Era il novembre del 1966. Mentre Firenze, per le ingenti piogge, nuotava nella melma, Ernesto Che Guevara vagava, con i suoi compagni, nella giungla boliviana, per portare, in Sud America, la rivoluzione. Da allora ne è passata d’acqua sotto i ponti, eppure, se guardiamo al presente, le domande che si poneva, allora, l’umanità non sono poi così diverse da quelle che si pone ancora oggi. Molte richieste d’eguaglianza e di giustizia sociale sono rimaste insoddisfatte e, con l’implosione dell’Unione sovietica, il capitalismo si è sentito più legittimato che mai a imporre, al mondo, il suo modello di sviluppo. Ma la crisi finanziaria di questi giorni mette a nudo i limiti di un sistema, quello neoliberale, fondato sullo spreco, sulla distruzione e sullo sfruttamento di risorse umane e ambientali. Non sappiamo ancora quello che uscirà da quest’ennesima crisi del capitalismo, ma è certo che niente sarà come prima e, a dispetto delle tesi di Francis Fukuyama, la storia riprenderà il suo corso.
Post scriptum
Era il novembre del 1966. Mentre Firenze, per le ingenti piogge, nuotava nella melma, Ernesto Che Guevara vagava, con i suoi compagni, nella giungla boliviana, per portare, in Sud America, la rivoluzione. Da allora ne è passata d’acqua sotto i ponti, eppure, se guardiamo al presente, le domande che si poneva, allora, l’umanità non sono poi così diverse da quelle che si pone ancora oggi. Molte richieste d’eguaglianza e di giustizia sociale sono rimaste insoddisfatte e, con l’implosione dell’Unione sovietica, il capitalismo si è sentito più legittimato che mai a imporre, al mondo, il suo modello di sviluppo. Ma la crisi finanziaria di questi giorni mette a nudo i limiti di un sistema, quello neoliberale, fondato sullo spreco, sulla distruzione e sullo sfruttamento di risorse umane e ambientali. Non sappiamo ancora quello che uscirà da quest’ennesima crisi del capitalismo, ma è certo che niente sarà come prima e, a dispetto delle tesi di Francis Fukuyama, la storia riprenderà il suo corso.
Quello che state leggendo non è il diario di un rivoluzionario – non ne ho mai avuto né il coraggio né la predisposizione – ma, per così dire, il resoconto di un guerrigliero spirituale che, attraversando la Palestina, ha sentito il bisogno di esprimersi, in modo libero e indipendente, su alcune questioni d’ordine politico, economico e religioso, non con l’intento d’indottrinare qualcuno – me ne guarderei bene – ma nell’aspettativa di risvegliare le coscienze da decenni di vuoto, di torpore, d’inibizione.
Zurigo, 16 ottobre 2008
Kloten
Sabato 4 agosto 2007
Ore 23:15
Tutto è pronto. Il velivolo che mi porterà sulla sponda orientale del Mediterraneo sta per decollare. Devo dire che non mi è mai piaciuto volare e ogni volta che salgo le scalette di un aeroplano, un brivido mi attraversa la schiena, facendomi pensare che forse quello sarà l’ultimo volo della mia vita. Non so, ma il fatto di trovarmi a diecimila metri d’altezza, lassù sopra le nuvole, nelle mani di due piloti sconosciuti con cui non ho mai avuto modo di scambiare quattro chiacchiere su questioni d’ordine politico e morale – che personalmente ritengo fondamentali nella vita di ognuno – genera in me un senso di sconforto. La notte è chiara e senza vento. Ripenso al pomeriggio passato in compagnia di mia moglie e dei miei figli. La più grande ha ormai sette anni, il più piccolo non sa ancora nuotare, ma imparerà. D’un tratto una giovane donna ci invita a presentarsi al cancello d’imbarco A 65. Le sue ciocche bionde, lucenti, accuratamente pettinate all’indietro mi ricordano la criniera di un cavallo andaluso che avevo visto pochi anni prima nelle tende di un circo zurighese. Saliamo a bordo. Una giovane stewardess, dagli occhi castani e dai capelli brizzolati che le scendono sulle guance come stalattiti, mi fa cenno di accomodarmi accanto all’uscita di sicurezza.
« Parlez-vous français ?… Ah Lei è italiano!»
« Sì, lo ero… voglio dire, lo sono … insomma sì, ho un passaporto italiano, se è questo che vuol sapere.»
«Ecco…» riprende lei con ritmo sempre più incalzante «…in caso d’emergenza, deve tirar via questo sportello…, vede…, deve prendere questa maniglia, girarla, sollevare e gettare lo sportello in avanti, ma solo se dall’altra parte non c’è fuoco… mi raccomando!»
Vorrei dirle di non riscaldarsi tanto, che tanto, in caso d’emergenza, non avremo comunque modo di raccontarla, ma lei continua imperterrita a guardarmi negli occhi. Poi rivolgendosi alla mia vicina:
« Voilà madame… Vous avez compris! Ce monsieur pourra vous entretenir pendant le voyage. »
Sono distratto, assonnato, non ho voglia di parlare con nessuno, nemmeno con la mia vicina di lingua francese, una donna sui quarant’anni, matura, dipinta, leggermente artefatta. Decolliamo. Provo a dormire. L’aria è pesante, quasi irrespirabile. Le luci di sicurezza mi pungono gli occhi. Ho dimenticato la mascherina. Con quella avrei potuto dormire meglio. Prendo il cuscino, lo adagio sul ripiano delle pietanze, mi piego in avanti e ci appoggio la guancia sinistra. Dormo. Sogno di cadere in un lago profondo, le cui acque, di colore verde opaco, lasciano appena trapelare i raggi del sole. Mi giro attorno nel tentativo vedere una qualche forma di vita. È inutile… è tutto inutile. Continuo a sprofondare in quelle acque verdastre, senza vedere il fondo. Le tre ore e venti di volo passano velocemente. Apro gli occhi. Sbircio dal finestrino. Luci all’orizzonte. Siamo sopra Tel Aviv. Ci prepariamo all’atterraggio. L’angoscia m’inchioda al sedile. La mia vicina di lingua francese mi sorride. Siamo atterrati. Sono le 3:40 ora locale. Tiro un sospiro di sollievo. “Adieu monsieur… adieu… au revoir”. Mi avvio verso il controllo passaporti. In basso, a destra, i pilastri di un’immensa sala d’attesa mi ricordano quelli compositi di un’imponente cattedrale gotica. Al centro, intorno a una fontana, vedo delle sedie e un drappello di soldati che gesticola, chiacchiera con allegria. Poi della gente che arriva. Baci, abbracci, la voglia di rivedersi. Una lunga discesa, delimitata da pareti divisorie, porta nelle braccia della polizia di frontiera. L’attesa è snervante: Israeli passports, foreign passports. Si formano due file. Mi giro intorno, per vedere se fra i passeggeri delle due file, si notano diversità somatiche rilevanti. Poi sulla mia destra, nella fila riservata agli stranieri, vedo spuntare l’inconfondibile cappello nero di un ebreo ortodosso. È il mio turno. Provato dall’attesa e snervato dal lungo viaggio mi avvicino, con lo sguardo prostrato, alla cabina dell’agente di polizia. Una giovane donna dai capelli neri e dagli occhi di ghiaccio mi squadra dall’alto in basso. Le porgo il passaporto.
«Perché viene in Israele?» mi chiede con voce rauca, bassa, quasi impercettibile.
«Sono qui per turismo» rispondo io.
«Dove intende recarsi?» chiede lei.
«Tel Aviv, Haifa, Gerusalemme…»
«Ha degli amici in Israele?»
«Sì, certo!»
«Come si chiamano?»
«Sarah, Rebecca, Beniamino…» dico io.
«Dove intende alloggiare? » riprende lei, più incalzante che mai, come a voler mettere a dura prova la mia sincerità.
«A Neve Shalom.»
D’un tratto, silenzio. A quelle parole segue un lungo silenzio. Sono imbarazzato. Non so che dire. Forse non avrei dovuto pronunciare quel nome. Vorrei rimangiarmi le parole e spiegarle che, infondo, non sono un terrorista, non sono un antisemita. Sono solo un povero pacifista. Riprendo fiato, mi faccio coraggio, poi nel momento stesso in cui apro bocca, per spiegarle le mie ragioni, lei mi congeda augurandomi una buona permanenza nel suo paese. Sospiro profondamente e mi dirigo verso la consegna bagagli. La mia valigia, una delle ultime a circolare, senza sosta, sul nastro trasportatore, mi attende ormai da tempo, impaziente. La prendo e proseguo verso la dogana. Un agente, in borghese, mi ferma, intimandomi di aprirla. Obbedisco, senza esitare.
«Alimenti…!» fa lui.
«Alimenti! » rispondo io, credendomi ormai vicino alla salvezza.
Tel Aviv
Domenica 5 agosto 2007
Ore 10:30
Fa un effetto strano trovarsi nella Terra promessa. Si ha l’impressione che secoli di soprusi, ghetti, prevaricazioni passino, inosservati, sulle nostre spalle, senza lasciar traccia, come se il passato non avesse alcun valore. La gente è accogliente, garbata, cortese eppure nei loro volti si legge ancora, come impressa, la lotta per la sopravvivenza, per il più semplice, banale, elementare diritto di esistere. Qui le strade sono grandi, larghe, spaziose, il traffico è intenso ma ordinato, eppure bisogna stare attenti a prendere lo svincolo giusto, per non ritrovarsi nel bel mezzo di un campo di battaglia, con file di soldati che, ai lati della carreggiata, aspettano, stanchi, di essere trasportati al fronte oppure per non dover far marcia indietro di fronte a un posto di blocco sbarrato o a un macigno di granito che ostruisce la strada. Israele è un groviglio di contraddizioni che, malgrado la loro palese incoerenza, ne fanno un paese a misura d’uomo.
Nella stampa di oggi alcuni sostengono che, in fin dei conti, l’uomo è una bestia. In realtà, fra i due, corrono non poche differenze: mentre nel regno animale si uccide, di solito, per nutrirsi, l’uomo uccide anche, se non prima di tutto, per piacere. L’uomo prova piacere nel costruire come nel distruggere, ed è questo che lo rende così diverso da ogni altra specie animale. Ogni civiltà, fin dalle sue più remote origini, ha cercato, con ogni mezzo, di reprimere, negli individui, la ricerca incontrollata del piacere. Di fatto, se ognuno fosse libero di seguire, senza ostacoli, le proprie pulsioni, la Terra, ben presto, si ritroverebbe spopolata, il che non renderebbe di certo l’umanità più felice. La felicità è uno stato di benessere che non può fare a meno della sicurezza. L’uomo che dà libero corso ai propri istinti può forse sentirsi, all’istante, appagato, ma non di certo felice, poiché espone la propria vita alla ritorsione degli altri e, di conseguenza, alla minaccia costante della morte. Grazie alla sicurezza data dalla civiltà, l’umanità ha potuto moltiplicarsi e affermarsi su tutte le altre specie animali e vegetali che abitano il pianeta. È vero che, se continuiamo così, in un futuro non lontano, potremmo portare molte di queste specie all’estinzione, trasformando la Terra in un’immensa colata di cemento, senza per questo essere più felici. L’uomo, in futuro, dovrà porre un limite alla sua espansione, se non vuole perdere quel poco di felicità che ha raggiunto grazie all’affermazione della società civile. Quanto all’aggressività che è comune a tutti noi, il miglior modo per tenerla a bada, rendendola innocua, consiste nel canalizzarla in attività costruttive, legate, più che alla riproduzione biologica, alla crescita e all’attività intellettuale. Solo trasformando le proprie pulsioni distruttive in attività mentali altrettanto piacevoli, ma costruttive, possiamo pensare di porre fine alla violenza che colpisce ancora buona parte del genere umano, impedendogli ogni reale forma di progresso.
Neve Shalom – Wahat al-Salam
Lunedì 6 agosto 2007
Ore 10:57
Neve Shalom, Wahat al-Salam – come dice il termine stesso – è un’oasi di pace in mezzo a questo mare di contraddizioni che è la Palestina. In questa comunità, fondata dal padre domenicano Bruno Hussar nel 1970, ebrei e palestinesi vivono, fianco a fianco, in un clima di tolleranza, rispetto e collaborazione, imparando, fin da piccoli, a confrontarsi pacificamente con gli altri, senza dover imporre, con forza, la propria identità culturale o confessionale. Ciuffi di lavanda, piante di fico, viti, palme, melograni, banani, arbusti di rosmarino spuntano in questo luogo incantevole che, favorito dal clima, assomiglia, per la sua grazia e integrità, a un paradiso terrestre. Ruben e la sua famiglia ci ricevono, cordialmente, nella loro umile, ma accogliente dimora. La pergola, l’amaca, il gong, la brezza della sera creano un ambiente disteso, piacevole, rilassante. Parliamo del conflitto arabo-israeliano.
«Perché non fare d’Israele una sorta di confederazione di religioni» gli suggerisco, entusiasta della mia idea.
«Non so se funzionerebbe…» mi risponde scettico. «Dopotutto le forme di Stato non sono che il riflesso della mentalità dei cittadini e cambiare quelle, senza cambiare questi, è un’impresa ciclopica, quasi impossibile.»
«Ma forse la società sta cambiando!» ribadisco fiducioso. «Forse palestinesi e israeliani sono stanchi di massacrarsi a vicenda e cominciano a capire che, per creare delle condizioni di vita accettabili a tutti, è preferibile unire le proprie forze, anziché dividerle! Prendiamo ad esempio la Svizzera…»
«La Svizzera – riprende lui disilluso – è l’altra faccia della stessa medaglia… con un pizzico di cinismo in più.»
Sì, è vero, è proprio vero, che ne sarà della Confederazione Elvetica? È difficile da dirsi. Le scelte che questo paese ha fatto, in passato, incidono pesantemente, ancora oggi, sul suo avvenire. Neutralità e segreto bancario hanno reso la Svizzera un paese ricco e benestante, imponendole, tuttavia, una tormentosa rinuncia a una cultura e a un’identità. L’imponente sistema educativo – rigido e selettivo – e quello assistenziale – generoso e sicuro – sono riusciti, finora, a imbrogliare i conflitti sociali, rendendoli superflui. Il prezzo che questo paese ha pagato in termini di critica del sociale è stato comunque alto e non sono pochi, oggi, a dubitare che una società possa svilupparsi anche su basi semplicemente irrazionali. La ricchezza, di per se stessa, non genera felicità: se poi è fine a se stessa, non ha proprio alcun senso tormentarsi, per accumularla. L’energia e il tempo necessari a produrla potrebbero, infatti, essere impiegati meglio, altrove, magari uscendo dalla spirale di un consumismo perverso, fin troppo esasperato. Il valore di una persona non è dato dal suo salario, ma da quello che dice, pensa, sostiene, difende. La ricchezza ha un valore relativo, non perché sia preferibile vivere nella povertà, ma perché il lusso, soprattutto se immeritato, inebetisce la persona, riducendola a una sorta di essere demenziale. Contro la demenza ci vuole più Stato e il modo migliore di assicurargli un gettito fiscale continuo e duraturo è quello di tassare, in modo progressivo, il consumo, il reddito e la proprietà. Non ne avremo di certo a soffrire: ci sarà sempre qualcuno che preferirà il lusso alla libertà. Se crediamo, infatti, a ciò che ogni giorno trasmette la televisione, si ha l’impressione che il mondo si trovi di fronte a un bivio: o andare avanti, facendo finta di niente, sotto il segno dell’efficienza e della razionalità strumentale, il cui modello più avanzato è rappresentato, oggi, dagli Stati Uniti, o rinunciare a questo miraggio, per costruire una società più giusta, anche se meno ricca e produttiva. Il primo modello di sviluppo tende a considerare gran parte degli abitanti della Terra come delle sottospecie da sfruttare a piacimento, perché intellettualmente inferiori. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che gran parte della ricchezza che circola nei paesi occidentali è prodotta, nel mondo, da una maggioranza di miserabili. Altri modelli di sviluppo hanno rinunciato allo sfruttamento, ma in compenso non hanno neppure creato una massa di maniaci insoddisfatti, apatici e depressivi come la si ritrova, oggi, in Occidente. Una più equilibrata ripartizione della ricchezza al livello internazionale renderebbe l’Occidente forse più povero di beni materiali, ma più ricco in termini di benessere spirituale.
Nakhsholim
Lunedì 6 agosto 2007
Ore 17:12
La strada che porta a Nakhsholim è piena di buche che, a cadenze regolari, fanno sobbalzare la nostra vettura, ogni volta che appoggio il piede sull’acceleratore. Piantagioni di banane si perdono a vista d’occhio. Siamo nel regno della monocultura e dell’agricoltura meccanizzata. Promuovere un’agricoltura sostenibile significherebbe, infatti, favorire dei metodi di coltivazione rispettosi dell’essere umano e dell’ambiente. Questo implicherebbe, da parte dei cittadini, una conoscenza dei cicli produttivi e delle scelte politiche oculate che costringano il libero mercato al rispetto dei vincoli sociali e ambientali posti dalla comunità. Un lungo viale di palme e d’arbusti fioriti conduce alla spiaggia. Dietro la curva scorgo, di rimpiatto, due ragazzini sui quattordici anni, magri, scuri, dal volto famelico che, agitando la mano, chiedono un passaggio. Sono scalzi, vestiti di stracci. Indossano canottiere bianche e dei pantaloni corti, sbrindellati. Accosto, salgono, non parlano inglese. Sembrano un po’ sorpresi, imbarazzati. Non credono ai loro occhi. Riparto. Durante il percorso scrutano, attenti, ogni mio gesto, ogni mio movimento. Passato l’incrocio, scendono, scomparendo, allegri, fra le foglie dei banani.
L’acqua del mare, a Nakhosholim, ha il colore della sabbia che imprigiona i muri di cemento della battigia: è calda, spessa, viscosa come pece. M’immergo in questo fluido ondeggiante e mi lascio trasportare a largo dalla corrente. Mi fermo. Penso e riprendo a nuotare verso riva. Una sensazione inebriate, un sentimento sublime investe, prepotente, la mia vita.
Nella stampa di oggi riaffiora, più prepotente che mai, il mito dell’immortalità. I più recenti ritrovati della medicina fanno sperare in un prolungamento della nostra vita oltre ogni limite immaginabile dalla mente umana. Pillole contro l’invecchiamento, lifting, plastiche facciali, trapianti, clonazioni, sono tutte scoperte che, si dice, in un futuro non lontano, prolungheranno la vita umana di decenni. Così, pur di sopravvivere alla propria morte, saremmo disposti a farci clonare, per disporre, in ogni momento, d’organi di ricambio, da sostituire, ogni qual volta quelli che abbiamo si fossero inceppati o avariati. Sono pratiche queste che mettono a dura prova i filosofi del nostro tempo, poiché pongono questioni etiche di difficile soluzione. È moralmente accettabile manipolare un feto, trasformarlo in un organo, utilizzarlo come mezzo e non come fine? Che cosa accadrebbe – si sarebbe chiesto Immanul Kant – se questa pratica venisse comunemente diffusa e accettata? L’umanità si moltiplicherebbe in modo esponenziale a danno, probabilmente, di altre specie animali e vegetali che popolano il pianeta. La popolazione mondiale invecchierebbe ancor più rapidamente di quanto non sia già invecchiata negli ultimi cinquant’anni, senza essere capace di rinnovarsi. Non so se tutto questo porterebbe, alla fine, all’estinzione del genere umano – estinzione che comunque da molti scienziati è data per certa – ma è probabile che ne risulterebbe una società profondamente monotona, dove il valore della vita perderebbe d’importanza, favorendo così comportamenti aberranti come suicidi di massa e altre forme d’autodistruzione. Ve lo immaginate voi vedere gli stessi parenti, colleghi, conoscenti, amici per secoli? Contro questi miti assurdi è necessario mobilizzare l’opinione pubblica per ridare alla vita quel minimo di valore, di piacere e d’emozione per cui, oggi, possiamo dire che vale ancora la pena di essere vissuta. La vita ha un senso, quando ha una durata limitata nel corso della quale a ognuno è dato di svilupparsi per quello che è, mettendo a frutto il meglio di se stesso, le sue doti, le sue capacità. In questo risiede la felicità, non nella ricerca di frontiere irreali. Quanto a me, anche se dovessi perire domani, in una di queste strade – investito da un’auto o falciato da un mitra – non rimpiangerei niente del mio passato, poiché ho sempre cercato, nei limiti del possibile, di seguire le mie inclinazioni, anche a costo di scontrarmi con individui ottusi, tradizioni antiquate e istituzioni corrotte. Spero solo che sempre più gente si liberi dalle catene che le sono state imposte da eventi e condizioni che non ha scelto, affinché ognuno viva ogni singolo momento della propria vita come se fosse l’ultimo.
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- Quote paper
- Giacomo Francini (Author), 2010, Diario di Galilea, Munich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/117594
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