pappagalli prendessero l’abitudine di dormire attaccati alla rete è consigliabile sistemare delle lastre fuori delle gabbie che li proteggano dalle intemperie e da eventuali predatori (Stoodley et al., 1992).
La valutazione dello stato di salute dei nidiacei allevati dai genitori nel nido è spesso difficoltosa. Le specie semi-domestiche, come Ondulati, Calopsitte e Inseparabili, possono tollerare ripetute valutazioni e manipolazioni della propria prole, mentre molti grandi psittacidi sono territoriali e spesso molto aggressivi nel difendere il nido. L’aggressività di questi soggetti viene indirizzata a volte contro i nidiacei e i traumatismi sono tra le patologie più frequenti nell’allevamento naturale.
7.2. Allevamento artificiale
L’allevamento artificiale, o allo stecco, dei volatili può essere intrapreso per diversi motivi, dipendenti o meno dalla volontà dell’allevatore. Queste sono le evenienze più frequenti:
- Produzione di soggetti particolarmente docili. Si tratta dell’evenienza più comune perché i volatili allevati a mano hanno un valore economico maggiore e sono più facilmente commerciabili.
I nidiacei nascono da uova incubate artificialmente o vengono sottratti dal nido tra i 10 ed i 20 giorni di età, periodo in cui si adattano bene all’alimentazione artificiale e non richiedono somministrazioni molto frequenti di alimento.
- Produzione di un maggior numero di soggetti.
- Allevamento di nidiacei malati o non curati dai genitori.
- Allevamento di nidiacei orfani.
- Prevenzione di malattie trasmissibili dai genitori ai nidiacei.
Il nidiaceo dovrebbe essere allevato in una stanza apposita (“nursery”) sufficientemente isolata dal resto dell’allevamento, nel rispetto delle più strette norme igieniche, in considerazione della delicatezza dei volatili ospitati. Il sistema immunitario dei nidiacei, infatti, non è ancora ben sviluppato ed essi possono essere facilmente vittime di infezioni, anche banali, cui gli adulti sono resistenti.
L’incubatrice per neonati deve essere costituita da materiale facilmente lavabile e disinfettabile e deve essere in grado di offrire al piccolo ospite le migliori condizioni microclimatiche. I pulli appena nati vengono posti singolarmente o in gruppi di massimo tre-quattro soggetti della stessa età e taglia in contenitori di plastica o di ceramica o in scatole di cartone di piccole dimensioni per evitare che si stanchino troppo girando nel contenitore. All’interno di questo viene sistemato del materiale assorbente, facile da pulire, soffice, non polveroso, che non dia problemi in caso di ingestione e che permetta ai pulli di alzarsi e muoversi agevolmente.
Il fondo di tale contenitore dovrebbe essere lievemente concavo in modo da simulare l’aspetto del nido. Sono sconsigliati altri substrati come la segatura, i trucioli, la sabbia, i pellets, per la facilità con cui possono essere ingeriti dai nidiacei. Nidiacei posti in contenitori troppo grandi o con il fondo liscio sviluppano di frequente lesioni e deformità ossee od articolari, in particolare alle zampe (fig. 10). L’ambiente ove sono sistemati questi contenitori deve essere a temperatura ed umidità controllate e deve essere separato dall’infermeria e dalla quarantena per ovvi motivi.
Durante i primi giorni di vita, la temperatura della cova deve essere di circa 35°C per decrescere gradualmente a 29°C quando sono presenti le penne emergenti su testa ed ali. Durante il completamento dell’impiumamento la temperatura potrà essere diminuita lentamente fino ad arrivare ai 25°C. Alla fine dello svezzamento i piccoli potranno essere posti in gabbiette con temperatura ambientale di circa 21°C.
I valori di temperatura vanno eventualmente riconsiderati in base all’osservazione del comportamento del nidiaceo. Se la temperatura è troppo elevata i volatili saranno distanti tra loro, terranno le ali separate dal corpo, mostrando iperattività, mentre nel caso in cui la temperatura sia troppo bassa i nidiacei appariranno arruffati, sonnolenti o tremanti, cresceranno molto lentamente e lento sarà anche il tempo di svuotamento del gozzo. Temperature al di sopra dei 38°C risultano generalmente fatali.
L’umidità durante il periodo di crescita dei piccoli deve essere superiore al 50% con una ventilazione tale da creare un certo movimento d’aria, ma non tanto forte da disidratare i piccoli per evitare problemi di secchezza della cute e quindi di impiumagione. Per assuefare questi soggetti al passaggio dalla scatola chiusa su tutti i lati, alla gabbia, si potranno chiudere alcune pareti con tessuto chiaro, per abituarli gradualmente allo spazio e alla luce (Flammer, 1986).
I piccoli dovranno essere alimentati 6-7 volte al giorno nella prima settimana di vita, all’apertura degli occhi possono essere sufficienti 4-5 somministrazioni di alimento riducibili a 2-3 nei soggetti quasi completamente impiumati. Questi dati sono molto indicativi poiché dipendono dal valore nutritivo della formula e dalla specie aviare considerata. L’incremento ponderale del nidiaceo dovrebbe essere annotato pesando quotidianamente l’animale.
Gli strumenti più adatti ad alimentare i pulli sono pipette, siringhe senza ago (quelle da insulina sono ideali per i piccoli appena nati), cucchiaini e anche sonde. In questo caso l’alimento viene immesso direttamente nel gozzo ed, ovviamente, occorre una certa cura nell’evitare di inserire il sondino in trachea. L’impiego del sondino è l’unico sistema per alimentare nidiacei che rifiutano il cibo.
Gli alimenti per bambini sono adattissimi per essere somministrati ai piccoli; in particolare le puree di frutta diluite con acqua e scaldate a temperatura corporea sono perfette per i primi giorni. In seguito si può passare ai multicereali diluiti con succhi di verdura centrifugata (escluso il cavolo) e poi alle verdure liofilizzate e agli omogeneizzati di frutta (Stoodley et al.,1992). In commercio si trovano delle formule già pronte (costituite da biscotto per scimmia, riso bollito, semi di girasole sgusciati, noccioline), che offrono migliori garanzie e facilità d’uso delle preparazioni artigianali. L’essenziale é che il cibo fornito sia costituito essenzialmente da acqua: il 90% del volume nelle prime 48 ore di vita e il 70% nel periodo seguente, considerando anche che nei primissimi giorni di vita il pulcino assumerà elementi nutritivi dal sacco vitellino in assorbimento e che i liquidi somministrati hanno essenzialmente funzione idratante.
L’alimento deve avere una temperatura di 40-42°C nel momento in cui viene somministrato al nidiaceo; temperature maggiori vengono accettate ugualmente dal neonato, ma possono determinare ustioni del gozzo, mentre se il cibo è più freddo può essere rifiutato o indurre stasi del gozzo.
Quando i pappagalli iniziano a mettere le prime penne occorre insegnare loro ad alimentarsi da soli ponendo a loro disposizione della frutta molto matura, come mele, banane, pere, ecc., oltre a fiocchi di cereali, semi di piccole dimensioni, girasole sgusciato, verdura cotta e biscotti.
All’inizio dello svezzamento i pappagalli si alimentano, in genere, ancora tre volte al giorno con la formula e possono via via mostrare meno interesse per il pasto centrale. Questo può essere anche eliminato dall’allevatore se il volatile non mostra alcuna intenzione di “rendersi indipendente” nonostante abbia raggiunto il peso tipico della sua specie e sia completamente impiumato. Le ultime penne ad emergere sono quelle sul gozzo e nello spazio retroscapolare, a questo stadio di sviluppo il piccolo deve essere incoraggiato allo svezzamento. Alcuni soggetti sono pigri ad imparare ad auto- alimentarsi, in tal caso si possono sistemare insieme a pappagalli della medesima età e dimensione, già abili, dai quali impareranno a nutrirsi da soli.
Il periodo di svezzamento è variabile nelle diverse specie ed è generalmente più precoce nelle specie più piccole e più tardivo in quelle di mole maggiore come le Are (fino a 18 settimane). Sebbene lo svezzamento sia un processo naturale sovente, per gli uccelli, è causa di stress, dovendo essi imparare a nutrirsi da soli ed a sviluppare l’attitudine al volo. Un calo del peso corporeo tra il 10 ed il 15% (nei grandi pappagalli può arrivare al 20%) è considerato fisiologico in questo periodo ed i piccoli devono essere tenuti in stretta osservazione e pesati giornalmente poiché lo stress da svezzamento potrebbe attivare delle infezioni latenti.
Questo periodo dello sviluppo infatti, come la prima settimana di vita, è i1 più critico per i nidiacei e quello in cui più frequenti sono i casi di malattia e di mortalità (Clubb, 1992; Flammer, 1994).
Figura 10- Pappagallo cenerino con deformità articolari
Figura rimossa per motivi di privacy
8. Gli emoparassiti degli psittacidi
Si è voluto corredare questa tesi con dei dati relativi alla diffusione di emoparassiti in allevamenti del centro Italia (di tipo professionale ed amatoriale).
Prima di riportare i risultati giova ricordare alcuni aspetti inerenti alla presenza di tali parassitosi negli psittacidi.
Da un punto di vista veterinario, le parassitosi ematiche aviarie rivestono un interesse accademico, economico e protezionistico.
Non vi sono dubbi circa il contributo fornito da alcuni parassiti ematici nel determinare gravi perdite economiche nell’industria avicola, come ad esempio il Leucocytozoon smithi nel tacchino domestico (Meleagris gallopavo). In altri casi, certi parassiti, pur se riscontrati in alte percentuali negli uccelli domestici e selvatici, apparentemente causano solo danni trascurabili.
Nella pratica veterinaria si deve essere in grado di distinguere le specie di importanza economica. In particolare, il veterinario deve conoscere il ciclo vitale e le modalità di trasmissione per poter intraprendere adeguate misure di controllo. Questo è di primaria importanza per gli uccelli presenti in giardini zoologici, allevamenti di uccelli esotici e nei centri di recupero della fauna selvatica, dove numerose specie diverse sono in stretta vicinanza le une alle altre, ed alcune delle quali provenienti dalle più disparate regioni geografiche.
La coabitazione fornisce l’opportunità per la trasmissione di malattie a specie che normalmente in natura non vengono in contatto con gli agenti causali che le sostengono. Questa evenienza comporta frequentemente un’alta suscettibilità all’infezione.
Sono molteplici le segnalazioni di importazioni di parassitosi ematiche in giardini zoologici tramite uccelli infetti provenienti dai più svariati Paesi (Peirce, 1969; Poelma e Zwart, 1972; Manwell e Rossi, 1975; Peirce e Bevan, 1977; Rosskopf et al., 1981; Dharma et al., 1985; Liberti, 1994).
Se possibile si dovrebbe determinare se l’infezione è stata contratta localmente o nella zona di provenienza. Se l’animale è arrivato già infetto, bisogna verificare la possibilità di trasmissione tramite vettori locali mentre se si è contaminato localmente bisogna applicare norme di controllo. Infatti, come già accennato, tali parassiti possono causare seri problemi ed alta mortalità in ospiti non usuali, come ad esempio è stato ben documentato per i plasmodi nei pinguini (Stoskopf e Beier, 1979).
In ogni caso, tutti gli uccelli di nuova immissione devono essere controllati prima dell’introduzione nel nuovo ambiente. Relativamente ai pappagalli, l’isolamento di emoparassiti non sembra essere così frequente rispetto a quanto si verifica in altri gruppi di volatili (Peirce, 1969; Manwell & Rossi, 1975); i dati bibliografici riferiti a prelievi di sangue effettuati per lo più da cavità cardiache di soggetti morti, riguardano segnalazioni sulla presenza di emoprotozoi e microfilarie in alcune specie di psittacidi provenienti da vari Paesi (Peirce, 1969; Peirce & Bevan, 1977; Bennett & Peirce, 1986; Murata, 1990; Bennett & Peirce, 1992).
Tra gli emoprotozoi il parassita più frequentemente descritto è l'Haemoproteus handai (Peirce, 1969; Peirce & Bevan, 1977; Bennett & Peirce, 1986; Murata, 1990). A tale infezione, in genere, non viene attribuito un ruolo patogeno (Maqsood, 1943; Peirce & Bevan, 1977). Tuttavia si ritiene che questi protozoi possano essere causa di malattia, con prevalenza di quadri anemici, e di mortalità (Rosskopf et al., 1981; Tarello, 2005), soprattutto in presenza di fattori predisponenti, come lo stress da trasporto. Più raramente sono stati descritti protozoi ascrivibili ai generi Leucocytozoon, Plasmodium e Trypanosoma.
Nei Cacatua soprattutto vengono rinvenute microfilarie negli strisci ematici (Peirce & Bevan, 1977); queste forme giovanili solitamente non determinano sintomatologia clinica, mentre i parassiti adulti possono essere causa di tenosinoviti ed aerosacculiti (Rosskopf et al., 1981; Allen, 1984; Greve 1981; Darma, 1984).
8.1. Ciclo biologico
I microrganismi di cui esporremo il ciclo biologico sono Protozoi inclusi nel Phylum Apicomplexa classe Sporozoea, e appartenenti ai generi Haemoproteus, Leucocytozoon e Plasmodium della famiglia Plasmodiidae (http://www.taxonomy.nl). Una breve trattazione verrà inoltre riservata al genere Trypanosoma (Protozoo del Phylum
Sarcomastigophora) e alle Microfilarie, termine generico indicante gli stadi larvali di nematodi dell’ordine Spirurida famiglia Filariidae.
La scelta è motivata dalla probabilità di ritrovamento, in virtù dei riferimenti bibliografici e della distribuzione geografica degli ospiti intermedi e definitivi.
I generi Haemoproteus, Plasmodium e Leucocytozoon, insieme al genere Trypanosoma, sono stati identificati in 2590 specie di uccelli complessivamente recettive, rispettivamente nel 67%, 40%, 39% e 30% delle specie (Bennett, et al., 1982); risulta più sporadico il ritrovamento di specie appartenenti ai generi Atoxoplasma, Babesia, Haemogregarina, Hepatozoon, Lankesterella e Toxoplasma, come poche sono le famiglie e specie aviarie da essi parassitate. I dati relativi a tassonomia, ciclo biologico e potere patogeno di questi generi sono scarsamente documentati e spesso contrastanti, tanto da farci soprassedere sulla loro trattazione.
8.1.1. Genere Haemoproteus
II ciclo biologico dell’Haemoproteus, la cui specie prototipo è H. columbae del piccione domestico (Columba livia), prevede due ospiti obbligati (parassita eteroxeno): ospiti definitivi gli uccelli (ed altri vertebrati) ed ospiti intermedi ditteri ematofagi che fungono da vettori biologici.
A tutt’oggi è ancora controverso il numero di specie appartenenti al genere, a motivo dei continui ritrovamenti di forme morfologicamente dissimili in specie aviarie diverse e delle difficoltà incontrate nella trasmissione crociata di tali morfotipi.
Non è da sottovalutare a tal riguardo il ruolo dei vettori, poiché anch’essi potrebbero limitare la trasmissione di uno stesso parassita tra due uccelli di specie diverse, nutrendosi esclusivamente su individui molto simili tra loro. E' il caso degli anatidi, sui quali non si nutrirebbero gli ippoboscidi (Bequaert, 1953), ma ditteri del genere Culicoides, famiglia Ceratopogonidae (Fallis & Wood, 1957).
Ciclo biologico
Ospite vertebrato. Il ciclo asessuato o schizogonico ha inizio nell’ospite vertebrato, tramite l’inoculazione, mediante la saliva dell’artropode vettore infetto, di sporozoiti nel circolo periferico.
In pochi minuti gli sporozoiti raggiungono e penetrano le cellule endoteliali della milza, del fegato, del midollo osseo, ma soprattutto del polmone.
Nelle cellule endoteliali inizia la schizogonia, processo di scissione multipla in cui ogni nuovo nucleo si circonda di una frazione citoplasmatica dando origine a circa venti nuovi elementi: i citomeri. Lo stesso processo di divisione nucleare si ripete in ogni singolo citomero, risultandone la formazione di molteplici merozoiti e un aumento di volume delle cellule endoteliali. Le cellule ospiti distese vanno così incontro a lisi, con liberazione dei citomeri che a causa delle loro dimensioni possono occludere piccoli vasi sanguigni. I citomeri a loro volta rompendosi, liberano i merozoiti che potranno penetrare in altre cellule endoteliali per ripetere un nuovo ciclo schizogonico, oppure penetrare negli eritrociti dando vita alla fase gametogena del ciclo. Negli eritrociti i merozoiti danno origine ai macrogametociti (gametociti femminili) e ai microgametociti (gametociti maschili), che a sviluppo ultimato circondano parzialmente il nucleo della cellula ospite formando i così detti corpi “a capestro”, portando così ad uno spostamento del medesimo e ad una modificazione del volume cellulare, elementi questi caratteristici per le diverse specie di parassiti.
Altro elemento peculiare di specie è dato dalla presenza di un numero variabile di granuli di emozoina all’interno dei gametociti.
Il periodo di prepatenza (periodo che intercorre dall’entrata del parassita nell’ospite al momento in cui se ne può dimostrare la presenza) varia da 14 a 21 giorni. La patenza (periodo che segue la prepatenza e che comprende tutto il tempo in cui il parassita è evidenziabile nell’organismo) è stata valutata su quaglie infettate sperimentalmente e varia da parecchie settimane a 4 anni (Herman & Bischoff, 1949).
I gametociti intraeritrocitari possono considerarsi gli unici elementi rinvenibili nel sangue periferico, essendosi riscontrate forme libere molto raramente. Raggiunto questo stadio, lo sviluppo dell’Haemoproteus nell’ospite vertebrato si arresta.
Ospite invertebrato. Gli ospiti intermedi accertati nella trasmissione del parassita agli uccelli sono ditteri delle famiglie Ceratopogonidae (genere Culicoides) (Fallis & Wood, 1957) e Hippoboscidae (generi Lynchia e Stilbometopa) (Aragao, 1907; Adie, 1915; Herman & Bischoff, 1949; Tarshis, 1955) ed emitteri della famiglia Reduviidae (genere Triatoma) (Rivero, 1947). I primi avrebbero attività notturna, i secondi si nutrirebbero di giorno (Fallis & Wood, 1957). Effettuando il pasto di sangue su un vertebrato infetto, l’artropode ingerisce globuli rossi contenenti i gametociti. Dopo la lisi delle emazie, i gametociti vengono liberati nell’intestino dell’insetto e nell’arco di 10-20 minuti dall’ingestione, i microgametociti producono 6-8 microgameti flagellati, uno dei quali feconda un macrogamete per formare lo zigote e completare così la fase del ciclo sessuato (in circa 12 ore). Lo zigote acquisisce motilità trasformandosi in un ookinete vermiforme, il quale migra nella parete intestinale localizzandosi sulla superficie esterna o tra epitelio e membrana basale, dove è rinvenuto come oocisti dopo 4 giorni. La sporogonia ha quindi inizio con la moltiplicazione del nucleo oocistico e si ha la formazione di molteplici sporozoiti che in 7-12 giorni dal pasto, previa rottura dell’oocisti e migrazione nell’emocele, sono rinvenibili nelle ghiandole salivari. Il ciclo è così pronto a ricominciare.
Epidemiologia e potere patogeno. L’infezione dell’ospite vertebrato, avverrebbe con maggior frequenza nei primissimi giorni di vita, spesso proprio nel nido (Peirce, 1981). Ne sarebbero fonte gli stessi genitori, nei quali lo stress migratorio e/o riproduttivo potrebbe determinare la riacutizzazione di un’infezione latente (Peirce & Mead, 1978). Ciò giustificherebbe la maggior incidenza nei giovani, venendosi a creare dopo una fase acuta di intensità variabile, un equilibrio ospite-parassita nell’adulto.
Le percentuali di positività nell’adulto risultano sensibilmente più elevate nelle stagioni primaverili ed estive (Peirce & Mead, 1978; Loven, et al., 1980; Di Modugno, et al., 1992). Quest’ultimo riscontro, oltre ad essere giustificato dalla proliferazione degli insetti vettori in tali periodi dell’anno, avvalorerebbe l’ipotesi che stress fisiologici (e patologici) possono riattivare infezioni latenti. Nonostante in corso di infezione acuta possano trovarsi fino a 90 eritrociti parassitati su 100, raramente l’Haemoproteus è stato indicato come causa di mortalità nelle popolazioni aviarie e negli psittacidi in particolare.
Nella maggior parte di casi infatti, soggetti adulti non sottoposti a particolari stress ambientali non manifestano alcun sintomo, mentre è nei giovani che l’infezione può sfociare in quadri clinici conclamati, caratterizzati da inappetenza, tremori, dimagramento, anemia (emolitica di tipo normocromico-macrocitico) e morte (Rosskopf et al., 1981; Tarello, 2005).
Infezione sperimentale. L’infezione con l’H. lophortyx è stata riprodotta sperimentalmente nelle quaglie tramite l’inoculazione intraperitoneale di omogenati di polmoni di uccelli infetti e di intestini e ghiandole salivari di ditteri parassitati. I soggetti mostravano anoressia, abbattimento dopo 7 giorni e venivano a morte in 10 giorni circa (Herman & Bischoff, 1949).
L’inoculazione di sangue con eritrociti contenenti micro e macro gametociti non è in grado di riprodurre l’infezione.
Diagnosi e trattamento. La diagnosi si effettua tramite l’osservazione di gametociti intraeritrocitari in sottili strisci ematici colorati. Il sangue può essere ottenuto agevolmente e senza danno per l’uccello tramite il taglio dell’unghia o pungendo con un ago la vena giugulare (in soggetti di piccole dimensioni) o anche la vena brachiale o la metatarsale mediale (in individui di maggiori dimensioni). Questo singolo reperto potrebbe non essere sufficiente a differenziare il genere Haemoproteus dal genere Plasmodium; in quest’ultimo caso è possibile anche il ritrovamento di schizonti negli eritrociti.
Recentemente sono state messe a punto delle tecniche di identificazione degli emoprotozoi di tipo sierologico e genetico (tramite PCR). Queste ultime non trovano applicazione nella diagnosi quanto nello studio della genetica di questi parassiti (Hellgren, 2004).
Pochi sono stati i tentativi di trattare farmacologicamente la parassitosi a motivo della sua scarsa patogenicità. Ad ogni modo farmaci come la primachina, la clorochina, la quinacrina e la plasmochina, mentre riducono il numero di gametociti nel sangue periferico, non sembrano avere nessun effetto sugli stadi tissutali (Rosskopf et al., 1981; Tarello, 2005). Un controllo più efficace dell’infezione è ottenibile tramite una seria lotta agli insetti vettori.
8.1.2 Genere Leucocytozoon
Anche per il genere Leucocytozoon il ciclo biologico prevede un ospite definitivo, rappresentato quasi esclusivamente dagli uccelli, ed un ospite intermedio costituito da ditteri ematofagi.
Come per l’Haemoproteus, esiste ancora una notevole confusione circa la classificazione di questi parassiti, a causa della pratica usata in passato di attribuire identità di specie a tutti i microrganismi rinvenuti in specie aviarie differenti, in virtù di una supposta specie specificità.
Infezioni sperimentali crociate hanno convalidato l’ipotesi che la molteplicità di parassiti isolati possano essere raggruppati in poche specie; ad esempio è stato possibile trasmettere artificialmente e naturalmente tramite un simulide (Simulium ruglesig), il L. simondi da anatre domestiche a oche domestiche tanto da confermare che il parassita rinvenuto in 24 specie di oche ed anatre (Levine & Hanson, 1953) domestiche e selvatiche sia da ritenersi il medesimo (le specie di anatidi recettive al L. simondi sono poi state portate a 27). Attualmente quindi, forme parassitarie simili morfologicamente, rinvenute in uccelli della stessa famiglia od ordine sono considerate come un’unica specie.
Ciclo biologico
Ospite vertebrato. Il ciclo inizia con l’inoculazione degli sporozoiti nel circolo periferico dell’ospite vertebrato, tramite la puntura dell’insetto ematofago infetto. Gli sporozoiti tramite il sangue raggiungono e penetrano in cellule epiteliali e reticoloendoteliali del fegato, formando numerosi schizonti che tramite processi di scissione multipla generano citomeri e merozoiti (primo ciclo schizogonico) (Desser, 1967). A seguito della rottura degli schizonti epatici i merozoiti vengono riversati nel torrente circolatorio potendo subire poi diversi destini: generare nuovi schizonti epatici, essere fagocitati da macrofagi formando i così detti megaloschizonti nel polmone, cuore, stomaco muscolare, fegato, milza, intestino e cervello (secondo ciclo schizogonico) (Desser & Fallis, 1967), oppure iniziare a colonizzare cellule ematiche.
I megaloschizonti hanno delle dimensioni che variano dai 160 ai 200 ^m ed in genere evocano una reazione nell’organismo che tende a fagocitarli o a incapsularli (Cowan, 1957). I merozoiti di seconda generazione entrano nelle cellule ematiche trasformandosi in gametociti. Diverse generazioni di merozoiti sono prodotte e liberate nel sangue prima che questi siano in grado di generare i gametociti, successivamente i merozoiti scompaiono gradualmente e iniziano a comparire i gametociti.
Questi sono riconoscibili prima negli eritrociti come formazioni rotonde e successivamente nei leucociti mononucleati con morfologia affusolata. Nei gametociti non sono presenti pigmenti contrariamente ad altri emoprotozoi (figg. 11 e 12). Il ritrovamento nei leucociti fornisce il nome al genere in questione, credendosi in passato che il parassita colonizzasse esclusivamente tali cellule.
II periodo di prepatenza in anatre infettate sperimentalmente può arrivare fino a 14 giorni (Kocan & Clark, 1966; Desser, 1967).
Il ciclo fin qui descritto è riferito a L. simondi, considerando tale specie prototipo del genere, ma diverse sono le differenze che si possono riscontrare in altre specie.
L’infezione sostenuta da L. smithi, parassita dei tacchini selvatici e domestici (Meleagris gallopavo), sembra produrre un solo tipo di schizonte epatico non essendosi osservata la presenza di megaloschizonti in tale sede (Newberne, 1955). Ancora più marcate sono le differenze del ciclo del L. sakharoffi in diverse specie di corvidi, non essendosi osservata la presenza dei tipici schizonti epatici (Huff, 1942), bensì dei megaloschizonti di più di 480 ^ m di diametro in organi diversi quali milza, fegato, pancreas, gonadi, tiroide e ipofisi e solo nelle fasi acute dell’infezione (Wingstrand, 1947; Wingstrand, 1948).
L’infezione da Leucocytozoon è stata riportata negli psittacidi in casi sporadici caratterizzati dal rinvenimento di megaloschizonti nei muscoli degli uccelli morti (Glunder, 1985; Spillmann, 1987).
Ospite invertebrato. Gli insetti in grado di trasmettere l’infezione sono ditteri della famiglia Simulidae genere Simulium. Molteplici sono le specie di simulidi per le quali è stato possibile dimostrare la capacità di trasmettere la parassitosi, ad esempio S. latipes e S. aureum per L. bonasae e L. sakharoffi (queste specie sembrano preferire ambienti boschivi) (Fallis e Bennett, 1958; Fallis e Bennett, 1961), S. occidentale e S. slossonae per il L. smithi (Richey & Ware, 1955), ed ancora il S. anatium ed il S. rugglesi per il L. simondi, ed in particolare per il S. rugglesi è stata dimostrata anche la capacità di nutrirsi solo nelle strette vicinanze di corsi d’acqua, vivendo infatti le larve di tale genere in acque dolci correnti ed ossigenate (Fallis & Bennett, 1966).
Il ciclo nell’artropode prevede l’ingestione dei gametociti intracellulari tramite il pasto di sangue, la loro fuoriuscita dalle cellule nello stomaco e, dopo l’extraflagellazione del micro- gametocita, la fusione di questo con il macrogametocita, con formazione dello zigote.
Il processo di extraflagellazione è osservabile anche in vitro, compiendosi in 2-3 minuti se il sangue viene esposto all’aria alla temperatura di 28°C. Lo zigote trasformandosi in ookinete mobile, migra nella parete dello stomaco e qui si trasforma in oocisti, all’interno della quale la sporulazione si completa in condizioni ottimali di temperatura in 2 giorni. La rottura delle oocisti mature libera molteplici sporozoiti nell’emocele, che raggiungono e penetrano le ghiandole salivari rendendo il vettore capace di trasmettere l’infezione dopo soli 5 giorni dall’assunzione dei microgametociti. Solo per il S. aureum sono documentati tempi di sporogonia considerevolmente più lunghi (circa 18 giorni) (Fallis & Bennett, 1961).
Epidemiologia e potere patogeno. L’infezione ha un’incidenza maggiore negli uccelli provenienti dalle aree dove fiumi e corsi d’acqua favoriscono la riproduzione di simulidi vettori. La trasmissione della malattia avviene principalmente nei periodi di riproduzione dell’ospite vertebrato coincidendo questi con il periodo di massima proliferazione degli insetti vettori.
In condizioni naturali, il 60% degli uccelli mantiene l’infezione di anno in anno con una diminuzione dei gametociti nel sangue durante il periodo invernale.
A primavera un lieve aumento della parassitemia dovuto all’inizio del periodo riproduttivo è sufficiente a infettare i primi simulidi divenuti adulti che a loro volta potranno ritrasmettere l’infezione ad individui vergini nei quali si svilupperà un’intensa moltiplicazione parassitaria. A questo punto la moltiplicazione estiva dei vettori coinvolgerà i giovani uccelli con effetti spesso nefasti.
Due specie di Leucocytozoon, il L. simondi degli anatidi e il L. smithi dei tacchini risultano particolarmente patogene, potendo provocare una mortalità anche del 100% negli allevamenti domestici, a fronte di una apparente scarsa o nulla patogenicità negli altri membri del genere.
Relativamente a L. simondi la parassitemia nella fase acuta dura circa 30 giorni (Chernin, 1952a), per scendere poi a bassi livelli sino alla primavera successiva (Chernin, 1952b) dove si avrà una seconda fase ematica ma a livelli inferiori rispetto alla precedente (Fallis et al., 1951). Spesso nei giovani la morte può sopravvenire entro 24 ore dalla comparsa dei primi sintomi che sono anoressia, irrequietezza, debolezza e dispnea con un sangue particolarmente pallido ed acquoso (O'Roke, 1934). E' proprio da studi effettuati in queste specie che si è compreso che l’anemia che accompagna i quadri clinici dell’infezione da Leucocytozoon spp. non è frutto di meccanismi autoimmunitari o di aumentata eritrocateresi come avviene in altre infezioni, bensì è conseguenza del rilascio di un fattore emolitico prodotto dal parassita durante le fasi acute (Kocan, 1968).
Il siero ottenuto da uccelli infetti in fase acuta può infatti provocare emolisi se inoculato ad individui sani (Kocan, 1968; Maley et al., 1977). Negli adulti di anatidi selvatici l’infezione produce ipereccitabilità e perdita della circospezione, e in qualche caso l’animale può morire in 5 giorni circa.
Le lesioni tanto nell’adulto che nel giovane vedono una imponente splenomegalia degenerativa con necrosi ed epatomegalia ed una leggera emosiderosi in entrambi gli organi.
Per quanto riguarda il L. smithi la sintomatologia è caratterizzata da anoressia, sonnolenza, scolo oculare acquoso, diarrea e convulsioni prima della morte dei tacchini domestici e selvatici che avviene in 24-48 ore (Wehr, 1962). Spesso se sopravvivono per due o tre giorni gli animali guariscono, non mostrando necessariamente un ridotto accrescimento ponderale.
Per quanto riguarda gli psittacidi sono descritte infezioni fatali negli Ondulati (Melopsittacus ondulatus), caratterizzate da epatomegalia, splenomegalia, congestione polmonare e versamento pericardico (Glunder, 1985; Spillmann, 1987).
Infezione sperimentale. L’inoculazione di omogenati di fegato, milza e di sangue di uccelli infetti prelevati negli stadi precoci dell’infezione non è sempre in grado di riprodurre la malattia. L’inoculazione di solo sangue, prelevato in giorni consecutivi da soggetti a partire dalla fase acuta dell’infezione, comporta in volatili non infetti la comparsa di un numero decrescente di gametociti fino alla non riproduzione dell’infezione, dimostrando che i merozoiti vanno gradualmente scomparendo dal sangue. In diversi casi di infezione sperimentale degli uccelli la morte sopravviene tra il decimo e il diciannovesimo giorno successivo al contagio (Chemin, 1952c; Kocan & Clark, 1966), e raggiunge il 100% negli anatidi (Chemin, 1952b; Fallis et al., 1956; Fallis e Bennett, 1966).
Diagnosi e trattamento. La diagnosi di genere si basa sulla presenza dei gametociti sia negli eritrociti che nei leucociti, mentre quella di specie sulla morfologia dei gametociti, in entrambi i casi osservabili in strisci colorati di sangue periferico.
Diversi farmaci, come la pirimetamina, sono stati sperimentati con scarsi successi.
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Figura 11- Anatra. Striscio ematico. Colorazione May Grunwald Giemsa. Tipici gametociti di Leucocytozoon simondi all’interno di mononucleati (da http://bio.winona.edu).
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Figura 12- Tacchino. Striscio ematico. Colorazione May Grunwald Giemsa. Gametociti di Leucocytozoon smithi all’interno di mononucleati
Figura rimossa per motivi di privacy
8.1.3. Genere Plasmodium
Dallo storico lavoro di Sir Ronald Ross del 1898, che, usando i polli come modello, per primo descrisse il ciclo biologico del plasmodio aviare (sotto il generico nome di Proteosoma), circa 35 specie di plasmodi aviari sono stati descritti e classificati nei sottogeneri Novyella, Haemamoeba, Giovannolaia e Huffia.
I fattori che hanno aumentato le conoscenze su questa infezione sono la relativa facilità con cui è possibile trasmetterla da uccello ad uccello tramite sangue infetto e l’enorme interesse che la malattia riveste nell’ambito della sanità pubblica.
II genere Plasmodium ha una distribuzione cosmopolita, dovuta alle abitudini migratorie di alcuni ospiti vertebrati e in parte alla possibilità di utilizzare più specie vettrici, con una maggiore incidenza nelle aree a più alta densità dei vettori medesimi. Alcuni membri del genere hanno ospiti specifici, come il P. durae, e il P.
hermani del tacchino o il P. kempi della quaglia, mentre altri come il P. circumflexum, il P. relictum e il P. vaughani possono essere osservati in un’ampia gamma di specie e famiglie aviarie diverse (Bennett et al., 1982).
Ciclo biologico
Ospite vertebrato. A seguito dell’infezione, gli sporozoiti tramite il sangue raggiungono il fegato dove formano i primi schizonti esoeritrocitari, i quali a maturità si lisano e rilasciano numerosi merozoiti nel sistema circolatorio. Una parte di questi rientra nel sistema reticolo endoteliale di fegato, milza, cute, rene e cervello per formare nuovi megaschizonti, mentre gli altri penetrano negli eritrociti iniziando il ciclo eritrocitario. Nei globuli rossi alcuni merozoiti si accrescono a trofozoiti (figg. 13 e 14), i quali per scissione multipla formano nuovi schizonti che, una volta maturi, presentano le tipiche rosette di merozoiti, con un numero di quest’ultimi costante e tipico per le diverse specie di plasmodi (3-5 per il P. juxtanucleare, da 30 a 40 per il P. gallinaceum). Previa rottura della cellula, alcuni merozoiti verranno liberati nuovamente in circolo, mentre altri una volta penetrati nell’eritrocita formeranno i gametociti maschili e femminili pronti ad essere ingeriti dall’artropode per ricominciare il ciclo. Il periodo di prepatanza è molto variabile per il genere e solo vagamente specifico per le singole specie, oscillando da 8 a 18 giorni. Negli stadi intraeritrocitari del parassita sono osservabili i tipici granuli di pigmento, di derivazione emoglobinica.
Ospite invertebrato. Tutte le specie di plasmodi aviari sono trasmesse da zanzare della famiglia Culicidae, generi Culex, Aedes e Culiseta anche se probabilmente anche altri generi sono coinvolti.
Il ciclo nell’artropode è sovrapponibile a quello che compiono gli emoprotidi nei loro vettori, con extraflagellazione dei microgametociti, fecondazione e formazione dello zigote, migrazione nella parete dell’ookinete, stadio oocistico, sporogonia e colonizzazione delle ghiandole salivari da parte degli sporozoiti. Potere patogeno. Gli effetti dell’infezione negli ospiti sono variabili in relazione alla specie coinvolta, alle condizioni generali dell’ospite e alla carica infettante inoculata.
In condizioni sperimentali probabilmente tutte le specie possono causare la morte dell’ospite. In condizioni naturali esistono specie più virulente, come il P. gallinaceum per il pollame in India e in Asia, il P. relictum per i piccioni, anatidi e passeracei in tutto il mondo, il P. juxtanucleare per il pollo soprattutto in Brasile, e specie relativamente benigne come il P. vaughani.
Altro elemento condizionante il decorso dell’infezione, è la provenienza o meno del volatile da zone ove la malaria è endemica, come dimostra il devastante decorso dell’infezione sostenuta dal P. relictum nel pinguino in cattività (Stoskopf & Beier, 1979). L’infezione provoca una severa sintomatologia all’inizio della malattia, con soggetti anoressici, che smettono di curarsi le penne così come interrompono altre normali attività comportamentali; si osserva, inoltre, anemia, dimagramento ed edema palpebrale. La morte può avvenire in qualsiasi momento. Se l’ospite sopravvive alla crisi iniziale, si stabilisce un basso livello cronico di parassitemia, che può comunque portare a recrudescenze in periodi particolarmente stressanti. La necroscopia evidenzia epato- splenomegalia con estese emorragie in varie parti del corpo.
Negli psittacidi l’infezione da Plasmodium spp. è solitamente asintomatica; sono stati descritti casi di malattia provocati da plasmodi locali in California (Rosskopf et al., 1981).
Diagnosi. L’evidenziazione dei tipici schizonti eritrocitari in strisci ematici colorati, toglie ogni dubbio. Tra l’altro queste tipiche formazioni consentono la trasmissione dell’infezione attraverso la semplice inoculazione di sangue infetto prelevato in qualsiasi momento dopo la loro comparsa nel sistema circolatorio.
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Figura 13- Colomba. Striscio ematico. Colorazione May Grunwald Giemsa Presenza di Plasmodium circumflexum all’interno di alcuni eritrociti
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Figura 14- Passero. Striscio ematico. Colorazione May Grunwald Giemsa. Presenza di trofozoiti di Plasmodium relictum all’interno di alcuni eritrociti
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8.1.4. Genere Trypanosoma
E’stato Danielewsky il primo a descrivere il Trypanosoma avium nel 1885, e da allora 90 specie di tripanosomi aviari sono state descritte. Tripanosomi isolati in un singolo uccello infetto sono trasmissibili a diverse altre specie di uccelli appartenenti a famiglie e ordini differenti; la gamma di vettori sembra comunque in qualche modo selezionare le specie di uccelli a cui è trasmissibile il singolo parassita.
Ciclo biologico
Ospite vertebrato. I tripanosomi sono parassiti intercellulari osservabili nel sistema circolatorio (fig. 15) con stadi di sviluppo tissutali mai evidenziati negli uccelli, come mai è stata osservata la loro riproduzione nel sangue periferico.
Ospite invertebrato. I vettori (tutti ematofagi), come già detto, sono molteplici e tipici per ciascuna specie di tripanosoma. Un ruolo accertato nella trasmissione è stato attribuito ai ditteri delle famiglie Culicidae, Ceratopogonidae, Simulidae e Tabanidae e ad emitteri della famiglia Reduviidae. L’assunzione delle forme circolanti nel sangue periferico del volatile infetto avviene per suzione, e, a seguito della moltiplicazione, il parassita può localizzarsi sia nel tratto iniziale che finale dell’apparato digerente. Di conseguenza la trasmissione può avvenire tramite il pasto di sangue o la defecazione su abrasioni o ferite cutanee dell’ospite vertebrato. In base a queste caratteristiche i tripanosomi sono suddivisi nelle sezioni salivaria e stercoraria.
Potere patogeno e diagnosi. I tripanosomi non si ritengono in grado di causare seri danni agli uccelli parassitati.
Le tripanosomiasi aviarie esibiscono un estremo pleiomorfismo e l’identificazione specifica è difficoltosa sulla base dei pochi esemplari visibili in uno striscio ematico. Infatti di solito solo pochi esemplari sono contemporaneamente presenti in un prelievo.
Un buon metodo per far diagnosi si ottiene aggiungendo al sangue fresco una soluzione salina fisiologica ed esaminando il movimento dei tripanosomi nel preparato al microscopio. Una diagnosi di specie si può raggiungere attraverso la combinazione dell’osservazione morfologica degli esemplari colorati, la coltivazione in terreni a base di sangue e tecniche sierologiche.
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Figura 15- Pappagallo. Striscio ematico. Colorazione May Grunwald Giemsa. Presenza del Trypanosoma spp. in sede extracellulare
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8.1.5. Microfilarie
La corretta classificazione di specie delle microfilarie costituisce un grosso problema, in quanto una precisa identificazione potrebbe essere eseguita solo negli stadi adulti e non nelle larve, che sono gli stadi che si rinvengono comunemente nel sangue.
Le specie di microfilarie aviarie sembrano essere poco numerose, sebbene interessino numerose specie di volatili, e sono caratterizzate da un’ampia distribuzione geografica.
Ciclo biologico
Ospite vetebrato. Una volta penetrato nel sangue tramite la puntura dell’insetto vettore, il terzo stadio larvale della filaria raggiunge le cavità corporee di elezione (soprattutto i sacchi aerei ma anche cuore, pericardio, grossi vasi, articolazioni e sottocute) dove dà origine alle forme adulte. Le femmine vengono fecondate e producono microfilarie che verranno rilasciate nel circolo sanguigno dopo 75-90 giorni dall’inoculazione dei parassiti.
Ospite invertebrato. Le microfilarie vengono ingerite col pasto ematico da simulidi, culicidi e ceratopogonidi, nei quali, attraversando la parete intestinale, vanno a stabilirsi frequentemente nel torace. Il parassita cresce trasformandosi nel terzo stadio larvale, il quale trasferendosi nelle ghiandole salivari è pronto, dopo soli 9-15 giorni dall’ingestione delle microfilarie, a penetrare attivamente nell’ospite definitivo attraverso la ferita provocata dall’apparato pungente dell’artropode vettore
Diagnosi. La diagnosi si basa sulla identificazione delle microfilarie nel sangue periferico, tramite osservazione al microscopio ottico di strisci a piccolo ingrandimento, mentre l’identificazione di specie richiede la presenza di forme adulte.
Potere patogeno e trattamento. Si hanno scarse segnalazioni circa un eventuale ruolo patogeno svolto da tali parassiti, se si eccettua il Sarconema eurycerca, responsabile di episodi mortali nei cigni (Irwin, 1975). Va sottolineato che può essere rinvenuto anche in soggetti apparentemente sani.
Tra gli psittacidi sono rinvenibili negli strisci ematici microfilarie dei generi Pelecitus, Chandlerella, Cardiofilaria ed Eulimdana, con particole frequenza nei Cacatua (Peirce & Bevan, 1977).
Queste forme giovanili solitamente non determinano sintomatologia clinica sebbene sia stato descritto un caso di malattia ad esito mortale per microfilariasi sistemica in un Cacatua bianco (Hillyer et al., 1988).
I parassiti adulti possono essere causa di tenosinoviti ed aerosacculiti; in questi casi si procede alla somministrazione di ivermectina o alla rimozione chirurgica. (Rosskopf et al., 1981; Greve 1981; Allen, 1984; Darma, 1984).
8.2. Parte sperimentale
L’obiettivo di questa tesi è stato quello di mettere in evidenza la eventuale diffusione di emoparassiti, in pappagalli d’importazione e non, in zone del Centro Italia, ed eventualmente correlarli alla presenza di stati patologici.
8.2.1. Materiali e metodi
Le osservazioni sono state effettuate complessivamente su 180 pappagalli vivi, appartenenti a 12 generi e 27 specie differenti. Di questi soggetti 36 sono nati ed allevati in Italia, 144 sono soggetti d’importazione (tabb. 5 e 6).
Gli animali sono stati sottoposti ad un prelievo di sangue eseguito dalla vena alare o tramite il taglio dell’unghia per l’allestimento di strisci colorati con il metodo di May-Grunwald Giemsa.
Tali preparati sono stati prima osservati al microscopio ottico a piccolo ingrandimento (25X) per la ricerca delle microfilarie, poi ad ingrandimento maggiore con obiettivo ad immersione (1000X) per la ricerca di emoprotozoi (Haemoproteus spp, Leucocytozoon spp., Plasmodium spp., Trypanosoma spp.); infine un oculare micrometrico calibrato è stato utilizzato per la determinazione delle dimensioni dei globuli rossi (diametro longitudinale e trasversale). Le osservazioni e le documentazioni fotografiche sono state effettuate con il fotomicroscopio “Leitz Wetzlar Dialux 20”.
I soggetti positivi alle emoprotozoosi sono stati sottoposti ad un ulteriore prelievo di sangue per l’effettuazione di alcune indagini ematologie di routine ed in particolare: dosaggio dell’emoglobina (Hb), determinazione del valore ematocrito (Ht), del numero dei globuli rossi (GR), e dei globuli bianchi (GB), valutazione della formula leucocitaria e delle dimensioni dei globuli rossi (diametro trasversale -RBW- e diametro longitudinale -RBL-).
Per il conteggio simultaneo degli eritrociti e dei leucociti il campione di sangue, prelevato direttamente dalla vena alare con provetta di tipo Vacutainer contenente anticoagulante K3-EDTA, è stato diluito 1:200 con miscela di Natt-Herrich in una pipetta di Thoma per globuli rossi e le letture sono state effettuate nella camera contaglobuli di Burker.
La quota emoglobinica è stata determinata secondo il metodo dell’ematina acida utilizzando l’emoglobinometro di Sahli, mentre l’ematocrito è stato calcolato con l’impiego di microtubi e centrifugazione a 10.000 rpm per 10 minuti.
La formula leucocitaria è stata ottenuta classificando 200 leucociti, osservati al microscopio ottico con obiettivo ad immersione (1000X) sullo stesso striscio di sangue colorato con il metodo May Grunwald-Giemsa utilizzato per la ricerca degli emoparassiti.
Il medesimo striscio è stato impiegato anche per determinare, dopo l’applicazione di un oculare micrometrico calibrato (6.3 X), le dimensioni dei globuli rossi (diametro longitudinale e trasversale).
I valori di Hb, Ht, GR sono stati, infine, utilizzati per calcolare il contenuto emoglobinico corpuscolare medio (MCH), la concentrazione emoglobinica corpuscolare media (MCHC) ed il volume eritrocitario medio (MCV).
8.2.2 Risultati
L’osservazione microscopica degli strisci di sangue ha permesso di evidenziare parassiti intraeritrocitari a forma di capestro, caratterizzati dalla presenza di granuli di pigmento e riferibili per le loro caratteristiche morfologiche e tintoriali al genere Haemoproteus.
Sono risultati positivi all’infezione 6 dei 144 soggetti d’importazione esaminati e più precisamente 3 Cenerini (Psittacus erithacus erithacus) e 3 Ara dalle ali verdi (Ara ch1oroptera) (Tab.5); i volatili con emoproteosi non hanno presentato all’esame clinico alcun sintomo riferibile a malattia.
Nessuno dei soggetti nati ed allevati in Italia è risultato positivo all’infezione (tab. 6).
In ogni campo microscopico si sono osservati emoprotidi per lo più nella fase di gametociti maturi (micro e macrogametociti) e talvolta in quella di sviluppo, nonchè, raramente, anche gametociti in forma libera.
I macrogametociti (fig. 16), caratterizzati dalla tipica forma a capestro, occupavano per lo più tutto il citoplasma degli eritrociti; il nucleo è risultato lievemente colorato in rosa, mentre il citoplasma, di aspetto granuloso, presentava colorazione azzurra; i numerosi granuli di emozoina, di colore marrone scuro, variabili nella forma e nelle dimensioni, erano disseminati lungo tutto il citoplasma del protozoo.
I microgametociti maturi (fig. 17) hanno presentato dimensioni spesso inferiori ai macrogametociti, nucleo non facilmente colorabile e quindi non ben definito e citoplasma incolore o debolmente colorato in celeste. I granuli di pigmento, numericamente inferiori rispetto al gametocita femminile, erano più frequentemente dislocati ai poli del parassita e spesso sovrapponendosi gli uni con gli altri formavano una o più zolle di emozoina in cui è risultata difficile la distinzione dei singoli granuli.
Nella quasi totalità dei casi i gametociti completamente sviluppati hanno mostrato le due estremità unite fra loro, circondando in tal modo il nucleo dell’eritrocita, senza determinare lo spostamento di quest’ultimo, che solo alcune volte era localizzato verso la periferia della cellula ospite.
I gametociti in via di sviluppo (fig. 18) hanno presentato pochissimi granuli di emozoina e per lo più una forma ameboide, a fuso o a fagiolo, occupando circa un terzo del citoplasma dell’eritrocita con lieve spostamento del nucleo.
Dalle dimensioni e dal numero dei granuli di emozoina è stato possibile identificare Haemoproteus handai.
Le forme libere sono risultate rare, di forma rotonda e per la maggior parte ancora aderenti al nucleo dell’eritrocita lisato.
Nella tabella 7 sono riportati i valori delle misurazioni dei diametri longitudinali e trasversali dei globuli rossi, sono stati considerati venti eritrociti per ognuna delle seguenti categorie: eritrociti non parassitati, eritrociti con all’interno gametociti in via di sviluppo, eritrociti parassitati da microgametociti ed eritrociti con all’interno macrogametociti.
Nella tabella 8 vengono riportati i valori quantitativi relativi ai granuli di emozoina presenti nel protozoo.
Non sono stati osservati altri emoparassiti in nessuno degli strisci ematici esaminati.
I risultati degli esami ematologici dei 6 pappagalli positivi all’Haemoproteus, messi a confronto con i valori di pappagalli clinicamente sani, sono rientrati nei limiti di riferimento standard riportati nella tabella 9.
Tabella 5 - Elenco dei soggetti di importazione sottoposti all’indagine.
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Tabella 6 - Elenco dei soggetti nati ed allevati in Italia sottoposti all’indagine (nessun positivo)
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Tabella 7 - Determinazione dei diametri degli eritrociti (in μm)
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*RBW= diametro trasversale
**RBL= diametro longitudinale
Tabella 8 - Numero dei granuli di emozoina presenti nei micro- e macrogametociti e rapporto tra micro- e macrogametociti
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Tabella 9 - Valori ematologici di riferimento relativi ad alcune specie di psittacidi
(da Rosskopf W.J. et al., 1982)
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Figura 16 - Psittacus erithacus. Striscio ematico. Colorazione May Grunwald Giemsa. 1000X. Macrogametocita all’interno di un eritrocita
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Figura 17 - Psittacus erithacus. Striscio ematico. Colorazione May Grunwald Giemsa.1000X. Microgametocita all’interno di un eritrocita
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Figura 16 - Ara chloroptera. Striscio ematico. Colorazione May Grunwald Giemsa. Ingrandimento 1000X. Gametocita in via di sviluppo all’interno di un eritrocita
8.2.3 Considerazioni e conclusioni
Alcuni stadi dell’ Haemoproteus nell’eritrocita presentavano similarità con gli emoparassiti appartenenti al genere Plasmodium, inducendo difficoltà nell’identificazione. Nell’infezione da Plasmodium spp., però, la schizogonia avviene, oltre che nelle cellule endoteliali di alcuni organi interni, anche a livello intraeritrocitario. Pertanto l’assenza di schizonti nelle emazie ha confermato che gli emoprotozoi osservati appartenevano al genere Haemoproteus. Inoltre le loro caratteristiche morfologiche e tintoriali, confrontate con quelle riportate da alcuni autori (Moqsood, 1943; Peirce & Bevan, 1977; Bennett & Peirce, 1986) ci hanno permesso di identificare il parassita come Haemoproteus handai, che differisce dall’Haemoproteus psittaci, isolato da Bennett et al. nel 1992, per le dimensioni e per il numero di granuli di emozoina.
Dalle misurazioni dei diametri longitudinali e trasversali degli eritrociti sia parassitati che non, emerge che l’emoproteosi, riscontrata nei 6 pappagalli, si associa ad un aumento di volume degli eritrociti infetti.
Durante il corso delle indagini non è stata chiarita la via di trasmissione della malattia, sebbene sia verosimile presuppore che l’infezione sia stata contratta nel paese d’origine dei pappagalli. Tale osservazione trova conferma nel fatto che i soggetti analizzati nati ed allevati in Italia sono risultati negativi.
Gli aspetti clinici conseguenti a queste infezioni sono ancora poco conosciuti; i casi riportati in letteratura relativi alla possibilità che questi protozoi siano in grado di causare mortalità (Maqsood, 1943; Peirce et al., 1977) sono rari. Forme di anemia cronica sono state descritte nel corso di infezioni severe (Hawkey C. & Gulland F., 1992), eventualmente associate a splenomegalia, epatomegalia ed edema polmonare.
Nella maggior parte dei casi questi parassiti negli uccelli non determinano una sintomatologia ben definita e tendono ad instaurare con l’ospite una sorta di equilibrio che può essere alterato da fattori stressanti quali uno stato di depressione immunitaria, il trasporto in condizioni inadeguate o un errato management alimentare (Atkinson e Van Ripper, 1991). La terapia farmacologica conseguente alla sola diagnosi microscopica sembra essere sconsigliata, almeno fino a quando non verrà determinata con esattezza la patogenicità degli Haemoproteus spp.
Il riscontro di una percentuale di positività all’emoproteosi del 4,17% ottenuta in soggetti d’importazione, conferma l’importanza che va attribuita alla possibilità di introduzione di nuovi agenti infettivi nel nostro Paese con l’ingresso di animali esotici e la necessità di effettuare controlli sistematici e periodici sugli animali d’importazione, allo scopo di rilevare fin dall’inizio situazioni epidemiologiche ancora poco conosciute.
Relativamente agli altri parassiti ematici va considerato che non sembrano rappresentare un problema né per i volatili allevati in Italia nè per quelli di importazione, sebbene sulla base dei risultati da noi in possesso non si possano trarre conclusioni definitive.
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RINGRAZIAMENTI
Desidero ringraziare tutti coloro che mi hanno sostenuto ed aiutato nel corso dei miei studi e nella realizzazione di questa tesi.
I miei genitori senza i quali tutto questo non sarebbe stato possibile. I miei amici per essermi stati vicini durante questi anni.
La dott.ssa Maria Pia Franciosini ed il dott. Luigi Liberti per il supporto datomi e per i preziosi consigli.
- Quote paper
- Gino Angelo Santarelli (Author), 2006, Indagini Preliminari Relative alla Presenza di Emoparassiti negli Psittacidi, Munich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/429324
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