Die Debatte um das "richtige" Italienisch begleitet die Entwicklung dieser Sprache seit den Tagen Dante Alighieris. Der Romanist und Orientalist Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907) hat nicht nur mit seiner Dialektforschung linguistische Pionierarbeit geleistet, sondern mit seinen Schriften zur "Questione della Lingua" zentrale Meilensteine innnerhalb dieser DIskussion gesetzt.
Diese Arbeit stellt in italienischer Sprache die Position Ascolis mithilfe detaillierter Quellenarbeit dar und beleuchtet anschließend ihre Rezeption in der Wissenschaft.
Indice
1. Introduzione
2. Manzoni e la soluzione fiorentina
3. La posizione di G.I. Ascoli
a) La persona
b) Il Proemio all‘Archivio Glottologico Italiano
c) Brano di una lettera concernente la doppia questione della lingua e dello stile
d) Dall’ Italia dialettale
4. Il dibattito Manzoni-Ascoli nel giudizio dei critici
5. Conclusione
Bibliografia
1. Introduzione
L‘annoso dibattito attorno alla „Questione della lingua“ trovava nella seconda metà del secolo XIX un’occasione a dir poco inaspettata per ritornare ad essere attualissimo. Con l’unità d’Italia si poneva per la prima volta in termini pratici il problema di dare una lingua comune a tutti gli italiani.
Mentre infatti la secolare disputa aveva prodotto una moltitudine di teorie, da quelle dantesche degli inizi a quelle ‘estremiste‘ del primo Ottocento[1], la situazione reale che si presentava sotto il piano linguistico all’indomani della proclamazione del Regno d’Italia era veramente disastrosa: dal censimento del 1861 risultava un tasso di analfabetizzazione del 75% e solo un’esigua parte degli istruiti era da considerarsi italofona[2]. L’italiano, che pur vantava una plurisecolare tradizione letteraria, rimaneva una lingua per lo più morta, mentre nelle comunicazioni quotidiane venivano usati i vari dialetti. Questo panorama appariva ancor più desolante se paragonato a quello delle altre grandi nazioni europee, Germania, Francia, Gran Bretagna, le quali vantavano non solo una salda unità linguistica, ma anche una rigogliosissima vita culturale e scientifica, e i due aspetti sembravano dipendere uno dall’altro[3].
Sotto questo sfondo, apparivano lontanissime le preoccupazioni dei partecipanti alla questione della lingua della prima metà del secolo, preoccupazioni ancora sostanzialmente formali e per usi strettamente letterari. Il dibattito del secondo Ottocento assume forme e contenuti completamente diversi, spostandosi sul piano socio-culturale e proponendo, per la prima volta, programmi concreti per favorire con iniziative politiche la diffusione del sapere e della lingua. Si assiste inoltre alla poderosa evoluzione delle scienze linguistiche, che forniscono ai partecipanti al dibattito nuovi metodi e strumenti di lavoro, rigorosamente scientifici, i quali contribuiscono a renderlo più obbiettivo, allontanadolo dalla sfera formale del ‘gusto personale‘, che fino allora aveva caratterizzato molti interventi[4].
Questo innalzamento del livello, dovuto anche alla grande levatura dei partecipanti, fa sì che il dibattito del secondo Ottocento segni, secondo molti critici[5], la fine della questione della lingua sotto il piano teorico. Per una consistente soluzione dei problemi pratici si dovrà invece aspettare la fine del XX secolo, quando l‘urbanizzazione e i mass-media riusciranno a compiere l’opera di diffusione capillare di un’italiano più o meno uniforme che ai provvedimenti tradizionali (come la scuola pubblica) non era sempre riuscita. Anche sotto l’aspetto pratico però, molte scelte operate dalla classe politica nei decenni posteriori all’unità vanno ricondotte a suggerimenti dei partecipanti alla questione della lingua del secondo Ottocento, sottolineando così la sua importanza.
Il presente lavoro vuole riproporre brevemente le linee generali di questo dibattito e soffermarsi poi in maniera approfondita sull’operato di uno dei grandi contraenti, il linguista Graziadio Isaia Ascoli. I suoi scritti, di non sempre facile comprensione, rappresentano un notevole passo avanti dal punto di vista del metodo adottato e della visione del problema, non più formale e letteraria, bensì, come già accennato, sociale e culturale e con un precocissimo ‘respiro‘ europeo. Verrà infine illustrata sommariamente la fortuna che tale posizione ha avuto e sta avendo nella critica italiana moderna.
2. Manzoni e la soluzione fiorentina
Nell’ottobre del 1867 veniva eletto ministro della Pubblica Istruzione il lombardo Emilio Broglio, un grande ammiratore del Manzoni e delle sue teorie linguistiche, al punto da “diventare egli stesso scrittore di gusto toscaneggiante”[6]. Il ministro si mise subito al lavoro e poco tempo dopo, il 14 gennaio 1868, incaricò una commissione di studiosi “di ricercare e proporre tutti i provvedimenti e i modi coi quali si possa aiutare e rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia”[7], al capo della quale veniva posto lo stesso Alessandro Manzoni. Essa si suddivise in due sezioni, una milanese con Manzoni, Ruggero Bonghi e Giulio Càrcano, e una fiorentina, composta da Raffaello Lambruschini, Giuseppe Bertoldi, Achille Mauri e Gino Capponi[8].
Al ‘Gran Lombardo’ veniva offerta così una grande possibilità per tradurre in pratica le sue idee riguardanti la questione della lingua, idee espresse peraltro già a partire dal 1806 nella lettera a Claude Fauriel e, successivamente, nelle cinque redazioni del trattato Della lingua italiana (1830-1859), nel Sentir Messa (1835/36) e nella lettera al Carena (1850). Questi scritti, corredati da un poderoso esempio pratico quale la rielaborazione linguistica del romanzo I promessi sposi (1821-1842), erano rimasti, a parte l’ultimo, tutti incompiuti o comunque inediti. Le teorie in essi esposte venivano ora rinnovate e presentate in una relazione che la sottocommissione milanese pubblicò nello stesso 1868 (Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla). L’Italia si trovava di fronte, così Manzoni, ad un duplice problema: la mancanza dell’unità linguistica sia sul piano geografico (la ben nota frammentazione dialettale), sia sul piano socio-culturale, con un notevole solco a separare la lingua scritta della pur gloriosa tradizione letteraria da quella parlata. Dove trovare quindi “quell’unico idioma che per le sue prerogative poteva relegare al ruolo di dialetti gli altri idiomi della penisola”[9] ? In Toscana, risponde il Manzoni, e più propriamente a Firenze, essendo il toscano della tradizione letteraria “l’unico tipo linguistico” che possa “essere accolto dagli italiani delle altre regioni, tutti concordi nel riconoscergli un primato”[10].
E’ appunto un fatto notabilissimo questo: che, non c’essendo stata nell’Italia moderna una capitale che abbia potuto forzare in certo modo le diverse province a adottare il suo idioma, pure il toscano, per le virtù d’alcuni scritti famosi al loro primo apparire, per la felice esposizione di concetti più comuni, che regna in molti latri, e resa facile da alcune qualità dell’idioma medesimo, che non importa di specificar qui, abbia potuto essere accettato e proclamato per lingua comune dell’Italia, dare generalmente il suo nome (così avesse potuto dar la cosa) agli scritti di tutte le parti d’Italia, alle prediche, ai discorsi pubblici, e anche privati, che non fossero espressi in nessun altro de’ diversi idiomi d’Italia.[11]
Fin qui la posizione manzoniana non si scosterebbe granchè da quelle ‘toscaniste‘ di vari altri partecipanti alla secolare questione della lingua, come ad esempio i Puristi[12]. L‘innovazione principale è costituita dalla ricerca di una lingua ‘viva‘, da usare come mezzo di comunicazione quotidiano. Viene abbandonata così la visuale esclusivamente letteraria, fino ad allora alla base del dibattito linguistico, estendendo la questione al campo sociale e culturale. Il modello da prendere, secondo il Manzoni, non era quindi il toscano trecentesco, codificato nei vocabolari dell’Accademia della Crusca[13], ma il ‘fiorentino vivo‘, cioè la lingua attualmente parlata dalla borghesia di Firenze.
I canali, attraverso i quali attuare queste idee, erano secondo il Manzoni principalmente due: in primo luogo l’allestimento di un vocabolario „rigorosamente esemplato sull’uso vivo fiorentino“[14] affiancato da vocabolari bilingui per i singoli dialetti.
Ciò che occorre a noi, in una gran parte de‘ casi, è d’apprendere i vocaboli medesimi; e a ciò servono, come naturalissimi interpreti, i vocabolari degli altri idiomi. Sono il noto che può condurre all’ignoto desiderato, o certamente desiderabilissimo[15].
In secondo luogo la scuola, veicolo privilegiato di ogni diffusione del sapere. Nella relazione al ministro Broglio venivano elencate perciò una serie di proposte concrete da attuare[16]:
1. Assunzione di maestri esclusivamente toscani nelle scuole magistrali, la loro preferenza nelle altre. 2. Incentivi ai comuni che „si provvedessero di maestri nati od educati in Toscana“[17]. 3. Conferenze di insegnanti toscani nelle scuole di altre regioni. 4. Borse di studio a studenti di scuole magistrali per permettere loro „di passare un’annata scolastica in Firenze, per farci la pratica in una delle migliori scuole primarie“[18], e altre ancora. Anche la richiesta di compilazione del nuovo vocabolario fu verbalizzata nella relazione al ministro Broglio[19]. Essa sarà l’unica ad essere realizzata[20]: le altre riportate sopra si riveleranno non solo di dubbia costituzionalità[21] e di scarsa applicabilità, ma incontreranno anche l’opposizione di diversi esponenti del mondo culturale dell’epoca, come si vedrà nel capitolo seguente.
Il ministro Broglio rimase sempre „convinto della bontà delle idee manzoniane“[22] e istituì nello stesso 1868 una commissione incaricata di curare l’edizione del Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, che fu pubblicato dal 1870 al 1897 in quattro volumi. Presidente della commissione si nominò lo stesso Broglio, che chiamò il genero del Manzoni, il lucchese Giovan Battista Giorgini, a farne da vicepresidente[23].
Alessandro Manzoni si era intanto dimesso da ogni incarico: la relazione della sottocommissione fiorentina, pubblicata poco dopo la sua, si era mostrata talmente distante dalle sue posizioni da indurlo a rassegnare le dimissioni al ministro il 26 maggio 1868[24]. Era la prima di una serie di manifestazioni di dissenso che gli perverranno negli anni successivi dagli studiosi italiani. Da citare[25] sono soprattutto Pietro Fanfani (La lingua italiana c’è stata, c’è, e si muove del 1868), Giambattista Giuliani (Moralità e poesia del vivente linguaggio della Toscana dello stesso anno), Luigi Settembrini (lettera al ministro Broglio, sempre del 1868), Luigi Gelmetti (in un intervento sulla Relazione, anch’esso del 1868) e soprattutto Gino Capponi, che con lo scritto Fatti relativi alla storia della nostra lingua del 1869 ci ha lasciato „la cosa più alta [insieme alla Relazione del Manzoni e al Proemio dell’Ascoli, ndr] che l’Ottocento ci abbia dato sulla dolente ‘questione della lingua‘“[26].
3. La posizione di G.I. Ascoli
a) La persona
L’opposizione più autorevole alle proposte manzoniane e, soprattutto, all’operato dei seguaci del ‘Gran Lombardo‘, venne dal grande glottologo Graziadio Isaia Ascoli, il „padre della linguistica e della dialettologia scientifica in Italia“[27]. Di famiglia ebraica, nacque a Gorizia il 16 luglio 1829. L’essere cresciuto in un ambiente naturalmente plurilingue - a Gorizia, città dell’impero austro-ungarico, si parlavano, oltre all’italiano, il tedesco e lo sloveno – stimolò certamente il suo precoce interesse linguistico: appena sedicenne pubblicò uno studio sulle affinità tra il friulano e il ‘valacco‘ (rumeno). Grazie alle agiate condizioni familiari potè dedicarsi intensamente agli studi e imparò, oltre alle due lingue classiche, il sanscrito e l’ebraico, quest’ultimo secondo la tradizione della sua comunità[28].
Dopo aver pubblicato la prima opera significativa nel 1854-55 (gli Studj orientali e linguistici), fu chiamato nel 1861 dall‘ Accademia scientifico-letteraria di Milano a occupare la cattedra di ‘Grammatica comparata e lingue orientali‘. La denominazione cambiò nel 1868 su sua proposta in ‘Storia comparata delle lingue classiche e neolatine‘. Questo mutamento è significativo per lo spostamento degli studi di Ascoli, che si andavano sempre più concentrando sulla lingua italiana e sui dialetti della penisola[29].
Nato e cresciuto in un ambiente a lungo ‘irredento‘, sofferente dell’occupazione tedesca e per questo ferventemente nazionalista, Ascoli avvertiva profondamente il bisogno di un „rinnovamento intellettuale del paese“, la necessità di rimanere a contatto con l’avanguardia scientifica europea, che negli ultimi decenni del secolo scorso significava soprattutto tedesca, per non far relegare l’Italia definitivamente in una posizione di secondo piano in campo culturale e scientifico. Da qui la sua attenzione permanente agli studiosi d’oltralpe[30], soprattutto nel campo della linguistica, e, più in generale, il suo continuo richiamo alla ‘serietà scientifica‘, da contrapporre alla ‘mediocrità‘ che egli crederà di ravvisare come possibile esito della messa in atto delle proposte linguistiche manzoniane[31].
Morì a Milano il 21.07 del 1907.
b) Il Proemio all‘Archivio Glottologico Italiano
Graziadio Isaia Ascoli affidò il suo primo e più consistente intervento nella questione della lingua alle pagine dell‘ ‘Archivio Glottologico Italiano‘, rivista di dialettologia da lui fondata e diretta. Essa apparve per la prima volta nel 1873, mentre è datato 10 settembre 1872 il famoso Proemio, nel quale lo studioso goriziano risponde quasi con veemenza alle teorie linguistiche esposte nella Relazione al ministro Broglio.
Punto di partenza dell’argomentazione ascoliana è il titolo del nuovo vocabolario „che si viene stampando in Firenze sotto auspicj gloriosissimi“[32]: esso porta il nome Novo Vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze. Questo ‘novo‘ al posto di ‘nuovo‘, ricalcato sull’uso fiorentino di quel periodo[33], scatena le ire ascoliane e gli offre l’occasione per muovere la prima fondamentale accusa al metodo scientifico dei compilatori del Vocabolario: dato che il dittongo in uo è l’esito naturale della o tonica breve latina (in questo caso da nŏvus), ed è inoltre comune a quasi tutte le varianti dialettali dell penisola[34], il voler imporre ora il modo fiorentino ‘dall’alto‘ significherebbe non solo esercitare una ‘dittatura linguistica‘ non giustificata dall’attuale importanza del capoluogo toscano (vedi a proposito più oltre), ma costituirebbe un modo di procedere assolutamente anti-storico e anti-scientifico, una vera e propria „offesa o una sfida al moderno sapere“[35].
Dopo il primo ‘sfogo‘, Ascoli procede a verbalizzare il problema e a puntualizzare la propria posizione. E‘ vero, asserisce, che „la mancanza dell’unità di lingua fra gli Italiani“[36] sia un male e che il dare all’Italia una lingua, come tentano di fare i compilatori del Vocabolario, sia „un interesse nazionale, grande e pratico“, di „utilità pubblica“[37]. Ma il procedimento scientifico esige che come prima cosa ci si debba interrogare „sull’intima ragione del perchè altri si abbiano questo gran bene della sicurezza della lingua, che all’Italia manca“[38], cioè di esaminare accuratamente le cause dell’odierna situazione. Visto allora che la scuola manzoniana indica sempre la Francia come modello da seguire, Ascoli procede ad analizzare brevemente la situazione francese e mostra come la condizione base della sua unità linguistica sia la nettissima egemonia politica e culturale esercitata dalla capitale Parigi. Ogni studioso o artista, per essere ascoltato, deve passare per quell‘ „unico e maraviglioso e tirannesco laboratorio che è in riva alla Senna“[39] e, di conseguenza, attingerne la favella. Quindi „viene da Parigi il nome [la lingua, ndr], perchè da Parigi viene la cosa“[40].
[...]
[1] Ci si riferisce soprattutto alla scuola purista dell’abate Antonio Cesari.
[2] Le stime di questa percentuale variano dal 2,5% (DE MAURO 1976, 36-37) al 9,52% (CASTELLANI 1982, 15) sul totale dell’intera popolazione.
[3] Anche se, come si vedrà in seguito, sarebbe stato difficile stabilire quale dei due fatti fosse venuto prima, e proprio su questo punto si determinerà una delle fondamentali divergenze tra Manzoni e Ascoli.
[4] Vedi ad esempio le teorie (se è lecito chiamarle tali) dei Puristi ottocenteschi (cfr. SERIANNI 1989, 41-47). La data di nascita della linguistica come scienza vera e propria viene fatta risalire convenzionalmente alla pubblicazione del Course du linguistiques generale di Ferdinand de Saussure nel 1916, ma già nella seconda metà del secolo XIX si ha una vasta attività scientifica rivolta a problemi glottologici (soprattutto in Germania), come dimostra del resto l’operato dello stesso Ascoli (cfr. cap. 3 di questo lavoro).
[5] Cfr. ad esempio SERIANNI 1990, 55; GUGLIELMINO/GROSSER 1989, 68.
[6] SERIANNI 1990, 41.
[7] Citato da MANZONI 1987, 213.
[8] Riguardo alla suddivisione in ‘fiorentina‘ e ‘milanese‘ cfr. SERIANNI 1990, 41.
[9] MANZONI 1987, 214.
[10] SERIANNI 1989, 135/136.
[11] MANZONI 1987, 219.
[12] Riguardo ai Puristi cfr. SERIANNI 1989, 41-47 e VITALE 1984, 374-386.
[13] Soprattutto la V edizione del Vocabolario della Crusca (1806-1811), curata dal purista Antonio Cesari, mirava a proporre il fiorentino trecentesco come modello da perseguire (cfr. SERIANNI 1989, 42-44). Manzoni usò una copia di questa edizione per la seconda stesura del romanzo e dalle postille apposte si nota l’insofferenza verso quel modo di concepire la lingua ‘morta‘, staccata dalla realtà dei parlati quotidiani (cfr. MARAZZINI 1994, 348).
[14] SERIANNI 1990, 42.
[15] MANZONI 1987, 225.
[16] Cfr. SERIANNI 1990, 42 e BRUNI 1987, 142.
[17] MANZONI 1987, 227.
[18] MANZONI 1987, 228.
[19] Il vocabolario, secondo le intenzioni del Manzoni, doveva poi essere diffuso anche attraverso le scuole, fornendole adeguatamente dell’opera (cfr. BRUNI 142).
[20] Vedi cap. 3. di questo lavoro.
[21] Cfr. a proposito SERIANNI 1990, 42. Soprattutto la palese diversità di trattamento per i nati in differenti parti d’Italia sarebbe stata difficilmente conciliabile con i postulati di eguaglianza che figuravano anche nello Statuto albertino.
[22] BRUNI 1987, 142.
[23] Di Giorgini e Broglio sono le due interessantissime prefazioni al primo (Giorgini) e al terzo volume (Broglio) del Vocabolario, dove essi stilano una sorta di riassunto del pensiero manzoniano in materia di lingua (cfr. SERIANNI 1990, 44-45 e BRUNI 142).
[24] Ufficialmente per problemi di salute (cfr. SERIANNI 1990, 43). La relazione della sottocommissione fiorentina, capeggiata da Raffaele Lambruschini, indicava come modello da prendere non la lingua della borghesia di Firenze, anch’essa corrotta da neologismi e forestierismi (considerati il principale pericolo), bensì il linguaggio dei contadini fiorentini, giudicato ancora puro e vicino a quello dei grandi maestri del Trecento. Anche riguardo alla proposta di compilare un nuovo vocabolario viene espresso un parere divergente: basterebbe aggiornare quelli già esistenti (cfr. ib. , 42-43).
[25] Cfr. ib. 45-49.
[26] NENCIONI 1983, 121. Non sarà possibile qui analizzare questo scritto. Cfr. a proposito ib., SERIANNI 1990, 48-49 e VITALE 1984, 427-429.
[27] BRUNI 1987, 142.
[28] Cfr. DE MAURO 1980, 53 e SERIANNI 1990, 49.
[29] Cfr. DE MAURO 1980, 54-55.
[30] Ascoli fu fortemente influenzato dalla grammatica comparativa tedesca, in particolare da Franz Bopp (cfr. SERIANNI 1990, 49).
[31] Vedi a proposito il capitolo 3b) di questo lavoro. Un’esposizione più dettagliata della vita di G.I. Ascoli si trova in DE MAURO 1980, 53-61.
[32] ASCOLI 1975a, 6.
[33] Uso, tra l’altro, instauratosi „da non più di un secolo“ (SERIANNI 1990,51), e quindi piuttosto recente.
[34] Anzi, secondo Ascoli si tratta addirittura del „distintivo più cospicuo della romanità italiana“ (ASCOLI 1975a, 8), visto che il fenomeno si manifesta soprattutto nelle parlate della penisola, solo in alcuni casi nelle altre lingue romanze.
[35] ASCOLI 1975a, 8. Qui si riferisce soprattutto al metodo storico-comparativo dello studio delle lingue. Per colui per il quale tale metodo costituisce la base dei propri studi, una tale elevazione a norma di un uso popolare ‘in barba‘ ad ogni ragionamento storico-linguistico, deve veramente apparire come un’offesa.
[36] Ib., 10.
[37] Ib. .
[38] ASCOLI 1975a, 11.
[39] Ib. .
[40] Ib., 12. C’è da dubitare comunque, secondo Ascoli, sul fatto che una fermissima unità linguistica abbia soltanto pregi: „i cervelli mediocri“, così lo studioso goriziano, „lavorano tanto meno, quanto più il Frasario o Vocabolario della loro nazione ci mostri lucidi e attraenti, tutti ormai bell’e coniati, gli spiccioli del ragionamento o del pensiero comune“ (ib.). Inoltre è vero che la lingua francese sia stata irradiata da Parigi, ma è altrettanto accertato (e qui Ascoli cita con Littré lo studioso a suo parere più autorevole) che il parigino abbia subito moltissimi influssi dalle altre province, così che se in Italia si fosse verificata un‘analoga evoluzione con Firenze, il fiorentino oggi (nel 1873) sarebbe si la lingua nazionale, ma ben diverso da quello parlato odiernamente e quindi da quello che i manzonisti vogliono imporre come norma (cfr. ib. 12-14).
- Quote paper
- Dr. Luca Rebeggiani (Author), 2000, G.I. Ascoli e la questione della lingua, Munich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/276117
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