Dalla costruzione della chiesa di San Giovanni Battista a Campi
Bisenzio, meglio nota come “Chiesa dell’Autostrada”, ci separano ormai circa cinquant’anni. Nonostante questo ampio lasso di tempo nel corso del quale si sono prodotti tanti mutamenti dal punto di vista sia storico, sia paesaggistico, sia architettonico che costruttivo, la Chiesa dell’Autostrada preserva tuttora la forza dei contenuti che ha saputo mettere in opera e che a mio avviso nel momento di profonda crisi che ci troviamo ad attraversare al presente merita tutta l’attenzione di una sorgente cui poter attingere.
Sin dalla sua progettazione è possibile osservare una singolare
mescolanza di elementi sacrali ed elementi laici i quali, per la modalità del loro intrecciarsi, sembrano dar luogo a un’opera ispirata a un senso religioso programmaticamente non riconducibile ad alcuna confessione data.
Indice
1. Introduzione
2. Elementi e materiali costruttivi
3. Pianta
4. Tenda degli erranti
5. Il nord e il culto di San Giovanni
6. Alzato
7. Spazio della finitezza
a. le pietre
b. la finestra con la croce
8. La copertura del tetto
Bibliografia citata
Illustrazioni
1. Introduzione
Dalla costruzione della chiesa di San Giovanni Battista a Campi Bisenzio, meglio nota come “Chiesa dell’Autostrada”, ci separano ormai circa cinquant’anni. Nonostante questo ampio lasso di tempo nel corso del quale si sono prodotti tanti mutamenti dal punto di vista sia storico, sia paesaggistico, sia architettonico che costruttivo, la Chiesa dell’Autostrada preserva tuttora la forza dei contenuti che ha saputo mettere in opera e che a mio avviso nel momento di profonda crisi che ci troviamo ad attraversare al presente merita tutta l’attenzione di una sorgente cui poter attingere.[1]
Sin dalla sua progettazione è possibile osservare una singolare mescolanza di elementi sacrali ed elementi laici i quali, per la modalità del loro intrecciarsi, sembrano dar luogo a un’opera ispirata a un senso religioso programmaticamente non riconducibile ad alcuna confessione data.
Ma vediamone intanto brevemente la vicenda di edificazione.
Il plastico del primo progetto preliminare, opera dell’ing. Lamberto Stoppa, fu presentato a Papa Giovanni XXIII nel 1959 dall’allora presidente dell’IRI, Aldo Fascetti. Ma a seguito del giudizio negativo da parte della Soprintendenza ai Monumenti e dell’Istituto internazionale di Arte liturgica, nel novembre 1960 la predisposizione del progetto definitivo fu affidata all’arch. Giovanni Michelucci e i lavori furono ultimati all’inizio del 1964[2].
La sede prescelta, presso il casello dell’Autostrada del Sole “Firenze Nord”, all’intersezione con l’A11 Firenze-Mare, raccoglie diversi intenti simbolici, celebrativi, di memoria. All’epoca l’Autostrada del Sole era appena riuscita a raccordare nord e sud, fornendo alla Penisola un’infrastruttura davvero grandiosa per l’epoca, capace di congiungere per linea diretta le persone in viaggio da Milano sino a Napoli e viceversa[3] e, «come tutte le grandi opere, essa ha richiesto il sacrificio di numerosi lavoratori, immolatisi lungo i 753 km di cantieri estesi da Milano a Napoli. La Chiesa dell’Autostrada vuole essere per prima cosa il monumento commemorativo per i nostri caduti»[4]. Inoltre, considerato il periodo storico nel quale la Chiesa è stata costruita nonché la rilevanza dell’opera autostradale nella quale si innestava, può cogliersi in essa un’ esplicita allusione alla ricorrenza, in quegli anni, del centenario dell’unità del nostro Paese, come si legge chiaramente nelle parole di Fedele Cova: «[p]ossiamo affermare con legittimo orgoglio che l’Autostrada del Sole è stata la maggiore opera pubblica compiuta dal nostro Paese in questo dopoguerra: nel centenario dell’Unità d’Italia, essa ha realizzato quel raccorciamento della penisola che permetterà la vera e definitiva fusione degli italiani in un unico popolo»[5]. Infine, dal punto di vista simbolico, occorre tener conto del fatto che per coloro che hanno partecipato alla sua costruzione, è la stessa Autostrada del Sole a rappresentare un’“opera d’arte”, benché povera di elementi decorativi, e ciò volutamente, al fine di non alterare la purezza di linee del congiungimento fra nord e sud che essa intendeva realizzare. Questa sobrietà programmatica necessitava tuttavia che i valori di “opera d’arte” attribuiti all’Autostrada trovassero la loro espressione compiuta in uno spazio che li raccogliesse esplicitamente, in quanto spazio manifestamente artistico, ponendosi così a necessaria integrazione dell’opera infrastrutturale[6], dislocato a suo margine, spazio sacro destinato – come vedremo – a credenti e non credenti.
Nonostante la lontananza nel tempo dalla sua costruzione, la Chiesa dell’Autostrada mantiene intatta tutta la sua attualità, è in grado di parlarci ancora oggi ponendo in campo temi e problemi, principalmente estetici, vivi più che mai, soprattutto se si tiene conto che essa, nelle parole del suo progettista, si pone senz’altro come “opera”, ma non come “opera d’arte”[7], e offre quindi spunti interessanti per riflettere sul rapporto fra arte e vita in un tempo di museificazione come il nostro dove l’opera d’arte sembra sempre più rigidamente relegata a spazi, tempi e occasioni di fruizione separati dalla “vita di tutti i giorni”. Nella Chiesa dell’Autostrada cerca di compiersi qualcosa come un’unità di vita e bellezza, di azione e riflessione, di fatica manuale e di apertura alla trascendenza, unità in grado di costituire uno specchio nel quale possiamo forse cogliere anticipatamente l’integrità alla quale l’uomo moderno può decidere di tendere, per restituire un qualche senso alla propria esistenza scissa, di “in-dividuo” che forse non è esagerato considerare quale esito finale di una divisione incessantemente perpetrata lungo la storia, punto d’arrivo abissale che non può essere più diviso perché gli è stato tagliato via tutto, addirittura il rapporto con sé stesso.
Prima di addentrarmi in questo lavoro sulla Chiesa dell’Autostrada di Giovanni Michelucci, vorrei innanzitutto ringraziare Paola Gregory per avermi messo a disposizione con gentilezza squisita e senza esitare suoi scritti rilevanti e materiali didattici anche inediti.
Poi, in qualche modo risalendo a ritroso nel tempo, vorrei ringraziare mio padre non soltanto – per dirla con Amélie Nothomb[8] – in quanto “autore dei miei giorni”, ma anche per avermi fornito preziosi documenti d’epoca senza i quali questo mio lavoro non sarebbe stato possibile. Pertanto a lui questo scritto è dedicato.
2. Elementi e materiali costruttivi
Dal punto di vista dei caratteri costruttivi, la Chiesa dell’Autostrada di Michelucci sembra oscillare fra la presenza di elementi tradizionali, punti di riferimento necessari affinché essa possa considerarsi una vera e propria “chiesa”, e la loro declinazione originale, si direbbe spaesata.
Intanto la forma della pianta evoca le tradizionali forme a croce della tradizione cristiana, benché, come vedremo, diversamente orientata (e forse non è soltanto questione di diversità nell’orientamento spaziale).
Poi, nel complesso in cui essa si articola, la nostra aspettativa di riconoscere gli elementi costruttivi i quali, secondo le nostre abitudini, fanno di un edificio un luogo di culto, non è tradita: troviamo un sagrato, un battistero, un nartece (elemento cui peraltro molte chiese hanno rinunciato sin dal tardo medio evo) e un piccolo chiostro; e poi una galleria della penitenziaria e via crucis; un’aula centrale nella quale sono collocati tre altari, ciascuno con orientamento e importanza propri; un grande organo a fiato che occupa la cantoria e una sacrestia posta dietro l’altare maggiore; nonché un camminatoio superiore nel quale pure è inserita una cappella. All’esterno troviamo una struttura verticale e slanciata sulla quale sono innalzate le campane. Come si vede da questo breve elenco, si tratta di elementi architettonici che inseriscono l’edificio indubbiamente nel genere “chiesa”.
I materiali per la realizzazione sono, per dirla con le parole di Michelucci: «la pietra di San Giuliano per i muri perimetrali, il cemento bianco di Sardegna, per le strutture; il rame per il tetto; e marmi e pietre per i pavimenti»[9]. Da questo succinto resoconto cogliamo dunque che i materiali usati per dire il fondamento e ciò che sovrasta sono materiali “nobili”, per ciò stesso tradizionalmente adeguati alle chiese: le pavimentazioni sono realizzate in lastre di marmo levigate e la copertura del tetto è costituita da lastrine di rame, all’origine rossastre e ora ricoperte dalla tipica patina d’ossidazione color verde acqua. La muratura esterna è rivestita di pietrame a crudo locale, la pietra del vicino gruppo montuoso di San Giuliano, quasi che la fascia muraria perimetrale consentisse al paesaggio circostante di rispecchiarsi.
Ma accanto a questi materiali più pregiati, e quasi per legar meglio il senso della Chiesa a quello della contigua, disadorna Autostrada che la lambisce, le strutture portanti (con il compito tutto umano, tutto assediato da limiti e in sé problematico, di raccordare cielo e terra) sono fatte di ben più modesto conglomerato di cemento armato e precompresso[10]. È come se la scelta dei materiali si intonasse a una sorta di assegnazione delle regioni cui l’uomo ha in qualche modo accesso. Cielo e terra – luoghi apparentati da sempre alla metafisica e al problema del fondamento – non sono in mano all’uomo, sono regioni già date. Rispetto all’esistenza del singolo, queste due regioni vi sono state da sempre e o lo richiamano a sé o lo risucchiano al proprio interno; questa loro qualità e questa specie di riconoscimento di alterità e di non disponibilità merita l’impiego dei materiali costruttivi più pregiati. Invece il compito del loro raccordo (soprattutto mediante le strutture portanti ma anche ciò che lega assieme le pietre del fascione murario), è spazio non dato e può essere plasmato dall’uomo: questo spazio non dato perché colmabile dall’esistenza di ciascun individuo in quanto unico, non prevedibile, non programmabile, è nondimeno tenuto insieme da materiali meno preziosi (la calce, il cemento), la cui caratteristica principale è la duttilità e la prossimità alla polvere[11].
L’ambiente esterno nel quale si inserisce la Chiesa dell’Autostrada è una zona coltivata a prato, leggermente ondulata, nella quale sin dall’inizio sono stati piantati alcuni ulivi (v. ill. n. 1) e successivamente anche pioppi e pini marittimi (cfr. ill. n. 2). Le lastre che rivestono il marciapiede circostante la Chiesa sono realizzate in pietra arenaria. Più in là si offre al visitatore lo spettacolo delle colline che di lontano chiudono l’area in cui sorge Firenze (cfr. sfondo in ill. n. 1).Abbildung in dieser Leseprobe nicht enthalten
Come esamineremo meglio più avanti, l’interno è allestito in modo da rassomigliare a una tenda, come se fosse un telo tenuto su da piloni in cemento con la funzione di pali. La forma della tenda tuttavia non è stata oggetto di un programma costruttivo, piuttosto si è in qualche modo affermata da sé, con il farsi dell’opera. Come a lavori ultimati afferma lo stesso Michelucci, «[l]a forma generale è quella di una tenda, il che può significare, analogicamente, il “transito”, e non la dimora definitiva degli uomini sulla terra. Dico “può” perché questa forma è un risultato e non una premessa. Non sono cioè partito dall’idea della tenda per assoggettarle poi la struttura interna; ma la forma ha cominciato a delinearsi in conseguenza del tessuto interno. Ed è allora che un versetto di San Paolo nella Epistola ai Corinzi [...] mi ha aiutato a precisare la forma stessa»[12].
Oltre ad essere sostenuta all’interno dai piloni in cemento armato, questa tenda si avvale anche di un doppio tirante esterno (cfr. ill. n. 3).
Come può vedersi dalle immagini cui si è fatto riferimento sin qui (lati nord, sud, ovest), e dall’immagine seguente (ill. n. 4), all’esterno la Chiesa appare avvolta da un candido fascione rappresentato dalla muratura perimetrale in pietrame, piuttosto uniforme nella sua colorazione biancastra[13] e nella compattezza materica, tanto che le aperture e le feritoie sembrano ridotte a segni minimi. Nonostante l’impressione di fondamentale uniformità offerta da colore e consistenza, il muro perimetrale è nondimeno caratterizzato da un movimento impressogli dalla sua stessa forma, sinuosa, soprattutto per alcuni tratti sul lato nord e ovest – ma anche a sud, in corrispondenza dell’ampio arco di cerchio sporgente che lascia intuire il battistero. La medesima forma peraltro non rinuncia a spigoli vivi e forme geometriche, soprattutto a est[14] e si sfrangia su tre livelli dal lato nord-ovest, in corrispondenza della sacrestia e della vetrata che sormonta l’altare maggiore (v. ill. nn. 3 e 4). In altre parole, entrando nella Chiesa, ci aspettiamo di trovarci all’interno dell’aula e invece accediamo al nartece, come se l’incontro lo spazio sacro vero e proprio, quello dell’aula, fosse rinviato, o avesse bisogno di una speciale preparazione spirituale.
3. Pianta
Osservando la pianta, può innanzitutto cogliersi la disposizione degli elementi costruttivi che ho definito “tradizionali”. Come già accennato e come può vedersi nell’ill. n. 5, ci troviamo in presenza di alcuni elementi tipici dell’architettura ecclesiale, soprattutto antica. A sud troviamo il battistero, il quale, con la sua pianta rotondeggiante, benché non proprio rotonda, ma piuttosto a goccia, evoca strutture a pianta centrale fra le più belle di questa tipologia (si pensi al battistero contiguo al complesso della romana basilica di San Giovanni, al battistero accanto al duomo di Parma, a quello collocato vicino Santa Maria del Fiore a Firenze). Diversamente dalle forme tradizionali, qui il battistero è al contempo autonomo e legato al corpo principale. Non si tratta di un edificio staccato, ma al contempo non fa parte del corpo d’aula ecclesiale, in quanto vi si accede mediante una galleria indipendente, con accesso proprio.
Ho voluto subito accennare al battistero, posizionato in modo da essere al contempo ricompreso ed espunto dalla Chiesa stessa, per poter percorrere in qualche modo più liberamente il percorso di accesso all’aula. Dal sagrato, posto sul lato est, si accede al nartece, collocato, come nelle chiese paleocristiane e medievali, nello spazio antistante l’aula. Ma se nelle chiese antiche il nartece era per lo più un portico a ridosso della facciata, in diretta comunicazione con il chiostro all’aperto (come può vedersi in ill. n. 6),
nella Chiesa dell’Autostrada, esso, pur ponendo a contatto aula e chiostro alberato, è in sostanza una specie di galleria d’accesso all’aula. Il nartece della Chiesa dell’autostrada è scandito da alcuni pannelli dedicati ai santi patroni delle città messe in collegamento dall’Autostrada del Sole: «[l]e loro effigi, in rilievi di bronzo narranti episodi biografici di particolare carica evocativa, spiccano sulle quinte emergenti a sinistra, richiamando o anticipando all’automobilista anche il ricordo delle città scaglionate sul suo itinerario»[15], Pertanto sui pannelli in bronzo troviamo raffigurati Sant’Ambrogio (Milano), Santa Giustina (Piacenza), Sant’Ilario (Parma), Santi Crisanto e Daria (Reggio nell’Emilia), San Geminiano (Modena), San Petronio (Bologna), Santi Pietro e Paolo (Roma), San Silverio (Frosinone), San Michele Arcangelo (Caserta), San Gennaro (Napoli)[16]. Come si coglie da quest’elenco, la lista dei santi patroni e delle relative città rievocate sui pannelli del nartece esclude Firenze, il cui protettore, San Giovanni Battista, è lo stesso dedicatario della Chiesa dell’Autostrada e trova speciale rilievo nella vetrata all’interno dell’aula[17].
La presenza del nartece, originariamente destinato a raccogliere i non battezzati, vuole forse indicare un punto sul quale Michelucci pone l’accento sia nella breve descrizione redatta all’epoca della realizzazione della Chiesa, sia in scritti più tardi: vale a dire una religiosità che oltrepassa la fede cattolica romana, per farsi senso religioso che intride la stessa esistenza umana. La condizione di catecumeno, cioè di colui che ancora non ha assunto in maniera solida la qualità di fedele mediante il battesimo, che ancora non è ammesso a varcare la soglia della chiesa e a partecipare con tutta pienezza ai riti che vi si celebrano, sembra rispecchiare al meglio la condizione dell’essere umano contemporaneo nel suo non trovare compimento, nel suo oscillare fra dubbio e certezza, nel suo essere esposto all’ingresso nello spazio di Dio e la tentazione costante di sottrarvisi, di non lasciarsi possedere, soggiogare né redimere dal divino[18]. Una condizione di fragilità, di indecisione, esposta a dubbi, a ripensamenti, a interrogativi che investono l’essere umano in quanto tale, e che mostrano la problematicità del suo rapporto con Dio. Ma, nell’ottica di Michelucci sembra proprio tale condizione di incertezza, di indecisione, di ritrosia, di indisponibilità alla redenzione che ci qualifica in quanto esseri umani, a essere degna di essere considerata come sacra, come infinitamente preziosa, come indissolubilmente legata al divino avvertito come problema.
Se, secondo quanto messo in luce da Michelucci, è questa la nostra condizione di esseri umani al declinare della civiltà occidentale, va detto che il senso religioso concepito in modo problematico non è l’unico tratto emergente dal rapporto con la dimensione spaziale della Chiesa dell’Autostrada del Sole. Oltre ad alludere alla sacralità dell’esistenza in quanto tale, Michelucci sottolinea infatti l’aspetto comunitario nel quale l’esistenza umana sempre si dà. Il senso religioso messo in opera da Michelucci dà rilievo allo stare insieme agli altri, al lavoro svolto in comune, alla fatica artigiana delle mani, alla dimensione corale. Questo aspetto comunitario ha segnato la Chiesa dell’Autostrada del Sole sin dall’inizio della sua messa in opera. In questa prima fase il senso comunitario doveva costituire il senso del lavoro delle persone impegnate, a vario titolo, nella realizzazione del progetto di Michelucci. A tale proposito Michelucci afferma: «era la prima volta nella mia vita che mi si dava l’opportunità di tentare quella collaborazione impegnata tra il progettista, gli artigiani e l’industria, cosa cui spesso ho pensato come fondamentale per dare nuovamente alla città nascente ed alle forme architettoniche un nuovo volto ed un nuovo senso. Ho sempre creduto, infatti, e ripetuto, che occorre ritrovare [...] nei rapporti umani, su un piano di lavoro quotidiano, a un livello-base comune, quella verità che giustificava la collaborazione antica tra ideatore ed attuatore, e che sta alla base del concetto stesso di “ecclesia”, come organo di raccolta, di incontro, di vita e di operare comune: gli antichi “costruttori di cattedrali”, “maestri operarii” lavoravano in questo spirito, in una sorta di intento di coralità che li accomunava, fin dalla rituale imposizione della prima pietra, al più umile degli scalpellini. È questo concetto di rapporto umano, di coralità, di fede vera nel lavoro artigianale, sia pure portato avanti con gli strumenti che l’esperienza contemporanea ci porge, che occorre oggi ritrovare, come base fondamentale dell’esistenza umana, e come significato di una nuova religiosità »[19].
In altre parole, progettando questo spazio sacro, Michelucci ha innanzitutto voluto evitare di rivolgersi in via esclusiva a una categoria di esseri umani, vale a dire “i fedeli” o i “credenti” o i seguaci del cattolicesimo romano, per quanto ampia essa possa intendersi (come è stato probabilmente nel Medio Evo), ciò che avrebbe prodotto di per sé il tagliar fuori dalla destinazione della Chiesa dell’Autostrada atei, agnostici, appartenenti ad altre confessioni religiose – insomma, tutti coloro che non si riconoscono nella fede cattolica e che pure possono trovarsi a percorrere l’autostrada e a necessitare di raccoglimento spirituale. Ma al contempo Michelucci ha pure voluto evitare di realizzare, mediante il suo progetto a Campi Bisenzio, di operare una scissione fra “artisti” (o realizzatori, in senso lato, del progetto) da un lato, i quali approntano l’opera per un pubblico informe fatto di persone comuni, e visitatori dall’altro lato (appunto le “persone comuni”, i profani rispetto al disegno architettonico e alla sua sapienza costruttiva). L’intento di Michelucci è stato invece, tutto al contrario, quello di indirizzarsi all’“uomo in quanto uomo”, e di puntare sulla sacralità di questa umanità piuttosto che su elementi mistici o liturgici particolari. Come l’architetto stesso chiarisce parlando in prima persona, quasi a sottolineare la propria responsabilità etica di progettista, «non mi sono preoccupato di far sì che la nuova costruzione si presentasse come un nuovo “pezzo” architettonico compiaciuto di sé stesso: uno dei tanti “capolavori” o “monumenti” che si realizzano per l’ammirazione degli esteti, nel disinteresse massimo della popolazione (che, d’altra parte, avvezza ad essere considerata incompetente, ha finito col disinteressarsi quasi di proposito); ma mi sono [...] preoccupato di fare un’opera il cui linguaggio fosse alla portata di tutti, nella quale ogni uomo potesse sentirsi a suo agio, non costretto a dover capire quel che l’architetto ha voluto fare, ma forse invece portato a rendersi conto che l’architetto ed i collaboratori tutti (dal calcolatore al capocantiere, agli scalpellini, ai muratori, ai manovali) sono per prima cosa degli uomini, che hanno un loro mestiere ed un senso di responsabilità verso il loro lavoro allo scopo di poter rispondere, con quello che fanno, alle necessità materiali e spirituali degli altri uomini, e insieme alle loro stesse. Ho cercato inoltre di evitare suggestioni “mistiche” in un’opera la cui “suggestione” deve scaturire da una sua riscoperta necessità, da una sua adesione profonda al suo significato spirituale»[20].
In linea con questa concezione, può ricordarsi una considerazione dello stesso Michelucci a proposito dell’architettura di Filippo Brunelleschi. In questo passaggio Michelucci scrive: «[s]i dice – e sono in molti a dirlo – che nelle chiese brunelleschiane si avverte un’alta considerazione umana, l’attenzione agli interessi psicologici, intellettuali ecc.; e che manca, al contrario, un sentimento religioso o mistico. In queste costruzioni – si ripete – tutto è aperto e scoperto e penetrabile. Non c’è “mistero”; non vi sono angoli nobiliari; non vi sono quelle zone d’ombra che caratterizzano le chiese romaniche. La città (spazio profano) ha libero accesso nella chiesa, senza che trovi un avvertimento, un silentium che prepari all’avvento dello spazio sacro. Brunelleschi non distingueva in realtà le due categorie. Se andava al mercato, vi andava per guardare in faccia gli uomini dietro i banchi di vendita, e poi per raffigurarli nelle sue sculture destinate alle chiese; vi andava per ascoltarli, quegli uomini, suoi concittadini, per tradurre poi nello spazio delle sue costruzioni le impressioni che i discorsi fatti e le cose viste gli avevano procurato [...]. Il territorio cittadino non poteva definirsi “profano” perché generava il sacro»[21] ; e più avanti: «Brunelleschi ha portato il sacro fuori dal recinto e lo ha partecipato a tutti»[22].
Nonostante tale considerazione riguardi l’opera di un maestro assai lontano nel tempo, essa è rilevante in quanto nella lettura appassionata che Michelucci fa dell’opera di Brunelleschi, vibra, come è stato osservato[23], l’appassionata indicazione dei compiti dell’architetto del nostro tempo. Memore della lezione brunelleschiana, con la Chiesa dell’Autostrada del Sole Michelucci non ha inteso realizzare uno spazio relegato, chiuso, per adepti, dedicato a un momento di preghiera staccato dal resto della vita. Lo spazio sacro della Chiesa dell’Autostrada è costituito e pensato in dialogo continuo con la dimensione quotidiana, e anzi generato dalla quotidianità stessa. Nelle intenzioni di Michelucci, «[t]utta la Chiesa è caratterizzata da percorsi e spazi nei quali credo che il visitatore, l’ospite, può trovare una rispondenza, almeno parziale, di ciò che più si confà al suo stato d’animo; si tratta di uno spazio riportato a “rapporto umano”, che significa la riscoperta della “misura di interiorità” nell’uomo, una spinta a ritrovare la sua libertà fondamentale anche attraverso gli strumenti operativi della via odierna [...]. Il visitatore può scegliere, nella Chiesa, uno spazio appartato o uno che sia ritrovo di altre persone; può restarsene solo o unirsi agli altri, secondo la sua preferenza del momento. Questa Chiesa è una piccola città, uno spazio modulato nel quale gli uomini, incontrandosi, dovrebbero, se il linguaggio architettonico ha raggiunto la sua efficacia, riconoscersi in un interesse ed in una speranza comune che è quella di “ritrovarsi”»[24].
Tale osmosi fra sacralità e dimensione quotidiana trova conferma, a mio avviso, nella scelta della pianta dell’aula e nel suo orientamento. Forse per ricondurre l’opera di Michelucci al già noto, alla più remota tradizione costruttiva cristiana, qualcuno non ha esitato a definire “cruciforme”[25] la pianta della Chiesa dell’Autostrada del Sole. In effetti, osservando la pianta (cfr. ill. n. 5), si potrebbe essere tentati di racchiudere la forma dell’aula all’interno di una croce. Ma a ben guardare la forma prescelta si limita ad alludere alla croce cristiana, la quale, secondo l’architettura tradizionale, presenta bracci squadrati, spigolosi e, cosa evidente soprattutto nelle chiese a croce latina, è disposta come sul Golgota la stessa croce su cui era stato appeso Gesù doveva essere apparsa ai suoi seguaci: il palo lungo come un percorso obbligato dello sguardo passando per le sue braccia allargate a forza e accoglienti l’intera umanità, sino a giungere al volto del figlio di Dio posto al vertice, cosa ultima, forse per alcuni addirittura difficile da raggiungere distintamente mediante la vista. La pianta a croce ripercorre questo momento terribile dello sguardo dei fedeli rivolto a Cristo crocifisso, dal basso, dalla terra, sin verso ai cieli, dimora di Dio; il visitatore che entra nella chiesa a croce latina avanza sino all’altare lungo questo percorso verso i bracci della croce il quale evoca quello dello sguardo su Gesù martirizzato e al contempo tramuta la vicenda del vedere in spazio che guida ogni passo avviluppando il fedele, sorreggendolo, indicandogli una direzione di salvezza.
Ma nella Chiesa dell’Autostrada la croce è posta in senso trasverso, l’altare maggiore non è collocato, come di solito, nello spazio che simboleggia la sommità della croce, bensì è posto in uno dei suoi bracci minori il quale tuttavia non dà affatto l’impressione di uno spazio profondo e chiuso, escludente o respingente, come un vicolo cieco; ma tutto al contrario, lascia la sensazione di qualcosa di accogliente, di aperto, di perlustrabile, di percorribile (v. ill. nn. 8 e 9).
In altre parole facendo ingresso nell’aula della Chiesa dell’Autostrada del Sole ci troviamo davanti e all’interno di uno spazio inconsueto: una croce che non è una croce. Uno spazio sacro che però è anche spazio dell’uomo e per l’uomo. Più che a una croce infatti questo spazio assomiglia a un transetto, l’area inserita nell’aula basilicale romano-pagana per la prima volta a San Pietro in Roma per accentuare la sacralità del luogo in cui sarebbe stato martirizzato Pietro[26]. Ma mentre nelle chiese a croce latina vi è tutto il percorso, rappresentato dalla navata, per giungere in raccoglimento allo spazio sacro dell’altare, nella Chiesa dell’Autostrada questo percorso è immensamente raccorciato, se non distorto[27]. Una volta attraversato il nartece, non c’è una galleria, come la navata centrale, a consentire un transito graduale verso il divino, ma entrati nella Chiesa siamo subito posti senza mediazione nello spazio sacro che ci invita a muoverci. L’ingresso nella Chiesa dell’Autostrada è l’ingresso nello spazio sacro dove gli esseri umani diventano esseri umani, dove in quanto esseri umani sono posti a contatto diretto con il problema religioso e la trascendenza.
Questa interpretazione è confermata anche considerando l’orientamento della pianta e il posizionamento dell’altare rispetto ai quattro punti cardinali. Per comprendere l’originalità di Michelucci sotto questo profilo, occorre ricordare quale sia l’humus culturale nel quale si inserisce la Chiesa dell’Autostrada in quanto architettura sacra. A tale riguardo occorre tener presente che in generale l’architettura cristiana ha consolidato sin dagli albori (e con poche importanti eccezioni, fra le quali spicca come noto la basilica romana di San Pietro) la prassi di collocare l’altare maggiore alla sommità della pianta a croce latina orientata verso est. Il senso di questa distribuzione dello spazio, si sa, possiede una forte carica simbolica per il credente cristiano. Iniziando il proprio cammino lungo il braccio lungo della croce a partire dall’ingresso posizionato ad ovest, allegoria del sole che tramonta e dunque della notte, del buio, della morte, delle tenebre della perdizione, il fedele avanza in direzione dell’altare maggiore rivolto ad est, cioè verso il punto del sorgere del sole, luce, bellezza, fondamento della diversità delle cose create e del loro apparire in modo discernibile, chiarità e simbolo divino per eccellenza. Il cammino iniziato da ovest simboleggia un abbandono e un distanziamento progressivo dalla dimensione di perdizione e un risalimento graduale verso la verità dell’origine e il suo mistero divino.
Come elabora Michelucci questi archetipi vecchi di secoli, come li dispone all’interno dell’aula che per forma rappresenta della croce di Gesù solo un debole ricordo?
Innanzitutto, come si vede chiaramente dalla pianta, l’altare maggiore è situato a nord. Ciò è legato al culto di San Giovanni la cui effige è riprodotta sulla vetrata, la più ampia fra quelle all’interno della Chiesa, e vedremo più avanti come può leggersi questa scelta (cfr. infra, § 5). A est troviamo uno dei due altari secondari (v. ill. n. 8), raccolto in una nicchia inaccessibile alla luce naturale, sormontato da un mosaico che ritrae la Vergine col Bambino circondata d’un manto azzurro con zone profonde come il cielo stellato, dispiegato e sorretto ai fianchi da due angeli in volo (cfr. ill. n. 10).
Ma a est troviamo anche l’ingresso principale, nonché un’inquietante finestra, l’unica vera e propria finestra ad altezza umana e tuttavia poco appariscente, di cui si parlerà dopo (v. infra, § 7 lett. b). Ad est dunque il visitatore entra: come risucchiato da una porta che sembra la valva di una conchiglia (v. ill. n. 4) e pare preludere a una discesa, giacché l’andamento della tettoia, spiovente a chiudere, allude al basso, così come le striature sulle lastre di pietra della parte di tettoia che si offre alla vista, fanno pensare a una discesa. Se l’est è il luogo dell’origine, l’accesso alla Chiesa dell’Autostrada assomiglia a una nascita, a una caduta attraverso un vortice, e dalla prospettiva di chi esce, a una salita verso il prato... a qualcosa del genere aveva già pensato Platone raccontando per la bocca del guerriero Er gli esiti e le origini delle anime degli esseri umani[28].
Una volta entrati nella Chiesa attraverso la galleria del nartece, siamo subito spaesati perché ci ritroviamo nelle vicinanze del lato ovest. Abbiamo fatto ingresso da est dal punto nel quale sorge il sole, e non abbiamo trovato alcuna aula. Abbiamo percorso un tratto nel nartece come meri catecumeni, come credenti malsicuri, e ci troviamo che il tragitto volge già al suo termine, al limite occidentale della Chiesa dell’Autostrada del Sole. In tal modo, mediante questo percorso inconsueto, Michelucci rifonda il senso del nostro trovarci dal lato del tramonto. Entriamo dunque nell’aula sacra dal lato del tramonto-occidente[29], buio, tenebra e notte, tutti simboli che dicono la nostra condizione disgraziata, ed è proprio qui che è posta l’immagine del Crocifisso, inchiodata a una croce di legno senza appoggio per la testa e tuttavia fiancheggiata a sinistra dalla luce intensissima delle feritoie che giunge, pur se angusta, ad altezza del visitatore e dà luce a tutta la cappella (cfr. ill. n. 11). Luce tramontante, peraltro, che raggiunge il suo massimo fulgore quando il giorno inizia a declinare. Dunque, piuttosto che luce sorgente divina, si direbbe luce e finitezza, ciò che ci contraddistingue in quanto esseri umani[30].
L’ingresso alla Chiesa dell’Autostrada e la modalità in cui possiamo muoverci negli spazi che la costituiscono sembrano veramente strutturate per farci entrare o ri-entrare nella nostra condizione, per ricollocarci a contatto con ciò che siamo.
E a questo punto si coglie con maggiore profondità il motivo per il quale Michelucci ha finito col rappresentare il nostro soggiornare sulla terra disegnando uno spazio sacro – sacro nel senso dell’unità di finitezza e trascendenza che ci distingue – che ha la forma di una tenda.
4. Tenda degli erranti
Per ammissione dello stesso Michelucci, l’idea della tenda è arrivata in corso d’opera, meditando un passo tratto dalle Lettere paoline: «la forma [della tenda] ha incominciato a delinearsi in conseguenza del tessuto interno. Ed è allora che un versetto di San Paolo nella Epistola ai Corinzi (“Noi sappiamo, difatti, che se la nostra dimora terrestre, che non è se non una tenda, è disfatta, abbiam nei Cieli un edificio che ci viene da Dio; una casa non fatta da man d’uomo, eterna”) mi ha aiutato a precisare la forma stessa»[31].
La tenda in quanto dimora è già stata oggetto di riflessione nel campo della teoria dell’architettura, specialmente da parte della corrente surrealista. Il surrealismo (in particolar modo per voce di Tristan Tzara) ha avvertito l’esigenza di contrapporre al razionalismo modernista che trovava il proprio compimento nella casa di vetro[32] e nelle strutture dalle forme rigorose e pure di Le Corbusier e di Mies van der Rohe a «un’architettura più sensibile ai bisogni psicologici […]. All’estensione orizzontale e al dissolvimento del confine fra pubblico e privato […] Tzara oppose l’immagine materna e protettiva delle costruzioni “uterine” che, a partire dalla caverna sino alla grotta e alla teda, racchiudevano tutte le forme basilari dell’abitazione umana: “Dalla caverna (poiché l’uomo abita la terra, ‘la madre’) passando per la iurta degli eschimesi, forma intermedia fra la grotta e la tenda (esempio straordinario di costruzioni uterine accessibili attraverso cavità dalle forme vaginali), passando per la capanna conica o semisferica il cui ingresso è decorato da una stele a carattere sacro, l’abitazione è il simbolo del benessere prenatale”. Queste case coniche e semisferiche, nelle quali si entrava traverso “cavità dalle forme vaginali”, erano buie, tattili e morbide, simili ai rifugi costruiti dai bambini»[33].
Ora, sicuramente Michelucci, per il tempo in cui ha maturato le proprie idee fondamentali sull’architettura dev’essersi portato l’eco del surrealismo che si sviluppava in modo coevo ad alcune sue opere fondamentali (si pensi per es. alla stazione di Santa Maria Novella a Firenze, risalente al 1936). E sicuramente, come già osservato, l’ingresso alla Chiesa dell’Autostrada presenta la forma a conchiglia che pure evoca la cavità uterina. Tuttavia l’espresso richiamo al passo della Lettera di Paolo sembra trasportare questo riferimento oltre la dimensione dell’inconscio verso quella del fare, e della direzione cui questo fare può tendere, cioè verso la trascendenza. In altre parole, il tema della tenda messo in opera da Michelucci non va inteso a mio avviso come l’evocazione di un regresso allo stadio prenatale, alla morbida protezione della vita intrauterina, in cui l’essere umano è quieto, on sa nulla delle spaccature che l’attendono nel mondo “di fuori”. Piuttosto, come d’altronde messo in luce dalle parole di San Paolo riportate dallo stesso Michelucci, la tenda allude alla nostra condizione di erranza, di inquietudine, di fatica nel sostenere questo telone che ci limita, che ci impedisce di veder bene cosa vi sia al di fuori.
[...]
[1] I dati di carattere storico riportati nella presente introduzione, così come le foto d’epoca riprodotte nel presente scritto sono attinti da Autostrade. Rivista tecnica e di informazioni autostradali, anno VI, n. 3, marzo 1964, pp. 3-100; ulteriori dati elaborati più recentemente possono reperirsi nella scheda «La Chiesa dell’Autostrada del Sole, Firenze», redatta a cura del FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano) disponibile in rete al sito http://www.fondoambiente.it/upload/oggetti/Chiesa_Autostrada_Firenze.pdf.
[2] Resoconto di F. Cova, «Perché una Chiesa sull’Autostrada del Sole», in Autostrade. Rivista tecnica e di informazioni autostradali, anno VI, n. 3, marzo 1964, pp. 5-6, a p. 6.
[3] L’Autostrada del Sole (A1) è stata completata, per il tratto che va da Milano a Napoli, nel 1964. Il tratto più meridionale dell’A1, la cd. A3, e in particolare nel tratto da Salerno a Reggio Calabria, tracciato in più fasi fra il 1966 e il 1972, è tuttora oggetto di opere di ristrutturazione e di ampliamento.
[4] F. Cova, «Perché una Chiesa dell’Autostrada del Sole», cit., p. 5. Su questo intento commemorativo dell’opera vedasi anche G.S. Giacomini, «La tematica», in Autostrade. Rivista tecnica e di informazioni autostradali, anno VI, n. 3, marzo 1964, pp. 10-11, a p. 10.
[5] F. Cova, «Perché una Chiesa dell’Autostrada del Sole», cit., p. 5.
[6] «Per “noi dell’Autostrada”, che abbiamo visto il sorgere dei primi cantieri, il successivo compimento di ponti, viadotti, cavalcavia, gallerie, opere complementari, infine il fluire, man mano che i vari tronchi venivano aperti al traffico, di una nuova vita, l’Autostrada è già di per sé “opera d’arte”. Ed è per questo che non si è voluto, con decorazioni di ponti, viadotti o gallerie, alterarne le linee pure di opera del “nostro tempo”. Rimaneva però il problema di lasciare ai nostri figli un ricordo, il più completo possibile, della nostra civiltà con quelle opere artistiche che sull’Autostrada non potevano trovare collocazione. La Chiesa dell’Autostrada vuole [...] essere il centro ove architettura, scultura, pittura d’oggi, trovano la loro ideale fusione, e sono dell’Autostrada il naturale completamento» (così F. Cova, «Perché una Chiesa sull’Autostrada del Sole», cit., p. 5).
[7] Cfr. G. Michelucci, «Giustificazione di una forma architettonica», in Autostrade. Rivista tecnica e di informazioni autostradali, anno VI, n. 3, marzo 1964, pp. 7-8, a p. 8. Più avanti questo passaggio di Michelucci verrà citato e commentato più approfonditamente.
[8] Mi riferisco in particolare a A. Nothomb, Métaphysique des tubes, Albin Michel, Paris, 2000 e Voland, Roma, 2002, tr. it. di P. Galeone, Metafisica dei tubi, Guanda, Parma, 2004.
[9] G. Michelucci, «Giustificazione di una forma architettonica», cit., p. 8. La pietra di san Giuliano proviene dalle cave del gruppo montuoso San Giuliano situato fra il Serchio e il Val d’Arno inferiore pisano.
[10] Per un resoconto dettagliato delle modalità di realizzazione delle strutture portanti, vedansi le note di G. Lambertini, «Le strutture portanti», in Autostrade. Rivista tecnica e di informazioni autostradali, anno VI, n. 3, marzo 1964, pp. 16-19.
[11] Per la scelta etica sottostante i criteri che hanno condotto Michelucci a impiegare materiali “poveri”, anche sulla base della considerazione delle precarie condizioni economiche del secondo dopoguerra che l’Italia aveva patito, v. G. Michelucci, Il linguaggio dell’architettura, a cura di M. Buscioni, Officina Edizioni, Roma, 1979, p. 59 ss. V. anche le considerazioni svolte al riguardo infra, il § 6 dedicato all’alzato.
[12] G. Michelucci, «Giustificazione di una forma architettonica», cit., p. 8. Questo modo di procedere che esplicitamente prende distanza rispetto al programma iniziale è d’altronde tipico del progettare di Michelucci. Altrove e di nuovo a proposito della Chiesa dell’Autostrada, l’architetto ha affermato: «[l]a struttura è in continuo movimento. “Respira”. La temperatura, il vento agiscono su questo “corpo vivente” [...]. Il calcolatore aveva previsto (seguendo un mio primo schema) un incastro e dei pesi giganteschi sul punto A. La cerniera che propongo ora risolve tutti i problemi. Si tratterà di vedere a cosa porta il calcolo», in G. Michelucci, Il linguaggio dell’architettura, cit., p. 43.
[13] Invero le pietre inserite presentano tonalità cromatiche che vanno dal bianco al giallo chiaro, in casi sporadici arrivano al più deciso arancio (cfr. infra, ill. n. 19). Ma nonostante questa effettiva policromia, la veduta d’insieme a distanza fornisce l’immagine di una muratura color bianco latte.
[14] Per una descrizione di questi elementi spigolosi rintracciabili sulla fascia dei muri perimetrali, vedasi infra, il § 6 dedicato all’alzato.
[15] G.S. Giacomini, «La tematica», cit., pp. 10-11.
[16] Per una descrizione delle scene delle vite dei santi raffigurate sui rilievi in bronzo all’interno del nartece v. S.G. Giacomini, «La tematica», cit. p. 11.
[17] Sulla vetrata raffigurante san Giovanni e un possibile significato da attribuirsi a questa figura religiosa vedasi infra, § 5.
[18] Per una lettura del soggetto moderno come colui che ha bisogno del divino e la contempo non può che rifiutare la redenzione offerta dal dio per affermare fino in fondo la propria natura finita, mortale, irredimibile, v. la figura dell’Empedocle Hölderlin nell’interpretazione di P. Vinci, Essere ed esperienza in Heidegger. Una fenomenologia possibile fra Hegel e Hölderlin, Stamen, Roma, 2008, in particolare il II capitolo dal titolo: Il decidere e il patire. L’interpretazione di Hölderlin come messa in questione della soggettività metafisica, ivi, pp. 63-94, spec. pp. 80-85. Una raffigurazione pittorica della condizione dei catecumeni nel senso che ho indicato nel testo che a mio avviso rende con straordinaria modernità questo angoscioso vacillare della fede che nondimeno assume dignità e valore può cogliersi nell’affresco dei catecumeni raffigurati da Masaccio nella Cappella Brancacci della chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze: cfr. ill. n. 7.
[19] Giovanni Michelucci, «Giustificazione di una forma architettonica», cit., p. 7, corsivi miei.
[20] Giovanni Michelucci, «Giustificazione di una forma architettonica», cit., p. 8, corsivi miei.
[21] G. Michelucci, Brunelleschi mago, cit., pp. 57-58.
[22] G. Michelucci, Brunelleschi mago, cit., p. 112.
[23] P. Portoghesi, Prefazione a G. Michelucci, Brunelleschi mago, Medusa, Milano, 2011, pp. 5-15, a p. 9.
[24] Giovanni Michelucci, «Giustificazione di una forma architettonica», cit., p. 8.
[25] G.S. Giacomini, «La tematica», cit., p. 11: «l’aula con la sua pianta cruciforme sintetizza simbolicamente il discorso sul Cristo via e approdo». Come si intuisce, questa lettura tende a porre l’accento sui valori religiosi concepiti nel senso più tradizionale. Mi sembra invece importante sottolineare il tentativo, messo in opera da Michelucci, di sbrogliare la religiosità dall’istituzione, e di indicare il senso religioso di cui è intessuta l’esistenza umana in quanto tale. La contrapposizione fra religiosità concepita come istituzione ed espressione del potere pubblico da un lato, e religiosità come qualità diffusa, che può cogliersi nei gesti semplici della vita quotidiana, è esemplificata per Michelucci nella contrapposizione che egli fa, rispettivamente, fra l’opera di Michelangelo e quella di Brunelleschi: v. G. Michelucci, Brunelleschi mago, cit., p. 107 ss.
[26] Cfr. A. Romanini et al., L’arte medievale in Italia, III ed., Sansoni, Milano, 1999, p. 40.
[27] Analoghe osservazioni, benché assai sintetiche, in S. Benedetti, L’architettura delle chiese contemporanee. Il caso italiano, Jaca Book, Milano, 2000, pp. 66.
[28] Platone, Repubblica, Libro X, da 614c-e sino a 615a, tr. it. a cura di G. Lozza, Mondadori, Milano, 1990, p. 825: «[Er d]isse che la sua anima, dopo essere uscita dal corpo, errò insieme a molte altre e tutte giunsero in un luogo meraviglioso, dove c’erano due aperture comunicanti nel terreno e altre due simili nel cielo in corrispondenza delle prime. In mezzo ad esse erano seduti dei giudici. Essi emanavano le sentenze e poi imponevano ai giusti di avviarsi a destra in alto attraverso il cielo, ma prima attaccavano loro sul petto i cartelli col testo della sentenza. Agli ingiusti ordinavano invece di avviarsi a sinistra in basso, e anche a loro appendevano sulla schiena un cartello su cui stavano scritte tutte le loro colpe. Giunto il suo turno, i giudici ordinarono a Er di riferire agli uomini ciò che avrebbe visto laggiù e perciò di ascoltare e osservare ogni cosa. Vide dunque le anime avviarsi, dopo il giudizio, all’una e all’altra apertura rispettivamente del cielo e della terra, mentre le altre due aperture lasciavano l’una salire dalla terra anime polverose e stanche e l’altra scendere dal cielo anime pure. Tutte quelle che arrivavano successivamente sembravano reduci da un lungo viaggio, e liete di essere giunte a quel prato, come chi si accampa per una festa solenne. Alcune, che si conoscevano, si scambiavano cenni di saluto, e quelle provenienti dalla terra s’informavano dalle altre degli avvenimenti del cielo, e viceversa. Le une facevano il loro racconto con gemiti e lacrime, e ricordavano quante e quali sofferenze avessero patito e visto durante il loro viaggio sotto terra – un viaggio di mille anni». Più avanti (ivi, Libro X, 616b ss.), descrivendo il fuso dell’universo mosso da Anànke, Platone si serve dell’immagine del vortice, che secondo qualche commentatore simboleggerebbe il sistema planetario concepito a cieli concentrici (cfr. ivi, p. 831, nota 58, e p. 833 note 59-63). Per altri miti escatologici in Platone nei quali ricorrono il tema del prato assieme alla figura del vortice o apertura della terra che consente il passaggio delle anime, v. anche Gorgia (523a ss., e spec. 524a), nonché Fedone (110b ss., e spec. 113d ss.).
[29] Cerco di tradurre così l’enigmatica parola tedesca Abendland, letteralmente “terra della sera”, che indica sia il luogo del tramonto del sole, sia l’occidente quale terra per sua natura intimamente legata al pensiero della finitezza.
[30] Non è forse inutile rammentare qui l’esistenza di un’antica parola greca per dire “essere umano mortale”, sinonimo del termine più conosciuto anthropos, vale a dire phós (di genere maschile). Phòs in questo significato lega la stessa radice della parola phôs (di genere neutro), cioè “luce”, alla condizione di finitezza che contraddistingue la nostra esistenza.
[31] G. Michelucci, «Giustificazione di una forma architettonica», cit., p. 8.
[32] Sulla contrapposizione fra la “casa di vetro” e il nomadismo v. J. Kasper, Trauma e nostalgia. Per una lettura del concetto di Heimat, Marietti, Genova, 2009, spec. p. 65 ss.
[33] Così A. Vidler, The Architectural Uncanny. Essays in the Modern Unhomely, 1992, Massachussets Institute of Technology, Cambridge (Mass.), London, 1992, tr. it. a cura di B. Del Mercato, Il perturbante dell’architettura. Saggi sul disagio nell’età contemporanea, Einaudi, Torino, 2006, p. 168. I passaggi fra virgolette nella citazione sono tratti da T. Tzara, «D’un certain automatisme du goût», in Minotaure. Revue artistique et litéraire, nn. 3-4, dicembre 1933, p. 84.
- Citation du texte
- Giuliana Scotto (Auteur), 2012, La “Chiesa dell’Autostrada” di Giovanni Michelucci. Una lettura estetica., Munich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/198729
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