Con questo breve saggio sulla Riforma, a Zurigo, agli inizi dell’età moderna, mi sono proposto di dare un taglio nuovo a un argomento che, nel corso del Novecento, ha incontrato un crescente interesse fra gli storici della mentalità, della religione e dell’economia. La tesi di Max Weber sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo è forse ancora fin troppo radicata nell’inconscio collettivo per essere abbandonata, senza rimpianto, alle generazione future. Eppure, sebbene essa rimanga, per molti storici, un importante punto di riferimento, credo sia venuto il momento di aggiornarla, mostrando le contraddizioni che generano alcune delle sue principali premesse.
Indice
Introduzione
Capitolo 1 L’assistenza
1.1 Povertà e assistenza nel basso Medioevo
1.2 Gli ospedali in territorio germanico
1.3 La città
1.4 Il contado
1.5 La spesa pubblica
1.6 L’ospedale
1.7 I prodotti della terra
1.8 Le uscite
1.9 La Riforma
Capitolo 2 Disciplina dell’anima e del corpo
2.1 L’alfabetizzazione
2.2 La scolarizzazione a Zurigo fra Medioevo ed
2.3 Età moderna
2.4 I trattati sull’educazione
2.5 Ubbidienza e disciplina
2.6 Ordinanze e condanne a Zurigo durante la Riforma
2.7 Il Tribunale per le questioni matrimoniali
Capitolo 3 La città riformata
3.1 Assistenza e disciplinamento
3.2 Gli oriundi ticinesi
3.3 I Werdmüller
3.4 Altri settori emergenti
3.5 Gli edifici del Seicento
3.6 Il tramonto delle corporazioni
Conclusione
Appendice
Note
Introduzione
Sono ormai passati cento anni da quando un giovane studioso tedesco, Max Weber, pubblicò nelle pagine di una prestigiosa rivista di sociologia, l’Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, uno studio dal titolo piuttosto provocatorio: L’Etica protestante e lo “spirito” del capitalismo. Non era certo la prima volta che un ricercatore di confessione evangelica provava a spiegare la realtà sociale del proprio paese alla luce delle categorie mentali fornitegli dalla propria appartenenza religiosa. Esempi illustri si ritrovano un po’ ovunque in Europa, non solo nella saggistica tedesca, ma anche in quella di altri paesi, basti pensare agli scritti di William Perkins e Emile de Laveleye.[i] Il trattato di Max Weber conobbe tuttavia, in pochi decenni, un successo senza precedenti, a tal punto che ancora oggi possiamo difficilmente dire con certezza che la sua fama sia definitivamente tramontata.[ii] Ma a cosa dobbiamo questo fascino, per certi aspetti ancora del tutto irresistibile, nei confronti di un’opera che ha fatto il suo tempo e che è nata in un contesto storico diverso da quello odierno? Critici di tutto il mondo si sono arrovellati per dare una risposta a questa domanda e non sono pochi coloro che hanno trovato nelle pagine di Max Weber una conferma delle proprie opinioni di natura politica, storica o sociale.[iii]
Certo, non tutti hanno accolto l’ Etica protestante con entusiasmo: non poche obiezioni sono provenute dalle file degli economisti che, sentendo parlare di “spirito del capitalismo”, si sono sentiti mancare il terreno sotto i piedi. Lo svedese Kurt Samuelsson, tanto per citare un esempio, non provava nessun imbarazzo a definire l’ Etica protestante un lavoro nebuloso, impreciso e arbitrario: il metodo di Weber non era sostenibile, proprio per quel suo voler isolare singoli fattori in un processo di sviluppo complesso e articolato quale è stato il capitalismo occidentale. [iv] Più recentemente, la tesi di Max Weber che intende stabilire una relazione diretta fra diffusione del protestantesimo e affermazione del capitalismo, è stata smentita sulla base di dati empirici evidenti che attestano, nell’Europa dell’Ottocento, una netta discrepanza fra sviluppo industriale e confessione religiosa.[v] In realtà l’opera e la figura di Max Weber potranno difficilmente essere comprese prescindendo dal contesto storico e sociale in cui ebbe ad operare lo studioso, sia in quanto rampollo di una famiglia di impresari sia nella sua qualità di esponente di spicco dell’intellighenzia prussiana nella Germania del Secondo Impero. Abilitatosi all’insegnamento universitario nel 1892, Max Weber, nel corso della sua brillante carriera, aveva avuto modo di frequentare personalità di riguardo della cultura dell’epoca: fra le sue conoscenze più importanti sono da annoverare quella dello storico Theodor Mommsen, del teologo Otto Baumgarten e dell’economista Walter Lotz. Nonostante le diversità d’interessi e d’opinioni, ciò che accomunava questi studiosi era in realtà il consenso rivolto a tre principi fondamentali del vivere civile: la fede nel protestantesimo, l’esaltazione della nazione e la fiducia nel liberalismo. Max Weber non rinnegherà questi principi neppure negli ultimi anni della sua vita quando, malgrado gli esiti catastrofici del primo conflitto mondiale, continuerà a militare per il Partito Democratico Tedesco, a sostenere il “lavoro spirituale come professione” e a richiamarsi, nei suoi interventi, all’onore della patria, dell’esercito e della nazione.[vi] L’ Etica protestante e lo “spirito” del capitalismo va correttamente calato dunque in quel clima di lotta politica passato alla storia, in Germania, col termine di Kulturkampf, vale a dire di lotta culturale condotta contro una visione del mondo, quella cattolica, che contrastava apertamente con gli ideali condivisi dalla borghesia protestante e liberale del paese. Dal 1871 al 1887 la Germania di Bismarck rispose al Sillabo di Pio IX e al principio d’infallibilità del papa espresso dal Concilio Vaticano I con tutta una serie di misure repressive che andarono dall’espulsione dei Gesuiti, all’imposizione del matrimonio civile in tutto il territorio del Reich, al controllo statale delle scuole cattoliche e delle nomine dei pastori. L’ Etica protestante nasce da questo clima di confronto e diventerà in seguito il principale cavallo di battaglia con cui l’intellighenzia protestante cercherà di vincere quelle forze sociali che si erano riunite attorno alla figura del pontefice, elevandosi a modello ideale a cui far riferimento per contrastare quelle spinte centrifughe che di lì a poco, a detta di alcuni, avrebbero portato alla crisi del Secondo Impero e alla caduta della monarchia. La sconfitta militare della Germania nel primo conflitto mondiale incrinerà temporaneamente questo modello ideale che per ironia della sorte risorgerà più forte che mai negli Stati Uniti, soprattutto a partire dagli anni ’30, quando l’ Etica protestante, dopo essere stata riedita nel 1920, conoscerà un primo grande successo con la sua traduzione in inglese fatta da Talcott Parsons.[vii]
Ma che cosa aveva scoperto l’America bianca, protestante e anglosassone di così affascinante in questo studio che ancora negli anni ’30, in Europa, non aveva cessato raccogliere, biasimi, critiche e obiezioni? Senza peccare d’eccessivo schematismo, direi che l’America di quegli anni aveva trovato nell’ Etica protestante tre fattori di vasta coesione nazionale: la fede nel capitalismo, non solo come sistema economico, ma anche come fenomeno razionale, legato a uno stile di vita ascetico e laborioso, portatore di benessere e di felicità; la fede nel protestantesimo quale più alta espressione di razionalità nell’ambito di una concezione universale delle religioni in cui al gradino più basso, secondo Max Weber, figuravano l’induismo e il giudaismo;[viii] la fede nel parlamentarismo quale migliore sistema politico rispetto alle dittature che si stavano affacciando, in quegli anni, sul continente europeo.[ix] È in nome di questi principi che gli Stati Uniti condurranno la loro battaglia, risultata poi vittoriosa, contro il nazifascismo la cui validità rimarrà pressoché indiscussa fino agli anni ’60 quando, sull’onda della contestazione giovanile, verranno messi in discussione, in particolar modo in Europa, da alcuni giovani intellettuali appartenenti alla Scuola di Francoforte come Jürgen Habermas e Herbert Marcuse.[x]
L’idea che l’umanità possa progredire unicamente all’insegna del raziocinio – Weber non distingue appunto, come lo fa Marcuse, una razionalità puramente strumentale da una liberatoria delle energie umane – si fece strada, nella Germania del secondo dopoguerra, con i lavori di Norbert Elias sulla psicogenesi e sociogenesi dello Stato. Nella premessa al suo studio Über den Prozess der Zivilisation del 1936[xi] Elias si ricollegava proprio a quella parte della Wirtschaft und Gesellschaft in cui Max Weber aveva affrontato la questione della nascita dello Stato.[xii] Ogni forma di Stato “razionale” – scriveva Weber – si fonda prima di tutto sul monopolio legittimo della violenza: senza violenza, verrebbe a cadere il concetto stesso di Stato. Per Elias, tuttavia, l’affermarsi di tale monopolio andava di pari passo con l’emergere di forme di costrizione psichica che, con la comparsa dell’individuo moderno, avrebbero modificato in profondità il suo comportamento, i suoi gusti e i suoi sentimenti, portandolo dall’anarchia medievale a un più alto grado di civiltà. La crescente complessità delle relazioni sociali avrebbe creato fra gli uomini maggiori vincoli di dipendenza richiedendone così una condotta prevedibile e affidata. La padronanza delle proprie azioni - che nel medioevo sarebbe rimasta limitata a una piccola cerchia di benestanti – si sarebbe estesa, con l’andare del tempo, a tutto il corpo sociale, modificandone in profondità le strutture psichiche: ciò che prima era considerato un mero divieto esterno, sarebbe venuto in seguito a far parte integrante di una sorta di grande subconscio collettivo. Le atrocità commesse durante il primo e il secondo conflitto mondiale non sembravano dar proprio pienamente ragione alle supposizioni di Elias, tuttavia le sue idee trovarono largo consenso fra gli studiosi del dopoguerra, non fosse altro perché legittimavano, in qualche modo, l’avvenuta divisione del mondo in due sfere d’influenza, la guerra fredda e il principio dell’equilibrio del terrore. Un altro sociologo tedesco, Gerhard Oestreich, coniò in quegli anni il termine Sozialdisziplinierung, per spiegare quel fenomeno che - a partire dall’età moderna – avrebbe condotto intere masse a diventare semplici esecutrici della volontà statuale. Ma se per Elias il processo di civilizzazione – di natura essenzialmente psichica – procedeva a tratti dal basso, per Oestreich non v’era alcun dubbio che questo – di natura fondamentalmente autoritaria – provenisse esclusivamente dall’alto, conformando, a proprio piacimento, la vita quotidiana d’intere popolazioni. Tale processo – scriveva Oestreich – ricontrabile all’origine per lo più in ambito militare e amministrativo, avrebbe coinvolto in seguito altri settori del vivere associato, modificando, in senso assolutistico, le strutture stesse della vita politica, economica e religiosa dei paesi europei. Regolamenti di scuole, di chiese riformate e delle stesse forze dell’ordine starebbero lì a provare la volontà delle istituzioni d’incidere profondamente nella vita privata dei cittadini, allo scopo di dirigerli verso più alte forme razionalità e di convivenza civile, a tal punto che la stessa democratizzazione del secolo XIX risulterebbe impensabile senza il disciplinamento promosso e attuato dall’assolutismo di stato.[xiii]
In ambito storiografico le riflessioni di Weber sono ancora oggi più attuali che mai se si considerano i numerosi contributi dedicati, non solo nei paesi di lingua e cultura germanica, al fenomeno della Konfessionalisierung, così come è stato definito quel processo di controllo, correzione e indottrinamento sociale, messo a punto, a partire dall’età moderna, dalle diverse confessioni religiose. Ma mentre per Max Weber la disciplina era un tratto caratteriale del soggetto intraprendente, ascetico, razionale, così come doveva apparire ai suoi occhi il puritano dell’epoca – insomma un aspetto stesso del suo atteggiamento morale – per i confessionalisti essa assume i contorni di un vero e proprio programma metodologico, imposto dalle chiese dall’alto e indirizzato all’inquadramento comportamentale dei fedeli. [xiv] Come vediamo siamo ben lontani dal quadro tracciato da Gerhard Oestreich nel 1969 con il termine Sozialdisziplinierung: questo, più che la causa, era da considerarsi la conseguenza degli sforzi intrapresi dalle monarchie assolute per arginare i conflitti religiosi e laicizzare la vita civile.
Dal 1970 a oggi non sono pochi gli studi che hanno tentato di dimostrare la validità della Konfessionalisierung: Bruce Gordon ha studiato il disciplinamento a Zurigo all’inizio della Riforma,[xv] Hans-Jürgen Goertz ne ha attestato l’importanza presso i battisti,[xvi] Klaus Ganzer ne ha illustrato la dimensione teologica nei paesi cattolici,[xvii] Louis Châtellier lo ha ritrovato in Alsazia,[xviii] Elena Fasano Guarini nella Toscana granducale.[xix] In realtà, ciò che accomuna tutti questi studi è un approccio fin troppo normativo alla natura del problema: l’esistenza di leggi, decreti, delibere particolarmente repressivi non prova di per sé il fatto che questi fossero realmente applicati. Fra la norma e la sua applicazione v’è sempre una discrepanza di cui dovremmo rendere conto, se non vogliamo correre il rischio di riprodurre il discorso propagandistico diffuso – per ragioni di comodo – dalle istituzioni. Da questo punto di vista dovrebbe essere utile chiedersi, all’inizio d’ogni ricerca, quali siano i mezzi con cui determinate istituzioni intendono far applicare le proprie norme. Quand’è che queste non vengono applicate? Perché? Esistono delle condizioni storiche che fanno pensare a un loro accantonamento? Che ruolo possiamo attribuire ai patteggiamenti fra individui, comunità e istituzioni? Altri studiosi hanno criticato l’approccio talvolta fin troppo statuale di alcuni studi sul disciplinamento sociale. In un articolo apparso pochi anni or sono Heinrich Richard Schmidt faceva notare come alcuni storici pecchino tuttora d’eccessivo Etatismus: nei processi confessionali – scrive Schmidt – l’aspetto statuale è del tutto accidentale e il tentativo di ridurre la Konfessionalisierung a una sorta di Sozialdisziplinierung non può che essere fuorviante. [xx] Una domanda, infine, che meriterebbe una risposta più articolata è quella che verte intorno ai rapporti fra comunità e autorità ecclesiastiche. Da una prospettiva comunalista, infatti, non si capisce per quale motivo le comunità di villaggio avrebbero dovuto affidare i loro programmi di disciplinamento sociale alle chiese locali, quando erano in grado di condurli loro stesse. Nella sua tesi d’abilitazione Peter Blickle ha dimostrato come, in alcune regioni della Germania settentrionale, artigiani e contadini abbiano influenzato, con le loro istanze, il processo decisionale inerente l’approvazione dei loro statuti: non poche volte i sudditi avrebbero violato le usanze locali, disciplinandosi in maniera autonoma.[xxi]
Il peso della tradizione weberiana è stato tale che ancora oggi, non solo in Germania ma anche in altri paesi europei, l’idea che fra disciplinamento e affermazione dello stato sociale vi siano più affinità che divergenze è ritenuta quasi una contraddizione. Gerhard A. Ritter, uno dei più noti specialisti del settore, fa risalire la nascita dello stato sociale, in Germania, al Secondo Impero quando, per volontà di Bismarck, venne creato un sistema di assicurazioni sociali, in teoria a difesa dei lavoratori, ma che in realtà aveva lo scopo di arginare i successi riportati dalla socialdemocrazia. Nel suo studio sulla nascita e lo sviluppo dello stato sociale le pagine dedicate alla prima età moderna sono appena due.[xxii] La secolarizzazione dei beni ecclesiastici, realizzata per prima dai paesi protestanti, avrebbe avuto lo scopo, a suo avviso, di disciplinare il vagabondaggio e non sarebbe per niente riconducibile all’emergenza di nuove forme di povertà e di sfruttamento sociale. La povertà sarebbe stata intesa allora come un difetto morale, da correggersi con il lavoro, e contro la quale non sarebbero servite a niente le intenzioni previdenziali dei primi riformatori. Nelle pagine del Ritter l’etica del lavoro, d’impronta weberiana, viene a sovrapporsi a quella oestreichiana di disciplinamento, realizzando un costrutto non privo di contraddizioni, ma dal quale risulta difficile liberarsi: lavoro e assistenza avrebbero servito il più nobile scopo del disciplinamento sociale quale caratteristica fondamentale dell’assolutismo d’età moderna. Ora pure ammettendo che le misure disciplinari di cui parlano le fonti siano state realmente applicate e non facciano parte di un più ampio discorso sulla disciplina quale immagine propagandistica diffusa dalle istituzioni al fine di preservare se stesse o allargare la propria sfera d’influenza, viene da chiedersi se il rapporto in questione non vada in realtà ribaltato, mettendo al nominatore l’assistenza e al denominatore – quali suoi presupposti inderogabili – il lavoro e il disciplinamento sociale. Tale operazione avrebbe il vantaggio di ricollocare al centro dei rapporti sociali l’assistenza quale dimensione stessa dello spirito capitalista: il lavoro, affrancato dalla sua matrice disciplinare, risulterebbe così funzionale alle stesse politiche assistenziali, anche se riservate a una cerchia ristretta d’individui. L’incognita, nell’equazione del Ritter, è dovuta alla variabile della ricchezza: supponendo, infatti, che con l’età moderna il lavoro – anche se finalizzato al disciplinamento – venga a ricoprire un ruolo centrale nella società, non si capisce che fine abbia fatto la ricchezza da esso prodotta, a meno che non si sia trattato di lavoro improduttivo, cosa che risulta alquanto improbabile.
Anche i numerosi studi che dagli inizi degli anni ottanta si sono posti l’obiettivo di dare un volto nuovo alla povertà d’ Ancien Régime non sono riusciti, malgrado le buone intenzioni, a liberarsi dal paradigma weberiano della disciplina che è stato riproposto, più forte che mai, come metro di paragone per attestare la piena fedeltà dei paesi cattolici alla “modernità”. Robert Jütte, uno dei principali sostenitori di questa tesi, respinge, come antiquata, l’idea che la Riforma, con la sua avversione per le opere buone, abbia in qualche modo contribuito alla secolarizzazione della società.[xxiii] L’autore ritiene che delle ricerche recenti abbiano demolito il mito della Riforma quale lenitrice delle sofferenze altrui: peccato poi che non ci dia i riferimenti. Il suo studio, dedicato alla povertà e alla devianza nella prima età moderna, analizza le immagini, le cause, le forme, l’estensione della povertà – sia nei paesi cattolici, sia in quelli protestanti – affrontando nel capitolo settimo la riorganizzazione dell’assistenza ai poveri. Jütte spazia dall’Europa del Nord a quella del Sud, dall’Inghilterra all’Italia, dalla Germania alla Spagna, cercando d’amalgamare delle realtà che, per delle ragioni storiche e culturali, sono di per se stesse incommensurabili. Anche la sua idea d’“assistenza reciproca” (self-help assistance), vale a dire del fatto che i poveri abbiano potuto semplicemente aiutarsi a vicenda, rimane, nel suo insieme, un’eccellente intuizione teorica che tuttavia, da un punto di vista euristico, ci lascia insoddisfatti proprio perché evita d’affrontare il problema alla radice, vale a dire d’interrogarsi sul fenomeno del cambiamento storico. Il fatto poi che alcune norme – di diversa provenienza e paesi – presentino un “discorso” comune sulla povertà, distinguendo i poveri autentici da quelli fittizi, prova assai poco sul piano della stratificazione sociale e delle strategie istituzionali. Ciò che possiamo dire, invece, con maggior certezza è che la riforma delle politiche assistenziali, in Europa, venne promossa, in primo luogo, dai paesi protestanti: come scrive Robert Jütte, le città di Wittenberg, Leisnig, Norimberga, Strasburgo, Augusta furono le prime a riorganizzare, a partire dai primi anni ’20 del secolo XVI, il proprio stato sociale.[xxiv] Nei paesi cattolici, fatta eccezione di Ypres e Bruges, riforme simili vennero avviate a partire dagli anni ’30, ma in realtà non si affermeranno che nella seconda metà del Cinquecento quando non poche città cattoliche si doteranno di nuovi ordinamenti in campo medico e previdenziale.
Capitolo 1 L’assistenza
1.1 Povertà e assistenza nel basso Medioevo
Lungi dal voler riaccendere polemiche per altro da tempo già sopite, ciò che mi sono proposto di scrivere, con questo lavoro, è una storia delle politiche assistenziali che tenga conto del cambiamento storico. Si tratta, in definitiva, di dar credito, tramite un’ulteriore analisi delle fonti, alla tesi di Ole Peter Grell quando scrive che la Riforma ha dato un contributo essenziale alla riorganizzazione dell’assistenza nelle città d’Ancien Régime.[xxv] Altri studi sembrano muoversi in questa direzione, non ultimo quello di Thomas Fischer il quale, partendo dai casi di Basilea, Friburgo in Brisgovia e Strasburgo, riconosce che la Riforma, in queste città, ha prodotto, di fatto, una vera e propria svolta nelle politiche sociali.[xxvi] Il termine “politica sociale” – scrive il Fischer – sebbene sia da usarsi, per le società pre-industriali, con cautela, nei suddetti casi sarebbe legittimo nella misura in cui il problema della povertà toccava gli interessi politici dei magistrati che, con i loro provvedimenti, si proponevano non solo di assicurarsi il consenso dei sudditi – magari affermando il proprio prestigio attraverso una più equa ripartizione della ricchezza – ma anche di reinserire gli emarginati nel tessuto produttivo delle loro comunità.[xxvii] Questa tesi appare tanto più plausibile se si pensa che la povertà, nel Cinquecento – da quello che ci dicono gli studi sull’argomento[xxviii] – era in Europa, con tutta probabilità, in aumento. Il rincaro dei prezzi – in particolare quello dei cereali – e la stagnazione dei salari – scrive Wilhelm Abel – avevano ridotto numerose famiglie sul lastrico, mentre la crescita demografica non garantiva ancora quell’aumento costante della ricchezza che avrebbe assicurato, due secoli più tardi, nel corso del Settecento. È probabile, quindi, che il numero dei mendicanti, nel Cinquecento, fosse in costante aumento, cosa che dovette sicuramente allarmare le autorità cittadine, come dimostrano le numerose fonti politiche e giudiziarie dell’epoca. Questo processo portò verosimilmente a un inasprimento dei conflitti sociali e a una radicalizzazione delle lotte contadine che, almeno in un primo momento, troveranno il loro sbocco, per così dire “naturale”, nelle richieste e nei principi sostenuti dai riformatori. Come spiegare, infatti, la rabbia di Thomas Müntzer, il suo odio verso monaci e prelati, se non col fatto che la Chiesa, all’epoca, assieme all’aristocrazia terriera, era una delle colonne portanti del sistema feudale? [xxix] Come dimenticare che fra le richieste redatte dai contadini dell’alta Svevia, nel 1525, figurava in primo luogo la soppressione delle decime o quanto meno il loro impiego a favore dei poveri e degli abitanti delle comunità rurali? Come tralasciare il fatto che, fra le loro rivendicazioni, oltre all’abolizione della servitù della gleba, figurava più forte che mai il diritto illimitato alla caccia e alla pesca quali fonti, beninteso, non di svago aristocratico, ma d’approvvigionamento alimentare? La libera scelta del parroco va ricondotta, a mio avviso, a questo genere di rivendicazioni: il parroco, oltre ad essere il ministro del culto, era anche una figura politica di primo piano, dalle cui scelte dipendeva il buon andamento degli affari economici. Le parrocchie oltre a fornire dei servizi sociali, erano anche al centro di un’intesa attività lucrativa, alimentata dalla domanda e dall’offerta di prodotti agricoli e artigianali. Eleggere un parroco piuttosto che un altro era pertanto una scelta politica rilevante che poteva avere ripercussioni tangibili sia sul piano pubblico sia privato.
Non sono poche quindi le ragioni che fanno pensare che, a partire dalla seconda metà del Quattrocento, un forte incremento della povertà abbia seppellito quel poco che rimaneva della “misericordia” medievale, imponendo al mondo politico e religioso nuove forme d’assistenza sociale. La svolta è da collocarsi, a mio avviso, attorno al 1525, quando, repressa la rivolta contadina dei territori tedeschi sud-occidentali, i principi protestanti si resero conto che le questioni sociali non potevano essere ulteriormente risolte manu militari.
Nel suo studio sulla povertà, Wolfram Fischer nomina tre istituzioni impegnate, nel Medioevo, nella lotta contro l’indigenza: la parrocchia, il monastero e l’ospedale.[xxx] A queste dovevano aggiungersene altre come le corporazioni, le confraternite, gli orfanotrofi, i lebbrosari, gli ostelli per invalidi, mendicanti e non vedenti. Un contributo importante proveniva senz’altro dalla parentela e dal vicinato anche se a mio avviso, su questo punto, non dobbiamo farci grandi illusioni: la stragrande maggioranza della popolazione era impegnata nel duro lavoro dei campi e le risorse che avrebbero permesso ai più demuniti di condurre una vita dignitosa erano spesso limitate e di breve durata. Fin dalle loro più lontane origini, chiese e monasteri avevano esercitato un’irresistibile forza d’attrazione verso tutti quelli che si fossero trovati, anche solo momentaneamente, in uno stato di disgrazia e di disperazione: l’assistenza ai poveri, agli anziani, agli invalidi, agli orfani, ai mendicanti era una delle colonne portanti su cui si fondava, fin dall’inizio, la caritas cristiana. Dubbi sulle loro intenzioni non ve ne sono, ma il loro ruolo, nel lenire le sofferenze altrui, causate dalla povertà, non va neppure sovrastimato, soprattutto se si pensa che solo una parte delle decime riscosse dalla Chiesa era impiegata a scopo assistenziale.[xxxi] D’altra parte chiese e monasteri vivevano anche dei lasciti e delle donazioni provenienti da persone pie e facoltose: ora studi recenti sull’argomento hanno dimostrato che questa disposizione caritativa non è rimasta sempre costante nel tempo e a dei secoli contrassegnati da una forte generosità si sono succeduti periodi marcati da una profonda avarizia: è il caso delle donazioni a Colonia alla fine del Medioevo, dalla cui lettura si ricava che, nel corso del Cinquecento, la generosità dei suoi abitanti precipitò inesorabilmente.[xxxii]
1.2 Gli ospedali in territorio germanico
In realtà un ruolo di crescente prestigio, nella lotta contro l’indigenza lo assunse, nel corso dei secoli, l’ospedale: nato come luogo destinato all’accoglienza di pellegrini bisognosi – da cui il termine medievale xenodochium – l’ospedale era diventato nel corso dei secoli un luogo essenzialmente laico, a conduzione comunale, destinato alla raccolta e alla ripartizione della ricchezza prodotta, in primo luogo, dalle campagne. Come scrive Marino Berengo, in molte città europee il maggior proprietario immobiliare era l’ospedale. Nel 1318 i poderi dell’ospedale di Santa Maria della Scala ricoprivano una superficie di 489 ettari: quest’istituto era al tempo stesso uno dei maggiori creditori del comune di Siena. [xxxiii] Queste cifre risultano tanto più interessanti se si pensa che nella società preindustriale la proprietà fondiaria era una delle principali fonti di reddito da cui provenivano gran parte delle materie prime e delle derrate alimentari destinate agli scambi commerciali o all’approvvigionamento urbano. Nelle città i proprietari di beni immobili erano rari e i tre quarti della popolazione era costituita per lo più da artigiani, braccianti, servitori e mendicanti. Non dobbiamo pertanto stupirci di ritrovare molto spesso nei metodi di conduzione dell’ospedale una mentalità imprenditoriale. È risaputo, infatti, che alla direzione dell’ospedale potevano essere eletti solo quei cittadini che, con le loro proprietà, in caso di perdita, erano in grado di garantire il pareggio di bilancio. Tale normativa, iscritta quanto meno negli statuti del Magdalenenhospital di Münster, dell’ Heilig-Geist-Hospital di Norimberga, dell’ Heilig-Geist-Hospital di Francoforte, imponeva al conduttore dell’ospedale una tenuta rigorosa dei libri contabili i quali venivano puntualmente controllati dal borgomastro, dai revisori dei conti e dai tesorieri comunali.[xxxiv] Ai rettori d’ospedale, oltre a delle competenze linguistiche di base, quali il saper leggere e scrivere, erano richieste anche delle conoscenze approfondite in materia di diritto, finanze e economia. A costoro era affidata la piena sorveglianza degli internati, oltre l’impiego del personale. I loro incarichi erano retribuiti in contanti e in natura: spesso era concessa loro un’abitazione all’interno della struttura ospedaliera. Già dalla seconda metà del Duecento, l’ospedale, in territorio germanico, non era più un luogo dove venivano curati esclusivamente dei malati, ma aveva accumulato delle funzioni un tempo appartenute ad altri centri assistenziali, trasformandosi, al tempo stesso, in ostello per viandanti, ospizio per anziani, casa di maternità e orfanotrofio: insomma un luogo – come attestano le fonti « in quo pauperes, peregrini transeuntes, mulieres in partu egentes, parvuli a patribus et matribus derelicti, debiles et claudi, generaliter omnes, recipi consueverint ».[xxxv] Come scrive Siegfried Reicke, l’ospedale divenne uno strumento di politica assistenziale nelle mani della borghesia.[xxxvi] Tale cambiamento fu accompagnato da una progressiva laicizzazione del personale oltre che da una crescente diffusione del sistema delle prebende. Diminuendo le donazioni private – fenomeno questo attribuibile, con tutta probabilità, a una crescente secolarizzazione della società civile – molti ospedali si videro costretti a rinunciare, almeno in parte, al principio dell’accoglienza gratuita e a fornire i propri servizi in cambio di rendite garantite, per lo più a vita, chiamate appunto prebende. Il numero di prebendari costituirà quindi un’importante anche se non unica fonte di reddito per le finanze dell’ospedale, senza tuttavia poter incidere sulle politiche assistenziali delle città che come vedremo saranno improntate da altrettante forme di altruismo e di generosità sociale. Non dobbiamo neppure dimenticare che i prebendari sani – alla pari di tutti coloro che, sebbene internati, godevano di buona salute – erano obbligati, per statuto, a esercitare una qualche mansione affidata loro dalla direzione e questo costituiva un ulteriore fonte di reddito per le casse dell’istituto.[xxxvii]
Il funzionamento, la struttura, l’organizzazione degli ospedali d’età medievale e moderna sono stati ben documentati da una lunga serie di studi che, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, si sono proposti di far chiarezza sui modi, i metodi e gli strumenti destinati a combattere la povertà nella società d’Ancien Régime. Per quanto riguarda i territori di lingua tedesca vale la pena di ricordare lo studio di Rudolf Kleimiger sull’ospedale di Wismar,[xxxviii] quello di Werner Haug sull’ospedale Santa Caterina di Esslingen,[xxxix] i lavori pionieristici di Karl Wellschmied sugli ospedali di Göttingen, le ricerche di Rudolf Seigel sull’ospedale di Altwürttemberg, quelle di Hannes Lambacher sulla città di Memmingen.[xl] Grazie allo spoglio, alla trascrizione e allo studio di documenti contabili, protocolli, regolamenti, cronache, planimetrie, siamo in grado oggi di tracciare un quadro abbastanza preciso della vita che all’epoca doveva svolgersi all’interno dell’ospedale. Sappiamo ad esempio che gli internati facevano un gran consumo di vino, birra, carne, pesce, pollame, spezie e che consumavano generalmente pane di farina di segale. Rudolf Kleiminger ha calcolato che nell’ospedale di Wismar, nel Cinquecento, si dovevano bere annualmente circa 27.200 litri di birra, vale a dire una media di 3 litri di birra al giorno e a persona. Il consumo medio giornaliero di carne, sempre nello stesso periodo, era di circa 200-300 grammi a persona, quello di pesce circa 50-100 grammi. Nel 1474 gli internati ricevettero, in media, 2,5 libbre di farina di segale al giorno, vale a dire poco meno di un chilo di pane a testa.[xli] Agli inizi del Cinquecento nell’ospedale San Giorgio, a Amburgo, si consumavano ogni anno circa 12600 chili di carne: ora se si considera – come sostiene lo studio di Wolfgang Berger – che nello stesso periodo l’ospedale ospitava complessivamente 60 internati, risulta chiaro che ognuno di essi disponeva in media di circa 560 grammi di carne al giorno. Nello stesso ospedale, agli inizi del Cinquecento, il consumo annuale di segale era di 20 tonnellate, vale a dire una media giornaliera di poco meno di un chilo di segale a persona.[xlii] Barbara Krug-Richter ha calcolato che nel 1569/70, nell’ospedale Magdalenen di Münster, il consumo giornaliero medio di carne era circa 280 grammi a persona, quello di pesce 30 grammi, quello di segale 900 grammi, quello di burro e formaggio 160 grammi: in quello stesso anno il consumo medio giornaliero di birra si aggirava intorno ai 2 litri a persona.[xliii] Dati di questo genere emergono anche dai pochi studi di carattere economico condotti sugli ospedali svizzeri della prima età moderna: nell’ospedale di San Gallo Stefan Sonderegger ha riscontrato, una marcante discrepanza fra risorse alimentari e loro consumo. Sembra, infatti, che negli anni 1442-1443 la quantità di cereali fornita dall’ospedale fosse in grado di coprire il fabbisogno alimentare di circa 400 persone, mentre il numero effettivo degli internati, secondo Sonderegger, non doveva superare le 100-200 unità.[xliv] Ora, partendo da questo quadro, gli scenari che possiamo immaginarci non sono molti e ruotano attorno al rapporto fra consumo generale d’alimenti e loro consumo individuale. Seguendo una prima ipotesi, potremmo infatti pensare che gli internati fossero tutti sovralimentati, se non addirittura obesi, e allora potremmo anche smetterla di porci delle domande sull’attendibilità delle fonti, ritenendole tutte affidabili. Se scartiamo questa prima ipotesi, perché ritenuta inverosimile, potremmo supporre che solo una parte degli internati fosse realmente sovralimentata, il resto essendo nutrito con sobrietà. In realtà, può anche darsi che le fonti di cui disponiamo mostrino solo la parte emersa dell’iceberg, celando quella sommersa: in questo caso il numero delle persone accolte, ospitate e alimentate dall’ospedale sarebbe di gran lunga maggiore rispetto a quello che, seguendo un’interpretazione classica delle fonti, siamo generalmente disposti ad ammettere: questa è l’ipotesi che intendo sostenere nel corso di questo saggio al fine di dimostrare che gli ospedali d’età moderna, erano, per così dire, le cinghie di trasmissione delle politiche sociali promosse e dirette dalle città.
1.3 La città
Prima di passare a illustrare la rete d’interessi e di relazioni che univano l’ospedale al suo territorio, è necessario fare un passo indietro e vedere come la città sarebbe apparsa agli occhi di un ipotetico viaggiatore nel Quattrocento. Zurigo, alla fine del Medioevo, era un capoluogo di provincia di circa 6000 anime, abitata prevalentemente da donne e composta dai nuclei familiari piuttosto piccoli che in genere non superavano le due, quattro unità. Nella prima metà del secolo, una lunga serie di conflitti – prima contro l’Austria poi contro i cantoni centrali – aveva impoverito la città, mettendo a dura prova la sopravvivenza del commercio e dell’artigianato: la fabbricazione della seta, ancora del tutto fiorente nel Trecento, era quasi scomparsa dalla scena produttiva, lasciando un vuoto incolmabile nell’economia della città. Ai danni causati dalla guerra si aggiunsero ben presto quelli dovuti alla peste che, tra il 1439 e il 1450, ricomparve più volte, decimando la popolazione. Se nel 1410 Zurigo contava ancora 1345 case, nel 1467 il loro numero era sceso a 1206: di queste 73 erano vuote e 103 occupate da chierici.[xlv] Le strade, in parte lastricate, non possedevano ancora una rete fognaria: rifiuti e sostanze fecali venivano scaricati accanto alle abitazioni in latrine o fosse biologiche dall’odore nauseante. I vicoli medievali erano percorsi da branchi di maiali, oche, anatre e altri animali domestici, mentre gli scarti della lavorazione delle pelli e gli avanzi dei diversi mercati contribuivano a rendere l’aria pressoché irrespirabile. Un’ordinanza del 1403 vietava ai cittadini di lasciar vagare i propri maiali per strada, pena una multa di cinque scellini a suino.[xlvi] Un’altra, dello stesso anno, vietava ai commercianti di lasciare le loro casse sui ponti o peggio ancora davanti al Rathaus.[xlvii] La rete idrica era in gran parte ancora quella del Duecento e l’acqua, quando non era pompata a mano, veniva portata a spalle, dalla Limmat, da un esercito di braccianti. Le abitazioni erano quasi tutte in calce e legno. La facciata del Rathaus e le torri del Grossmünster erano oscurate dalla presenza d’interminabili cantieri, mentre la Wasserkirche non verrà inaugurata che nel 1484. Nel 1467 un quarto del capitale imponibile era nelle mani dalle quindici famiglie più ricche della città: su 1969 contribuenti, 679 erano esclusi dal pagamento delle tasse, 880 versavano al fisco meno di un fiorino, 304 fra una e cinque fiorini, 58 fra cinque e dieci fiorini e 48 oltre dieci fiorini. La maggior parte degli abitanti viveva dunque in condizioni modeste, lontana dallo sfarzo di molte metropoli europee.[xlviii] Ma Zurigo era anche una città in cui emergeva chiaramente il potere del clero che, con i suoi ordini mendicanti - con le sue parrocchie, abbazie e conventi - influiva pesantemente sulle scelte politiche dei cittadini. In città si contavano quattro grossi conventi – due di domenicani – uno maschile, l’altro femminile – uno francescano e uno agostiniano. Confraternite come il Grossmünster e il Frauenmünster possedevano capitali valutati intorno ai 6000-9000 marchi d’argento, vale a dire l’equivalente del valore di circa 300-500 poderi.[xlix] Fin dai tempi di Rudolf Brun, il destino della città era nelle mani di una stretta oligarchia di famiglie borghesi, i Constaffeln, le quali – unite alle corporazioni - si spartivano di comune accordo le cariche istituzionali, opponendosi con veemenza ad ogni tentativo di riforma proveniente dal basso. Fu così che le poche offensive messe a punto dalla borghesia imprenditoriale della città – come quella del 1350 – furono puntualmente represse nel sangue. In realtà gran parte del peso su cui si fondava la supremazia del clero e del patriziato era sostenuto dalle campagne che, con i loro tributi, davano un apporto essenziale e insostituibile al mantenimento delle istituzioni statali.
[...]
[i] Per maggiori approfondimenti cfr. Weber’s Protestant Ethic. Origins, Evidence, Contexts, edito da Hatmut Lehmann e Guenther Roth, Washington D.C., German Historical Institute, 1993, p. 55 e Protestantisme et capitalisme. La controverse post-weberienne, a cura di Philippe Besnard, Paris, Armand Colin, 1970, p. 7.
[ii] Oltre alla monumentale biografia di Michael Sukale, Max Weber – Leidenschaft und Disziplin. Leben, Werk, Zeitgenossen, Tübingen, Mohr Siebeck, 2002, sono da ricordare fra gli altri lo studio di Michael H. Lessnoff, The Spirit of Capitalism and the Protestant Ethic. An Enquiry into the Webwer Thesis, Vermont, Edward Elgar, 1994 e il saggio di Annette Disselkamp, L’Éthique protestante de Max Weber, Paris, Presses Universitaires de France, 1994.
[iii] Sulla ricezione dell’opera di Max Weber nel mondo anglosassone cfr. Agnes Erdelyi, Max Weber in Amerika. Wirkungsgeschichte und Rezeptionsgesichte Webers in der anglo-amerikanischen Philosophie und Sozialwissenschaft, Wien, Passagen Verlag, 1992. Sulla ricezione di Max Weber in Italia si consulti il volume di Garbriele Cappai, Modernisierung, Wissenschaft, Demokratie. Untersuchungen zur italienischen Rezeption des Werkes von Max Weber, Baden-Baden, Nomos Verlagsgesellschaft, 1994.
[iv] Cfr. Kurt Samuelsson, Religion and Economic Action, New York, Basic Books, 1961, pp. 137-150.
[v] Cfr. Jacques Delacroix-François Nielsen, The Beloved Myth: Protestantism and the Rise of Industrial Capitalism in Nineteenth-Century Europe, in Social Forces, December 2001, 80 (2), pp. 509-553.
[vi] Cfr. Michael Sukale, op.cit., p. 560-561.
[vii] Cfr. Agnes Erdelyi, op.cit., p. 99 e ss
[viii] Sull’antisemitismo di Max Weber e sulla sua definizione degli ebrei come Paria-Volk rimando agli studi di Michael Spöttel, Max Weber und die jüdische Ethik. Die Beziehung zwischen politischer Philosophie und Interpretation der jüdischen Kultur, Frankfurt am Main, Peter Lang, 1997 e di Gary A. Abraham, Max Weber and The Jewish Question. A Study of the Social Outlook of His Sociology, University of Illinois Press, 1992.
[ix] Sui rapporti che Max Weber intrattiene con i concetti di parlamentarismo e democrazia si veda il paragrafo 6 del capitolo IX.8 di Wirtschaft und Gesellschaft.
[x] Cfr. Herbert Marcuse, Industrialisierung und Kapitalismus, in O. Stammer, Max Weber und die Soziologie heute, Tübingen, 1965, pp. 161-180 e Jürgen Habermas, Technology and Science as Ideology, in Toward a Rational Society, Boston, Beacon Press, 1971, pp. 81-122 come anche Aspects of Rationality of Action, in Theodore F. Geraets, Rationality To-Day, Ottawa, University of Ottawa Press, 1979, pp. 185-205. Cfr. Anche Jürgen Habermas, Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt, Suhrkamp, 1981.
[xi] Cfr. Norbert Elias, Über den Prozess der Zivilisation. Soziogenetische und psychogenetische Untersuchungen, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1976, p. lxxviii.
[xii] Cfr. Max Weber, Der rationale Staat als anstaltsmässiger Herrschaftsverband mit dem Monopol legitimer Gewaltsamkeit, in Wirtschaft und Gesellschaft: Grundriss der verstehenden Soziologie, paragrafo 2, cap. IX.8, a ed. a cura di Johannes Winckelmann, Tübingen, Mohr, 1956.
[xiii] Cfr. Gerhard Oestreich, Strukturprobleme des europäischen Absolutismus, in Geist und Gestalt des frühmodernen Staates, Berlin, Duncker & Humblot, 1969, pp. 179-197.
[xiv] Cfr. Max Weber, Die Disziplinierung und die Versachlichung der Herrschaftsformen, in Wirtschaft und Gesellschaft, op. cit., pp. 690-695.
[xv] Cfr. Bruce Gordon, Die Entwicklung der Kirchenzucht in Zürich am Beginn der Reformation, in Kirchenzucht und Sozialdisziplinierung im frühneuzeitlichen Europa, a cura di Heinz Schilling, Berlin, Duncker &Humblot, 1994, pp. 65-90.
[xvi] Cfr. Hans-Jürgen Goertz, Kleruskritik, Kirchenzucht und Sozialdisziplinierung in der täuferischen Bewegung der Frühen Neuzeit, in ibid., pp. 183-198.
[xvii] Cfr. Klaus Ganzer, Das Konzil von Trient und die theologische Dimension der katholischen Konfessionalisierung, in Die Katholische Konfessionalisierung, a cura di Wolfgang Reinhard e Heinz Schilling, Heidelberg, Gütersloher, 1995, pp. 50-69.
[xviii] [xviii] Cfr. Louis Châtellier, Die Einführung des tridentinischen Katholizismus und die Konfessionalisierung in Elsass und Lothringen 1500-1650, in ibid., pp. 384-393.
[xix] Cfr. Elena Fasano Guarini, Produzione di leggi e disciplinamento nella Toscana granducale tra Cinque e Seicento. Spunti di ricerca, in Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo e età moderna, a cura di Romano Prodi, Bologna, il Mulino, 1993, pp. 659-690.
[xx] Cfr. Heinrich Richard Schmidt, Sozialdisziplinierung? Ein Plädoyer für das Ende des Etatismus in der Konfessionalisierungsforschung, in Historische Zeitschrift, 265 (1997), pp. 640-681.
[xxi] Ibid. pp. 668-669. A tale proposito si consulti anche il capitolo The Commons and the State: Representation, Influence, and the Legislative Process scritto da Peter Blickle, Steven Ellis e Eva Österberg, in Resistance, Representation, and Community, a cura di Peter Blickle, Clarendon Press, 1997, pp. 115-153.
[xxii] Cfr. Gerhard A. Ritter, Der Sozialstaat. Entstehung und Entwicklung im internationalen Vergleich, München, R. Oldenbourg, 1991, pp. 34-35.
[xxiii] Cfr. Rober Jütte, The poor helping themselves, in Poverty and Deviance in Early Modern Europe, Cambridge University Press, 1994, pp.83-99.
[xxiv] Ibid. pp.105-107.
[xxv] Cfr. Health Care and Poor Relief in Protestant Europe 1500-1700, a cura di Ole Peter Grell e Andrew Cunningham, London, Routledge, 1997, p. 60: „Let me conclude by emphasising that by seeking to re-insert the Reformation into the story about early modern innovations in poor relief and health care provision, I am not arguing that Protestantism alone brought about these changes, or that social and economic factors were of little or no consequence, but only that the Reformation was responsible for the speed and to some extent for the nature of these changes.“
[xxvi] Cfr. Thomas Fischer, Städtische Armut und Armenfürsorge im 15. und 16. Jahrhundert, Göttingen, Otto Schwartz, 1979, p. 265: „Das macht deutlich, dass die Reformation, auch wenn sie nur mit Einschränkungen auf der Ebene der Ideen zur Unterstützungsreform wegbereitend war, was die Praxis angeht, in den hier behandelten Städten den entscheidenden Wandel herbeiführte. Denn nur dort (Beispiel Strassburg und Basel) konnten die Obrigkeiten wirksame und traditionelle Normen aufhebende Veränderungen durchführen, wo durch die Reformation die letztlich entscheidende Frage der Finanzierung des gemeinen Almosens – eine allgemeine Armensteuer gab es nicht – rasch gelöst werden konnte.“ Le intenzioni dei riformatori in ambito assistenziale sono state ben messe in luce da Arnold Werner nel suo studio Sozialgeschichte Süddeutschlands unter besonderer Berücksichtigung der sozialen und karitativen Arbeit vom späten Mittelalter bis zur Gegenwart, Stuttgart, Konrad Theiss, 1979.
[xxvii] Ibid. p. 162: „Denn die Ziele der Magistrate gingen über eine blosse Steuerung der gewohnten Almonsenvergabe hinaus. Neben die Versorgung trat die Regelung von Arbeit und Musse der Armen und damit der Versuch, sozial Entwurzelte an die gesellschaftliche Ordnung des Bürgertums anzupassen.“
[xxviii] Cfr. Wilhelm Abel, Massenarmut und Hungerkrisen im vorindustriellen Deutschland, Göttingen, Kleine Vandenhoeck-Reihe, 1972, p. 24: la rivoluzione die prezzi del secolo sedicesimo – scrive Wilhelm Abel – „hatte für den Lohn- und Gehaltsempfänger aller Art, vom ungelernten Arbeiter bis zum Handwerksmeister und vom einfachen Schreiber bis zum Gelehrten, sehr üble Folgen. Die Kaufkraft ihrer Einkommen sank.“ Le tesi di Wilhelm Abel coincidono, in buona parte, con quelle avanzate da Erich Maschke e Jürgen Sydow nel loro studio Gesellschaftliche Unterschichten in den südwestdeutschen Städten, Stuttgart, W. Kohlhammer, 1967, pp. 1-74.
[xxix] Di Thomas Müntzer si vedano, in particolare, gli Scritti politici, pubblicati a cura di Emidio Campi, Torino, Editrice Claudiana, 1972.
[xxx] Cfr. Wolfram Fischer, Armut in der Geschichte: Erscheinungsformen und Lösungsversuche der “Soziale Frage” in Europa seit dem Mittelalter, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1982, p.29.
[xxxi] Ibid. p.30.
[xxxii] Cfr. Martin Dinges, Neues in der Forschung zur spätmittelalterlichen und frühneuzeitlichen Armut?, in Von der Barmherzigkeit zur Sozialversicherung. Umbrüche und Kontinuitäten vom Spätmittelalter bis zum 20. Jahrhundert, a cura di Hans-Jörg Gilomen, Sébastien Guex, Brigitte Studer, Zürich, Chronos, 2002, p. 31. L’autore si riferisce allo studio di Brigitte Klosterberg , Zur Ehre Gottes und zum Wohl der Familie. Kölner Testamente von Laien und Klerikern im Spätmittelalter, Köln, 1995, pp. 160 e ss.
[xxxiii] Cfr. Marino Berengo, L’Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra Medioevo ed Età moderna, Torino, Einaudi, 1999, p.617.
[xxxiv] Cfr. Barbara Krug-Richter, Zwischen Fasten und Festmahl. Hospitalverpflegung in Münster 1540 bis 1650, Stuttgart, Franz Steiner Verlag, 1994, pp. 45-46; Ulrich Knefelkamp, Das Heilig-Geist-Spital in Nürnberg vom 14. – 17. Jahrhundert. Geschichte, Struktur, Alltag, Nürnberg, Verein für Geschichte der Stadt Nürnberg, 1989, pp. 62-63; Werner Moritz, Die bürgerlichen Fürsorgeanstalten der Reichsstadt Frankfurt a.M. im späten Mittelalter, Frankfurt am Main, Verlag Waldemar Kramer, 1981, pp. 125-127.
[xxxv] Cfr. Siegfried Reicke, Das deutsche Spital und sein Recht im Mittelalter, Erster Teil, Stuttgart, Ferdinand Enke, 1932, p. 281.
[xxxvi] Ibid. p. 282: «Das Spital wurde ein Faktor rein bürgerlichen Wohlfahrtspolitik. Seine Leistungen in erster Linie den eigenen Bürger zugute kommen zu lassen, ihre Sicherstellung und Unterbringung bei Krankheit und Alter, Schwäche und Hilfsbedürftigkeit zu gewährleisten, wurde das sozialpolitische Ziel des vom bürgerlichen Gemeinschaftsgeist getragenen Spitalregiments.»
[xxxvii] Cfr. Siegfried Reicke, Das Deutsche Spital und sein Recht im Mittelalter, Zweiter Teil, Stuttgart, Ferdinand Enke, 1932, p. 231.
[xxxviii] Cfr. Rudolf Kleiminger, Das Heiligengeisthospital von Wismar in sieben Jahrhunderten. Ein Beitrag zur Wirtschaftsgeschichte der Stadt, ihrer Höfe und Dörfer, Weimar, Hermann Böhlaus, 1962.
[xxxix] Cfr. Werner Haug, Das St.-Katharinen-Hospital der Reichsstadt Esslingen. Geschichte, Organisation und Bedeutung, Esslingen am Neckar, Stadtarchiv, 1965.
[xl] Cfr. Hannes Lambacher, Das Spital der Reichsstadt Memmingen. Geschichte einer Fürsorgeanstalt, eines Herrschaftsträgers und wirtschaftlichen Großbetriebes und dessen Beitrag zur Entwicklung von Stadt und Umland, Verlag für Heimatpflege Kempten, 1991.
[xli] Cfr. Rudolf Kleiminger, Das Heiligengeisthospital von Wismar, cit., pp. 33-43.
[xlii] Cfr. Wolfgang Berger, Das St.-Georgs-Hospital zu Hamburg. Die Wirtschaftsführung eines mittelalterlichen Großhaushalts, Hamburg, Christians Verlag, 1972, pp. 82-86.
[xliii] Cfr. Barbara Krug-Richter, Zwischen Fasten und Festmahl, cit., pp. 130-235.
[xliv] Cfr. Stefan Sonderegger, Landwirtschaftliche Entwicklung in der spätmittelalterlichen Nordostschweiz. Eine Untersuchung ausgehend von den wirtschaftlichen Aktivitäten des Heiliggeist-Spitals St. Gallen, St. Gallen, Staatsarchiv und Stiftsarchiv, 1994, pp. 221-222. A tale proposito si consulti anche la tesi di Michaela von Tscharner-Aue, Die Wirtschaftsführung des Basler Spital bis zum Jahre 1500. Ein Beitrag zur Geschichte der Löhne und Preise, Basel 1983.
[xlv] Cfr. Karl Dändliker, Geschichte der Stadt und des Kantons Zürich, vol. 2, Zürich, Schulthess & Co., 1910, pp. 140-142.
[xlvi] «[…] in der statt nieman kein swin haben sol, dann in sinem hus in sta(e)allen, also dz man si nicht us an die strass sol lassen gan. Wol mag jederman sine swin zů dem tag zwirent trenken ob dem wasser, da sin bott sy. Wo(e)lt o(u)ch einer sin stall misten, so mag er die sine swin uslassen, das er sinen botten da bi hab; und sol man o(ua)ch die swin nach der trenki und dem misten fu(׀)rderlich wider jn triben ungefarlich. Wurd aber dar u(׀)ber dehein swin an dien strassen funden, da sol man von jeklichem swin V ß d. ze bůss geben, als dik dz beschicht, und sol man die bůss jngewinnen von dem, des die swin sint. »: Die Zürcher Stadtbücher des XIV. und XV. Jahrhunderts, a cura di H. Zeller-Werdmüller, vol. 1, Leipzig, S. Hirzel, 1899, p. 344.
[xlvii] «Und sol man o(u)ch weder stu(e)l, kisten, kasten noch so(e)lichen plunder uff der bruggen nicht lassen, won wenn dehein veiltrager plunder uff der pruggen veil will haben, dz sol er tůn, als dz von alter her ist komen. Wz aber nicht verko(u)ft mo(e)cht werden, den plunder sol man gehalten und ab der pruggen tragen bi der tagzit, als bald der margt zer gat ungefarlich. Es ensol o(u)ch nieman uff der pruggen zwischent dem rathus und des kamermeisters hus keiner leỷ dings nicht veil haben und do sitzen […] »: ibid.
[xlviii] Cfr. Dokumente zur Geschichte des Bürgermeisters Hans Waldmann, a cura di Ernst Gagliardi, vol. 1, Basel, Adolf Geering, 1911, pp. lvii-lx.
[xlix] Cfr.Erwin Eugster, Die Bedeutung der geistlichen Herrschaften, in Geschichte des Kantons Zürich, Band 1, Zürich, Wird Verlag, 1995, p. 230.
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- Giacomo Francini (Autor:in), 2008, L'assistenza nello spirito del capitalismo, München, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/117620
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