Esiste una dimensione dell'esistenza umana estremamente sfuggente, liquida, le cui dinamiche visibili hanno da sempre celato qualcosa di vagamente (in)conoscibile e raggiungibile. Sequenze di gesti, parole e comportamenti che si ripropongono, quasi ciclicamente, nelle diverse fasi della vita dell'uomo o in particolari momenti di crisi e disagio. Sono atti eseguiti secondo norme codificate che prendono il nome di rito. Nella riflessione sulla ritualità umana è spesso stato oggetto di controversia il rapporto tra natura e cultura, laddove nel dominio della natura facciamo confluire gli atti e i comportamenti di tipo istintivo, e nel dominio della cultura inseriamo i significati che tali atti e comportamenti possono avere. Al di là delle diverse e numerose definizioni di rito che si possono riscontrare nella letteratura di riferimento è di particolare rilievo soffermarsi a riflettere su quelle più controverse, senza le quali, con tutta probabilità, non si sarebbe mai giunti a pensare una scienza di recente definizione chiamata "ritologia".
Nell'ambito della presente relazione ho voluto concentrarmi sulla critica che Frits Staal muove alle scienze sociali, in particolare all’antropologia, ricorrendo nella mia riflessione alle analisi interpretative del rito presentate nel suo volume Ritual and Mantras. Rules Without Meaning (1996) integrandole con quelle di Jayant Burde convogliate in Rituals, Mantras and Science (2004).
Introduzione
Esiste una dimensione dell’esistenza umana estremamente sfuggente, liquida, le cui dinamiche visibili hanno da sempre celato qualcosa di vagamente (in)conoscibile e raggiungibile. Sequenze di gesti, parole e comportamenti che si ripropongono, quasi ciclicamente, nelle diverse fasi della vita dell’uomo о in particolari momenti di crisi e disagio. Sono atti eseguiti secondo norme codifícate che prendono il nome di rito. Nella riflessione sulla ritualità umana è spesso stato oggetto di controversia il rapporto tra natura e cultura, laddove nel dominio della natura facciamo confluire gli atti e i comportamenti di tipo istintivo, e nel dominio della cultura inseriamo i significati che tali atti e comportamenti possono avere. Al di là delle diverse e numerose definizioni di rito che si possono riscontrare nella letteratura di riferimento è di particolare rilievo soffermarsi a riflettere su quelle più controverse, senza le quali, con tutta probabilità, non si sarebbe mai giunti a pensare una scienza di recente definizione chiamata "litologia".
Nell’ambito della presente relazione ho voluto concentrarmi sulla critica che Frits Staal muove alle scienze sociali, in particolare all’antropologia, ricorrendo nella mia riflessione alle analisi interpretative del rito presentate nel suo volume Ritual and Mantras. Rules Without Meaning (1996) integrandole con quelle di Jayant Burde convogliate in Rituals, Mantras and Science (2004). Dalla lettura di questi testi, e dal confronto con prospettive teoriche precedentemente esplorate1, è emersa la necessità di inscrivere la riflessione di Staal in un più vasto panorama teorico - prettamente di natura antropologica - che ha eletto il rito a oggetto privilegiato di osservazione etnografica in vari contesti; e di confrontare alcune intuizioni di Burde con prospettive antecedenti il suo pensiero, in modo da dare una continuità tra le tesi dei due autori mediate dall’apporto antropologico - cognitivo. Entrambi i testi richiedono una lettura parallela, poiché il secondo rappresenta un commento e un ampliamento del primo, e ne esemplifica alcuni passaggi teorici talvolta di difficile interpretazione. Tra il formalismo e rigorismo talvolta eccessivo proposto da Staal, ľ“agnostieismo liberale” propugnato da Burde e le interpretazioni più olisi ielle dell’antropologia nell’analisi del rito, ho provato a rintracciare un punto di connessione tra le due visioni, individuabile in una prospettiva di analisi che nasce in seno all’antropologia culturale cognitiva da un lato e alla biologia dall’altro, che dell’interdiseiplinarietà fa il suo cardine metodologico e dello strutturalismo quello teorico e rappresenta una stimolante ‘via di mezzo’ tra il livello emieo e il livello etico di interpretazione dei fenomeni culturali; questa prospettiva sviluppatasi nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso in Canada prende il nome di strutturalismo biogenetico - culturale. Le analisi e le riflessioni nate in seno a questa prospettiva sono molto affini alle posizioni di Staal - entrambe utilizzano un approccio strutturale (sintattico) allo studio del rito prendendo le mosse dallo strutturalismo levistraussiano - e a quelle di Burde - lette nella chiave del rapporto tra natura e cultura - ed è per questo motivo che ho ritenuto interessante metterle in connessione.
Lo stimolo a questo tentativo sperimentale è derivato dalla curiosità di notare come le riflessioni del gruppo di lavoro strutturalista canadese e le intuizioni di Staal si siano sviluppate più о meno nello stesso periodo, ma il confronto incrociato delle fonti di riferimento dei due orientamenti, rintracciabili nelle bibliografie dei rispettivi lavori, mostra il mancato incontro e ricorso alle reciproche prospettive. Inoltre, ľ auspicio per una maggiore attenzione allo studio dell’espressività istintiva del rituale da un punto di vista biologico, e ancor meglio genetico, con cui Burde conclude il suo volume, palesa il mancato riferimento alle teorie dello strutturalismo biogenetico - culturale anche da parte di questo autore.
Quale sarebbe stato l’esito delle riflessioni di Staal e В urde se entrambi avessero preso in considerazione gli apporti dell’antropologia cognitiva in una delle sue forme più evolute? Rileggere le interpretazioni del rito di Staal e В urde contestualizzandole e integrandole con la prospettiva strutturalista biogenetico - culturale, si rivela quindi un’esperienza stimolante, utile a mantenere vivo lo spirito autocritico di cui le scienze umane sono intrinsecamente portatrici per natura.
1 Prima di Staal e Bürde: le principali teorie sul rito
Studiare il rito nei suoi propri termini significa studiarlo primariamente in modo del tutto indipendente dal significato che gli viene dato successivamente2.
Questa affermazione non è così ovvia soprattutto se gettiamo lo sguardo “a volo di uccello” sulla storia della riflessione sul rito nelle scienze umane, dove questa attività non ha mai smesso di offrire spunti di riflessione e di analisi. D’altro canto se non si facesse un rapido riferimento al pensiero dei padri fondatori dell’analisi del rito, nella storia del “pensiero ritologico”, non sarebbe possibile comprendere appieno le posizioni di Frits Staal e il motivo per cui hanno destato tanto scalpore, continuando ad essere di incredibile attualità. Proviamo quindi rapidamente a scorrere le pagine della riflessione sul rito evidenziandone i passaggi fondamentali. Nel Ramo d’oro, James Frazer, analizzando le magie e le superstizioni, pone alcune premesse attinenti ai tipi di classificazione che riguardano specificamente i riti; ne conseguono quattro categorie: riti simpatici (che fanno intervenire una caratteristica di similarità), riti animisti (nei quali la potenza che interviene è personificata: Dio о il totem), riti a base dinamica (nei quali interviene una potenza di tipo “mana”) e riti di contatto. Queste forme si combinano non altri tipi di rituali: diretti о indiretti, positivi о negativi; si deve ammettere che categorie di questo tipo permettono di far rientrare nella classificazione proposta da Frazer qualsiasi tipo di rito. Un passaggio successivo di analisi è stato effettuato da Émile Durkheim nelle Forme elementari della vita religiosa (1912), dove egli ha accostato rito e religione. A differenza del suo predecessore, che faceva rientrare le credenze e le magie del mondo nell’ambito della superstizione, Durkheim riconosce a tali pratiche dignità religiosa e anzi si spinge ad affermare che nessuna religione è frutto di fantasia, ma riti e miti traducono qualche bisogno umano, qualche aspetto della vita individuale e sociale. Dunque l’analisi del rito parte dall’analisi del religioso e per fare ciò bisogna prima di tutto operare una distinzione tra ciò che è profano e ciò che è religioso, generi che si escludono mutualmente; tuttavia sacro e profano sono interdipendenti e corrispondono ai concetti di puro ed impuro. Nel rito si realizza una trasmutazione tra questi due generi che comprendono tutte le cose sacre. In sostanza, dice Durkheim, non può esserci profano senza sacro e viceversa, si tratta di una nozione basata sulla contrapposizione di classi e categorie opposte, ma interdipendenti in cui sono ravvisabili i fondamenti dello strutturalismo che sarà successivamente sviluppato da Lévi-Strauss3 e che grande influenza avrà negli studi sul rito, ivi compresi quelli di Frits Staal e Jayant Burde. Senza soffermarci troppo sulle analisi etnologiche operate da Durkheim, ciò che conta osservare nella nostra riflessione è che le manifestazioni rituali corrispondono ad un tempo “altro” rispetto alla quotidianità, esse hanno il potere di mettere in moto la collettività, i gruppi si formano per celebrare; ed è tra il continuo alternarsi di tempo sacro e tempo profano che si svolge la vita dell’uomo. I riti sono plastici e profondamente ambigui - prova ne sia il fatto che ancora la riflessione contemporanea non li ha definiti esattamente - ma l’analisi durkhemiana giunge a porre un quesito ancora attuale: qual è l’efficacia del rito? Il sociologo francese la rintraccia nel sociale, la coesione del gruppo che vi prende parte garantisce al rito di produrre dei particolari stati mentali. Nel rito si rinsaldano e si rigenerano continuamente sentimenti collettivi di appartenenza.
Marcel Mauss ha privilegiato la nozione di “sacrificio” che egli considera strumentale per arrivare alla conoscenza di riti e miti. Il sacrificio è un’istituzione, un fatto sociale che è efficace in quanto atto sociale; nel consacrare una vittima si modifica lo stato di una persona morale che lo compie. Nel Saggio sulla natura e la funzione del sacrificio (1899) Marcel Mauss e il suo compagno di studi Henri Hubert sostengono la possibilità di estendere la nozione di sacrificio con le altre nozioni che racchiude in sé; Mauss proporrà successivamente una definizione del rito che riconosce l’importanza di rituali non appartenenti al campo religioso. Anche gli atti individuali possono essere di natura rituale purché vi sia sempre “qualcosa di normativo”, e l’efficacia del rito non è tanto materiale quanto percepita; si crede all’efficacia del rito mediante pratiche di simbolizzazione. Ma l’osservazione più importante di Hubert e Mauss riguardante il rito è legata alla sua struttura “sintattica”: sono tra i primi a fare una constatazione fondamentale individuando nel rito un inizio, un parte centrale e una fine. Tale osservazione deriva dall’analisi del rito vedi co presentato negli Srauta Sutra ai quali Mauss era stato iniziato dal suo maestro Sylvain bévi (Fournier 1994: 37-80; Staal 1996: 255).
Operiamo un salto temporale arrivando verso la metà degli anni Settanta del Novecento, quando i diversi concetti di rituale sono stati passati al vaglio critico di alcuni studiosi, e diversi approcci teorici sono stati elaborati. Un punto di partenza per la nascita delle questioni teoriche relative al rito, nel dibattito contemporaneo, lo si ritrova nell’articolo programmatico firmato da Clifford Geertz dal titolo La religione come sistema culturale4, nella sostanza, la visione geertziana rivendica il primato dell’approccio antropologico allo studio del rito e soprattutto avanza l’idea di una gerarchia che vedrebbe prima il rito e poi la religione, il passo successivo è assimilare il rito alla religione. Secondo Geertz il senso delle realtà ultima, che è l’essenza della religione, si origina nel rituale poiché il mondo vissuto e il mondo immaginato sono fusi sotto la stessa agency di un singolo insieme di forme simboliche. È il rito a generare la religione in quanto capace di inglobare, incarnare in sé, il sistema di simboli; ciò presuppone, a ben vedere, che non sia assolutamente necessario studiare i rituali negli atti di cui sono composti, ma sia sufficiente analizzare la rete di simboli e significati di cui sono portatori. Qui si delinea una contraddizione nel momento in cui simbolo/significato e rito vengono messi sullo stesso piano. Da questa prospettiva qualsiasi tipo di azione rituale/ritualizzata può essere vista nell’ottica del comportamento religioso, ma ciò non corrisponde sempre alla realtà dei fatti.
La visione geertziana di rimando del rito ad una rete di simboli e significati (un po’ come il suo concetto di cultura che egli definisce negli stessi termini), e quindi la sua stretta connessione con la religione, ha esercitato un forte fascino sulla comunità degli studiosi di scienze religiose oltre a rafforzare la curiosità etnografica degli antropologi, contribuendo a formare quello che si può definire “il primato del simbolo e del significato sulla struttura”. Tuttavia un punto di vista così radicale, e quasi assolutistico, in materia non è rimasto immune al confronto critico con le riflessioni di altri studiosi. Innanzi tutto Geertz offre un’interpretazione un po’ riduttiva e limitata del rito, relegandolo in modo esclusivo alla sfera religiosa, tant’è che se proviamo a confrontare l’opinione di altri studiosi il dominio del rito nella vita umana è ben più ampio (Kreinath 2005). Una delle più interessanti e provocatorie tesi è quella proposta da Frits Staal, maturata a seguito dell’analisi del rito vedi co sastra deiľ Agnicayana, che l’indologo ha potuto documentare nella performance tenutasi nel 1975 nel Kerala, nella parte meridionale dell’India. Secondo lo studioso olandese, è sbagliato assumere che il rituale consista di attività simboliche che si riferiscono a qualcosa di diverso rispetto al rito, e rincara la dose affermando che coloro che prendono parte ad un rituale e lo eseguono sono solo preoccupati della corretta esecuzione delle regole che lo codificano "non ci sono significati simbolici nelle nienti [di chi
"Geertz, C., (1966), "Religion as a Cultural System", ln Bariton M., (ed.), Anthropological Approaches to the Study of Religion, London: Travistoci; Publications, l-4fi, riproposto In Geertz, C. (1973), The Interpretation of Cultures, New York: Basle Books, (cd. It. Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino, 1988).
compie il rito] nel momento della performance" (Staal 1979: 3); insomnia, si esegue e non si pensa. Considerando l’azione rituale come completamente autosussistente e autocontenuta, Staal definisce il rituale come pura attività, nella quale l’unica cosa che conta è l’assenza di errori di esecuzione. Conta ciò che viene fatto, che viene messo in atto, non ciò che l’esecutore dice, pensa о crede. Di conseguenza il rito è senza significato, un insieme di regole senza senso, "senza funzione, scopo о obiettivo" (Staal 1979: 9), se non quello intrinseco della corretta esecuzione delle stesse; la conseguenza logica è quella di studiare il rito dal punto di vista del rito, per usare un gioco di parole, ossia nei termini delle regole sintattiche seguite (Staal 1979: 19-22); le azioni rituali sono autoreferenziali e possono essere studiate e analizzate solo all’interno del proprio sistema di riferimento. Con l’approccio di Staal al rito assistiamo ad un ritorno allo strutturalismo che dalla linguistica ha trasmesso le sue nozioni ad altri campi, primo tra tutti l’antropologia.
2 II rito come linguaggio
“I riti devono sempre essere considerati come un insieme di condotte individuali о collettive relativamente codifícate, espresse con atti corporei (verbali, gestuali, di postura), di carattere ripetitivo, di forte carica simbolica sia per gli attori sia per gli spettatori... il rito è un linguaggio efficace nel senso che agisce sulla realtà sociale” (Segalen 1998: 25).
Anche se spesso i rituali utilizzano un linguaggio essi non sono un linguaggio in senso stretto, come afferma Staal nella Prefazione a Rules Without Meaning: “[...] il rituale è trasmesso non solo senza significato, ma spesso senza linguaggio” (1996: XV). Fatta questa considerazione non ha senso, se non solo in modo metaforico, parlare di grammatica del rituale; tuttavia esistono almeno due ragioni per cui si continua ad utilizzare il termine ’grammatica’ in riferimento al rito: 1) gli elementi non verbali della comunicazione sono diventati ormai una parte consistente degli studi di linguistica; 2) sono stati fatti molti tentativi di definire le regole dei rituali secondo i modelli grammaticali e linguistici.
Dalla linguistica, quindi, derivano anche i due principali approcci di studio del rito, molto ben esemplificati da Burde:
Esistono di base due metodi per studiare un rituale. Il primo è il più diffuso e talvolta viene denominato “approccio semantico”; esso ha a che vedere essenzialmente con il significato del rituale... il secondo metodo, di recente scoperta, per studiare un rituale consiste nell’analizzare la sua struttura о sintassi” (2004: XVIII-XIX).
Il pensiero di Lévi-Strauss5muove dall’assumere la linguistica, e in particolare la fonologia, come modello per l’antropologia (e, in senso lato, per le scienze umane e sociali). Il metodo fonologico si riduce a quattro procedimenti fondamentali: in primo luogo, la fonologia passa dallo studio dei fenomeni linguistici coscienti a quello della loro infrastruttura inconscia; rifiuta di considerare i termini come entità indipendenti, prendendo invece come base dell’analisi le relazioni tra i termini; introduce la nozione di sistema ("la fonologia attuale non si limita a dichiarare che i fonemi sono sempre membri ‘'Delineato teoreticamente in Antropologia strutturale (1958, trad, it., il Saggiatore 1967) c Antropologia strutturale due (1973, trad. it. Il Saggiatore, Milano 1977), c ancor prima metodologicamente in Le strutture elementari della parentela (1949, trad. lt., Feltrinelli, Milano 1969).
di un sistema, ma mostra sistemi fonologici concreti e mette in evidenza la loro struttura"); infine, mira alla scoperta di leggi generali, sia trovate per induzione, sia dedotte logicamente, il che conferisce loro un carattere assoluto. Nella concezione di Lévi-Strauss, dato che la lingua è un prodotto culturale, frutto della vita associativa, la rivoluzione fonologica impone di considerare la possibilità che lo stesso procedimento possa essere applicato a qualsivoglia fenomeno culturale.
Il punto debole del sistema levistraussiano - a detta di alcuni detrattori, tra cui lo stesso Geertz - sta nell’avere privilegiato i bisogni cognitivi rispetto a quelli affettivi e, in particolare, nell’avere assunto il pensiero come strumento di classificazione e di significazione del mondo esterno che, alla fine, ha investito anche l’organizzazione sociale.
3 L’istintività del rito e la cultura del rito: l’approccio antro pologico - cognitivo
Jayant Burde (2004) in riferimento al rapporto tra religione e cultura afferma:
“Gli umani hanno una cultura che nessun altro animale possiede. Sappiamo che l’espressione dei nostri istinti, come il sesso о la fame, è controllata dalla cultura. Sarebbe appropriato pensare all’interazione tra biologia e cultura. Supponendo che il rituale abbia origini biologiche sarebbe abbastanza logico assumere che sia soggetto all’intìuenza della cultura nel caso umano. Il rituale indubbiamente precede il linguaggio... è naturale pensare che il linguaggio possa aver influenzato il rituale nello stesso modo in cui ha influenzato altre espressioni biologiche” (2004: 212).
L’antropologia cognitiva corrisponde ad un approccio idealista per studiare la condizione umana. Il campo dell’antropologia cognitiva si concentra sullo studio delle relazioni che intercorrono tra la cultura umana e il pensiero umano. In contrapposizione con alcuni approcci primari dell’antropologia, le culture non vengono viste come fenomeni materiali, ma piuttosto come organizzazioni cognitive di fenomeni materiali (Tyler: 1969: 3). Gli antropologi cognitivi studiano come i gruppi umani comprendono e organizzano gli oggetti materiali, gli eventi e le esperienze che costituiscono il mondo e il modo in cui essi li percepiscono. Si tratta di un approccio che evidenzia il modo in cui gli individui danno senso alla realtà secondo le loro categorie cognitive, non quelle degli antropologi. Inoltre, gli antropologi cognitivi concepiscono l’antropologia come una scienza formale; assumono che la cultura sia composta da regole logiche basate sulle idee cui si può avere accesso nella niente, enfatizzando il ruolo delle regole del comportamento umano, non il comportamento in sé.
Lo strutturalismo biogenetico - culturale muove dall’assunto che le strutture che producono i modelli universali nella cultura (relativi alle credenze, ai comportamenti, alle immagini, ai pensieri, alle percezioni, alle esperienze, eoe...), siano di fatto organizzazioni di tipo neuro-fisiologico, che si sviluppano nel corso della vita degli individui, a partire da un modello originario. Tale modello dà conto delle regolarità che occorrono ad esempio nel linguaggio naturale, nei sogni, nelle intuizioni, nelle sensazioni, nell’immaginario archetipo, e si possono riscontrare a livello transculturale come caratteristica ubiquitaria della specie umana (d’Aquili, Laughlin 1Э74)6. La teoria dello strutturalismo biogenetico 0 Biogcnctic Structuralism, New York: Columbia University Press, 1974.
- culturale nasce in seno ad un gruppo di studiosi che afferiscono al campo delle scienze umane, ma con specifiche competenze individuali: antropologo psichiatri, psicologi e filosofi si uniscono sul terreno comune della ricerca delle strutture di base che determinano i comportamenti umani di cui noi abbiamo un’immagine riflessa dalla cultura, nelle sue pratiche. Eugene d’Aquili, John McManus, Sheila Richardson e Charles D. Laughlin - tra gli altri - rappresentano il primo gruppo di lavoro consolidato in questo orientamento teorico; nel corso degli ultimi venticinque anni di studi, essi hanno sviluppato e implementato la teoria dello strutturalismo biogenetico - culturale a partire dalla riflessione sull’ "universale culturale", scelto come istituzione che rappresenta un esempio pratico di come un’analisi biogenetico - strutturale potesse venir eseguita su un fenomeno della cultura.
4 II rito come emblema dell’universalità culturale: verso la “litologia”
L’oggetto primario di studio che Eugene d’Aquili e Charles D. Laughlin scelsero e presero a modello per dimostrare la loro teoria fu proprio il rituale (d’Aquili, Laughlin, 1979)7. Il rito fu scelto - nelle parole degli autori - a causa della sua "universalità culturale", nel senso che tutte le culture, in ogni spazio e in ogni tempo, espletano dei riti; a questa osservazione si aggiunse l’evidenza di una vasta letteratura di ordine biologico sul rito, specie in riferimento all’etologia, al comportamento sociale degli animali. Dal punto di vista dello strutturalismo biogenetico - culturale, se un comportamento, un’istituzione, un’immagine о un concetto è universale, questo può solo spiegarsi nei termini dell’esistenza di una struttura neurale (condivisa) soggiacente, determinata geneticamente e che media i fenomeni percepiti e percepibili (Laughlin, McManus, Rubistein 1984)8.
L’analisi del rito, da questa prospettiva teorica, ha contribuito a rendere la prospettiva stessa molto più ancorata alla fenomenologia pur nella sua componente empirica, con particolare riferimento allo studio della religione e delle pratiche spirituali; i risultati di questi primi soddisfacenti studi sono confluiti in una riflessione sistematica sulle relazioni che intercorrono tra il cervello umano, la funzione simbolica e la fenomenologia dell’esperienza, nello studio della coscienza, che viene intesa nell’accezione di rapporto tra l’uomo e il mondo, tra l’uomo e la realtà che percepisce e in cui è inserito (d’Aquili, Laughlin, McManus 199ü)H.
Definire esattamente i confini del termine ’religione’ è un’operazione concettuale molto difficile. Il problema risiede nel fatto che il termine ’religione’ è un’ altra di quelle etichette di matrice occidentale che vengono proiettate nella moltitudine di culture che abitano il pianeta Terra. La descrizione della attività religiose hanno spesso riportato i limiti dell’osservazione di modelli di comportamento e conoscenze religiose vagamente definite come "sistemi di credenze". Le istituzioni religiose vengono viste come sottosistemi sociali che condizionano i comportamenti e le credenze e che svolgono una varietà di funzioni che servono fondamentalmente a far girare i meccanismi interni di ogni società. Lo strutturalismo biogenetico - culturale è sempre stato molto più interessato agli aspetti esoterici della religione piuttosto che a quelli più mondani e legati all’organizzazione sociale; in questa prospettiva il.
[...]
1 Faccio riferimento alle tematiche trattate in parte nella mia tesi di laurea triennale in Etnologia dal titolo L’eco di Dio: Chimurcnya! Un approccio storico-etnografico fuzzy al culto di Mwari (Zimbabwe), discussa nril’A. Л. 2006/2007.
2 jens Krcinath, (2005), “Ritual: Theoretical Issues in the Study of Religion”, in Revista dt Estados da Btliyiao, Ko. pp. 100-107.
3 Conviene ricordare ehe anehc l’antropologa Mary Douglas adotterà una forma di strutturalismo, ma ne amplierà il rampo di applicazione laddove darà vita alla prospettiva per rui é possibile considerare pome riti, in quanto elementi ehr ordinano l’universo quotidiano, rrrti gesti ehr all’apparenza sono del tutto ordinari. Inoltre la Douglas sarà una delle maggiori figure di riferimento nella riflessione tra ‘puro’ e ’impuro’.
4 Geertz, C., (1966), "Religion as a Cultural System", in Banton M., (ed.), Anthropological Approaches to the Study of Religion, London: Travistock Publications, 1-46, riproposto in Geertz, C. (197-3), The Interpretation of Cultures, New York: Basic Books, (ed. It. Interpretazione di culture, Bologna, II Mulino, 1988).
5 "Delineate teoretiramente in Antropologia strutturale (1958, trad, it., il Saggiatore 1967) e Antropologia strutturale due (197-3, trad. it. II Saggiatore, Milano 1977), e anror prima metodologiramente in Le strutture elementari della parentela (1949, trad, it., Feltrinelli, Milano 1969).
6 Biogenetic Structuralism, New York: Columbia University Press, 1974
7 The Spectrum of Rit/ual, New York: Columbia University Press, 1979
8 Seienee as a Cognitive Process, Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 1984
9 Brain, Symbol and Experience, New York: Columbia University Press, 1990
- Quote paper
- Maria Chiara Miduri (Author), 2012, Regole senza senso o "senso" regolato?, Munich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/194945
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