I saggi inseriti all’interno del volume di Giorgio Pannunzio, due di essi inediti (e un terzo rielaborato pesantemente rispetto all’originale) vogliono individuare un sentiero che si proponga di mediare tra il versante critico più propriamente afferente il dato storico-geografico e una visione (semasiologica e più vicina al modello delle letterature comparate) che ne approfondisca i contorni. In altre parole, se i confini della ricerca sono ascrivibili al modello che si potrebbe definire localistico, il territorio centrale su cui la ricerca medesima si svolge è certamente più complesso e più fecondo di spunti e di ispirazioni. Così, se da un lato troviamo un interessante intervento sulla dimensione tipologica delle descrizioni di briganti in ambito siciliano, dall’altro possiamo spaziare sulla problematica della tentazione carnale nei romanzi deleddiani d’ambiente agreste, con un’estroflessione – tutta giocata, appunto, tra dato regionalistico (Ancona) e evento storico (la teologia medievale) – dove i dati ermeneutici di partenza sono aggrovigliati tra di loro in modo tale da rendere indistinguibile il diverso dipanarsi dei vari percorsi d’approfondimento. Il testo di Pannunzio, concluso da una gustosa frecciatina al variegato mondo delle recensioni letterarie lombarde, si propone dunque come un viaggio all’interno delle varie zone in cui l’Italia è proverbialmente divisa, quasi che per l’autore teatino il Nord e il Sud, nonché il Centro e le Isole – come elementi geografici e letterari assieme – possano riflettere le "diverse italie" di Italo Calvino, spesso rimaste del tutto "inedite per la letteratura", com’egli ebbe a definirle in un contesto socio-culturale ormai del tutto remoto
Indice
Mariella Marcello
Preti tentati e afflizioni amorose in Grazia Deledda
TESTO DELEDDA
TESTO MANZONI
TESTO D'ANNUNZIO
TESTO DELEDDA
TESTO DELEDDA
TESTO MANZONI
Un brigante gentiluomo a Ciminna: qualche appunto d’esegesi comparata
TESTO DUMAS
TESTO SALGARI
Come distruggere un poeta e vivere (entrambi) felici: il caso di Fernando Valcamonica
TESTO VALCAMONICA
TESTO TORTI
BIBLIOGRAFIA RAGIONATA
PREFAZIONE
Non esiste una definizione univoca che possa ricondurre a paradigmi certi le problematiche esegetiche che riguardano la storia e la geografia della letteratura italiana, se non attraverso il recupero di antecedenti che non possano non avere – quale faro imprescindibile – l’immortale esempio dionisottiano1. Già Roberto Cicala, or non è molto, ha messo in evidenza che la storia borghigiana (le cosiddette “città narrate”, come lui stesso ebbe a definirle) è trasforma il fenomeno letterario in creatore di opportunità legate ai modelli di sviluppo del terziario avanzato2. Quando pure si volesse negare efficacia alle affermazioni di Cicala, si dovrebbe ammettere che la connessione tra letteratura e turismo sia, in ipotesi, un dato del tutto affascinante. I saggi inseriti all’interno del volume di Giorgio Pannunzio, due di essi inediti (e un terzo rielaborato pesantemente rispetto all’originale) vogliono individuare un sentiero che si proponga di mediare tra il versante critico più propriamente afferente il dato storico-geografico e una visione (semasiologica e più vicina al modello delle letterature comparate) che ne approfondisca i contorni; in altre parole, se i confini della ricerca sono ascrivibili al modello che si potrebbe definire localistico, il territorio centrale su cui la ricerca medesima si svolge è certamente più complesso e più fecondo di spunti e di ispirazioni. Ovviamente, queste brevi riflessioni sul concetto di geo-storia della letteratura non vogliono porsi come un esperimento oracolare che risolva le problematiche connesse a tale tipo di offerta critica ed epistemologica, né come un rifiuto delle altre forme di approccio al testo letterario propriamente detto in nome di non ben specificate alternative (e del resto, l'autore dei saggi qui raccolti ha sempre parlato di contaminazione e non di visioni univoche, quanto all'analisi del testo letterario medesimo). Al contrario, esse vogliono soltanto mostrare come sia possibile – nell'ottica di un criterio che oggi si potrebbe definire “multitasking” – offrire un panorama dei problemi connessi alla visione ambientale della letteratura senza rinunciare a considerare prospettive tali da individuare l'intreccio dei livelli che la compongono.
Così, se da un lato troviamo un interessante saggio sulla dimensione tipologica delle descrizioni di briganti in ambito siciliano, dall’altro possiamo spaziare sulla problematica della tentazione carnale nei romanzi deleddiani d’ambiente agreste, con un’estroflessione – tutta giocata, appunto, tra dato regionalistico (Ancona) e filosofia medievale (la teoria dei tre battesimi) – dove i dati ermeneutici di partenza sono aggrovigliati tra di loro in modo tale da rendere indistinguibile il diverso dipanarsi dei vari percorsi d’approfondimento. Il testo di Pannunzio, concluso da una gustosa frecciatina al variegato mondo delle recensioni letterarie lombarde, si propone dunque come un viaggio all’interno delle varie zone in cui l’Italia è proverbialmente divisa, quasi che per l’autore teatino il Nord e il Sud, nonché il Centro e le Isole – come elementi geografici e letterari assieme – possano riflettere le “diverse italie” di Italo Calvino, spesso rimaste del tutto “inedite per la letteratura”, com’egli ebbe a definirle in un contesto socio-culturale ormai del tutto remoto3.
Mariella Marcello
Preti tentati e afflizioni amorose in Grazia Deledda
1. La problematica su cui ruota il presente contributo, e che – sia detto per inciso – è inerente quella delle tentazioni diaboliche nella letteratura europea, da me complessivamente affrontata già in altra sede4, consiste nell’analizzare la tematica di cui s’è detto nell’opera narrativa di Grazia Deledda. Andando “in medias res”, dirò subito che, in essa, due sono gli elementi che maggiormente afferiscono ad un discorso esegetico articolato: inizialmente, la figura enigmatica e sofferente di Elias Portolu, nel testo omonimo5 ; in seconda battuta, il parimenti tormentato don Paulo del romanzo La Madre 6. Il protagonista del primo romanzo deleddiano citato richiama piuttosto alla memoria un personaggio ben noto agli studiosi di letteratura lusitana: mi riferisco al padre Amaro di Eça de Queiros, di cui Elias sembra essere una sorta di “Doppelgänger”, o meglio d’immagine speculare7. In effetti, la vita di entrambi è segnata dalla perdita di un figlio e dalla scelta di ricevere gli ordini sacri, nonché da un legame, fattosi via via più problematico, con una donna di cui essi si sono innamorati in giovane età. Tuttavia, mentre Amaro si fa prete subito, Elias dovrà affrontare una serie di profonde problematiche interiori prima di giungere alla sofferta decisione di abbracciare il sacerdozio. Elias concepirà un figlio quando ancora si trova nella condizione di laico (ma operando un tradimento peccaminoso nei confronti del fratello), mentre il figlio di Amaro è frutto d’un altro peccato, vale a dire la violazione convinta del voto di castità. E come Amaro e almeno all’inizio, Elias – benché segnato dall’esperienza del carcere – condivide lo sprezzo per una visione della fede che sia soltanto tristezza e malinconia8:
[A] veva stretto relazione col signor cappellano, e questo nuovo amico gli parlava un linguaggio divertente, incitandolo a goder la vita, a dimenticare, a spassarsi. “Servi Dio in letizia”, gli diceva. “Balliamo, cantiamo, fischiamo, godiamo. Dio ci ha dato la vita per godercela un poco. Non dico peccare, veh! ah, questo no! Eppoi il peccato lascia il rimorso, un tormento, caro mio... basta, tu lo avrai provato. Ma divertirsi onestamente, sì, sì, sì!” […]. “Costui è matto!”, pensava Elias, ridendo, ma si divertiva, e le parole di prete Porcheddu lo colpivano, gli portavano un soffio di vita, un desiderio di cantare, di godere, di spassarsi […].
Elias è un soggetto narrativo assai diverso dai suoi fratelli. Se essi sono uomini di campagna “stricto sensu”, egli se ne distacca – ed anzi, quasi se ne oppone specularmente – per fattezze fisiche e per afflato gnoseologico:
[…] I due giovanotti si rassomigliavano assai; bassotti, robusti, barbuti, col volto bronzino e con lunghi capelli neri […] Elias era alto e snello, col volto bianchissimo, delicato, sbarbato; aveva i capelli neri rasati, gli occhi azzurri-verdognoli. La lunga prigionia aveva reso candide le sue mani e la sua faccia […]. Intanto il gruppo dei giovani parlava animatamente con Elias, bevendo, ridendo, sputando. Il più che rideva era lui, il reduce, ma il suo riso era stanco e spezzato, la voce debole; il suo viso e le sue mani spiccavano fra tutte quelle facce e quelle mani bronzine; sembrava una donna vestita da uomo. Inoltre il suo linguaggio aveva acquistato qualche cosa di particolare, di esotico; egli parlava con una certa affettazione, metà italiano e metà dialetto, con imprecazioni affatto continentali […].
Già a una prima visione, i personaggi si mostrano assolutamente contrastanti l’uno rispetto all’altro, tanto da far dubitare il lettore sprovveduto che siano figli della stessa madre. Come Elias è “alto e snello, col volto bianchissimo, delicato, sbarbato” e ha “i capelli neri rasati, gli occhi azzurri-verdognoli”, così i suoi due fratelli sono “bassotti, robusti, barbuti, col volto bronzino e con lunghi capelli neri”, a voler marcare una opposizione dialettica dal vago sapore religioso (quella, per intenderci, tra angeli e diavoli). Tale contrapposizione, non lontana da quella che avevo già rilevato nel caso d’un'altra occorrenza emergente nella dannunziana “Veglia funebre”9, lascia un po’ nell’ombra la già vista correlazione tra prorompente bellezza femminile e austera immagine del sacerdote (o, in questo caso, del futuro sacerdote), che è peraltro presente anche nel romanzo in oggetto. Si veda, al proposito, quest’appassionata descrizione di Maddalena, la donna protagonista dello sfortunato amore di Elias:
[…] “Deve esser giunto anche mio padre, e forse c’è anche la fidanzata di Pietro. Andiamo, andiamo...”, disse Elias, ed era turbato davvero. “Quando è così, andiamo”, disse il priore. “Bisogna far loro onore. Berte Portolu è un buon parente di San Francesco. Eppoi Maria Maddalena Scada è una bella ragazza.” “Una bella ragazza?”, esclamò prete Porcheddu. Quando è così andiamo. Elias lo guardò con sdegno; ma prete Porcheddu affrontò quello sguardo, e poi rise […]. Maddalena non era molto alta, né veramente bella, ma piacentissima, svelta, con una finissima carnagione bruno-rosea, gli occhi lucenti sotto le folte sopracciglia, e la bocca sensuale. Il corsetto rosso scarlatto, aperto sulla candida camicia, e il fazzoletto fiorito d’orchidee e di rose, la rendevano abbagliante. Tra le rozze figure di Pietro e di zio Portolu ella sembrava la grazia tra la forza selvaggia. Da vicino i suoi occhi lucenti, dalle grandi palpebre, dalle lunghe ciglia, un po’ obliqui e socchiusi, un po’ voluttuosi, affascinavano nel vero significato della parola […].
La Deledda, con molta eleganza e finezza interpretativa, mette in scena una donna in cui emergono la piacevolezza e l’avvenenza sensuale, laddove quegli “occhi lucenti, dalle grandi palpebre, dalle lunghe ciglia, un po’ obliqui e socchiusi, un po’ voluttuosi” lasciano intravedere una lussuria nascosta, che ben emergerà nel prosiego della vicenda sentimentale tra lei ed Elias. Il momento dell’innamoramento, che viene descritto con un’insospettabile allusione allo stilnovistico gioco di sguardi di dantesca ascendenza, vede emergere un altro tratto tipico delle narrazioni aventi oggetto la seduzione d’un prete o presunto tale, quello degli occhi lampeggianti:
[…] Elias solo taceva. Seduto su una delle molte selle sparse per la “cumbissia”, egli centellinava il suo vino, abbassando e sollevando di tanto in tanto la testa. E ogni volta che sollevava gli occhi incontrava gli occhi ridenti di Maddalena, sedutagli di fronte, a poca distanza, e quegli occhi obliqui ardenti gli penetravano l’anima. Egli provava una specie d’ebbrezza, un rilassamento di tutti i suoi nervi, un piacere quasi fisico, ogni volta che la guardava […]. Aveva gli occhi brillanti, il volto acceso: era bellissimo. Tutti lo guardarono, e zia Annedda sospirò, e zio Berte si mise a ridere dal piacere, riconoscendo ch’Elias era un po’ ubriaco. Ma Elias non vide che gli occhi obliqui e ardenti di Maddalena, e sentì voglia di piangere come un bambino […]. In fondo alla “cumbissia” Maddalena guardava, e ogni tanto chinava le larghe palpebre, le lunghe ciglia, e sembrava allora una Madonna melanconica e rassegnata […]. Dalle “cumbissias” venivan fuori, vibranti nel silenzio della notte tiepida e pura, confusi rumori di voci e di canti, di grida e di risate. Elias distingueva la voce di suo padre, il fischiettare di prete Porcheddu, il riso di Maddalena, e fra tanta festa si sentiva triste, disperato, come un bimbo lasciato solo nella selvaggia solitudine notturna della brughiera […].
Gli occhi “ardenti” di Maddalena comunicano la loro essenza allo stesso Elias, che se li ritrova “brillanti” quando rientra nella “cumbissia”10, in un succedersi di emozioni altalenanti che – alternandosi nei due personaggi – via via assalgono le loro anime inquiete e pronte all’innamoramento. Un “coup de foudre”, sia pure bambinesco e adolescenziale, almeno a quanto lascia chiaramente trasparire la prosa della scrittrice sarda? Si può rispondere in modo affermativo, anche se il punto centrale del discorso è dato dalla tensione emotiva, che sembra avvicinare il testo deleddiano all’esempio del Serge Mouret di Zola11, o magari – in un impossibile paragone strutturalista – all’Innominato del Manzoni. Come quest’ultimo, infatti, Elias cerca di rifiutare la conversione all’amore che sta accadendo nella sua anima, disprezzando l’intero genere feminile esattamente come l’Innominato farà con le donne, che egli sostiene di aver sentito spesso “belare”:
TESTO DELEDDA
[…] Tutta la “cumbissia” era sparsa di giacigli erbosi; qualche fuoco brillava ancora, spruzzando tremuli chiarori rossastri su quel vasto quadro silenzioso: si vedeva or sì or no una lunga barba, un costume lanoso, un volto di donna, una sella, un cane accovacciato accanto ai focolari, un fucile appeso alla parete. Elias non poteva dormire; e gli pareva di respirare l’alito di Maddalena, coricata fra zia Annedda e zio Portolu, e continuava a sentire un disperato desiderio di lei; ma lo combatteva. “No, non temere, fratello mio”, diceva mentalmente rivolgendosi a Pietro, “anche se essa venisse a gettarmisi fra le braccia, io la respingerei. Non la voglio: è tua. Se fosse di un altro, anche a costo di tornare in quei luoghi, gliela toglierei; ma è tua: dormi contento, fratello mio. Anch’io prenderò moglie, presto, subito. Chiederò Paska, la figlia del priore.” […] “Ebbene”, pensava poi, “sono un idiota. Che bisogno c’è di prender moglie, che bisogno c’è di pensare alle donne? Si può vivere anche senza le donne. Oh che non sono vissuto tre anni senza neanche vederne? Forse è per questo che, appena tornato, la prima che vedo mi fa innamorare? Ma io sono un matto: lasciamo star le donne, che fanno diventar matti. Dormiamo.” Ma si voltava e rivoltava, e non poteva dormire. Così passò quasi tutta la notte, e fu anche fra i primi a svegliarsi. Dal finestrino aperto su uno sfondo argenteo penetrava la frescura rorida dell’alba […].
TESTO MANZONI
[…] Lucia s’addormentò d’un sonno perfetto e continuo. Ma c’era qualchedun altro in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare altrettanto, e non poté mai. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l’ordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre con quell’immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti all’orecchio, il signore s’era andato a cacciare in camera, s’era chiuso dentro in fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi, pure in furia, era andato a letto. Ma quell’immagine, più che mai presente, parve che in quel momento gli dicesse: tu non dormirai. "Che sciocca curiosità da donnicciola, – pensava, – m’è venuta di vederla? Ha ragione quel bestione del Nibbio; uno non è più uomo; è vero, non è più uomo!... Io?... io non son più uomo, io? Cos’è stato? che diavolo m’è venuto addosso? che c’è di nuovo? Non lo sapevo io prima d’ora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne?" E qui, senza che s’affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da sé gli rappresentò più d’un caso in cui né preghi né lamenti non l’avevano punto smosso dal compire le sue risoluzioni. Ma la rimembranza di tali imprese, non che gli ridonasse la fermezza, che già gli mancava, di compir questa; non che spegnesse nell’animo quella molesta pietà; vi destava in vece una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento […].
Da un lato (nella Deledda), la tentazione incestuosa e adulterina rappresentata da una donna palesemente attratta da Elias; dall’altro, il tentativo manzoniano di rappresentare la conversione dell’Innominato come inizialmente mossa da un sotterraneo impulso mariologico, laddove si voglia identificare Lucia in un segnacolo della Vergine, a cui costei peraltro si rivolge promettendole in dono la propria verginità in cambio di una insperata salvezza. In entrambi i casi, il movente dell’insonnia notturna dei due personaggi è una donna, la quale preclude a un cambiamento di “status” personale (innamoramento per Elias, conversione religiosa per l’Innominato).
2. Ritrovare il personaggio di Elias all’interno dei paradigmi relativi alla tentazione monacale12 ha anche, peraltro, un preciso riscontro:
[…] Ma ecco, improvvisamente, i pensieri delle due donne sospesero il loro corso; un uomo entrava e si avanzava con passo incerto verso l’altare. Era la figura che occupava tutta l’anima loro: Elias. Elias s’inginocchiò sui gradini dell’altare, con la berretta gettata sull’omero destro, e cominciò a picchiarsi il petto, la testa, e a gemere sordamente. La luce rossastra oscillante della lampada lo illuminava dall’alto, dando un lucido riflesso sui suoi capelli; ma egli non pensava che potessero vederlo e continuava nel suo fervore doloroso a gemere e picchiarsi il petto e la fronte. Le due donne guardavano, trattenendo il respiro, e zia Annedda si sentiva quasi felice del dolore di suo figlio. “Egli si pente d’essersi ubriacato”, pensava, “egli fa buoni propositi: che voi siate benedetto, San Francesco mio, piccolo San Francesco mio.” “Vieni, usciamo, egli potrebbe vederci e vergognarsi”, disse sommessamente a Maddalena, tirandola fuori della chiesa. “Cosa ha Elias?”, domandò Maddalena, turbata. “Si pente dello stravizio fatto; egli è molto devoto, figliuola mia.” “Ah!” “Qualche volta è impetuoso, ma è un giovine di coscienza, figliuola mia. Ah, molto di coscienza.” “Ah!” “Sì, molto di coscienza, figliuola mia. Egli può essere indotto alla tentazione, perché tu sai che il diavolo è sempre all’erta intorno a noi, ma Elias sa combatterlo e morrebbe prima di commettere un peccato mortale. A volte la tentazione lo vince in piccole cose, come oggi; tu hai veduto come si è ubriacato e come ha parlato male; ma poi egli si pente amaramente […]. Elias non cessava di guardare la luna domandandosi se sarebbe stato buono a comporre una poesia per... Maddalena. Ah, ecco che egli si dimenticava, e che il demonio riprendeva il suo dominio! […].
Il pentimento manzoniano lascia il posto alla tentazione tipicamente monastica, a cui Elias risponde proprio mettendo in atto uno dei gesti che erano tipici dei frati in battaglia con il diavolo, cioè l’autoflagellazione. Ad essa il giovane Portolu aggiunge anche l’afflato eremitico, stavolta rappresentato dalla solitudine (o perlomeno, dall’isolamento) che egli troverà in una delle “tanche” del padre (“[…] Ora egli amava la solitudine, e spesso, in quei primi giorni passati nell’ovile, sfuggiva persino la compagnia dei suoi, quando l’opera sua non faceva bisogno […]), dove potrà – egli crede – dimenticare ogni traccia dell’infatuazione verso Maddalena e del proposito di farsi prete, manifestato rabbiosamente agli amici e al fratello dopo la terribile notte dell’innamoramento:
[…] “Domani si ritorna”, pensava. “Posdomani via all’ovile. Resterò dei mesi interi fuori di città, con mio padre, con quel semplice di Mattia, con gli amici pastori. Che bella vita! Quando sarò solo, laggiù, tutti questi giorni, tutte queste sciocchezze mi parranno un sogno. Eh, le feste son belle e i Santi son buoni, ma il vino, la gente, lo spasso, accendono il sangue, e se uno non è savio molto, ma molto, può commettere grandi errori ed essere indotto in tentazione” […].
In ogni caso, la problematica della battaglia contro le tentazioni ritorna anche quando prete Porcheddu, il priore delle “cumbissias” di San Francesco, intuisce il tormento morale del ragazzo, esortandolo però alla battaglia e alla vittoria contro il demone della lussuria:
[…] Tu sei innamorato di Maddalena. Eh, non farti rosso, non adirarti, figliuolo mio. Io l’ho indovinato, ma non spaventarti, non credere che tutti capiscano le cose come le capisce prete Porcheddu. Ebbene, che vergogna c’è? Essa una donna, e tu sei un uomo, ed essendo un uomo sei soggetto alle passioni umane, alle tentazioni, direbbe zia Annedda tua madre. La vergogna non sta in ciò, figlio mio; sta nel non sapersi vincere. Ma tu ti vincerai […]. Vedi, perché Dio ha creato il giorno e la notte? Il giorno per dar agio al demonio di combattere contro di noi; la notte perché possiamo raccoglierci in noi stessi e vincer le tentazioni. Le notti come questa son fatte per ciò, perché in queste notti così calme, nel silenzio dobbiamo specialmente pensare che la vita nostra è breve, che la morte viene quando meno si pensa, e che di tutta la nostra vita non portiamo davanti al Signore che le nostre buone opere, il dovere compiuto, le tentazioni vinte […].
La guerra notturna a cui Porcheddu invita lo spaventato Elias – elemento dal tenore ctonio e arcaico, che sembra quasi ricordare le battaglie descritte dal Ginzburg13 – ha, come obiettivo finale, il trionfo sulle tentazioni malvagie, ma sullo sfondo della solita lotta tra bene e male che riduce il mondo a un contrasto tra bianco e nero, contrasto che la Deledda, come vedremo, alla fine rifiuterà. Il combattimento di Elias, quasi che egli fosse un moderno anacoreta, viene tratteggiato con una forza descrittiva assolutamente potente, benché con estrema delicatezza:
[…] Egli ricordava il suo voto: “Pietro, fratello mio, anche se ella venisse a gettarmisi fra le braccia, io la respingerei...”. Ma provava un affanno, un delirio che lo soffocava e lo accecava: avrebbe voluto fuggire e non poteva muoversi, ed ella gli stava vicina, e i suoi occhi socchiusi, ardenti sotto le larghe palpebre, e le sue labbra e i suoi denti gli facevano perdere la coscienza. “Maddalena, amore mio...”, mormorò, ma tosto si pentì e si mise a gemere di passione e di dolore. “Pietro, fratello mio! Pietro, fratello mio...” […].
Il delirio e il tormento di Elias, a ben vedere, sono gli stessi di Fra’ Lucerta, che il D’Annunzio descrive tramite una prosa non lontana dalle appassionate intonazioni liriche della Deledda:
TESTO D'ANNUNZIO
[…] Passò così diversi giorni in agitazioni febrili, in sogni neri, in dubbii, in sconforti. Neanche là tra i suoi fiori trovava più quei momenti di oblio profondo; nelle sinfonie strapotenti della Natura cercava invano la nota umana, quelmi, quel mi che quando usciva dal petto baldanzoso di Mena gli sconvolgeva tutte le fibre e gli bruciava il sangue. […] A volte, seduto sotto il portico nel cortile silenzioso rifaceva con il pensiero tutta la sua vita passata, fin da quando scorrazzava per i campi come un puledro selvaggio, cogliendo i rosolacci tra il grano per portarli a Maria, a quella ragazza che aveva i capelli rossicci come la barba delle pannocchie di granturco. […] La fede per lui era una febbre, gli dava la vertigine e l′allucinazione. Egli s′inebriava dei fantasmi sovrumani prodotti dall′anima sua, come altre volte del sole biondo e dell′odor dell′erba medica. Quando il sangue e la carne gli si ribellavano sotto la tonaca, si gettava lì davanti a quel suo Cristo nero contorcendosi come una serpe rotta nella schiena; e chiedeva pietà, e versava certe lacrime ardenti come la lava, che gli scottavano le pupille e gli lasciavano il solco sulle gote. Poi aveva delle calme superbe, la serenità forte e fiera del sacrifizio; godeva posar sopra i vecchi travagli e le vecchie demenze, come un falco su la bufera. Ma eran calme brevi; la battaglia interiore ricominciava più dolorosa: egli la covava con una forza pertinace ed intensa; e negl′istanti supremi stringeva i denti come un soldato sotto i ferri del chirurgo […].
TESTO DELEDDA
[…] Elias rileggeva il suo libro, cullato dal mormorio dell’acqua; ma in quella pace infinita il suo cuore non era tranquillo. Spesso, a metà d’un versetto, un ricordo gli brillava nella mente, richiamando tutta la sua attenzione: e quel ricordo non era buono, ah! non era buono, non era buono! Qualche volta egli si addormentava così, nella quiete profonda del meriggio, e immancabilmente Maddalena gli appariva in sogno. Ed erano sogni che lo turbavano e lo eccitavano dolorosamente, lasciandogli una cattiva impressione per tutto il resto della giornata. Egli aveva sperato di calmarsi e dimenticare nella solitudine della “tanca”, lontano da lei; ma i ricordi dei giorni trascorsi a San Francesco, quel sogno in riva all’Isalle, quel ritorno fatale, erano troppo recenti. Il suo sangue ne era ancora acceso, e la volontà non bastava a vincer l’incendio: la solitudine, le forze fisiche rinascenti, aumentavano la passione […] Egli s’irritava, ma non poteva vincersi; a volte le sue labbra pronunciavano il voto e nello stesso tempo il pensiero perdevasi là, nel ricordo: allora egli si copriva d’improperi, e avrebbe voluto bastonarsi, castigarsi, ma gli riusciva impossibile vincersi […].
Lo stravolgimento del dettato giurisprudenziale, rappresentato qui dal matrimonio tra Pietro e Maddalena, trova anche qui una sua corrispondenza dialettica con quanto – invece – prescrive la natura. Il consolidatore dell’impulso naturale, in questo caso, non è il diavolo, ma lo zio Martinu, silenziosamente interpellato da Elias sul da farsi:
[…] Era un vecchio gigantesco, ancora forte e dritto, coi lunghi capelli giallastri e una folta barba grigia; il suo viso tutto increspato di rughe dure sembrava fuso nel bronzo. Era maestoso, nel suo costume scuro, sul quale indossava una sopragiacca senza maniche, di cuoio unto; pareva un uomo preistorico […].
Martinu, vero e proprio re pastore14, pronunzia il suo atavico giudizio con una forza espressiva potentissima, quella di leggi antiche e non sovvertibili dalla sovrastruttura religiosa dell’uomo moderno:
[…] “Sì”, rispose con voce grave il “padre della selva”, “ogni piccola macchia, ogni albero, ogni pietra porta orecchie. E che per ciò? Ciò che io ho detto e che dirò lo può ascoltare chiunque, cominciando da Dio che è lassù, e terminando nel più misero servo. Maria Maddalena ti ama, tu l’ami; unitevi in Dio, perché egli vi ha creato l’uno per l’altra.” Elias lo guardava trasognato; ricordava il colloquio avuto con prete Porcheddu, i consigli, gli avvertimenti avuti in quella indimenticabile notte di San Francesco. A chi dare ascolto? “Ma è la sposa di mio fratello, zio Martinu!” “E se è la sposa di tuo fratello? Lo ama forse? No. Dunque non è sua e non sarà mai sua secondo le leggi del Signore. Il matrimonio d’amore è il matrimonio di Dio, quello di convenienza è il matrimonio del diavolo. Salvati, Elias Portolu, e salva la colomba, come la chiama tuo padre. Maria Maddalena accettò Pietro perché glielo imposero, perché egli aveva grano, perché aveva orzo, fave, casa, buoi, terre. Il diavolo operava. Ma Dio aveva destinato altrimenti. Egli ti fece tornare, ti fece incontrare con la ragazza: vi siete visti, vi siete amati, pur sapendo che secondo i pregiudizi degli uomini non potevate neppure guardarvi. Non senti tu in questo una forza superiore all’uomo, che gli addita la sua via? Non è la mano di Dio? Pensaci bene. Elias Portolu” […] . La tentazione si vince oggi, si vince domani, ma posdomani finisce col vincere lei, perché noi non siamo di pietra […].
La contrapposizione, già individuata15, tra legge religiosa e impulso naturale non potrebbe essere più lampantemente dichiarata. “A chi dare ascolto?”, si chiede Elias: alla naturalità dell’impulso che lo spinge – ricambiato – verso Maddalena? Oppure alle leggi dell’uomo e della giurisprudenza religiosa, che puniscono come illecito il sentimento che i due giovani stanno provando l’un l’altro? La battaglia, sostiene Martinu, rischia di esser vinta dalla tentazione, ma essa va combattuta con un desiderio e un’ispirazione entrambi leciti, e non con l’adulterio. Qui la Deledda fa convergere i due piani, quello morale e quello naturale, superando qualsiasi contrapposizione etica e ponendosi nel solco di una normalità mai toccata prima dagli scrittori che avevano affrontato il medesimo tema. Ma se il tentativo di Elias è quello di sconfiggere la tentazione vestendo la tonaca, esso tuttavia non basta – di per sé – a tener lontano il giovane dalla tentazione medesima, per le ovvie ragioni di rigoglio naturale già ampiamente spiegate in precedenta e che a lui vengono riproposte, ancora una volta, da zio Martinu:
[…] “Prenderai moglie? Bada che ciò sarà forse peggio.” “No, io non prenderò mai moglie.” “Cosa farai dunque?” “Mi farò prete. Voi non vi meravigliate, zio Martinu?” “Io non mi meraviglio di nulla.””Che cosa dunque mi consigliate? Nel sogno che vi raccontai, fatto la prima sera del mio ritorno, voi mi consigliavate di farmi prete.” “Una cosa è il sogno, un’altra è la realtà, Elias Portolu. Io non ti sconsiglio se tu hai la vocazione, ma ti dico che neppure ciò ti salverà. Uomini siamo, Elias, uomini fragili come canne; pensaci bene.” […].
Il punto, finalmente svelato da Martinu, sta tutto nella fragilità umana: essa, denegata dagli antichi cristiani come cancellabile attraverso la volontà (quale si ritrova, in un certo qual modo, ancora operante – sia pure con le sue limitazioni – nella figura di prete Porcheddu), può invece essere oggetto di una terribile aggressione emozionale in chi non riesce a fare a meno di quelle stesse emozioni, come appunto accade ad Elias. Egli è, per così dire, un monaco “in pectore”, che sceglierebbe di seguire la via dell’esperienza religiosa per sfuggire alle insidie del mondo, ma che invece non riesce a sottrarsene, operando tale scelta soltanto alla fine e in un modo del tutto deresponsabilizzato rispetto al male commesso nei confronti degli altri. In altre parole, Elias non decide di seguire la via dritta del matrimonio con Maddalena, una strada che, se intrapresa, avrebbe certamente provocato scandalo e lo avrebbe forse costretto ad allontanarsi dalla famiglia; egli, al contrario, vuole tutto: la stima inconsapevole dei propri familiari e l’affetto della donna che ama e che pure si è legata ad un altro uomo. La battaglia dello pseudo-eremita Elias è dunque perduta in partenza, per la sua intrinseca debolezza, dal momento che egli non ha la forza d’animo degli anacoreti (che pure, viste le sue letture, sembra conoscere benissimo), laddove perfino quest’ultima, come nel caso del padre Sergij di Tolstoj16, può venire meno e dissolversi nel buio nel giro di un istante, a prescindere da quelle pie intenzioni di cui pur si dice sia lastricata la via dell’inferno (“[c]ercava di combattere contro il suo cuore e contro i suoi sensi, di ridersi della sua passione, di essere forte […]; che diavolo! ce ne son tante donne nel mondo; eppoi si può vivere anche senza di esse, anche senza amore; anzi un uomo veramente uomo deve ridersi di queste cose! Ma la battaglia era vana […]”). Come sostiene Ermanno Circeo17,
[…] questa coscienza della colpa, questo fondo di moralità ehe non viene mai meno nei personaggi deleddiani, costituisce l’elemento più nuovo del mondo poetico e umano della nostra scrittrice. Da codesta lotta drammatica tra le forze del bene e quelle del male, le creature della Deledda escono redente, poiché sanno espiare, facendo prevalere sul sentimento e sugli istinti, pronti sempre a riaffacciarsi, la legge morale. Questo è appunto il caso di Elias Portolu che, finalmente, proprio quando, dopo la morte di Pietro, potrebbe legalizzare il suo amore adulterino, tanto più che Maddalena gli ha dato un figlio, decide di farsi prete dando attuazione ad una risoluzione tante volte presa e mai realizzata. […] Da un lato il mondo deleddiano è soverchiato da un determinismo fatalistico che genera situazioni anormali, amori proibiti e illeciti; dall’altro vi si può cogliere facilmente un senso etico della vita che nasce da una religiosità di natura, da un rigido moralismo primitivo ehe esige che il colpevole espii e trovi da sé e in sé il modo di redimersi […].
L’impaurita viltà di Elias è dunque segnata dalle sue stesse parole, quando egli – dopo essere stato spinto da zio Martinu a rivelare almeno alla madre il suo tormento – se ne torna con le pive nel sacco:
[…] L’indomani, alla stessa ora, i due uomini si ritrovarono nello stesso posto, vicino al muro della “tanca”. Intorno era lo stesso silenzio, puro, infinito; il tramonto accendeva le estreme cime del bosco, una gazza cantava in lontananza; ma Elias era triste, sfatto, col volto soffuso di stanchezza e di sofferenza come nei primi giorni del suo ritorno. “Zio Martinu mio”, disse, “se sapeste come sono andate le cose! È inutile, non posso, non posso parlare, né con mia madre, né con nessuno. Ieri sera mi sentivo deciso, mi sembrava di aver un cuor di leone, o per meglio dire una faccia tosta di cuoio. Ebbene, mi corico, dormo, nel sogno mi pare di esser a casa, di parlare con mia madre... Tutto mi sembrava facile. Mi sveglio, parto, arrivo a casa: e mi sentivo sempre lieto, pieno di speranza e di coraggio. Chiamo mia madre in disparte, e sento salirmi alle labbra le parole che già avevo preparate. Essa mi guarda, ed ecco, improvvisamente, sento battermi forte il cuore, e un nodo mi chiude la gola. Ah, no, zio Martinu mio, è impossibile, io non posso parlare, anche volendolo. Potrei commettere un delitto, ma rivelare quella cosa ai miei parenti, no. Non è possibile.” “Ritenta”, provò a dire il vecchio. Ma Elias ebbe un gesto di ripulsione, quasi di rivolta. “Ah, no!”, disse a voce alta. “Non mi tentate, zio Martinu mio; è una cosa superiore alle mie forze: potrei andare mille volte, senza mai riuscirvi.” […].
Interessante, invece, appare il chiarissimo parallelismo tra la scena antecedente a questa e uno dei momenti della conversione dell’Innominato nei Promessi sposi di Manzoni. Ecco un raffronto analitico:
TESTO DELEDDA
[…] “Cosa dunque mi consigliate?” “Il consiglio te l’ho già dato. Va, ritorna in paese, parla con tuo fratello.” “Mai... mai... con lui!” “Ebbene, parla con tua madre. Santa donna è, madre tua: porrà il balsamo su ogni ferita.” “Ebbene, sì, andrò!”, disse Elias con improvviso slancio. S’era deciso, e un lampo di gioia gli brillò negli occhi. S’alzò, fece qualche passo; avrebbe voluto partir subito, liberarsi subito da quell’incubo che lo schiacciava: gli pareva tutto facile, tutto accomodato; e per qualche momento provò una felicità così intensa come mai in vita sua. “Bene, non perder tempo”, gli disse zio Martinu. “Va domani stesso, parla, non aver scrupoli, né pregiudizi. Ti aspetto qui domani a quest’ora; mi dirai cosa avrai fatto.” “Andrò, verrò, zio Martinu. Buona notte, e grazie, zio Martinu.” “Buona notte, Elias Portolu.” E ognuno andò per la sua via […].
TESTO MANZONI
[…] L’innominato, sciogliendosi da quell’abbraccio, si coprì di nuovo gli occhi con una mano, e, alzando insieme la faccia, esclamò: – Dio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure...! eppure provo[18] un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita! È un saggio, – disse Federigo, – che Dio vi dà per cattivarvi al suo servizio, per animarvi ad entrar risolutamente nella nuova vita in cui avrete tanto da disfare, tanto da riparare, tanto da piangere! – Me sventurato! – esclamò il signore, – quante, quante... cose, le quali non potrò se non piangere! Ma almeno ne ho d’intraprese, d’appena avviate, che posso, se non altro, rompere a mezzo: una ne ho, che posso romper subito, disfare, riparare. Federigo si mise in attenzione; e l’innominato raccontò brevemente, ma con parole d’esecrazione anche più forti di quelle che abbiamo adoprato noi, la prepotenza fatta a Lucia, i terrori, i patimenti della poverina, e come aveva implorato, e la smania che quell’implorare aveva messa addosso a lui, e come essa era ancor nel castello... – Ah, non perdiam tempo! – esclamò Federigo, ansante di pietà e di sollecitudine. – Beato voi! Questo è pegno del perdono di Dio! far che possiate diventare strumento di salvezza a chi volevate esser di rovina […].
La traccia manzoniana non è soltanto segnalata da quel “non perdere tempo” con cui zio Martino apostrofa Elias (e che, per inciso, trova un suo preciso riscontro nell’invito ad affrettarsi che il cardinal Federigo rivolge all’Innominato), ma anche nella successiva descrizione delle vicende che hanno condotto Martinu a far da servo nella “tanca” del suo padrone:
[…] “Mi rammento un fatto”, aggiunse poco dopo. “Veramente era cosa più grave assai, ma l’uomo era anche assai più forte di te, coraggioso, spregiudicato, violento. Doveva commettere un delitto (e ne aveva già commessi altri); doveva ammazzare un uomo onesto. Gli sembrava una cosa naturale, facilissima, ed in cuor suo era più che deciso. Arriva il giorno, l’ora designata: egli va in casa dell’uomo onesto, lo trova a cena, può ucciderlo senza alcun pericolo. Ma l’uomo onesto lo guarda, e basta questo perché l’altro non possa sollevare il braccio. E questo avviene due, tre, dieci volte.” Mentre il vecchio parlava, Elias lo divorava con gli occhi, dimenticando il suo affanno nell’ascoltare quella storia: ah, egli la conosceva già, quella storia, non solo, ma sapeva che l’uomo violento era lo stesso zio Martinu. Tutti del resto la conoscevano da anni, quella storia, e aggiungevano che l’uomo onesto, venuto anche lui a conoscerla, chiamò a sé zio Martinu e gli diede da lavorare, lo fece suo pastore e poi custode delle sue “tancas”. D’allora in poi zio Martinu era diventato il braccio destro, il servo più fedele dell’uomo che voleva uccidere […].
La “conversione” di Martinu è semasiologicamente vicina a quella dell’Innominato e quell’accenno alla servitù, che sembra richiamare 1 Samuele, 3.9-10 e rimontare anche al già citato “pope” tolstojano, avvicina la figura di questo re pastore proprio a quella del complesso bandito manzoniano. Come quest’ultimo, e come tanti altri che – in letteratura – furono oggetto di tentazione e/o di conversione, anche Elias soffre pesanti conseguenze fisiche:
[…] Intanto, come a San Francesco egli aveva ardentemente desiderato la lontananza, la solitudine, il silenzio della “tanca”, adesso anelava al giorno delle nozze di Pietro. Così almeno tutto sarebbe finito, per sempre. Gli pareva che dopo guarirebbe, ritrovando pace e salute. Perché si sentiva deperire anche fisicamente. L’ardore di quei lunghi giorni luminosi e la frescura insidiosa delle chiare notti odorose lo annientavano e gli davano la febbre. […] Se dormiva al meriggio, dopo aver letto e riletto i suoi libri santi, si svegliava con la testa cerchiata da un grave dolore; e poi di notte non poteva dormire. Allora restava a lungo nei suoi nascondigli, accoccolato sulle pietre, guardando il tramonto della luna sui boschi, o immerso in un’atonia dolorosa […].
Elias, “appollaiato su una roccia, in contemplazione della luna”, viene considerato da zio Portolu quasi in procinto di “farsi frate”: questa dichiarazione implicita lo avvicina ancora di più alle tipologie studiate, collocandolo in una dimensione religiosa tormentata e ambigua. Egli è perseguitato da sogni mostruosi, da incubi terribili che lo avvicinano proprio a quegli anacoreti che si dicevano angustiati dal diavolo di notte19:
[…] D’un tratto si lasciò cadere per terra, sotto un albero, tra i cui rami vedeva la luna guardarlo con un occhio luminoso quasi abbagliante. Quell’occhio di luna fu la sua ultima percezione; dopo non sentì che un acuto dolore al ciglio sinistro, e gli sembrò che gli avessero dato un colpo di scure; e il ronzìo entro le orecchie aumentava. Ma nel suo sogno malefico continuava a camminare, dicendo le più strane cose. Gli pareva di attraversare un luogo pieno di roccie mostruose, di cespugli spinosi, di cardi secchi, illuminato da una luce azzurrognola di luna. Nel delirio ricordava perfettamente dove era diretto e che cosa voleva; ma benché corresse, arrampicandosi sulle roccie, saltando i cespugli, sudato, affaticato, angosciato, non riusciva ad allontanarsi da quel luogo misterioso. E ne provava un’ira, un dolore da non dirsi. Tutte le giunture gli dolevano, sentiva la schiena rotta, i piedi, le mani, le tempia pulsanti, e tutta la persona inondata di sudore; e andava, andava sempre, su per quelle roccie che gli davano un senso di spavento, di raccapriccio, in quel chiarore livido di luna invisibile che lo circondava d’una luce strana, più triste e spaventosa delle tenebre. Quanto tempo durò quella sua lotta immane contro le roccie, i cespugli, i cardi, quella sua ira indistinta, quel suo spasimo opprimente, quella sua paura di invisibili mostri, di quella luce orrenda, non seppe precisarlo mai. Altre visioni non meno mostruose, ma confuse, incalzanti, che s’intrecciavano, si dissolvevano, ritornavano, come nuvole spinte dal vento, lo avvolsero, lo torturarono. Giunse infine un momento nel quale l’anima, stanca e vinta, affondò in uno scuro abisso d’incoscienza, mentre il corpo continuava a soffrire; poi come una triste luce di alba scese nell’abisso, e crebbe e crebbe, e l’anima percepì la sofferenza del corpo, ma senza più sogni, e il febbricitante riaprì gli occhi alla realtà […].
La battaglia di Elias è però, come già detto, perdente. Egli non ha saputo resistere al malvagio desiderio di possedere una Maddalena-Gertrude colpevolmente e manzonianamente consenziente (“[…] ed ella, che avrebbe potuto gridare e salvarsi, tacque e non si mosse […]”), ché di questo si tratta: non di un amore verificato e sereno, ma una bestiale e dannunziana rivalsa del desiderio fisico su tutti gli scrupoli morali:
[…] Da qualche secondo egli stava fermo sulla porta, indeciso, come intento ad una voce lontana. “Se tu cenassi con Pietro, e dopo andassi fuori con lui?”, gli diceva questa voce. “Senti tua madre? Andrai tu a confessarti?” Ma egli non poteva, non poteva dar retta a questa voce: ah, la tentazione lo vinceva, lo stringeva; era mille volte più forte di lui. Inutile combatterla, perché essa aveva già vinto, e da molto tempo […].
Un Elias sconfitto, tuttavia, è un religioso vittorioso, dal momento che egli non commette il peccato d’adulterio vestendo l’abito monacale o talare, ma da laico. La Deledda, peraltro, non manca di immergere la sua narrazione in vaghe atmosfere odissiache, con Elias che sembra voler sfuggire al canto della sirena Maddalena, facendosi aiutare dal disincantato Euriloco Martinu:
[S] ono venuto per chiedervi ancora consiglio, e sono certo che il vostro consiglio sarà buono; sono venuto per chiedervi aiuto e sono certo che voi, per impedirmi di tornare a Nuoro finché la tentazione non avrà cessato di tormentarmi, sarete capace di legarmi, di nascondermi; ma cosa ne so io se potrò seguire il vostro consiglio, se mentre mi legherete non cercherò di mordervi le mani e di scappare e andarea fare quello che vuole il demonio? […].
Pur tuttavia, c’è un punto che va rilevato al termine di questo cammino di perversione/conversione come un dato di fatto ineliminabile: la sua scelta terminale di diventare sacerdote, dopo la fine dell’idillio con Maddalena e il rifiuto della sua stessa figliolanza, è un elemento di discrimine pesante e incontrovertibile, che lo marchierà moralmente come un uomo del tutto debole ed in balia delle sue stesse, contrapposte passioni. Ancora con Circeo, non è possibile non inserire il povero Elias tra quei personaggi deleddiani che “attingono la catarsi, anche se le loro perenni contradizioni, i richiami prepotenti della voluttà e della carne e l’esigenza di scrollare codesto imperio dei sensi, che si manifesta costantemente non solo come anelito ma come volontà di espiazione del male e di liberazione […]”20. Elias, con le sue esitazioni e la continua scelta del cammino più facile, si trasformerà infine in un desolato e inetto simbolo anticristiano, pronto a lasciare strada ai vincenti “Übermensch” dannunziani senza neppure tentare un accenno di difesa.
3. Parallelo, ma opposto, è il percorso seguito dal don Paulo della Madre. Sin dall’inizio egli è prefigurato come peccatore21:
[…] Anche quella notte, dunque, Paulo si disponeva ad uscire. La madre, nella sua camera attigua a quella di lui, lo sentiva muoversi furtivo, aspettando forse, per uscire, ch’ella spegnesse il lume e si coricasse. […] La madre aveva già chiuso la porta di strada con due spranghe incrociate, per impedire al diavolo, che nelle notti di vento gira in cerca di anime, di penetrare in casa: in fondo però credeva poco a queste cose, e adesso pensava con amarezza, e con vaga derisione verso se stessa, che lo spirito maligno era già dentro la piccola parrocchia; che beveva alla brocca del suo Paulo e si aggirava intorno allo specchio di lui appeso accanto alla finestra […].
Qui la battaglia con il diavolo è data come già combattuta (e persa) e i gesti della madre di Paulo, più che obbedire a un’esigenza apotropaica di difesa, risultano essere lo stanco ripetersi di atti ormai atavici, tradizioni consuetudinarie a cui – per inerzia – non si può più rinunciare. Anche qui il livello della legalità sociale si scontra con quello dell’illiceità morale: Paulo intrattiene una relazione proibita, un evento che la madre somatizza in modo assolutamente pesante, perché tale da distruggere quella felicità e quella normalità di vita che lei aveva sempre desiderato, prima per se stessa e poi per il figlio. Si potrebbe dire, con un’ipotesi pedagogica forse non lontana dalla verità, che la madre ha visto crollare le stimmate d’una profezia che si autoadempie, laddove il figlio – pur avendo scelto una “carriera” socialmente onorata – la tradisce commettendo peccati carnali con una donna a cui invece non avrebbe mai dovuto rivolgere lo sguardo. Fisicamente, Paulo è l’esatto opposto di quei preti e/o frati aiutanti che si fanno tentare dal demonio, sia pure con una notevole eccezione:
[…] Le sembrava di vederlo, adesso, come se la parete divisoria si fosse spaccata: nero sullo sfondo della sua camera tutta bianca, alto, fin troppo alto, dinoccolato, andava e veniva col suo passo distratto di ragazzo, inciampando e scivolando spesso, ma tenendosi sempre in equilibrio. Aveva la testa un po’ grossa sul collo sottile, e il viso pallido oppresso dalla fronte prominente che pareva costringesse le sopracciglia ad aggrottarsi per lo sforzo di reggerla e gli occhi lunghi a star socchiusi; mentre le mandibole forti, la bocca grande e carnosa e il mento duro parevano a loro volta ribellarsi con sdegno a questa oppressione, senza però potersene liberare. Ma ecco che egli si fermava davanti allo specchio, e tutto il suo viso diventava luminoso perché le palpebre si sollevavano e nella trasparenza degli occhi castanei la pupilla raggiava come un diamante […].
Anche in lui è presente quel carattere già riscontrato altrove in altri sacerdoti della stessa schiatta22, la luminosità degli occhi, che sembra dunque proporsi non solo come tratto distintivo di quei religiosi che sono oggetto di tentazioni demoniache, ma anche come rilievo culturale. “[…] Lucevan li occhi suoi più che la stella […]”, dirà Dante a proposito di Beatrice (in ambito infernale, si noti)23 ; ma anche nell’ambito della letteratura religiosa lo stilema concettuale non appare assente24:
[…] E noi ancora siamo per te; ma non teco, e non ci manca il nostro Giuda, il maggior traditore, che abbia l’anima nostra, ch’è il pestifero amor proprio, il quale fa appunto, come Giuda, ci tradisce; e chi vince lui vince il tutto, buon farebbe a combattere con lui in isteccato, e chi non può ammazzarlo in un colpo, faria buono darli il veleno […] . Molti, e molti altri sono i nostri nimici, prima a i molti appetiti sensuali, e vari movimenti della natura, il mondo ancora ci è nimico, ma il più pestifero di tutti è questo Giuda, questo traditore ascoso, questo amor proprio […]. O egli è l’Amore quel ch’io veggio, che và seguitando ad accompagnando il Verbo dalla sua concettione infino a che spira in Croce. O com’è egli bello; mira che occhi luminosi ed ardenti, che volto fiammeggiante, sembra il Sole quando più ardente, a petto a lui un carbone spento […].
In tali contesti, come si vede dall’esempio precedente, esiste una sostanziale connessione oppositiva tra tentazione e luminosità, con la prima che viene associata a una sorta di Giuda occulto e la seconda, ovviamente, identificata con la figura del Cristo. La “coincidentia oppositorum” presente nei testi riguardanti i religiosi tentati e vinti dal demonio lascia pensare al un dissidio manicheo di tipo antropologicamente strutturale, data la presenza – nell’anima dell’uomo – di due spinte contrapposte, vale a dire il far bene (inteso anche e soprattutto come solidarietà sociale) e aspirare al male (dove il male è rappresentato dalle pulsioni egoistiche presenti in ciascuno di noi). Il sacrificio di Cristo e il suicidio di Giuda sono, in tale ottica, due eventi che – pur in un implicito parallelismo – contrastano tra loro per la diversità degli obiettivi finali. Liberatorio e solidale il primo, egoistico e punitivo il secondo. A proposito di tali riflessioni, e per coordinare il discorso esegetico deleddiano ad una paredra neotestamentaria, converrà citare l’episodio narrato dall’evangelista Matteo (27.3-5) in cui Giuda riconosce il suo tradimento: solo Matteo, tra gli evangelisti, riporta il suicidio di Giuda:
[…] Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d’argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo: "Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente". Ma quelli dissero: "Che ci riguarda? Veditela tu!". Ed egli, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi […].
Il pentimento di Giuda è qui assai chiaro. Egli non conosce il perdono del Cristo (perché quest’ultimo non è ancora risorto) e dunque non ha alcuna fiducia nel fatto di poter eventualmente rispondere del suo peccato a una più alta e misericordiosa legge. Il suo suicidio, tuttavia, nasconde taluni elementi contraddittori che varrà la pena discutere. A voler prestar fede ai vangeli sinottici, non si può non menzionare l’episodio in cui Gesù, durante la cena pasquale, offre a Giuda un boccone di pane inzuppato per indicare ai commensali chi lo tradisce: in questa occasione, tanto l’evangelista Giovanni (13.26), quanto Luca riportano che, dopo aver preso quel boccone dalle mani di Gesù, Satana entra dentro il corpo dell’Iscariota, impossessandosene. Ma Gesù, durante il suo insegnamento, sostenne che Satana non può scacciare se stesso (e si legga, al proposito, Matteo, 12.22-32, dov’è scritto, tra l’altro, che “[o]mne regnum divisum contra se desolatur, et omnis civitas vel domus divisa contra se non stabit […]”). Esiste dunque una contraddizione in termini tra la presunta ossessione demoniaca operatasi in Giuda Iscariota e il fatto che egli si renda conto del proprio esiziale peccato e corra ad autopunirsi (in tal modo “suicidando” anche il demonio). Tale contraddizione può essere risolta soltanto instaurando un preciso parallelo tra il sacrificio di Cristo e quello di Giuda, un parallelo ovviamente oppositivo e speculare, tendente a mettere in evidenza come l’uomo possa sempre riconoscere il male compiuto e far entrare Dio dentro di sé. In questo caso, la battaglia tra Dio e il diavolo vedrà sempre un Dio vincente e un uomo soccombente, talvolta a Dio (i peccatori pentiti come, per esempio, l’Innominato o Elias Portolu), talvolta al demonio (Giuda, che muore come uomo per opera di una spinta diabolica e viene condannato da Dio all’eterna dannazione).
4. La madre, peraltro, arriva a tentare anche ad assumere un ruolo per così dire di supplenza rispetto alle mancanze del figlio (“[v]ide le stanghe levate da Paulo appoggiate al muro, e fu presa da un impeto d’ira. No, voleva vincere il demonio. Depose il lume sull’alto della scaletta, scese e uscì anche lei […] La madre però voleva vincer lei […]”), ma invano:
[…] Fino a quel momento ella s’era illusa nella speranza di vederlo scendere al paesetto per visitare qualche malato: eccolo invece che correva come trasportato dal diavolo verso la casa antica sotto il ciglione. E nella casa antica sotto il ciglione non c’era che una donna sana, giovine e sola... Ed ecco che, invece di dirigersi alla porta come un semplice visitatore, egli andava dritto alla porticina dell’orto, e questa si apriva e si chiudeva dietro di lui come una bocca nera che lo ingoiasse […]. [S] i sentì umiliata, impotente a vincere […].
Lo stile evocativo utilizzato dalla Deledda in questa occasione vuol proprio mettere in evidenza quanto detto in Matteo, 12.25 sulla dimora divisa: una casa non può reggersi se le aspirazioni dei componenti sono centrifughe rispetto all’unità formale della casa stessa. In questo caso, la madre vuole il rispetto sociale e il normale trascorrere della quotidianità, quando invece il figlio intende trasgredire le leggi ancestrali e quelle religiose ponendosi oltre quella stessa quotidianità e lanciando un implicito grido di protesta rispetto allo “status” sacerdotale che pure egli medesimo aveva scelto. Ed è proprio il riferimento alla penetrazione del peccato all’interno di due case, la dimora dell’amante del prete e – implicitamente – quella della madre di Paulo, che affiora sparsamente in taluni punti del racconto:
[…] E lei si scostava intimidita, pur volgendosi ancora a guardare con curiosità l’interno misterioso della casa; e così si scostava adesso, stringendosi le mani disperata e volgendosi a guardare la porticina che aveva ingoiato il suo Paulo come un trabocchetto: ma a misura che rifaceva i suoi passi e ritornava verso casa si pentiva di non aver gridato, di non aver buttato dei sassi contro la porta per farsela aprire e tentare di riprendersi il figlio: si pentiva, si fermava, tornava ad avanzarsi, tornava a ritirarsi, spinta da un’incertezza angosciosa: finché l’istinto di raccogliersi, di radunare meglio le sue forze prima del combattimento decisivo non la incalzò verso la sua casa come una bestia ferita al suo covo. […] Adesso ha ventotto anni il mio Paulo; ed ecco che la maledizione lo coglie. Una donna lo prende nelle sue reti. Monsignor Vescovo, ci mandi via di qui; salvi il mio Paulo: altrimenti egli perderà l’anima come l’antico parroco. Eppoi bisogna salvare anche la donna: è una donna sola, dopo tutto, esposta anche lei alle tentazioni nella solitudine della sua casa, nella desolazione di questo paesetto, dove nessuno è degno di farle compagnia. Monsignor Vescovo, vossignoria conosce questa donna: ha ospitato Lei e tutta la sua corte quando venne in visita pastorale. Ce n’è roba e spazio, in quella casa! E la donna è ricca, indipendente, sola: troppo sola! Ha fratelli e una sorella, ma tutti lontani, sposati e viventi in altri paesi. Essa è rimasta qui sola, a badare alla casa e al patrimonio: e va fuori raramente. Il mio Paulo neppure la conosceva, fino a poco tempo fa. Il padre della donna era un uomo un po’ stravagante, mezzo signore, mezzo villano, cacciatore ed eretico. […].
La connessione tra magia (ma sarebbe dir meglio: stregoneria) e casa infetta dal peccato appare palese, anche considerando quell’accenno all’eresia contenuto nella descrizione del padre della donna. Il vincolo magico non appaia in contraddizione con le verghiane allusioni alla “roba” posseduta da questa signora di paese, perché nell’immaginario popolare deleddiano la ricchezza delle classi abbienti è sempre legata a eventi ignoti, indefiniti, sicché l’elemento arcano ben si addice alla presunta magicità dei luoghi e del personaggio. Del resto, e senza scomodare l’ormai celeberrima Montaillou di Le Roy Ladurie (i due idilli tra la castellana Béatrice di Planissoles e – rispettivamente – il prete cataro Pier Clergue e, in tarda età, il chierico Barthélemy Amilhac sono ormai consegnati agli annali della ricerca storica)25, le figure di sacerdoti che intrattengono relazioni clandestine con qualche ricca possidente del proprio piccolo paese non sono da considerare certamente una rarità. Se proprio si vuol accostare le due situazioni, peraltro distaccate da un abisso di cinquecento anni, si può trovare qualche punto di contatto proprio nel discorso dell’eresia, a cui allude la madre di Paulo nella sua immaginaria preghiera al vescovo. Tracce di palese orientalismo si notano invece quando costei rievoca il giorno in cui s’era recata a conoscere la donna:
[…] Ella non sapeva ancora perché, ma ricordava la premura con la quale la fanciulla l’aveva accolta, facendola sedere accanto a lei e domandandole notizie di Paulo. Lo chiamava Paulo, come un fratello; ma trattava lei non già come una madre comune, ma quasi come una rivale che bisognava blandire e addormentare. Le fece servire il caffè in un grande vassoio d’argento, da una serva scalza che aveva il viso bendato come un’araba; le parlò dei suoi due fratelli lontani e potenti, compiacendosi, senza parerlo, a comparire in mezzo a loo come fra due colonne che sostenevano l’edificio della sua vita solitaria. In ultimo la condusse a vedere l’orto dalla porta della stanza. Fichi violacei coperti d’una polvere argentea, e pere, e grappoli d’uva d’oro apparivano tra il verde scintillante degli alberi e delle viti. Perché Paulo aveva dunque mandato il suo dono di frutta a chi ne aveva già tanta? Ancora adesso nella penombra tremula della scala la madre rivedeva lo sguardo ironico e tenero che la fanciulla le aveva rivolto nel congedarla, eil suo modo di abbassare le palpebre grevi, come s’ella non conoscesse altro modo di nascondere i sentimenti che le trasparivano dalle pupille. E quegli occhi, e quel modo di rivelare con impeto di sincerità ma poi subito di nascondere la propria anima, rassomigliavano straordinariamente aquelli del suo Paulo; tanto che nei giorni seguenti, mentre per il contegno di lui il sospetto cresceva e si faceva terrore, ella non pensava con odio alla donna che lo induceva in peccato, ma pensava al modo di salvare anche lei come se si trattasse di una sua figlia […].
Siamo di fronte ad un’immagine seduttiva e capziosa, tendente a rappresentare le grazie d’un’odalisca sorpresa nel ricco “harem” di un sultano; la descrizione deleddiana, però, stride con l’ambientazione campagnola e sarda del racconto, pur trovando una sua sottile rispondenza in una ben nota tendenza orientalistica assai presente nella letteratura italiana ed europea del secondo Ottocento e del primo Novecento26. Ma gli elementi antropologicamente discordanti non finiscono qui. Ecco la scena in cui la madre toglie lo specchio peccaminoso dalla parete della stanza del figlio:
[…] Riaccostò al tavolino la sedia di cuoio ov’egli sedeva per studiare, e ne sbatté i piedi sul pavimento come per ordinarle di star lì e prometterle che egli sarebbe tornato presto al suo posto: poi guardò verso il piccolo specchio appeso accanto alla finestra... Nella casa di un sacerdote non è permesso tenere specchi: egli deve vivere senza ricordarsi che ha un corpo. Per questo almeno l’antico parroco osservava la legge; e lo si vedeva dalla strada farsi la barba guardandosi nel vetro della finestra aperta, dietro il quale metteva un panno nero! Paulo invece era attirato dallo specchio come dalla fontana dove c’è un viso che sorride, attira e fa cadere dentro. Ed ella strappò dal chiodo il piccolo specchio che rifletteva il suo viso scuro e sdegnato e i suoi occhi minacciosi: l’ira a poco a poco la vinceva. […] Richiuse la finestra e riattaccò lo specchio che rifletteva il suo viso divenuto pallido, con gli occhi velati di lagrime […].
Per i fini regolativi della vita sacerdotale, l’uso dello specchio – del resto – non era sempre considerato un atto seriamente peccaminoso, pur rimanendo comunque nei confini d’un uso illecito. Si legga, a titolo esemplificativo di quanto vigeva nella pubblicistica ottocentesca riguardo l’utilizzo dello specchio, questa riflessione del canonico marchigiano Luigi Nardi27:
[…] Lo specchiarsi per vanità sarà una colpa leggiera: per fini gravemente cattivi sarà peccato grave: per necessità di radersi o di assettarsi per non apparire ridicolo, o per motivi consimili, sarà atto indifferente: finalmente lo specchiarsi di una onesta fanciulla, di una savia donna per assicurarsi di essere vestita con modestia e decenza morale, sarà virtù […]”.
Lo specchio, a partire dall’immaginario medievale fino ad arrivare ai famigerati “falò delle vanità” di savonaroliana memoria, è dunque considerato oggetto rischioso, in quanto esso può portare al peccato di vanità28. A tale proposito, e volendo tener conto del fondamentale saggio che Umberto Eco dedica appunto all’argomento degli specchi, possiamo ricordare che l’immagine speculare è un indicatore derivato da un apparato catottrico a designazione rigida, cioè – in termini più semplici – l’immagine riflessa nello specchio testimonia la verità assai più di quanto possano esserlo i campi semantici29. Tuttavia, per la sua rigidità, il complesso delle immagini speculari mostra solo l’involucro, la pellicola superficiale delle cose, causando una sequela infinita di dubbi ermeneutici sulla reale sostanza di ciò che viene riflesso30. Per risolvere tale distonia ermeneutica, Eco differenzia la semantica dei segni da quella degli specchi, giungendo a sostenere che lo specchio non ha un proprio paradigma semiotico, perché il referente dell’immagine speculare non può mai essere assente e perché detta immagine – fra l’altro, ininterpretabile – “non è correlabile a un contenuto”31. D’altro canto, come sostiene un Baltrusaitis reinventato da Silvano Tagliagambe32,
[…] lo specchio è sempre un prodigio dove realtà illusione si sfiorano e si confondono. Il suo primo effetto fu di rivelare all’essere umano la propria immagine. Rivelazione fisica e morale, che affascinò i filosofi. Socrate e Seneca raccomandavano lo specchio come strumento per conoscere se stessi; lo specchio è l’attributo della Prudenza e incarna la Sapienza. Una sola parola esprime la riflessione che avviene nel pensiero e nello specchio. Immagine di un’immagine, simulacro staccato dal corpo e reso visibile su uno schermo, alter ego, fantasma, doppio del soggetto che ne condivide il destino, il riflesso e il suo oggetto sarebbero indissolubilmente uniti da legami mistici, e da sempre la loro assoluta identità è sembrata dipendere da un miracolo che nessun artista è mai riuscito ad eguagliare. Questo miracolo non ci deve tuttavia far dimenticare la natura ambigua dello specchio: geroglifico della verità, esso è infatti anche geroglifico della falsità. Moltiplicato, diversamente disposto o diversamente incurvato, esso muta le apparenze della vita che vi si disfa e vi si riforma liberandosi totalmente dalle sue misure e dal suo equilibrio. Lo specchio […] è strumento di oracolo e produttore di spettri […]
In base a tali premesse, sono chiari alcuni dati di fatto:
A) la madre di Paulo ha contezza del valore peccaminoso dello specchio in riferimento alla pubblicistica parenetica e monacale;
B) il prete inizia a servirsene forse per motivazioni pratiche (farsi la barba, quasi come il vecchio parroco che invece utilizzava il vetro della finestra oscurato da un panno nero), ma subito viene implicato da pensieri peccaminosi di tipo narcisistico (la colpa leggiera, che sono l’anticamera della tentazione e della dannazione).
5. Vi sono, nel prosieguo del romanzo, altre situazioni narrative dove emerge più forte il contrasto tra vita comune e scelta sacerdotale, come nel caso del sogno della madre di Paulo e dell’incontro onirico con il vecchio parroco del villaggio in cui suo figlio prestava il suo apostolato:
[D] à retta a uno che se ne intende: lascia che adesso il tuo Paulo segua il suo destino. Lasciagliconoscere la donna: altrimenti gli accadrà come è accaduto a me. Finché sono stato giovane non ho voluto né donne, né piaceri. Volevo anch’io guadagnarmi il Paradiso, e non mi accorgevo che il Paradiso è in terra. Quando me n’accorsi era tardi; il mio braccio non arrivava più a cogliere i frutti dall’albero, e le mie ginocchia non si piegavano perché potessi dissetarmi alla fontana. Allora ho cominciato a bere vino, a fumare la pipa, a giocare alle carte coi giovinastri del paese. Giovinastri li chiamavate voi; bravi ragazzi che si godono la vita come possono. La loro compagnia fa bene; dà un po’ di calore e di allegria, come quella dei ragazzi in vacanza. Solo che essi sono sempre in vacanza, e per questo sono anche più allegri e spensierati dei ragazzi, i quali hanno il pensiero di dover tornare a scuola […].
[...]
1 Cfr. C. Dionisotti, “Geografia e storia della letteratura italiana”, in Il Capitale culturale, 16 (2017), pp. 493-496. L’originale in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, pp. 23-45. Sul valore critico delle acquisizioni dionisottiane, cfr. ora F. Rossi, “Classici si nasce: il caso di Geografia e storia della letteratura italiana di Carlo Dionisotti”, in Aa.Vv., Critici del Novecento. Atti del Colloquio. 4 dicembre 2008, cur. N. Billi-F. Rossi, Bologna, Aspasia, 2011, pp. 65-71.
2 Cfr. R. Cicala, I luoghi delle parole: la vocazione inespressa della geografia letteraria in Italia. Tra bibliografia e prospettive, in Id., Inchiostri indelebili. Itinerari di carta tra bibliografia, archivi ed editoria. 25 anni di scritti (1986-2011), Milano, Educatt, 2012, p. 267-285, in part. p. 278 (l’articolo trovasi originariamente in Aa.Vv., Esporre letteratura. Percorsi, pratiche, prospettive, cur. A. Kahrs-M. Gregorio, Clueb, Bologna 2009, pp. 295-320): “[…] Oggi, nell’età dell’omologazione, la geografia letteraria non localistica e provinciale può essere una risorsa, non soltanto turistica, per mettere in moto una serie di opportunità culturali (senza dimenticare la scuola) e, perché no, imprenditoriale, facendo interagire la vocazione stanziale, per chi nel luogo vive, con quella itinerante, per chi lo visita o lo attraversa per molte ragioni […]”.
3 Cfr., per la definizione, I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1964, p. 9.
4 Sulle questioni collegate alla tentazione di lussuria nei sacerdoti letterari tra Ottocento e Novecento, cfr. ora il mio Tra cielo e inferno: la tentazione carnale nella letteratura europea “fin de siécle”, München, Grin Verlag, 2018, con bibliografia e a cui si fa riferimento nelle linee generali. Il presente capitolo, qui parzialmente rielaborato, trovasi ivi, pp. 89-110.
5 Il romanzo si svolge intorno alla figura del protagonista Elias, appartenente all'ambiente agro-pastorale della Barbagia, che condannato, sconterà la pena detentiva in un carcere della penisola. Scontata la pena, ritorna al suo mondo nativo pervaso dal desiderio di iniziare una vita nuova, lontana dalla spensieratezza del passato e della sua infanzia, lavorando nell'ovile della famiglia. Elias si innamora di Maddalena, la sposa di suo fratello Pietro, e con lei commette adulterio, decidendo in seguito di farsi prete dopo che Maddalena gli preannunzia di essere rimasta incinta. Prima che nasca il bambino, Pietro muore per un'infiammazione ai reni, e Berteddu viene riconosciuto come suo figlio. Tre giorni prima della cerimonia che dovrebbe assegnare gli ordini sacri ad Elias, Maddalena fa un ultimo tentativo per convincere il giovane a sposarla e a dichiararsi padre del bambino. Ma la decisione di Elias è ormai irrevocabile ed egli si rifiuta. Pochi anni più tardi, il figlioletto di Elias e Maddalena, affetto da una grave malattia, morirà, con un finale che si rivela una sorta di “cupio dissolvi” rispetto alle debolezze e agli atteggiamenti peccaminosi che contraddistinguono i vari personaggi nel corso di tutta la narrazione.
6 Un altro caso collaterale e secondario, che tuttavia mi riprometto di esaminare in altra sede, è quello rappresentato dal giovane e ardente seminarista Antine Nurroi della novella “Le tentazioni” (eponima della raccolta in cui essa è posta). Su ciò, cfr. G. Deledda, Novelle [1890-1898], cur. G. Cerina, Nuoro, Ilisso, 1996, pp. 326-363. Il volume in questione contiene le novelle delle raccolte Nell’azzurro (1890); Racconti sardi (1894); L’ospite (1898); e – appunto – Le tentazioni (1899).
7 Su tali questioni, cfr. Tra cielo e inferno cit., pp. 51-56.
8 Tutte le citazioni dall’ Elias Portolu provengono da G. Deledda, Elias Portolu [1900], cur. V. Spinazzola, Milano, Mondadori, 19972, passim; Leggo invece il testo della Madre in G. Deledda, La madre [1920], Nuoro, Ilisso, 2005. Tutte le citazioni qui proposte provengono da essa.
9 Cfr. il mio “Il simbolo prossemico nel D’Annunzio novelliere”, in Aa.Vv., D’Annunzio. Per una grammatica dei sensi, cur. G. Oliva, Chieti, Solfanelli, 1992, pp. 47-80, in part. pp. 60-61. Quivi (a partire dalla novella “La vergine Orsola”) si accenna a tale contrasto in riferimento tra il “giovane […] soldato biondo” Marcello, innamorato di Orsola, e l’orrido mezzano Lindoro, violentatore della stessa, “uno di quegli uomini che paion cresciuti su, come funghi, dall’umidità della strada immonda ed hanno in tutta la figura quasi una nativa tinta di fango”. Le citazioni dal testo originale sono in G. D’Annunzio, Tutti i romanzi, novelle, prose e teatro [1879-1935], cur. G. Oliva, Newton Compton, Roma 2012, in part. pp. 1558-1559. Sulla novella dannunziana in tali contesti, cfr. anche Tra cielo e inferno cit., pp. 66-67.
10 Le“cumbissías” (o “cumbessías”, “cummissías”,“qumbissías”)sono le casupole o logge o tettoie che circondano quasi tutti i santuari campestri della Sardegna. Su di esse, e sul loro valore sacrale, cfr. ora M. Pittau, “Ancora sull’origine del vocabolo CUMBISSÍA”, in http://www.pittau.it/Sardo/cumbissia.html, ult. cons. 20 dicembre 2016.
11 Su tale questione, cfr. Tra cielo e inferno cit., pp. 28-36.
12 Cfr., su tali tematiche, Tra cielo e inferno, pp. 13 ss.gg.
13 La battaglia notturna tra bene e male, condotta da uomini e donne a ciò consacrati e indirettamente e allusivamente preconizzata da prete Porcheddu, ha antecedenti antropologici di notevole spessore. Si veda, su questo, C. Ginzburg, Storia notturna, Torino, Einaudi, 1989, pp. 130-160, con ulteriore bibliografia.
14 Su tali figure, tra il mitico e l’antropologicamente definito, cfr. ad esempio E. Turri, Gli uomini delle tende: i pastori nomadi tra ecologia e storia, tra deserto e bidonville, Roma, Edizioni di Comunità, 1983, pp. 79-93, con bibliografia.
15 Cfr. Tra cielo e inferno, pp. 2 ss.gg.
16 Cfr., su questo, Tra cielo e inferno, pp. 57-71.
17 Cfr. E. Circeo, “Peccato e redenzione nell’opera di Grazia Deledda”, in Dimensioni. Rivista Abruzzese di Cultura e d’Arte, 3-5 (1958), pp. 47-55, in part. p. 50 per la citazione. L’articolo del Circeo, pur interessante e per certi versi condivisibile, tuttavia non fa alcun riferimento al romanzo La madre e ciò ne limita l’orizzonte interpretativo.
18 Cfr. A. Manzoni, I promessi sposi [1840], cur. M. Antonellini, Milano, Rusconi, 2005, p. 302.
19 Su tali questioni, si veda già, in epoca coeva, quanto scriveva A. Graf, Il Diavolo, Fratelli Treves Editori, Milano 1889, pp. 130 ss.gg, dove vengono elencati diversi episodi tratti dalla letteratura claustrale.
20 Cfr. Circeo, “Peccato e redenzione” cit. p. 53.
21 La protagonista del romanzo è la madre di Paulo, il parroco di Aar (nome immaginario), un paesino sui monti sardi. Paulo si è innamorato della giovane Agnese, che vive sola, e fra i due è in corso una relazione amorosa. La madre scopre la relazione e inizia a tormentarsi. Ad un certo punto Paulo, spinto da sensi di colpa, decide di lasciare Agnese, la quale in un primo momento vorrebbe vendicarsi rendendo nota la vicenda all'intera comunità. Ma la donna infine rinuncia al suo proposito: ciò nonostante la madre di Paulo, profondamente provata dal dolore e dall'angoscia, muore all'improvviso in chiesa, lasciando nel prete un grande rimorso.
22 Cfr. Tra cielo e inferno, pp. 37 ss.gg.
23 Cfr. Inferno, II.55 (consultato in Dante, Divina Commedia [1306/’07-1321], cur. G. Fallani-S. Zennaro, Roma, Newton Compton, 20105, p. 40).
24 Cfr., ad esempio, Opere di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi carmelitana etc. Raccolte dal M.R.P. Maestro Fra’ Lorenzo Maria Brancaccio etc. e Divise dal Medesimo in Cinque Parti. Con la Vita della Medesima Santa Descritta dal Signor D. Vincenzo Puccini. Venezia, MDCCXII. Presso Paolo Baglioni, p. 50.
25 Cfr. E. Le Roy Ladurie, Montaillou, village occitan de 1294 à 1324, Paris, Gallimard, 1975 (in italiano Storia di un paese: Montaillou. Un villaggio occitanico durante l'Inquisizione: 1294 – 1334, Milano, Rizzoli, 1977), passim.
26 A puro livello informativo, cfr. E.W. Said, L’immagine europea dell’Oriente [1978], trad. it., Milano, Feltrinelli, 2001, con bibliografia
27 Cfr. Articolo Estratto dal Giornale Ecclesiastico di Roma. Lettera Miscellanea del Canonico Arciprete Don Luigi Nardi di Rimino. Tomo I. Fascic. IV. pagg. 122. Seconda Edizione con Aggiunte. Pesaro. 1825. Dalla Tipografia Nobili, p. 24.
28 Cfr. Regula Sancti Benedicti, LXII.2: “[o]rdinatus autem caveat elationem aut superbiam […]”, in riferimento – si noti – al monaco che venga ordinato sacerdote. Non si parla di specchi, ma l’accenno alla vanità rende implicita ogni riflessione in proposito.
29 Cfr. U. Eco, Sugli specchi e altri saggi, Milano, Bompiani, 1987, pp. 21-22
30 Vedi ivi, p. 22.
31 Cfr. Eco, Sugli specchi cit., p. 25
32 Cfr. J. Baltrušaitis, Lo specchio: rivelazioni, inganni e science-fiction, Milano, Adelphi, 20072, passim; e soprattutto Cfr. S. Tagliagambe, “I confini tra linea di demarcazione e porosità”, in Between, 1 (2011), pp. 1-21, in part. p. 13 (e vedi http://ojs.unica.it/index.php/between/article/view/126/136, ult. cons. 5 dicembre 2016).
- Quote paper
- Giorgio Pannunzio (Author), 2019, Nuoro, Ciminna, Filottrano, Como. Percorsi letterari tra un’Italia e l’altra, Munich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/503599
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