Le pagine seguenti presentano un lavoro che si origina dalla volontà di confrontarsi con due campi del sapere apparentemente distanti, il teatro e la fisica quantistica, che negli ultimi decenni hanno invece subito un progressivo avvicinamento fino a fondersi in alcune rappresentazioni teatrali dal fascino singolare. La scelta di tale argomento è frutto di una lunga riflessione, maturata in una sera dicembrina nella panca di un loggione del Teatro Rossini ove andava in scena la pièce teatrale Copenaghen di Michael Frayn.
L’incompresa commozione nei tratti più emotivi della rappresentazione, la meticolosa attenzione di chi si approccia ad un settore della conoscenza lontano dall'impostazione letteraria e la passione per il mondo del teatro hanno concorso a definire l’obiettivo di questo lavoro, che prende in considerazione due testi differenti dai numerosi e significativi punti comuni.
Si tratta del già citato recital di Frayn, messo in scena per la prima volta nel 1998 e del testo Quanti Margrethe, pubblicato nel 2018 da Franco Pollini in un compendio di copioni teatrali sui fondamenti concettuali, le applicazioni pratiche della meccanica quantistica e le vicende dello sfondo storico in cui si collocano.
Un ventennio di innovazioni e mutamenti quello intercorso tra i due recital, di incalzante insediamento delle nuove e più avanzate tecnologie negli aspetti più elementari della vita umana, un ventennio in cui tanto il teatro quanto la fisica corrono su due parallele strade battute, arrestandosi solo per attingere al passato cercando di coglierne il meglio.
Indice
Introduzione
CAPITOLO I: QUELL’UNICO BREVE ISTANTE A COPENAGHEN
I.1 Prologo. Le pubblicazioni del dopoguerra come fonte di ispirazione
I.2 Gli archivi delle famiglie Bohr e Heisenberg. Le lettere postume
I.3 Primo atto
I.3.1 Indeterminazione e sovrapposizione nella fisica dei quanti
I.3.2 La Complementarità: le misurazioni multiple della rappresentazione
I.4 Secondo atto
I.4.1 Il teatro come metafora dell’esistenza
CAPITOLO II: PROSPETTIVA ESTERNA NELLA STORIA DELLA BOMBA. LO SGUARDO DI MARGRETHE
II.1 Parti indivisibili di una stessa grandezza. Il quanto di Planck e i personaggi multipli
II.2 La tradizione del metateatro: Plauto, Shakespeare, Pirandello, Frayn
II.3 La sovrapposizione di stati: un’attrice per tre personaggi p. 66 II.4 Quanti Margrethe
II.4.1 Primo atto: il passato remoto. Un giallo amletico
II.4.1.2 Breve digressione sul Faust della Blegdamsvej
II.4.1.3 Dio non gioca dadi. Come l’indeterminazione esorcizzò il Demone laplaciano
II.4.1.4 L’epistemologia di Bohr: da Amleto a Kierkegaard
II.4.2 Secondo atto: il passato prossimo
Conclusioni
Bibliografia
Sitografia
Ringraziamenti
Introduzione
Le pagine seguenti presentano un lavoro che si origina dalla volontà di confrontarsi con due campi del sapere apparentemente distanti, il teatro e la fisica quantistica, che negli ultimi decenni hanno invece subito un progressivo avvicinamento fino a fondersi in alcune rappresentazioni teatrali dal fascino singolare. La scelta di tale argomento è frutto di una lunga riflessione, maturata in una sera dicembrina nella panca di un loggione del Teatro Rossini ove andava in scena la pièce teatrale Copenaghen di Michael Frayn. L’incompresa commozione nei tratti più emotivi della rappresentazione, la meticolosa attenzione di chi si approccia ad un settore della conoscenza lontano dall’impostazione letteraria e la passione per il mondo del teatro hanno concorso a definire l’obiettivo di questo lavoro, che prende in considerazione due testi differenti dai numerosi e significativi punti comuni. Si tratta del già citato recital di Frayn, messo in scena per la prima volta nel 1998 e del testo Quanti Margrethe, pubblicato nel 2018 da Franco Pollini in un compendio di copioni teatrali sui fondamenti concettuali, le applicazioni pratiche della meccanica quantistica e le vicende dello sfondo storico in cui si collocano. Un ventennio di innovazioni e mutamenti quello intercorso tra i due recital, di incalzante insediamento delle nuove e più avanzate tecnologie negli aspetti più elementari della vita umana, un ventennio in cui tanto il teatro quanto la fisica corrono su due parallele strade battute, arrestandosi solo per attingere al passato cercando di coglierne il meglio. Da un lato il drammaturgo britannico costruisce una vicenda indeterminata di cui vengono offerte opposte versioni: sullo sfondo di uno scenario bellico in cui i fisici ebrei e gli altri scienziati dissidenti emigrano in massa dalla Germania e dai territori da essa occupati con la guerra di aggressione hitleriana, ha inizio la corsa alla costruzione della bomba atomica. In questo drammatico quadro, il fisico tedesco Werner Heisenberg si reca nella Danimarca occupata per parlare con il vecchio maestro e amico Niels Bohr. Siamo nel 1941: gli storici ancora si interrogano sul contenuto di quell’incontro, costruito prima su una riflessione retrospettiva, poi su una multipla messa in scena dello stesso evento, quasi a voler tentare di fare tutti i possibili esperimenti per poi metterli insieme, non riuscendo tuttavia a stabilire come siano andate realmente le cose. Incerto è il motivo e l’esito del loro incontro, che ora sembra propendere (tesi di Bohr) per un tentativo da parte di Heisenberg di sottrazione di informazioni sulla costruzione della bomba atomica o di coinvolgimento del vecchio maestro nel programma nucleare del terzo Reich e ora è invece a favore della tesi (di Heisenberg) secondo la quale il tedesco Heisenberg si era solo recato da Bohr per convincerlo ad avviare una sorta di moratoria nucleare facendo sì che gli scienziati di entrambe le parti boicottassero i rispettivi progetti. I due fisici, così come Margrethe (moglie di Bohr e terza protagonista della pièce), sono ormai morti da tempo, per cui la verità risulta ormai inaccessibile e non resta altra possibilità che fare appello a quel principio di sovrapposizione quantistica per cui sia la versione di Bohr, sia quella di Heisenberg sono vere e false nello stesso tempo, così come il gatto del celebre esperimento mentale di Schrödinger, che non è né vivo né morto se nessun osservatore può aprire la porta del laboratorio in cui si trova per osservare il suo stato, facendo collassare la funzione d’onda che descrive la situazione da un iniziale stato indeterminato dato dalla sovrapposizione dei due stati di gatto vivo e di gatto morto ad un ben definito stato finale in cui il gatto è vivo oppure è morto. Pollini invece, a partire dalla stessa vicenda analizzata da Frayn, si orienta principalmente verso la figura di Margrethe, che da “spettatrice esterna” ha assistito a tutte le vicende relative alla sua famiglia e ai fisici che negli anni ‘20 del Novecento hanno contribuito a plasmare la fisica dei quanti. Margrethe è il personaggio ideale, non colta ma circondata da un’ampia cerchia di menti geniali e non è mai stata diretta protagonista della storia ma prevalentemente spettatrice: rappresenta il punto di vista più adeguato per descrivere gli avvenimenti in maniera parzialmente distaccata. Essa si muove cronologicamente in una immaginaria linea del tempo (alternando nelle rimembranze un passato remoto ad un passato prossimo) e nella scena compare insieme alla sua Coscienza parlante e insieme ad un’attrice che da sola interpreta dunque tre differenti personaggi. Le due rappresentazioni vengono alla luce tenendo conto dei principi basilari della fisica quantistica, ovvero il “principio di indeterminazione” di Werner Heisenberg, il “principio di complementarità” di Niels Bohr e il “principio di sovrapposizione degli stati quantistici” di Erwin Schrödinger. Proprio quest’ultimo funge da conduttore per un’analisi singola di ciascuna delle due opere e diviene poi il punto di riferimento per attuare una comparazione più generale tra il mondo del teatro e quello della scienza, due poli antitetici che difficilmente erano, in passato, immaginabili insieme. La meccanica quantistica (o meccanica dei quanti) è una teoria fisica che descrive il comportamento degli oggetti atomici e subatomici, sia che si tratti di quella che la meccanica classica newtoniana delle particelle considerava materia, sia che si tratti di quella che la teoria ondulatoria classica di Maxwell definiva radiazione, unificando a livello fondamentale l’idea di un ambiguo comportamento unitario di quanti di luce (fotoni) e di quanti di materia (elettroni, protoni e neutroni), e di tutte le loro reciproche interazioni viste sia nei termini di fenomeni caratterizzati da un duplice aspetto sia ondulatorio sia corpuscolare: il cosiddetto dualismo onda-particella. Il teatro è invece l’arte più antica e profonda, è “una delle testimonianze più certe del bisogno dell’uomo di provare in una sola volta più emozioni possibili”. Così Eugène Delacroix, pittore francese del romanticismo, descrisse il teatro. Il termine “teatro” deriva dal greco θέατρον (thèatron, “luogo destinato agli spettacoli”), che a sua volta ha origine da θεαομαι (theà-omai, “guardare, essere spettatore”). Queste voci fanno capo alla stessa radice di thaýma (“ammirazione, meraviglia”), thaymàxô (“ammiro, guardo con meraviglia”) e thaymastòs (“mirabile”). Il teatro è quindi l’insieme delle arti che concorrono alla concretizzazione di uno spettacolo ed esiste solo in relazione allo spettatore, che si configura così come il primordio che ad esso porge il primo alito di vita. Arti quali il canto lirico, la pantomima o la danza kathakali contribuiscono ad ampliare la varietà di possibili rappresentazioni teatrali esistenti. Tra queste, l’arte drammatica (o arte della recitazione) ha la particolare capacità di raccontare una storia che può ispirarsi ad un canovaccio o costruirsi in itinere. L’arte della recitazione è quindi la più adeguata a rappresentare in ogni forma, tempo e luogo gli spettri dell’esperienza, dello scibile e persino dell’inconoscibile, se si pensa che il teatro può rappresentare anche ciò che non è ancora stato inventato. A teatro profonde sensazioni vengono suscitate, spesso involontariamente da chi guarda. Commozione, turbamento, angoscia, riso sfrenato, pianto copioso, eccitazione, imperturbabilità. Il passaggio tra i molteplici stati d’animo può avvenire lungo il corso dell’intera opera teatrale, in un singolo atto, in un nanosecondo. A teatro tutto è permesso, anche di fondere la realtà con l’invenzione, la storia con la memoria. Esso è tragedia e commedia nel mondo classico (Sofocle in ambito greco o Plauto in ambito latino), passa per il Barocco (Racine e Shakespeare), diventa commedia dell’arte nel Settecento (con Goldoni) e dopo profonde trasformazioni, aderisce alle molteplici forme di rappresentazione contemporanea (Eduardo de Filippo, Dario Fo e Franca Rame). Quando la scienza viene raccontata attraverso l’arte della recitazione, si realizza quella trasposizione che la rende decifrabile. Non si tratta di un mero processo di semplificazione o di banalizzazione, come accade in certe forme di divulgazione scientifica, ma siamo di fronte alla possibilità di una spiegazione e comprensione dell’impresa scientifica. Nel suo rigoroso susseguirsi di formule e tecnicismi, la scienza non è certo alla portata di tutti, ma riesce a divenire tale quando si fa sentimento, gesto e voce. Copenaghen e Quanti Margrethe non sono le sole opere di teatro scientifico sui fondamenti della fisica che sono state scritte negli ultimi decenni. Nel 1962 lo scrittore e drammaturgo svizzero Friedrich Dürrenmatt, accostando la stilizzazione comica all’humour nero, scrisse la geniale commedia I fisici. Il grottesco che anima la sua mise -en-scène, ha origine nell’amara condizione degli scienziati durante la guerra fredda, costretti a vendere ingenuamente il loro potere a militari e politici. I tre fisici protagonisti della pièce, internati in un manicomio elitistico, rappresentano il tentativo di salvare l’umanità con una formula universale che viene sottratta in extremis al più geniale dei tre, Möbius, dalla psichiatra che se ne prendeva cura. L’apparente solidarietà e dedizione della dottoressa von Zahnd si trasformano in meditazione premeditata di distruzione: è la rappresentazione scenica di come nel nostro mondo lo scienziato possa trasformarsi in un assassino se sottomette la sua conoscenza al potere sbagliato. La matrice che sta alla base di questo copione è un’analisi psicologica della personalità dei protagonisti, due dei quali fingono di essere pazzi e fuori di senno. Strangolano le infermiere che dicevano di amare troppo e si professano Einstein e Newton. Il riferimento è al disturbo dissociativo dell’identità, una patologia psichica di personalità multipla che fa richiamare subito alla mente l’esemplare romanzo di Stevenson del 1886, Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde. Volendo sovvertire l’ordine naturale del drammaturgo che compone opere per la scena, ci si trova di fronte alla figura dello scienziato che si cimenta nella composizione di un’opera teatrale o letteraria. Nel 1966 il fisico russo George Gamow, dopo aver dato molti contributi agli studi scientifici sia dal punto di vista della ricerca che della divulgazione scientifica, ha pubblicato in appendice al suo libro Trent’anni che sconvolsero la fisica. La storia della teoria dei quanti ‒ nel quale descrive il periodo dal 1900 al 1930 che vede l’avvento della meccanica quantistica ‒ la sua originale versione del Faust della Blegdamsvej. Si tratta di un dramma liberamente ispirato al capolavoro di Goethe, scritto e rappresentato in occasione del convegno che si svolse all’Istituto di fisica teorica a Copenaghen nella primavera del 1932 e che vedeva in scena come protagonisti alcuni tra i massimi teorici quantistici. In particolare Wolfgang Pauli nel ruolo di Mefistofele, che tenta di vendere l’idea del neutrino senza peso (Gretchen) a Ehrenfest (Faust). Anche il fisico svizzero Joseph-Maria Jauch, che ha lavorato sui fondamenti matematici ed epistemologici della meccanica quantistica, si è cimentato nel 1973 nella composizione di un’opera letteraria: Sulla realtà dei quanti. Per affrontare e chiarificare in modo non convenzionale i temi cruciali della fisica contemporanea, ha ipotizzato che Simplicio, Salviati e Sagredo, i tre protagonisti del Dialogo sopra i due massimi sistemi di Galileo, s’incontrassero dopo più di tre secoli nell’autunno del 1970 e per altre quattro giornate, questa volta sulle sponde del lago di Ginevra. Un salto temporale ‒ dal 1632 alla fine del XX secolo ‒ che attraverso un gioco di ruolo ha dato vita ad un nuovo dialogo galileiano . Come riferimento ancor più contemporaneo, si può citare l’attività dell’Associazione culturale torinese “Teatro e scienza”, che rappresenta spettacoli scientifici e organizza festival e conferenze e che è diretta da Maria Rosa Menzio, una matematica appassionata di lettere. Alla questione inerente la sua idea sul binomio teatro-scienza, ha affermato:
Il modo per avvicinare le persone alla conoscenza e alla scienza con tutta la forza graffiante del teatro. […] Divulgare lo può fare un libro, una conferenza, ma l’indimenticabile imprinting che dà il teatro è pura energia dionisiaca. […] La scienza è bella, se raccontata con passione e con metodi inusuali (tombole matematiche, leggende fra magia e realtà, paradossi…): l’Infinito di Leopardi e quello di Barrow messo in scena da Ronconi vogliono entrambi avvicinarsi a un limite estremo![1]
Un’altra figura femminile che negli ultimi anni sta rendendo intrigante e affascinante la divulgazione della fisica, è la scrittrice, fisica e drammaturga Gabriella Greison, che si serve di tutti i moderni canali di comunicazione per diffondere “in pillole” i fondamenti della fisica e renderli appetibili a chiunque. Messe in scena, video esplicativi, libri: il suo carisma poliedrico la rende adatta ad inscenare spettacoli che sono dipinti come un mosaico di fisica, musica, letteratura, storia dell’arte:
Mi vengono in mente i quadri di Picasso, perché sono immagini astratte. Quando io penso ai fisici del Ventesimo Secolo penso a un collage di tante forme, situazioni e città messe insieme in cui ognuno ci vede quello che vuole. Ma in realtà, quando racconto […] storie, il mio punto di riferimento è Calvino. La grandezza dei […] fisici riguarda in particolare un luogo che Calvino ha raccontato molto bene: “Le Città Invisibili” che lui crea. che sto facendo io, Copenaghen è la mia città invisibile.[2]
Il tentativo di annodare saldamente la scienza al teatro risale principalmente al Novecento e nel nostro nuovo secolo diviene sempre più pertinace: saranno necessari tutti i possibili artifici (tradizionali e moderni) per far penetrare i concetti e i principi della fisica anche nelle menti delle persone più lontane da questo campo d’indagine. Questo è l’obbiettivo del teatro scientifico: rendere lo spettatore protagonista di una storia senza tempo, trasformarlo in un attore non più esterno ai fenomeni ma immerso all’interno di questi ultimi, come nel postulato fondamentale di Planck che considera ogni osservazione come un processo di interazione tra osservatore e fenomeno fisico misurato.
Capitolo I: Quell’unico breve istante a Copenaghen
“Adesso siamo tutti morti e sepolti, certo, e il mondo di me ricorda soltanto due cose. Uno è il principio di indeterminazione, e l’altra è la mia misteriosa visita a Niels Bohr a Copenaghen, nel 1941. L’indeterminazione la capiscono tutti. O credono di capirla. Il mio viaggio a Copenaghen non lo capisce nessuno”.[3] Heisenberg
I.1 Prologo. Le pubblicazioni del dopoguerra come fonte di ispirazione
Nel 1998, al Royal National Theatre di Londra va in scena la première di Copenaghen, spettacolo teatrale scritto da Michael Frayn e diretto da Michael Blakemore, con David Burke, Sara Kestelman e Matthew Marsh; rimase in scena per più di 300 repliche. Dopo il trasferimento al Duchess Theatre di Westminster dove rimase per più di 750 rappresentazioni, il 9 novembre 1999 la pièce debutta in Italia al teatro S. Giorgio di Udine con la regia di Mauro Avogadro e con Umberto Orsini, Massimo Popolizio e con Giuliana Lojodice. A Broadway, Copenaghen approda nel 2000 al John Golden Theatre sempre con la regia di Blakemore e con Philip Bosco, Michael Cumpsty e Blair Brown; vince il Tony Award per il miglior spettacolo teatrale, per la miglior attrice e per la miglior regia ed ebbe più di 320 repliche. L’idea di questa commedia storiografico-scientifica nasce nella mente del drammaturgo britannico Frayn in seguito alla lettura del libro di Thomas Powers Heisenberg’s war. È necessario ricorrere ad un’accurata analessi per ripercorrere la vasta letteratura narrativo-descrittiva che ha permesso a questo libro di venire alla luce. Prima di questa pubblicazione, infatti, ne sono susseguite altre differenti che hanno contribuito alla ricostruzione di quella che oggi è la storia della bomba atomica e dei suoi retroscena: nel 1956 il giornalista austriaco Robert Jungk pubblicò Gli apprendisti stregoni. Storia degli scienziati atomici,[4] nel quale suggerì l’idea che gli scienziati tedeschi, per ragioni di coscienza, avessero cercato di prevenire la costruzione dell’atomica. Il titolo del libro fa riferimento alla frase contenuta nella Bhagavadgītā, che Robert Oppenheimer ‒ coordinatore del Progetto Manhattan a Los Alamos e considerato in quanto tale padre della bomba atomica ‒ citò dopo il test nucleare Trinity (condotto il 16 luglio 1945 nell’ambito di tale progetto):
Se la luce di mille soli divampasse nel cielo, sarebbe come lo splendore dell’Onnipotente. […] Adesso sono diventato la morte, il distruttore di mondi.[5]
In questo resoconto, Jungk studia la costruzione e il lancio dell’atomica dal punto di vista degli scienziati e si basa principalmente su interviste con persone che hanno preso parte al processo. Jungk, che fu uno dei pochi autori che cercarono di difendere Heisenberg, sostenne le sue iniziali tesi sulla presa di coscienza dei fisici citandone queste parole:
Sotto una dittatura la resistenza attiva può solo essere praticata da coloro che fingono di collaborare con il regime. Chiunque si pronunci apertamente contro il sistema, si priva dunque senza dubbio di qualunque opportunità di resistenza attiva.[6]
La traduzione danese del libro di Jungk, contiene l’estratto di una lettera di Heisenberg all’autore. In realtà ci fu inizialmente una prima lettera di Heisenberg a Jungk (datata 17 novembre 1956) nella quale, dopo i ringraziamenti per aver ricevuto il libro che lesse voracemente durante dei giorni di malattia, fece alcune osservazioni di carattere storico da correggere per una futura seconda edizione. Seguì poi la risposta del giornalista (datata 29 dicembre 1956) che ringraziò a sua volta per le correzioni e che chiese ad Heisenberg di fornirgli ulteriori informazioni per migliorare le lacune del suo libro; inoltre era interessato ad avere più particolari della conversazione avuta a Copenaghen con Bohr durante la Seconda guerra mondiale. La lettera di risposta del fisico (datata 18 gennaio 1957) contiene rimembranze più o meno offuscate. Inizialmente ricorda che il “Club dell’Uranio” era arrivato a comprendere che la produzione di bombe atomiche sarebbe stata possibile soltanto con risorse tecniche immense. Nella situazione in cui si trovavano, pensarono che parlare con Bohr sarebbe stato utile. Quella conversazione ebbe luogo in una passeggiata serale nel distretto della città vicino Ny-Carlsberg.
Because I knew that Bohr was under surveillance by German political operatives and that statements Bohr made about me would most likely be reported back to Germany, I tried to keep the conversation at a level of allusions that would not immediately endanger my life. The conversation probably started by me asking somewhat casually whether it was justifiable that physicists were devoting themselves to the Uranium problem right now during times of war, when one had to at least consider the possibility that progress in this field might lead to very grave consequences for war technology. Bohr immediately grasped the meaning of this question as I gathered from his somewhat startled reaction. He answered, as far as I can remember, with a counter-question "Do you really believe one can utilize Uranium fission for the construction of weapons?" I may have replied "I know that this is possible in principle, but a terrific technical effort might be necessary, which one can hope, will not be realized anymore in this war." Bohr was apparently so shocked by this answer that he assumed I was trying to tell him Germany had made great progress towards manufacturing atomic weapons. In my subsequent attempt to correct this false impression I must not have wholly succeeded in winning Bohr's trust, especially because I only dared to speak in very cautious allusions (which definitely was a mistake on my part) out of fear that later on a particular choice of words could be held against me. I then asked Bohr once more whether, in view of the obvious moral concerns, it might be possible to get all physicists to agree not to attempt work on atomic bombs, since they could only be produced with a huge technical effort anyhow. But Bohr thought it would be hopeless to exert influence on the actions in the individual countries, and that it was, so to speak, the natural course in this world that the physicists were working in their countries on the production of weapons.[7]
Heisenberg continuò sostenendo che la prospettiva di riuscire a produrre ordigni nucleari durante la guerra era immensamente più realistica da parte americana che da parte tedesca. Dal 1933 la Germania aveva perso un numero notevole di fisici eccellenti a causa dell’emigrazione sia degli scienziati ebraici che dei fisici che dissentivano dal regime nazista; inoltre i laboratori presenti nelle università erano vecchi e poco forniti a causa della negligenza del governo e tutti i giovani talentuosi spesso erano spinti a perseguire altre professioni. Negli Stati Uniti invece, molti istituti universitari dal 1932 erano stati rimessi completamente a nuovo, forniti di attrezzature moderne e resi confacenti per la fisica nucleare. Piccoli e grandi ciclotroni erano stati attivati in vari luoghi, molti fisici capaci erano immigrati, interessati alla fisica nucleare che stava diffondendosi per interesse anche tra i non esperti. Ogni cosa che Heisenberg scrisse implicò degli aspetti psicologici non indifferenti, e i dati forniti non possono seguire la massima accuratezza vista la distanza di sedici anni dall’accaduto. Heisenberg fu molto infelice dopo quella conversazione, che fu poi reiterata qualche settimana o qualche mese più tardi da Jensen senza alcuna speranza. Dall’estratto pubblicato sembrò che Heisenberg stesse affermando in maniera implicita di aver boicottato il progetto tedesco di costruzione della bomba per questioni morali, anche se leggendo l’intero testo della lettera fu prudente a non farlo trasparire. Bohr, dopo aver letto l’estratto della lettera nella sua copia del libro di Jungk, fu indignato. Le affermazioni di Heisenberg erano false e dall’incontro del 1941 Bohr comprese che Heisenberg fu risoluto a produrre armi atomiche per la Germania. Questa fu la sua risposta:
Dear Heisenberg, I have seen a book, “Stærkere end tusind sole” [“Brighter than a thousand suns”] by Robert Jungk, recently published in Danish, and I think that I owe it to you to tell you that I am greatly amazed to see how much your memory has deceived you in your letter to the author of the book, excerpts of which are printed in the Danish edition. Personally, I remember every word of our conversations, which took place on a background of extreme sorrow and tension for us here in Denmark. In particular, it made a strong impression both on Margrethe and me, and on everyone at the Institute that the two of you spoke to, that you and Weizsäcker expressed your definite conviction that Germany would win and that it was therefore quite foolish for us to maintain the hope of a different outcome of the war and to be reticent as regards all German offers of cooperation. I also remember quite clearly our conversation in my room at the Institute, where in vague terms you spoke in a manner that could only give me the firm impression that, under your leadership, everything was being done in Germany to develop atomic weapons and that you said that there was no need to talk about details since you were completely familiar with them and had spent the past two years working more or less exclusively on such preparations. I listened to this without speaking since [a] great matter for mankind was at issue in which, despite our personal friendship, we had to be regarded as representatives of two sides engaged in mortal combat. That my silence and gravity, as you write in the letter, could be taken as an expression of shock at your reports that it was possible to make an atomic bomb is a quite peculiar misunderstanding, which must be due to the great tension in your own mind. From the day three years earlier when I realized that slow neutrons could only cause fission in Uranium 235 and not 238, it was of course obvious to me that a bomb with certain effect could be produced by separating the uraniums. In June 1939 I had even given a public lecture in Birmingham about uranium fission, where I talked about the effects of such a bomb but of course added that the technical preparations would be so large that one did not know how soon they could be overcome. If anything in my behavior could be interpreted as shock, it did not derive from such reports but rather from the news, as I had to understand it, that Germany was participating vigorously in a race to be the first with atomic weapons. Besides, at the time I knew nothing about how far one had already come in England and America, which I learned only the following year when I was able to go to England after being informed that the German occupation force in Denmark had made preparations for my arrest. All this is of course just a rendition of what I remember clearly from our conversations, which subsequently were naturally the subject of thorough discussions at the Institute and with other trusted friends in Denmark. It is quite another matter that, at that time and ever since, I have always had the definite impression that you and Weizsäcker had arranged the symposium at the German Institute, in which I did not take part myself as a matter of principle, and the visit to us in order to assure yourselves that we suffered no harm and to try in every way to help us in our dangerous situation. This letter is essentially just between the two of us, but because of the stir the book has already caused in Danish newspapers, I have thought it appropriate to relate the contents of the letter in confidence to the head of the Danish Foreign Office and to Ambassador Duckwitz.[8]
In seguito, Robert Jungk cambiò idea su Heisenberg e sulla sua posizione, sostenendo di aver in qualche modo contribuito a diffondere una resistenza “passiva” dei fisici, che era stata da lui e da altri mitizzata. Heisenberg, per la difesa della sua figura, dovette attendere dunque il 1993, quando il suo “grande paladino” Powers pubblicò il libro Heisenberg’s war. Ad ogni modo, Gli apprendisti stregoni fu oggetto di varie controversie. La prima riguardò l’accusa di inganno di Jungk nei confronti di Carl Friedrich von Weizsäcker, fisico tedesco che fu intervistato per il libro, e nei confronti di Heisenberg che ne sostenne le tesi:
I accuse a few [eyewitnesses], who even today are respected by the public, of conscious distortion of history by means of deliberate misrepresentations and ‒ I do not even hesitate to use this devastating word ‒ the occasional lie. [...] It was Carl Friedrich von Weizsäcker who described to me very forcefully that the German scientists did not want to build the atomic bomb. At that time, he used the expression 'passivists' to describe this circle of people.[9]
Un’altra controversia riguardò le affermazioni rilasciate in un’intervista del 1967 da Leslie Groves, capo del Progetto Manhattan, che sostenne che l’autore avesse scritto l’opposto di quello che lui gli disse, e che avrebbe fatto lo stesso con tutti gli altri intervistati:
I wouldn’t place any reliance on anything in that book Brighter than the Suns. For example, he gave quotes attributed to me that were the direct opposite of what I had given him. He did that with everybody he talked to. I’d say that he was thoroughly discredited in the eyes of everybody who knew him.[10]
La questione sulla bomba atomica s’inasprisce nel 1992, quando vennero rese note le trascrizioni delle conversazioni di Farm Hall. Tra il primo maggio e il 30 giugno 1945, prima e dopo il lancio delle due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, dieci tra i maggiori scienziati tedeschi che si erano occupati delle ricerche sulla fissione atomica, vennero prelevati dai laboratori di Parigi, Strasburgo, Heidelberg, Stadlim, Hechingen, Haigerloch e Tailfingen, catturati ed internati per sei mesi (la legge inglese impediva il fermo di polizia per un periodo maggiore) dal 3 luglio dello stesso anno fino al 3 gennaio 1946, in un villa segreta di campagna nei pressi di Godmanchester, Cambridge. L’“Operazione Epsilon” venne messa in atto dai servizi segreti inglesi e fu l’ultimo stadio della missione di spionaggio “Alsos” (άλσος in greco “boschetto”, all’incirca come grove in inglese), fortemente voluta dal generale Leslie R. Groves, capo del progetto Manhattan, con l’ obbiettivo di sottrarre i migliori fisici tedeschi ad un possibile intervento dei sovietici e di verificare sia lo stadio di avanzamento delle ricerche sull’uso militare dell’energia nucleare, sia le loro eventuali responsabilità nel nazismo. Tra i fisici in questione vi erano due premi Nobel per la fisica: Max von Laue (1914) e Werner Heisenberg (1932); Otto Hahn, ottenne invece il Nobel per la chimica nel 1944 per la scoperta della fissione nucleare (fatta con Strassmann, Frisch e Lise Meitner), ma lo scienziato tedesco lo apprese a Farm Hall e poté ritirarlo soltanto nel 1946. Gli altri brillanti scienziati, tutti di nazionalità tedesca, erano: Carl Friedrich von Weizsäcker, Walther Gerlach, Paul Harteck, Kurt Diebner, Karl Wirtz, Erich Bagge e Horst Korsching. I “prigionieri” avevano tutti svolto, con la sola eccezione di von Laue (in realtà, un coraggioso antinazista), ricerche mirate alla costruzione di una bomba nucleare. Questi dieci scienziati erano totalmente all’oscuro sull’esperimento che si consumava ai loro danni. In proposito si ricorda un dialogo significativo del 6 luglio 1945:
Diebner: Mi chiedo se non vi siano dei microfoni installati qui. Heisenberg: Microfoni installati? Oh no, loro non sono così astuti. Non credo conoscano i veri metodi della Gestapo; sono rimasti un po’ indietro in queste cose.[11]
In realtà gli ambienti erano gremiti di microfoni, nascosti nelle stanze della residenza e probabilmente anche nel parco circostante: vennero registrate tutte le loro conversazioni e di queste, le trascrizioni più rilevanti vennero raccolte prima in un’edizione senza commento del 1994,[12] poi nel volume di Jeremy Bernstein Il club dell’uranio di Hitler. Venne data ai fisici ‒ nei mesi di detenzione ‒ la possibilità di ascoltare la radio e di leggere i giornali, ma non di comunicare con l’esterno. Furono dunque colti impreparati quando il 6 agosto 1945 prima il generale Rittner poi la BBC comunicarono lo sganciamento alle ore 8.15 circa da parte del bombardiere Enola Gay di “Little Boy”, la bomba nucleare a caduta libera Mk.1, contenente 60 chili di 235U (uranio 235).[13] Heisenberg sostenne con sicurezza che si trattava di un macabro trucco della propaganda alleata, ma con il trascorrere dei giorni la drammatica realtà apparve incontrovertibile, fino a lasciare i fisici sgomenti e sconfitti non per la strage prodotta dalla bomba, quanto piuttosto per aver fallito nell’impresa che gli alleati erano riusciti a portare a termine. Solo Otto Hahn apparve completamente sconvolto per il tragico epilogo. Schiacciato dal senso di colpa per aver scoperto la fissione, pensò al suicidio e scagliandosi contro i colleghi e sottolineando la loro incompetenza disse:
Se gli americani hanno una bomba all'uranio, allora siete tutti delle mezze calzette![14]
Walther Gerlach, il direttore di tutte le ricerche nucleari del Terzo Reich, si chiuse nella sua stanza come un generale sconfitto. Heisenberg cercò di riordinare le idee e di salvare la sua figura:
Insomma, come hanno fatto? Credo sarebbe una vergogna se noi, i professori che ci hanno lavorato, non fossimo nemmeno in grado di capire come hanno fatto.[15]
E pensare che subito dopo la cattura, si era mostrato arrogante rispetto agli avversari che poi lo avrebbero superato: si sarebbe degnato di spiegare agli americani come costruire un reattore, ma non poteva accettare di andare a lavorare negli Stati Uniti perché la Germania aveva ancora bisogno della sua presenza. In seguito al dramma della costruzione della bomba da parte degli americani, si diffuse il mito dell’auto-sabotaggio tedesco, già confezionato da Weizsäcker e Heisenberg durante i mesi a Farm Hall: i membri dell’ Uranverein (“club dell’uranio”, l’organizzazione per la ricerca nucleare a fini bellici fondata da Diebner e Bagge) e in generale gli scienziati tedeschi al servizio del regime, avrebbero boicottato la costruzione di armi atomiche rallentando i lavori e seguendo la voce della coscienza e il senso di responsabilità, evitando così di mettere un’arma di distruzione di massa nella mani di una dittatura brutale. In realtà si trattava di una ricostruzione fittizia, come testimoniano le conversazioni registrate a Farm Hall: il fallimento del programma nucleare tedesco fu dovuto alla presunta superiorità dei tedeschi, che gli fece credere di essere molto più avanti dei colleghi al di là dell’Atlantico e forse all’inadeguatezza del loro leader Heisenberg, grande fisico teorico con scarse attitudini dal punto di vista sperimentale. Essenziale fu la questione economica, in relazione alla quale Albert Speer ‒ ministro degli armamenti e architetto di Hitler ‒ sostenne che il governo fece scarsi investimenti nel progetto. Nelle sue memorie Speer, sostenne inoltre la sua delusione sulla cifra di denaro estremamente esigua richiesta da Heisenberg per mandare avanti il programma nucleare e questo sembrò confermare la tesi del suo tentativo di sabotare il progetto:
Ci incontrammo all’Harnackhaus [nel 1942], sede berlinese della Kaiser Wilhelm Gesellschaft, con quei personaggi mitici che dovevano metterci a parte dei segreti di un’arma decisiva per l’esito della guerra. All’incontro partecipavano i premi Nobel Otto Hahn e Werner Heisenberg, insieme con altri scienziati di cui non ricordo i nomi. Dopo aver sentito alcune relazioni su esperimenti in vari campi della ricerca, ascoltammo quanto Heisenberg aveva da riferirci «sulla scissione dell’atomo, lo stadio di sviluppo dell’apparecchio per la disintegrazione dell’atomo di uranio e il ciclotrone». Heisenberg lamentò lo stato di abbandono in cui le ricerche nucleari erano lasciate dal ministero competente, la mancanza di fondi e di materiali, il regresso della scienza tedesca in campi dove questa era stata regina fino a pochi anni innanzi, regresso dovuto al fatto che le forze scientifiche erano assorbite dalle forze armate. Disse che dalle pubblicazioni specializzate americane si poteva arguire che negli USA la ricerca nucleare disponeva di mezzi tecnici e finanziari abbondantissimi, cosicché era prevedibile che l’America avrebbe fatto da un momento all’altro un balzo in avanti, e ciò, dato l’effetto rivoluzionario della scissione nucleare, poteva portare a conseguenze incalcolabili. Quando Heisenberg ebbe finito la sua relazione, lo interpellai sul possibile impiego della fisica nucleare per la fabbricazione di bombe atomiche. La sua risposta non fu molto confortante. Mi spiegò che, se la soluzione scientifica era stata trovata e, in teoria, la costruzione della bomba era possibile, ci sarebbero voluti almeno due anni per stabilire i presupposti tecnici di produzione, ammesso che da quel momento in poi fosse dato a questo settore tutto l’appoggio indispensabile. Una delle ragioni di tanta lentezza era, secondo Heisenberg, il fatto che in Europa esisteva un unico ciclotrone, a Parigi, e per giunta un ciclotrone di potenza minima, utilizzabile solo parzialmente per motivi di segretezza. Mi offrii, nella mia veste di ministro degli Armamenti, di costruirgli ciclotroni grandi quanto quelli americani e anche più, ma Heisenberg mi rispose che, data la nostra poca esperienza in materia, non avremmo potuto, all’inizio, costruire altro che un tipo relativamente piccolo.[16]
Questo, insieme a quello del feld-maresciallo Milch ‒ rappresentante di Göring nella Luftwaffe, anch’egli presente alla riunione del 1942 ‒ è l’unico riferimento documentato che esiste in relazione all’esiguità del finanziamento richiesto da Heisenberg.[17] La storia giunge, nel suo diacronico compiersi, nuovamente al libro di Powers da cui il dramma Copenaghen ha avuto origine. L’unica paura che spinse gli americani ad investire ingenti quantità di denaro e fiducia nella realizzazione della bomba atomica, fu quella di essere preceduti dalla Germania. Il Premio Pulitzer Thomas Powers, esperto di intelligence, decise di raccogliere tutte le oscure informazioni riguardanti gli anni della guerra per provare a ricostruire la storia intricata della bomba atomica e dei suoi protagonisti. La Germania aveva il sostegno delle gerarchie naziste, l’appoggio della casta militare, i laboratori di ricerca e gli impianti industriali meglio attrezzati d’Europa. Aveva inoltre scoperto la fissione nucleare, controllava le uniche miniere di uranio europee e dal 1940 si era impadronita, in Norvegia, dell’unico impianto al mondo per la produzione di acqua pesante. Gli americani temevano che la Germania, in vantaggio di sei mesi, potesse giungere a breve a costruire l’ordigno nucleare che l’avrebbe salvata dalla sconfitta. Nonostante il grande potenziale tecnico e intellettuale, il Terzo Reich fallì nell’ impresa. Come fu possibile, dato che la fissione era stata scoperta in Germania e dopo che a capo del suo programma nucleare era stato posto Werner Heisenberg, il più prestigioso teorico quantistico? La questione è la seguente: egli sabotò volontariamente il progetto o fu per incapacità che non arrivò a comprendere come costruire la bomba? A differenza dei suoi colleghi che emigrarono perché ebrei o semplicemente antinazisti e che andarono a Los Alamos nel 1943, Heisenberg rimase molto legato al suo paese, anche quando venne definito “ebreo bianco” per aver difeso i fisici ebrei. Nel 1939 gli venne offerto un incarico negli Stati Uniti, ma rifiutò. Doveva condividere il destino del suo paese, proteggere i suoi studenti e ricostruire la scienza tedesca quando la guerra sarebbe finita. La giurata fedeltà di Heisenberg si estendeva anche alla dittatura di Hitler? Questo si è chiesto il mondo intero per decenni. Durante la missione Alsos, venne giudicata sopravvalutata l’intelligenza del fisico: non esisteva un programma tedesco per costruire una bomba ma solo ricerche e tentativi di innescare una reazione a catena autosostenuta. Samuel Goudsmit, direttore scientifico di tale missione, sostenne che erano due le principali motivazioni del fallimento tedesco: i nazisti si erano intromessi in vicende che non comprendevano e Heisenberg aveva fatto degli errori banali che lo costrinsero ad inventarsi la storia delle questioni morali per giustificarsi. Contrariamente a ciò, i fisici tedeschi fecero quindi credere di essere a conoscenza dei meccanismi di costruzione della bomba, ma poi non vollero realizzarla volontariamente per Hitler. Da alcuni documenti sappiamo che in realtà Heisenberg non aveva compreso che per alimentare la bomba si poteva usare il plutonio, un nuovo elemento chimico prodotto nei reattori e inoltre credeva che la bomba non fosse che un reattore sfuggito al controllo. Tutto era segreto negli anni del caos della guerra, soprattutto quell’incontro tra il fisico tedesco e il vecchio maestro Niels Bohr a Copenaghen nel 1941, che affascinò tanto Michael Frayn al punto di farne il soggetto di una rappresentazione teatrale. La rabbia di Bohr dopo la conversazione, induce a pensare che Heisenberg disse qualcosa di inammissibile, ma che cosa esattamente? Anche quell’episodio rimane piuttosto oscuro. Heisenberg ‒ secondo Thomas Powers ‒ non aderì al partito nazista (anche se negli anni giovanili fu membro della Jugendbewegung, la Gioventù Hitleriana) e aiutò molti amici in difficoltà per questioni politiche, compreso Bohr. Inoltre, non costruì la bomba, non si avvicinò neanche approssimativamente ad una parziale realizzazione. Negli anni del dopoguerra, Heisenberg non riuscì a confidarsi con nessuno riguardo alla sua ambivalente posizione in quegli anni; ci provo con Bohr e anche con Goudsmit, ma forse per lui era ancora difficile dire certe cose come per gli altri ascoltarle. Victor Weisskopf, fisico austriaco che collaborò al progetto Manhattan, dopo aver letto il manoscritto del libro di Powers disse a proposito di Heisenberg:
Non abbiamo mai parlato. Ed è stato soprattutto per colpa mia. Non sono mai andato da lui a dirgli “ho tutto il tempo che vuoi, dimmi cos’è successo.[18]
Non potendo contare su alcuna confidenza intima di Heisenberg che avrebbe potuto colmare qualche vuoto storico, Powers attraverso la consultazione di relazioni ufficiali, documenti segreti e numerose conversazioni provò a ricostruire l’intera vicenda cercando di rimanere coerente ai fatti e alle parole. A proposito di questo libro, scrive il giornalista Eliot A. Cohen:
It is, at the very least, quite clear that Heisenberg was willing to assume a comfortable place in an evil regime, when others chose different courses of action. The book's chief weakness, and a major one, is that Powers does not appear to know German, although he had the aid of a German-speaking assistant who translated documents and conducted interviews. As a result, the book relies very heavily on American sources from the Office of Strategic Services who were monitoring the German effort, hoping to stymie it during the war and learn from it afterwards. That is, in fact, part of the book's interest. An engrossing tale, superbly told, about a man who, appropriately enough, gave the word "uncertainty" a significance that reverberates to the present day.[19]
Heisenberg “non si è limitato a tirarsi indietro, a farsi da parte, a lasciar morire il progetto. Lo ha ucciso”.[20] Powers cercò costantemente di dimostrare che Heisenberg fu astuto nel far credere alle autorità che lui e il suo gruppo desideravano avere la responsabilità del progetto ma non una responsabilità totale che permettesse la riuscita degli obbiettivi preposti, che avrebbero coinciso con il successo:
La cautela di Heisenberg lo ha salvato. Fu libero di fare quello che poteva per guidare lo sforzo della ricerca atomica tedesca verso un ripostiglio per le scope, dove gli scienziati armeggiarono fino alla fine della guerra.[21]
I.2 Gli archivi delle famiglie Bohr e Heisenberg. Le lettere postume
Dopo il libro di Powers, che arricchisce di molto e in positivo la biografia di Heisenberg, la storia di quest’ultimo nel suo rapporto con Niels Bohr si compone di una ulteriore pubblicazione, estremamente importante, che risale al 6 febbraio 2002: in seguito alle controversie suscitate dallo spettacolo teatrale di Frayn, la famiglia di Bohr decise di pubblicare anticipatamente le undici lettere risalenti al periodo 1957-1962, scritte o dettate dal fisico danese ma mai inviate, che avrebbero dovuto essere editate soltanto nel 2012, nel cinquantenario della morte (avvenuta nel 1962) e che nel frattempo erano state depositate all’istituto Niels Bohr a Copenaghen. Prima di queste lettere, l’unica fonte sull’incontro del ’41 dei due fisici derivava da un articolo del figlio del fisico, Aage Bohr, dal titolo The War Years and the Prospects Raised by the Atomic Weapons:[22]
After the outbreak of war and especially after the occupation of Denmark we in Copenhagen were completely cut off from following the allied nations’ efforts in the field of atomic energy. Various rumors reached us, however, of the German efforts, and the impression that in Germany great military importance was given to these possibilities was strengthened by the visit to Copenhagen in the autumn of 1941 of Werner Heisenberg and C.F. von Weizsäcker. They were in Copenhagen on other business, but in a private conversation with my father Heisenberg brought up the question of the military applications of atomic energy. My father was very reticent and expressed his scepticism because of the great technical difficulties that had to be overcome, but he had the impression that Heisenberg thought that the new possibilities could decide the outcome of the war if the war dragged on.[23]
La pubblicazione del carteggio Bohr-Heisenberg aggiunge invece un tassello consistente al quadro della storia: a parte i documenti 2 e 3 che riguardano due bozze di una lettera di congratulazioni di Bohr ad Heisenberg per il suo sessantesimo compleanno e il documento 4 che è invece la risposta di ringraziamento per gli auguri di Heisenberg, le altre sono tutte lettere mai spedite scritte da Bohr in anni diversi, posteriori alla guerra, e indirizzate tutte al medesimo Heisenberg. Oltre alla bozza della lettera già citata di Bohr (documento 1) in risposta alla pubblicazione di un estratto di lettera di Heisenberg a Jungk nella edizione danese de Gli apprendisti stregoni, tutti gli altri abbozzi dimostrano che più di una volta a Bohr è stato chiesto di spiegare cosa sia accaduto veramente quando Heisenberg e Weizsäcker si recarono nella Danimarca occupata negli anni della guerra. E più di una volta Bohr ha tentato di scrivere al suo vecchio amico tedesco chiedendogli esplicitamente di fornire ulteriori chiarimenti, che non sarebbero mai coincisi con i suoi. Bohr sembra ricordare benissimo il memorabile incontro; Heisenberg lo ricorda egualmente bene ma in maniera estremamente divergente. I documenti, scritti da mani diverse (Aage Bohr, Margrethe Bohr e Jørgen Kalckar, l’assistente di Bohr) e con varie correzioni (tutte autografe del fisico danese), trattano del medesimo argomento:
[…] From many quarters I have been asked in particular about the arrangement for and the purpose of the visit by you and Weizsäcker to Copenhagen in 1941. This has been very difficult for me to answer since, as you know from our conversations after the war, I have a completely different perception of what took place during the visit than that you have expressed in your contribution to Jungk’s book. For us in Copenhagen, who found ourselves in such a difficult and dangerous position during the German occupation, the visit was an event that had to make a quite extraordinary impression on us all, and I therefore carefully noted every word uttered in our conversation, during which, constantly threatened as we were by the surveillance of the German police, I had to assume a very cautious position. I am thinking not only of the strong conviction that you and Weizsäcker expressed concerning German victory, which did not correspond to our hopes, but more of how, during the course of the war, your conviction had to become less strong and finally end with the certainty of Germany’s defeat. Therefore, it would not be incomprehensible if it were difficult for you to keep track of how, against the background of changing circumstances, statements on the part of the Germans changed from year to year. On the other hand, I remember quite clearly the impression it made on me when, at the beginning of the conversation, you told me without preparation that you were certain that the war, if it lasted long enough, would be decided with atomic weapons. I did not respond to this at all, but as you perhaps regarded this as an expression of doubt, you related how in the preceding years you had devoted yourself almost exclusively to the question and were quite certain that it could be done, but you gave no hint about efforts on the part of German scientists to prevent such a development. It is true that, during his visits to Copenhagen in 1943 on his journeys to Norway to participate in the efforts to increase the production of heavy water, Jensen did make hints in such a direction, but because of his own mission and the constantly growing rumors of new German weapons, I necessarily had to be very sceptical and extremely cautious in my ever more dangerous existence. It was only a few months later when, in order to avoid imminent arrest by the German police, I escaped to Sweden and arrived in England that I heard about the great preparations that were under way there and in the USA and how far they had come. [24]
[...]
[1] Intervista raccolta nel web da Briani Maya, Maria Rosa Menzio: Teatro e Scienza… e matematica, in “MaddMaths!”, 18 dicembre 2012, si veda http://maddmaths.simai.eu/persone/maria-rosa-menzio-teatro-e-scienza-e-matematica/.
[2] Zettin Virginia, Intervista a Gabriella Greison, quando la fisica diventa un’opera d’arte, in “Artwave”, 09 aprile 2018, si veda https://www.artwave.it/cultura/interviste/intervista-a-gabriella-greison-quando-la-fisica-diventa-unopera-darte/.
[3] Frayn Michael, Copenaghen, Sironi editore, Milano 2003, cit., p. 20.
[4] Pubblicazione originale in Germania di Verlag Scherz Alfred: Heller als tausend Sonnen. Das Schicksal der Atomforscher, Stuttgart 1956 e traduzione del 1958 di Cleugh James: Brighter than a Thousand Suns: A Personal History of the Atomic Scientists.
[5] La Bhagavadgītā (in sanscrito भगवद्गीता) “Canto del divino”, è la parte religiosa, nella versione vulgata, collocata nel VI parvan del poema epico indiano Mahābhārata. Consta di 700 versi divisi in 18 canti e narra i momenti che precedono la battaglia del Kurukshetra. In questa piana, eserciti di tutte le nazioni del mondo come gli Arya Land (Irlandesi), i Shinto (Cinesi), i Risha (Russi) e gli Skanda (Scandinavi) si schierano in due formazioni opposte: i Kurava e i Pandava, per iniziare una delle guerre più terrificanti che l’umanità avesse mai vissuto fino ad allora. Sri Krishna, l’eletto, signore della sorte dei mortali, ascolta le paure e le angosce che divampano dall’animo di Arjuna e gli dà le risposte per liberarsi dalle sue oppressioni. Il fisico Oppenheimer, studioso del sanscrito pervaso da un profondo senso spirituale, era soltanto un uomo con un immenso potere. Probabilmente non ascoltò la voce saggia di Krishna e lasciò che fosse la sua sete di potere a prevalere sul senso morale.
[6] Frayn M., Copenaghen, cit., p. 128.
[7] Seconda lettera di Heisenberg a Jungk, 18 gennaio 1957.
[8] Bozza di una lettera di Bohr ad Heisenberg mai spedita. Grafia dell’assistente di Niels Bohr, Aage Petersen. Non datata, ma scritta dopo la prima pubblicazione, nel 1957, della traduzione danese di Jungk, Heller als Tausend Sonnen, la prima edizione contenente la lettera di Heisenberg. In Documents relating to 1941 Bohr-Heisenberg meeting, Archivio di Niels Bohr, Copenaghen.
[9] Walker Mark, Physics and Propaganda: Werner Heisenberg's Foreign Lectures under National Socialism, in “Historical Studies in the Physical and Biological Sciences”, vol. 22, No. 2 (1992), cit., pp. 339-389.
[10] Ermenc Joseph J., Atomic Bomb Scientists: Memoirs, 1939-1945, CT & London: Meckler, Westport 1989, cit., p. 249.
[11] Bernstein Jeremy, Il club dell’uranio di Hitler. I fisici tedeschi nelle registrazioni segrete di Farm Hall, Sironi Editore, Milano 2005, cit., p. 117.
[12] Operation Epsilon, the Farm Hall Transcripts, con un’introduzione di Sir Charles Frank, Institute of Physics Publishing, Bristol 1993. Traduzione Italiana: Operazione Epsilon. Gli scienziati della Germania nazista e la bomba atomica, Selene, Milano 1994.
[13] L’uranio 235 è l’isotopo dell’uranio e venne scoperto nel 1935 dal fisico statunitense Arthur Jeffrey Dempster nell’ambito dell’ideazione del primo spettrometro di massa. È il solo isotopo fissile presente in natura (con un’abbondanza all’incirca dello 0,7%): ha, cioè, una elevata probabilità di subire la fissione se bombardato con neutroni termici e la sua fissione è accompagnata dall'emissione di un numero di neutroni sufficiente a sostenere una reazione a catena. Dato che l'238U ha una elevata probabilità di catturare neutroni, l'uranio naturale raramente può essere utilizzato in un reattore nucleare, se non in un'unità ad acqua pesante; affinché la reazione a catena rimanga al livello “critico” è dunque preferibile che venga utilizzato combustibile arricchito, ossia con una maggiore percentuale dell'isotopo di massa 235 rispetto all'uranio naturale. Little Boy venne infatti realizzata negli impianti dell'Oak Ridge National Laboratory in Tennessee, con uranio fortemente arricchito (80%) tramite il metodo della diffusione gassosa di esafluoruro di uranio (UF6) in modo marginale con altre tecniche.
[14] Bernstein J., Il club dell’uranio di Hitler. I fisici tedeschi nelle registrazioni segrete di Farm Hall, cit., p. 155.
[15] Ivi, p. 204.
[16] Speer Albert, Memorie del Terzo Reich, Orion Publishing Group, prima edizione 1969, cit., pp. 1221-1225.
[17] Frayn M., Copenaghen, cit., pp. 126-128.
[18] Intervista a Victor Weisskopf, Cambridge (MA), 23 ottobre 1991 in Powers Thomas, La storia segreta dell’atomica tedesca, Mondadori, Milano 1994, cit., p. 8.
[19] Cohen Eliot A., Heisenberg's War: The Secret History of the German Bomb, in “Foreign affairs”, settembre/ottobre 1994, si veda https://www.foreignaffairs.com/reviews/capsule-review/1994-09-01/heisenbergs-war-secret-history-german-bomb.
[20] Frayn M., Copenaghen, cit., p. 129.
[21] Frayn M., Copenaghen, cit., pp. 129-130.
[22] Rozental Stefan, Niels Bohr: His life and work as seen by his friends and colleagues, North-Holland Publishing Company, Amsterdam 1967, cit., p. 193.
[23] Nota di Aage Bohr al commento: In the book “Brighter than a Thousand Suns” by Robert Jungk it is asserted that the German physicists submitted a secret plan to my father, aimed at preventing the development of atomic weapons through a mutual agreement with colleagues in the allied countries. This account has no basis in the actual events, since there was no mention of any such plan either during Heisenberg’s visit, or during a later visit to Copenhagen – also mentioned by Jungk – of the German physicist Hans J.D. Jensen. On the contrary, the very scanty contact with the German physicists during the occupation contributed – as already mentioned – to strengthen the impression that the German authorities attributed great military importance to atomic energy.
[24] Documento 10, grafia di Margrethe Bohr. Non datato, ma scritto dopo che Bohr ricevette le ristampe della sua Rutherford Lecture il 15 marzo 1962.
- Quote paper
- Gloria Sahbani (Author), 2018, Teatro e scienza, il principio di sovrapposizione quantistico nella rappresentazione scenica, Munich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/496706
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