Il contributo analizza tre gruppi di composizioni composte da Gian Francesco Malipiero nel triennio 1920-1922. Queste composizioni, definite dall'autore «Nove Canzoni», sono messe in relazione con le più note Sette Canzoni, composte due anni prima. Viene affrontato un tema centralissimo nella poetica malipieriana, quello del mito del 'ritorno all'antico', nelle sue diverse declinazioni: il ricorrere della forma 'canzone', il tentativo di vivificare i modi antichi, l'amore per i poeti quatto-cinquecenteschi, la ricerca di una perfetta fusione di musica e parola, armonia e ritmo.
Cinque delle «Nove Canzoni» sono state scelte e sottoposte ad analisi poetico-musicale. L'analisi di ciascuna composizione viene condotta considerando cinque distinti aspetti:
la struttura formale, il confronto tra metrica testuale e ritmo musicale, l'inquadramento armonico, l'analisi motivica e il rapporto testo-musica.
Indice
Introduzione
Parte I Intorno a Malipiero
I.1 La critica malipieriana
I.2 Stilemi compositivi del primo Malipiero
I.3 Il “ritorno all’antico” di Malipiero
I.3.1 Parla Malipiero
I.3.2 La modalità in Malipiero
Parte II Le «nove canzoni»
II.1 La canzone in Malipiero
II.2 Le Sette canzoni: il precedente illustre
II.3 Tre poeti per nove canzoni
II.3.1 Angelo Poliziano
II.3.2 Tre Poesie di Angelo Poliziano
II.3.3 Il Burchiello
II.3.4 Quattro Sonetti del Burchiello
II.3.5 Francesco Berni
II.3.6 Due Sonetti del Berni
Parte III La “chimica” della canzone
III.1 Premessa
III.2 Criteri di analisi poetico-musicale
III.3 L ’ Eco
III.3.1 Descrizione generale della struttura formale
III.3.2 Confronto tra metrica testuale e ritmo musicale
III.3.3 Inquadramento armonico
III.3.4 Analisi motivica
III.3.5 Considerazioni sul rapporto tra testo e musica
III.4 Cacio stillato
III.4.1 Descrizione generale della struttura formale
III.4.2 Confronto tra metrica testuale e ritmo musicale
III.4.3 Inquadramento armonico
III.4.4 Analisi motivica
III.4.5 Considerazioni sul rapporto tra testo e musica
III.5 Va in mercato, Giorgin
III.5.1 Descrizione generale della struttura formale
III.5.2 Confronto tra metrica testuale e ritmo musicale
III.5.3 Inquadramento armonico
III.5.4 Analisi motivica
III.5.5 Considerazioni sul rapporto tra testo e musica
III.6 Sonetto alla sua donna
III.6.1 Descrizione generale della struttura formale
III.6.2 Confronto tra metrica testuale e ritmo musicale
III.6.3 Inquadramento armonico
III.6.4 Analisi motivica
III.6.5 Considerazioni sul rapporto tra testo e musica
Conclusioni
Bibliografia
Indice degli spartiti annotati
L ’ Eco
Cacio stillato
Va in mercato, Giorgin
Sonetto alla sua donna
Introduzione
Vorrei in questa introduzione cercare di dar ragione delle scelte da me operate sia per quanto attiene il compositore che la composizione; con la consapevolezza che sovente le ragioni razionali sono un qualcosa che si comprende a posteriori e che spesso segnano un impulso o, più nobilmente, un’intuizione.
Venendo alle ragioni oggettive, ciò che mi ha indotto a scegliere Malipiero è stato un insieme di considerazioni: in primo luogo senz’altro la curiosità verso un compositore da me conosciuto innanzitutto in qualità di protagonista di quella folle impresa che fu la pubblicazione di Tutte le opere di Claudio Monteverdi. Impresa da cui, come ha acutamente osservato Mario Messinis, traspariva «una specie di schizofrenico comportamento»:1 da una parte infatti Malipiero «faceva l’edizione secondo una modalità genericamente filologica», mentre sul piano dell’edizione pratica «ricomponeva del tutto i testi, li manometteva, alterava i libretti». Questo vanificava totalmente il suo neoclassicismo: «la sua appropriazione del passato era divorante».2 Proprio questo modo irrispettoso di appropriarsi del passato, così lontano da quello musicologico, necessariamente fin troppo rispettoso, mi attirava, accendendo la curiosità di verificare personalmente in che misura e in che termini l’amore e la frequentazione delle opere del passato potesse dar spunto alla definizione di uno stile compositivo originale, in un momento storico in cui era fortemente sentita l’esigenza di rifondare le basi della grammatica musicale. In questo senso è innegabile che Malipiero abbia saputo attingere al passato in maniera assolutamente creativa senza lasciarsi limitare da scrupoli filologici o da tentazioni di maniera.
Infine, ancora, il desiderio di approfondire la conoscenza della realtà italiana in un periodo storico dominato, nella mia percezione, dalle teorie ed esperienze sviluppatesi per lo più in altri paesi europei; considerate - certo non a torto - come più importanti per gli sviluppi della composizione negli anni a venire. Mi è sempre rimasta una certa curiosità per la fantomatica “Generazione dell’80”, spesso trattata, nei manuali di storia della musica, per sommi capi, già il solo nome trasmettendo un’ingannevole impressione di unitarietà.
Passando ora a considerare le ragioni che mi hanno spinto a scegliere le «nove canzoni»3, è necessario che io chiarisca subito di aver scelto di considerare come qualcosa di omogeneo e - conseguentemente - di aver definito unitariamente, tre distinte composizioni risalenti al periodo 1920-1922, sulla scorta dello stesso Malipiero:
Le tre poesie di Angelo Poliziano, i Quattro sonetti del Burchiello e i Due sonetti del Berni, sono «nove canzoni» che discendono direttamente dalle Sette canzoni. Musica e parola, armonia e ritmo, qui vanno insieme. Si manifesta una specie di processo chimico che appunto genera la canzone, la quale può assumere centomila aspetti: può diventare persino una sinfonia in molti tempi.4
È stata proprio questa breve nota di Malipiero ad accendere la mia curiosità e a orientarmi verso la scelta di queste composizioni; Infatti, più che una nota esplicativa, sembra essere una sorta di indovinello che impone di rispondere almeno alle domande seguenti:
in che termini le «nove canzoni» discenderebbero dalle ben più famose Sette canzoni ? Sul piano delle scelte poetiche? Delle tecniche compositive? Di un ipotetico ‘messaggio etico’? E poi, in che senso «musica e parola, armonia e ritmo, vanno qui insieme»? E l’ordine in cui sono elencati questi termini, è casuale o costituisce un’ordine di priorità? E qual è questo processo chimico che genererebbe la canzone? E ancora, cosa voleva intendere Malipiero con un termine così onnicomprensivo come “canzone”?
Con il presente lavoro cercherò di dare risposta a questi interrogativi, senza dimenticare che spesso seguendo delle piste si finisce per trovarne altre, magari più feconde, magari semplicemente più congeniali.
La scelta di questo corpus ha avuto anche delle ragioni di ordine pratico: il fatto che siano canzoni scritte per una sola linea di canto e pianoforte ha sicuramente fatto inclinare la bilancia dalla loro parte; infatti sono molti anni che studio canto e mi interesso alle possibilità espressive (e non solo) della voce. Questo è quindi un organico che mi è familiare, che posso cantare e sentire attivamente e non solo fruire con l’ascolto; inoltre è proprio il repertorio di arie antiche per voce sola e accompagnamento che, grazie alle sue trascrizioni, mi ha avvicinato a Malipiero, oltre ad essere un repertorio che più volte ho avuto occasione di analizzare e frequentare in passato.5 L’altra ragione di ordine pratico è che spesso composizioni scritte per un organico così essenziale finiscono per rivelarsi come una sorta di condensato delle tecniche di un compositore che in casi come questo mette normalmente in gioco poco materiale facendolo fruttare al massimo.
A queste composizioni non mi risulta sia mai stato dedicato uno studio specifico, il che è abbastanza strano poiché sono così vicine temporalmente alle ben più famose - e studiate - Sette canzoni. Auspico che la conoscenza delle «nove canzoni» possa essere di qualche utilità anche agli studi sulle più note ‘sorelle’ e che al pari di quest’ultime possano anch’esse infine godere dei favori degli esecutori e del pubblico.
Vorrei ringraziare Il Dott. Morelli, direttore dell’Istituto per la Musica della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, per avermi fornito la riproduzione di una copia dello spartito delle Tre Poesie di Angelo Poliziano; il Prof. Umberto D'Arpa, responsabile della Biblioteca del Conservatorio di Musica di Vicenza, per avermi fornito la riproduzione dei Quattro Sonetti del Burchiello e dei Due Sonetti del Berni; il Dott. Catelli della Discoteca di Stato per avermi inviato la riproduzione audio dell’unica incisione (parziale) che io abbia trovato delle «nove canzoni», ovvero quella delle Tre Poesie di Angelo Poliziano contenuta in un LP a 33 giri dal titolo: "Splendori della Vocalità Italiana - Il '900", Roma, RCA, 1950-1960. Ringrazio inoltre il compositore e didatta della musica Emiliano Turazzi per i preziosi consigli dati e le critiche costruttive proposte in sede di analisi poetico-musicale. Ringrazio infine la mia famiglia (nucleare e allargata) per la pazienza e la disponibilità dimostrate nel corso della stesura di questa tesi.
Parte I La critica malipieriana
Nell]a storia della critica malipieriana ci sono dei momenti precisi, legati a una pubblicazione o un evento, che marcano delle periodizzazioni. Il primo periodo, che è stato definito della «critica storica»,6 è quello legato alla silloge dedicata a Malipiero nel 1952, curata da lui stesso e da Gino Scarpa.7 Una sorta di antologia degli scritti più importanti pubblicati fino a quel momento sia in Italia che all’estero insieme a un catalogo delle opere annotato dall’autore stesso e a una sua raccolta di ricordi e pensieri. Rappresenta di fatto un volume celebrativo che raccoglie principalmente i contributi di una critica militante vicina al compositore. Molte delle chiavi di lettura classiche sul suo linguaggio, diventate in seguito delle sorte di leitmotiv critici, sono state fissate in questi scritti.8 Il volume si caratterizza per un tono fondamentalmente descrittivo; i contributi cercano di spiegare in sostanza il “come” dello stile malipieriano, con l’eccezione del fondamentale contributo di Fedele d’Amico: Ragioni umane del primo Malipiero. Il secondo periodo è senz’altro segnato dal Convegno di Studi malipieriani promosso dalla Fondazione Giorgio Cini a Venezia, il 29 e 30 maggio 1972, i cui atti furono pubblicati ben cinque anni dopo presso l’editore Olschki, col titolo Omaggio a Malipiero, a cura di Mario Messinis. Malipiero, allora novantenne, non partecipò al convegno anche se, nelle parole di Messinis stesso, «‘presenziava’ agli incontri idealmente [...] da una stanza dell’Albergo Danieli, di fronte a San Giorgio, dove era alloggiato».9 In questo convegno sembra prevalere l’esigenza di comprendere il “perché” dello stile del compositore, le ragioni - storiche, psicologiche, poetiche - di un certo modo di comporre.
Dieci anni dopo furono organizzati altri due convegni, in occasione del centenario della nascita del compositore, che segnano un’ulteriore tappa nell’evoluzione della critica malipieriana. Il primo, sempre legato alla Fondazione Giorgio Cini, svoltosi tra Venezia e Asolo dal 24 al 25 settembre 198210 e, come dichiarato dagli stessi organizzatori, «in famiglia», ovvero con poca risonanza e tra pochi intimi11 e il secondo, dal titolo F. Malipiero e le nuove forme della musica europea, promosso dalla rivista Musica/Realtà, a Reggio Emilia dal 5 al 7 ottobre 1982.12 Questo convegno, sentito come il “vero” convegno,13 è programmaticamente rivolto a indagare l’aspetto formale e a collocare Malipiero nel contesto storico e culturale del novecento musicale.
Sempre negli anni ottanta, in occasione del ricorrere dei cento anni dalla nascita della storica “Generazione dell’80”, fu organizzato il convegno Musica italiana del primo novecento "La generazione dell'80", svoltosi a Firenze il 9-10-11 maggio 1980,14 dedicata a tematiche come: il sorgere della musicologia come disciplina autonoma e la posizione di compositori/editori come Malipiero nei suoi confronti, il fenomeno dei festival musicali organizzati in Italia tra le due guerre, il centralissimo tema del ‘mito’ della tradizione musicale italiana. Il convegno ospitava inoltre un contributo di Luigi Pestalozza dedicato alle Sette canzoni di Malipiero. Sempre alla musica italiana del primo novecento sono stati dedicati altri saggi importanti quali Musica e musicisti nel ventennio fascista del 198415 e il più recente Italian music during the Fascist period,16 nei quali Malipiero è ampiamente preso in considerazione.
Quelli dell’82 furono gli ultimi convegni organizzati specificamente su Malipiero; da quel momento in poi non si può più parlare di periodizzazioni specifiche della critica. Seguirono, nel corso degli anni, diverse pubblicazioni dedicate a questo o a quell’aspetto della sua produzione, tra cui la monumentale raccolta di tutti i teste delle sue opere teatrali, curato da Marzio Pieri e pubblicato nel 1992,17 o la pubblicazione dei suoi numerosi carteggi, come ad esempio quello con Guido M. Gatti,18 o quello con Bontempelli.19
Nel 1990, anche se la redazione risale almeno a cinque anni prima, viene pubblicata la monografia dedicata a Malipiero: La musica di Gian Francesco Malipiero, del musicologo inglese John C. G. Waterhouse,20 che contiene, tra l’altro, il Catalogo (e indice) delle musiche di Malipiero e dei suoi libri. Il catalogo è quanto di più vicino si possa sperare a una bibliografia completa delle opere di Malipiero anche se, per ammissione stessa di Waterhouse, non sembrava opportuno cercare di includervi anche l’enorme mole di scritti (articoli, saggi, scritti polemici, storici, di critica musicale, auto-esegetici, biografici e molto altro ancora) apparsi nel corso della sua lunga carriera su periodici, quotidiani, riviste musicali.
Dieci anni dopo, ancora a cura della fondazione Cini, in occasione del ventennale della scomparsa dei due compositori, esce il volume Malipiero- Maderna (1973-1993) in cui prevale soprattutto l’interesse per il Malipiero “ultima maniera”.21 Questo saggio si apre con un prezioso contributo22 in cui Mario Messinis ripercorre brevemente le tappe dell’esegesi malipieriana, molto ricca sul piano del profilo generale, per approdare rapidamente a descrivere i nuovi interessi della recente critica e gli argomenti che aspettano di essere ulteriormente approfonditi.23 Tra i nuovi argomenti, l’interesse per il Malipiero scrittore e la relazione tra questo e il compositore; la ricerca condotta sugli abbozzi di testi musicali e di testi letterari per musica. Tra gli interessi da approfondire, il tema del cosiddetto neoclassicismo malipieriano, «che sul piano dell’indagine dei testi in genere si vanifica continuamente, cioè è un atteggiamento ‘mentale’ del Maestro che non ritrova dei riscontri specifici»;24 o ancora il suo rapporto con il settecento musicale. Vi sono poi degli argomenti finora quasi completamente evitati come, ad esempio, quello del rapporto del linguaggio di Malipiero con quello di Puccini. Messinis chiude con l’auspicio che un altro tema venga affrontato in prospettiva: quello della «cosiddetta ‘evoluzione’ malipieriana»;25 rifiutando l’usuale tripartizione stilistica,26 conclude con una affermazione che trovo sintetizzi molto lucidamente la sostanza del linguaggio compositivo di Malipiero:
Secondo me, le varianti di stile, di linguaggio - se si pensa che l’itinerario creativo di Malipiero è lungo, dura quasi settant’anni -, nell’Opera completa di Malipiero sono minime: Malipiero è uno degli autori che più si oppone all’idea di progressivismo musicale, cara agli esegeti della Nuova Musica. Io trovo che Malipiero riproduce continuamente se stesso con piccole ‘variazioni’, ma non ci sono, nella sua opera veramente modificazioni, diciamo radicali, del suo linguaggio.27
Mi sembra importante infine ricordare l‘articolo di Adriana Guarnieri Corazzol Gian Francesco Malipiero: il nuovo, anzi l ’ antico,28 anch’esso incentrato su una rilettura della critica malipieriana che mette in luce un altro aspetto importante finora ancora poco rilevato. La studiosa riesamina la posizione della «critica storica», che definisce «militante in direzione del moderno», e vi enuclea alcune caratteristiche: interpretazione delle caratteristiche del “nuovo” in Malipiero nei termini di “stile personale” ed esplicitazione del rapporto del compositore con l’antico come componente di modernità. Ad essa Guarnieri Corazzol contrappone la critica posteriore, che fa iniziare grossomodo con la pubblicazione di Omaggio a Malipiero, che in virtù del distacco cronologico ha potuto riconsiderare quegli stessi caratteri del suo linguaggio secondo un’ottica di segno quasi opposto. Non interessa più cogliere quanto di personale e originale c’è nel suo linguaggio musicale quanto piuttosto di vedere in esso l’espressione di un musicista calato nel suo tempo e non esente dai più vari influssi legati alle correnti culturali contemporanee e anche il suo rapporto con l’antico viene analizzato in una più ampia visione volta a riallacciarlo ad altri primitivismi o a confrontarlo con quello espresso da altri musicisti o letterati.
I.2 Stilemi compositivi del primo Malipiero
Vorrei adesso rivolgermi alla letteratura critica su Malipiero per cercare di definire i contorni del suo stile compositivo, in particolare per il periodo intorno agli anni ’20. Ciò è utile per poter confrontare quanto emergerà dall’analisi delle «canzoni» con quanto osservato da altri studiosi rispetto a composizioni affini o semplicemente vicine cronologicamente, metterne in luce gli elementi di continuità e quelli di novità, conformare o comunque confrontare la terminologia con quella che ricorre maggiormente negli studi suddetti.
La silloge L ’ Opera di Gian Francesco Malipiero,29 che raccoglie saggi di scrittori italiani e stranieri che vanno dal 1920 al 1952, è senz’altro il punto di partenza idoneo per una ricognizione di questo genere poiché in alcuni saggi fondamentali in essa contenuti vengono poste alcune categorie analitiche con cui la futura critica non potrà non fare i conti. In particolare vengono coniate quelle definizioni, ben presto divenute storiche, che bene o male sono sopravvissute - tra revisioni, ripudi o conferme - fino ad oggi.
Intanto, viene subito definita una partizione stilistica tra una “prima maniera” ed una “seconda maniera”. Sull’estensione della prima l’accordo non è unanime, per D’Amico sarebbe da collocare non oltre il 1929, anno della composizione di Torneo notturno, mentre Bontempelli la sposterebbe un po’ più in là, fino al 1932. La critica posteriore, di lì a poco, data la longevità anche compositiva di Malipiero identificherà una “terza maniera”, considerata per molti aspetti autoreferenziale e retrospettiva.30
Henri Prunières descrive Malipiero in maniera immaginifica e molto poetica, definendolo “un uomo del seicento”, dall’immaginazione bizzarra e fantastica e dalla prodigiosa facilità di scrittura; nato e allevato in un ambiente in cui la musica era protagonista, e segnato da una giovinezza errante e rattristata da eventi drammatici.31 Focalizzandosi sulla sua produzione, Prunières identifica, a partire da Pause del silenzio, del 1918, un processo che diventerà una sorta di cifra stilistica del compositore e che sarà richiamato di continuo dalla critica: il rifiuto dell’elaborazione tematica di tipo sonatistico e l’utilizzo in sua vece di un procedere in cui i temi «non cessano di nascere e di morire in uno sgorgare continuo di idee».32 L’«arte» in questo caso non consisterebbe dunque nella loro trasformazione ma piuttosto nel modo in cui si presentano e si concatenano, riuscendo comunque a trasmettere un senso di unità della composizione.33
Massimo Bontempelli, ne Il cammino di Malipiero,34 definisce Malipiero come uno di quei pochi che dopo aver partecipato alle avanguardie sia riuscito ad «uscirne senza tornare indietro»,35 e che dopo esser scampato anche alle tentazioni dell’estetismo legato all’atmosfera dannunziana, avrebbe infine trovato nel gregoriano e in Monteverdi «il motivo e lo strumento della propria salvazione».36
Cercando di definire il linguaggio compositivo che emerge a partire dalle Impressioni dal vero, afferma poi che Malipiero «non procedette per crisi, conversioni, improvvise scoperte», ma «operò per un processo di semplificazione, graduale e continuo» fino a formulare quello che per lui rappresenta il vero nucleo della sua espressività: «il discorso musicale come continuità senza ritorni. Ne deriva a quelle pianure monocrome un senso d’implacabile, accompagnato da un sotterraneo murmure di malinconia».37 La continuità del discorso musicale deriverebbe alla musica di Malipiero un «senso d’implacabile», una «ossessione della continuità», l’incapacità di tollerare delle soste quasi che «la menoma pausa sia la morte».38 Bontempelli fu anche tra i primi a parlare, in relazione alle composizioni della sua prima maniera, di «discorso polifonico continuato» che avrebbe ripreso «in atmosfera monteverdiana, soprattutto dall’ideale gregoriano».39 L’aspetto della continuità e implacabilità del suo discorso musicale è confermato da Guido Maggiorino Gatti, Una lezione di Malipiero (1937),40 che così ne descrive la poetica:
La poetica di Malipiero è fatta di queste improvvise illuminazioni, di questi rapidi scorci, di queste geniali sintesi: non conosce preamboli, preparazioni, sviluppi e ricapitolazioni, è tutta verbo e succo, cioè creazione senza residuo di materia inerte. Malipiero non conosce l’arte del conversatore (o del conferenziere ch’è poi la stessa cosa) perché non sa intercalare i suoi pensieri con quelle pause, in cui si parla e non si dice nulla. E l’arte sua non è arte facile, appunto per questa mancanza di «riposi» del pensiero, che son quelli che danno tregua all’intelligenza e alle sensibilità dell’ascoltatore.41
Il critico tedesco Hans Heinz Stuckenschmidt, nel suo saggio Le opere per teatro di G.F. Malipiero (1934), ne descrive il linguaggio musicale enumerando una serie di caratteristiche di cui alcune si prestano molto bene a descrivere le «nove canzoni». Tra queste: una monodia con carattere salmodiante, flessibile e vagamente imparentata con la canzone popolare, che «si afferma attraverso molte metamorfosi» e non esce quasi mai dai confini della scala diatonica; spesso costruita solo sul pentacordo e a cui il cromatismo è totalmente estraneo.42 Dal punto di vista formale domina la simmetria ottenuta con la ripetizione di brevi motivi, di libere imitazioni a canone, da ostinati che diventano quasi un pedale. La ritmica è inquieta, modellata sul “tempo rubato” dei recitativi; è questa che dà alla melodia la caratteristica essenza salmodiante ottenuta con un continuo passare dal tempo ternario a quello binario che anche all’interno della stessa battuta alterna terzine, quintine e metri normali. Tutto ciò dà alla linea cantabile una certa snellezza ma può anche provocare, se la composizione non è ben eseguita, anarchia ritmica e un effetto di monotonia.43
Fedele D’Amico in Ragioni umane del primo Malipiero 44 lamenta il fatto che la critica si sia incentrata solo sull’indagine linguistica senza chiedersi quali fossero le ragioni profonde di tali scelte operate nel linguaggio: «Per quale ragione interiore Malipiero abbandonava la dialettica romantica? E una volta constatato il suo riallacciarsi agli antichi italiani, in quali termini, e soprattutto da quali necessità sorgeva questo ricorso alla tradizione?».45 Il «ripudio della dialettica sinfonica sviluppativa», considerava D’Amico, non era certo un fatto nuovo ma anzi una delle caratteristiche di molta musica moderna. Cos’era allora a renderlo originale in Malipiero? Innanzitutto l’aver innestato il suo impianto “a pannelli” ossia per elementari contrasti in ambito teatrale, operazione che ne svela le ragioni extra-musicali. E queste ragioni risiederebbero innanzitutto in un profondo pessimismo «sul valore demiurgico dell’uomo europeo all’uscita dal romanticismo: la scoperta improvvisa della vacuità d’ogni sistemazione intellettuale del destino umano» e quindi il rifiuto dell’elaborazione tematica equivale alla «sazietà di ogni elaborazione morale»; il rifiuto dello sviluppo rispecchierebbe un parallelo rifiuto di ogni vano ideale progressista.46 La posizione di Malipiero, in questa situazione di «tragica angoscia», non si risolverebbe però in una evasione quanto piuttosto nella «ostinazione eroica di guardare fino in fondo questa situazione e di farne materia tragica».47 Nel suo dramma rimangono solo i moti elementari dell’esistenza, «ridotti a fissi dualismi», senza nessuna possibilità di progredire: la vita e la morte, l’amore e l’odio, la gioia e la disperazione.48 Poiché la realtà non si poteva che ricondurre al secondo polo di questo dualismo, il primo polo viene proiettato nella sfera del mito; ed è proprio questo il senso profondo del suo volgersi verso la musica del passato. La passione di Malipiero per quel mitico mondo sonoro è una «necessità sentimentale [...] il ritrovamento di un Eden».49 Sul pessimismo di Malipiero sono tornati più volte studiosi di vari orientamenti; si pensi ad esempio a Luigi Pestalozza che, coerentemente con la sua impostazione di derivazione marxista, lo interpreta nei termini di orrore verso il mondo borghese, verso la civiltà moderna;50 o a Massimo Mila, che tiene a sottolinearne piuttosto la natura assoluta, “biblica”.51
Ancora, della silloge del ’52, è opportuno ricordare il contributo di Alfredo Casella sul linguaggio armonico di Malipiero.52 Casella ne sottolinea in quella sede il carattere di originalità ed indipendenza da alcune delle più note espressioni della musica europea negli anni intono al 1910-15. Tale carattere risiederebbe non tanto nell’allargamento del senso tonale ottenuto grazie al ricorso ai modi antichi, che non era certo nuovo, quanto piuttosto alla «nuova atmosfera tonale» prodotta dai «continui contrasti ed urti fra modalità» e dalle «gravitazioni tonali divergenti», che determina appunto quella «incertezza tonale» e quella «instabilità modale» che ne costituiscono appunto l’elemento di novità.53 Altre caratteristiche importanti secondo Casella: l’uso frequente di accordi costruiti per quarte sovrapposte e l’aver evitato sempre l’uso della «poverissima e sciatta scala per toni interi, per quanto quella costituisse un vero pericolo universale al principio di questo secolo».54
Ecco delineati già molti degli aspetti che caratterizzano il linguaggio e la poetica della cosiddetta prima maniera di Malipiero: il rifiuto dello sviluppo tematico e della struttura sonatistica, la continuità e implacabilità del suo discorso musicale, il pessimismo radicale, un melodizzare di carattere salmodiante e vagamente popolareggiante, lo scarso utilizzo del cromatismo, l’impiego di una tonalità allargata grazie agli innesti modali. Ad essi si potrebbe aggiungere «il suo continuo divagare da un punto d’arrivo della cui inesistenza diventiamo poco a poco consapevoli, si che l’attivismo melodico e ritmico finisce per dare l’impressione di un disperato brancolare nel buio».55 Questa sensazione viene ulteriormente accentuata dal frequente ricorrere di ostinati che trasmettono l’impressione di un «bloccarsi del discorso in una spirale senza vie d’uscita».56 O ancora si potrebbe ricordare il suo uso del diatonismo, «elemento strutturale di una libertà linguistica che non nega la tonalità ma nemmeno la ripropone, semplicemente ne estingue il potere di generazione discorsiva».57
A quegli aspetti del linguaggio musicale di Malipiero derivati dalla suo rapporto con la musica del passato - quali ad esempio l’eco gregoriano presente nelle sue melodie, la scrittura fondamentalmente contrappuntistica, l’uso di scale che ricordano i modi antichi - verrà dedicato un capitolo a parte per l’importanza che rivestono nella poetica di Malipiero. Inoltre, una chiara comprensione del suo “tornare all’antico”, mi è sembrata necessaria per procedere correttamente nell’analisi poetico-musicale.
I.3 Il “ritorno all’antico” di Malipiero
Francesco Degrada, in un suo fondamentale contributo sull’argomento risalente agli anni ’70,58 sottolineava quanto il rapporto di Malipiero con la tradizione musicale italiana sia stato fondamentale per la formazione e lo sviluppo della sua poetica; e ricordava che recuperare e valorizzare il passato musicale fosse uno degli obiettivi principali della «missione storica»59 della “Generazione dell’80”. Obiettivo: fornire alla musica italiana una «patente di nobiltà culturale già negata al melodramma nazional-popolare romantico»60 e mostrare agli altri paesi europei che già da tempo avevano operato il recupero e la valorizzazione dei monumenti del proprio passato culturale e segnatamente musicale che l’Italia poteva vantare tradizioni non meno prestigiose. L’opera di recupero del passato musicale si attuava, per i compositori militanti, su un doppio fronte: da un lato quello “musicologico” e dall’altro quello della composizione. Dal lato musicologico si facevano essi stessi editori, revisori e diffusori dei monumenti musicali ritrovati, spesso in feroce polemica con i musicologi ufficiali, tacciati di antimusicalità, e incapacità di saper individuare, e quindi adeguatamente valorizzare, le composizioni frutto di autentico ‘genio’ musicale.61 Dal lato della composizione musicale, per Malipiero significava ripartire dalla basi ‘sane’ di quel passato per costruire un linguaggio attuale. E ritrovare tali basi significava risalire indietro almeno fino alla prima metà del settecento, ovvero a un repertorio precedente al belcantismo dell’opera in musica e ancora immune dall’aborrito procedimento dell’elaborazione tematica. La tradizione musicale italiana rappresenta per Malipiero più che altro un’idea, o meglio, nell’acuta definizione di Degrada, un «ideale metastorico che rivive o può essere fatto rivivere solo nell’incanto della memoria».62 Essa è dunque «essenzialmente un simbolo lirico e un punto di riferimento stilistico attivo sul piano di una poetica in costante rapporto con le più vive espressioni del pensiero musicale nel ‘900».63 È quindi forte in Malipiero la consapevolezza della necessità di uno iato tra «esperienza compositiva contemporanea e coscienza storica»,64 ed è proprio questa consapevolezza e di conseguenza la sua tecnica compositiva che lo rende immune da tentazioni neoclassiciste, come giustamente fa osservare Pestalozza.65 Per Adriana Guarnieri Corazzol, il rapporto che Malipiero ha con “l’antico” sarebbe da ricondurre alla forte influenza che ebbe, soprattutto nella sua prima maniera, il gusto decadente dall’amore per la “bellezza contaminata” da cui deriva «il senso della corruzione quale tragedia di una bellezza irrecuperabile contaminata dal tempo».66 Esso sarebbe all’origine dell’insistenza sul tema della contemplazione della morte presente nelle sue prime opere (Sinfonie del silenzio e della morte 1909-1910, Notte dei morti), contemplazione che farebbe tutt’uno con «la contemplazione di un’antica rinascenza italiana “corrotta”, guastata dall’evoluzione del linguaggio musicale».67 Da qui deriverebbe il nucleo della sua prima poetica e anche il senso dell’antistoricismo che emerge dai suoi scritti e che è funzionale alla sua pratica compositiva. Nella sua pratica di “esumazione dell’antico”, come si diceva all’epoca, Malipiero ha un sicuro punto di riferimento anche in D’Annunzio, nella sua rivalutazione della musica in generale e nella riscoperta del passato musicale italiano in particolare: il Monteverdi dell’Arianna è evocato nel Fuoco (1900) e lo Scarlatti delle sonate nella Leda senza cigno (1916).68 Date queste premesse non stupisce il fatto che il modo in cui Malipiero si rivolge alla musica del passato sia assolutamente istintivo, irrazionale, antistorico e legato a motivazioni di carattere esistenziale. “Medianico” come lui stesso ebbe a definirlo. E questa sua ricerca lo condusse al fatidico incontro con Monteverdi e di lì a ritroso con i maestri della polifonia rinascimentale da lui additata come modello ideale del nostro passato musicale.69 Quanto detto fin qui è coerente con la lettura in chiave pessimistica proposta da D’Amico. Secondo questa, lo ricordiamo a grandi linee, nella poetica di Malipiero la tragicità dell’esistenza viene rappresentata utilizzando «i soli moti assolutamente elementari dell’esistenza, ridotti a fissi dualismi»:70 l’uno identificato col male, la tristezza e la morte a cui Malipiero associa il presente e la sua realtà storica anche musicale; l’altro, identificato col bene, la gioia e la vita che non può che essere proiettato nella sfera dell’irreale e del mito. Malipiero persegue il miraggio di questa felicità rivolgendosi a un passato, soprattutto musicale, che, coerentemente con le premesse, non potrà che appartenere esso stesso alla sfera del mito. Sarà di necessità tenuto a sottrarsi ad un’indagine che, storicizzandolo, finisca per privarlo della sua preziosa alterità. Sul piano musicale questo passato viene identificato da Malipiero con una mitica età dell’oro pre-tonale o addirittura pre-temperata; un’eden in cui lo spontaneo sgorgare dell’invenzione musicale sarebbe stato libero dai triti e ritriti procedimenti compositivi dell’abusato sistema tonale. Questa idealizzazione della musica del passato emerge in maniera netta in tutti i suoi scritti. Ma quanto era reale, al di là della visione, al di là dell’idea, la conoscenza che Malipiero aveva della musica del passato? Quanto approfondita era la sua conoscenza della modalità antica, del gregoriano, della polifonia? Secondo Nino Pirrotta,71 Malipiero non aveva una reale conoscenza dei modi antichi; per lui, come per altri, la modalità era intesa principalmente nel senso di attenuazione della tonalità.72 I modi sembrano rappresentare per lui più che altro una possibilità alternativa di organizzazione delle altezze. Testimonierebbe di questo approccio un passo riguardante il progetto di istituire un istituto di studi monteverdiani: «Le basi per il funzionamento di questa scuola [...] devono essere anzitutto la conoscenza e la padronanza dei modi, cioè delle tonalità antiche e gregoriane [...]».73 Come si può osservare, il concetto di modalità e quello di tonalità vengono a sovrapporsi, perdendo il primo, appunto, quella complessità, quella valenza che solo una sua conoscenza storicizzata può permettere. Anche rispetto alla conoscenza della polifonia rinascimentale Pirrotta esprime i propri dubbi. Questa infatti negli scritti di Malipiero sembra più che altro assumere i contorni di una «vaga entità storica», «un’arte squisita» in cui l’intreccio delle linee melodiche gregoriane avrebbe creato e guidato l’armonia.74 Sembra interessargli più che altro come principio ispiratore e come strumento per la polemica antitonale e contro il temperamento. Se consideriamo le edizioni musicali da lui promosse o curate possiamo effettivamente osservare che, messo a parte Monteverdi, è ben più il settecento strumentale o, al limite, quello delle cantate a voce sola a dominare la scena piuttosto che il repertorio polifonico o madrigalistico.75 Il riferimento al gregoriano sembra essere anch’esso ideale, idealistico, piuttosto che tecnicamente concreto. Come suggerito ancora da Pirrotta, è probabile che le sue nozioni di gregoriano non andassero oltre i rudimenti appresi al liceo musicale Benedetto Marcello da Gian Giuseppe Bernardi o da Marco Enrico Bossi.76 Pirrotta riporta a mo’ di esempio un passo tratto da Del contrappunto e della composizione,77 segnalando, con la consueta limpidezza, il fatto che Malipiero finisca per attribuire alla melodia gregoriana la capacità di generare armonie anziché, più correttamente, quella di poterle tollerare.78 Anche sulla conoscenza che Malipiero aveva dei teorici musicali cinque-seicenteschi, Pirrotta solleva alcune perplessità, soprattutto per il giudizio negativo espresso nell’ Armonioso labirinto su teorici del calibro di Zarlino, Zacconi o padre Martini: da autodidatta gli mancarono forse gli strumenti per padroneggiare realmente la materia, o più probabilmente, trovò gli scritti troppo astratti e inutili a supportare la sua polemica in favore del contrappunto e del sistema modale.79
I.3.1 Parla Malipiero
Rivolgiamoci adesso a quanto scritto da Malipiero stesso sulla musica antica. Particolarmente interessanti si rivelano essere due contributi già menzionati: L ’ armonioso labirinto e Del contrappunto e della composizione. Come si è già accennato, il primo rappresenta una sorta di antologia di scritti dei teorici musicali rinascimentali e primo seicenteschi, con una coda sugli «ultimi contrappuntisti», in particolare Padre Martini. Il secondo espone alcune proposte di riforma della didattica musicale avanzate alla Commissione per l’autarchia dell’insegnamento musicale.80 Anche altri scritti di Malipiero contengono informazioni utili per comprendere il suo rapporto con la musica del passato e per cercare di ricostruire la sua formazione musicale anche e soprattutto in questo ambito. Con l’avvertenza però, soprattutto nei confronti dei suoi scritti autobiografici, di prendere le sue affermazioni con una certa riserva. Questo a causa della ben nota tendenza di Malipiero a fare dell’auto agiografia, a costruire un’immagine di sé da tramandare ai posteri, dell’abitudine di retrodatare conquiste e opinioni, di esagerare fatti, di rileggere, senz’altro anche involontariamente, il passato con gli occhi del presente e a deformarne a volte i fatti e le opinioni.81
Scorrendo le pagine dell’ Armonioso labirinto, nonostante l’evidente sforzo di trovare qualcosa che accenda il suo interesse, emerge la noia e il fastidio per l’astrattezza e lo stile prolisso dei teorici rinascimentali che lascia il posto, a tratti, al tono di polemica e di sufficienza che ha caratterizzato da sempre il dialogo mancato tra il musico pratico e il musico teorico. Malipiero apprezza in particolare quei passi che gli permettono di mostrare la subordinazione dell’armonia nei confronti del contrappunto, che commenta con evidente soddisfazione: «Come tutti i teorici, il Vicentino si sforza a domare la linea orizzontale in modo che più linee perfette si sovrappongano come pietra su pietra, armoniosamente. L’armonia nasce, si nutre del migliore contrappunto».82 Si può notare inoltre che Malipiero apprezza molto anche quei passaggi dei teorici che parlano della difficoltà di intonazione tra gli strumenti ad accordatura fissa e gli altri strumenti e le voci, in particolare laddove emerge che il sistema temperato veniva sentito come qualcosa di artificiale e difficilmente conciliabile con la voce, come ad esempio in questo passo di commento a Zarlino:
Come già detto tutti questi esperimenti [sulle accordature degli strumenti ad accordatura fissa] si appoggiano sul calcolo, privo però di un controllo scientificamente preciso e che dimostra come la intonazione dipenda dal sentimento di chi canta o suona e che gli istrumenti artificiali sono soltanto un ostacolo, superabile, ma ostacolo.83
La ragione della sua ammirazione verso il sistema pre-temperato, al di là dell’aspetto idealizzante, si può forse scorgere in questa citazione, dove è evidente l’attribuzione, all’intonazione naturale, di grandi potenzialità:
Invece un Palestrina ascoltandosi non si riconoscerebbe perché appunto sino alla fine del XVII secolo l’intonazione era incerta e in conflitto con quella degli strumenti. Questa incertezza ed imprecisione davano alla musica una maggiore espressione, e favorivano l’estro in un modo che oggi non possiamo immaginare.84
Malipiero mostra un atteggiamento fortemente ambivalente nei confronti della monodia accompagnata. Da un lato afferma che «la monodia resuscitata dalla camerata fiorentina non segnò un autentico progresso, anzi fu l’inizio della decadenza musicale in Italia»85 o ancora che, «l’Artusi si era reso conto che il genio di Claudio Monteverdi avrebbe distrutto una tradizione, la meravigliosa tradizione della polifonia vocale italiana» poiché da alcuni dei suoi madrigali già si indovinava che «lentamente sorgeva la monodia e quello spirito di improvvisazione che poi ha totalmente deformato il gusto musicale».86 Dall’altro, basta guardare il catalogo delle sue opere per non avere un dubbio sul fatto che fosse fortemente attratto dal dramma musicale. Inoltre, quando si mise sulle tracce di Monteverdi, lo fece dopo aver trovato un accenno all’opera Arianna fatta da D’Annunzio nel Fuoco (1900) e anche la prima testimonianza della sua frequentazione degli archivi della biblioteca Marciana è quella della richiesta, datata 28 agosto 1902, de L ’ Incoronazione di Poppea.87 In questo caso, come in altri, la posizione del Malipiero saggista e quella del Malipiero compositore non coincidono.88
Passiamo ora all’altro saggio menzionato, Del contrappunto e della composizione, in cui, in sostanza, al canto gregoriano viene attribuita l’origine di tutta la musica occidentale e viene proposto come strumento principale per la formazione dei giovani musicisti, da riattualizzare e inserire nei programmi scolastici al posto del “dannoso” solfeggio. Tenendo conto dell’originaria destinazione dello scritto, ovvero una commissione ministeriale d’epoca fascista, non stupirà l’ampollosità del tono e la retorica nazionalista. Prescindendo da questi, veniamo ora ai contenuti. Lo studio del gregoriano offrirebbe non solo «una grande varietà di “toni”, che sottintendono pure una considerevole varietà di armonie, armonie immaginarie», ma permetterebbe anche di sperimentare «ritmi diversissimi»,89 elemento questo di estremo interesse per quanto riguarda l’oggetto di questa tesi ossia le «nove canzoni» e su cui torneremo. L’armonia non andrebbe studiata prima del contrappunto e lo stesso contrappunto obbligato non sarebbe che un’aberrazione alla quale solo alcuni sopravvivono, in senso musicale, rinnegandola.90 Insomma, per Malipiero «la vera evoluzione si produrrà automaticamente se recupereremo il nostro grande e indubbiamente non perduto senso del contrappunto» poiché l’armonia, la buona armonia, non è che la conseguenza di un moto delle parti che privilegi il mantenimento dell’espressività di ciascuna voce.91
È interessante osservare il tono molto diverso che Malipiero usa quando parla dei teorici rinascimentali nell’ Armonioso labirinto e nell’articolo Del contrappunto e della composizione. Nel primo emerge molto chiara una fondamentale idiosincrasia per l’accanimento teorico e l’inutile prolissità degli autori; il fastidio del ‘musico prattico’ nei confronti delle astrattezze matematiche. Nel secondo, a parte l’inevitabile retorica patriottica, colpisce il tono enfatico e l’esaltazione degli stessi teorici, in particolare di Zarlino, che non aveva trattato altrettanto bene nell’ Armonioso labirinto. Permane immutata, dall’uno all’altro, l’ammirazione per Zacconi, il cui schema del sistema modale propone niente meno che come base per l’esercizio dell’intonazione.
I.3.2 La modalità in Malipiero
È pratica corrente, da parte degli studiosi dell’opera di Malipiero, rinvenire all’interno delle sue composizioni, e segnatamente in quelle composte intorno agli anni ’20, stilemi indicanti il ricorso a non meglio identificati ‘modi antichi’. Anche nei contributi della critica più recente l’uso di termini quali ad esempio «Modo dorico»92 per indicare un certo tipo di organizzazione delle altezze all’interno del sistema diatonico è usuale. Dovendo io stessa, in sede di analisi armonica, scegliere una terminologia che indicasse un’organizzazione delle altezze di questo genere, mi sono trovata ad interrogarmi su quale fosse più coerente con un eventuale quadro di riferimento teorico del compositore. È senz’altro vero, come è stato ripetuto innumerevoli volte, che Malipiero fosse un ‘istintivo’, refrattario alle teorizzazioni e alle speculazioni astratte; nondimeno si applicò con notevole impegno e continuità allo studio dei trattati teorici musicali del cinquecento, come testimonia la stesura de L ’ armonioso labirinto.93 Per quanto riguarda le «nove canzoni» ma anche le di poco precedenti Sette canzoni non possiamo sapere quale fosse il quadro di riferimento teorico di Malipiero in materia di modi antichi. Il primo testo in cui emerga chiaramente una conoscenza non superficiale della teoria musicale cinquecentesca è Del contrappunto e della composizione, che essendo stato presentato alla Commissione per l’autarchia dell’insegnamento musicale risale presumibilmente agli anni ’30.94 Sicuramente Malipiero, per quanto grande potesse essere il suo mitizzato rapporto medianico col passato, non poteva avere del sistema modale antico una conoscenza profonda. Essendo questo un corpus teorico tutt’altro che coerente e omogeneo, è ancora oggi un argomento assai controverso nell’ambito degli studi musicologici. Infatti prima dei fondamentali studi compiuti da Bernhard Meier a partire dagli anni ‘5095 e le successive critiche e approfondimenti, in particolare con Powers negli anni ’8096, il tipo di conoscenza attingibile non poteva che essere assai parziale e ingannevole. Senz’altro Malipiero si aspettava qualche strumento utile anche alla loro comprensione quando decise di lanciarsi in un’impresa ardua quale la stesura de L ’ armonioso labirinto. E non aveva torto perché, con tutti i limiti già visti, qualcosa ne trasse. Se non altro ne derivò un’idea della teoria modale che agì senz’altro sul suo modo di comporre e che quindi per lui fu ben più concreta di quella reale. Dalla sua convinzione che gli antichi praticassero la polimodalità97 per esempio, derivò forse un incentivo a utilizzarla lui stesso o al contrario il fatto di utilizzarla lo spinse a cercarne le tracce negli scritti teorici. Non possiamo saperlo e forse non ha neanche una grande rilevanza, dal momento che l’idea che lo facessero ha orientato il suo linguaggio in una certa direzione.
La critica malipieriana si è sempre occupata del rapporto di Malipiero con la tradizione musicale italiana restando molto sulle generali. A parte il già citato saggio di Pirrotta e un contributo di padre Pellegrino M. Ernetti sul rapporto tra la musica di Malipiero e il canto gregoriano, non vi sono a mia conoscenza altri studi che entrino nel dettaglio sull’argomento. In particolare, sarebbe auspicabile stabilire che tipo di repertorio avesse in mente quando faceva riferimento alla polifonia, quale potesse essere stata la sua formazione in materia di contrappunto, gregoriano e modi antichi e infine quali riferimenti teorici avesse e in che misura potesse comprenderli. Ma c’è un altro tema importante che attende ancora di essere approfondito: stabilire che uso facesse Malipiero delle suddette forme all’interno della sue composizioni e capire se questo uso fosse coerente o meno con gli assunti teorici. Laddove non lo fosse, resterebbe ancora da comprendere se questa mancanza di coerenza sia il frutto di un fraintendimento o piuttosto di una deliberata forzatura.
Dall’ultimo contributo menzionato,98 per molti aspetti discutibile, emerge comunque ancora qualche osservazione: il fatto che la diatonicità costituisca il fondamento della modalità di Malipiero e che egli non tragga dai modi del canto gregoriano l’organizzazione tecnica ossia «le note modali che li caratterizzano, le cadenze, i suoni dominanti, le cosiddette basi modali» ma solamente «la naturale disposizione dei suoni diatonici in ottave e le varie fisionomie melodiche che da siffatte disposizioni si determinano spontaneamente».99
Parte II Le «nove canzoni»
Le «nove canzoni» sono una raccolta, per così dire, “a posteriori”; le tre composizioni che la compongono sono state concepite e pubblicate separatamente. Esse sono, lo ricordiamo, Tre Poesie di Angelo Poliziano (1920), Quattro Sonetti del Burchiello (1921) Due Sonetti del Berni (1922). Solo in un secondo tempo Malipiero le ha definite unitariamente come «nove canzoni» in virtù della loro comune discendenza dalle Sette canzoni e di caratteristiche affini. Tra le loro affinità vi è anche il fatto di essere composte su testi poetici risalenti tutti a un periodo compreso nell’arco di un secolo circa, tra la prima metà del quattrocento e la prima metà del cinquecento. Altro elemento di affinità lo troviamo tra il carattere dei testi del Burchiello e quelli del Berni, entrambi appartenenti al genere definito “burlesco”.
II.1 La canzone in Malipiero
Per cercare di capire cosa comprenda Malipiero sotto l’ampissimo e informale termine ‘canzone’, propongo di tornare ancora una volta all’annotazione di Malipiero alle Tre poesie di Angelo Poliziano che sanciva la filiazione delle «nove canzoni» dalle precedenti Sette canzoni:
Le tre poesie di Angelo Poliziano, i Quattro sonetti del Burchiello e i due sonetti del Berni, sono «nove canzoni» che discendono direttamente dalle Sette canzoni. Musica e parola, armonia e ritmo, qui vanno insieme. Si manifesta una specie di processo chimico che appunto genera la canzone, la quale può assumere centomila aspetti: può diventare persino una sinfonia in molti tempi.100
Nel passaggio in cui dice « si manifesta una specie di processo chimico che appunto genera la canzone», la parola appunto sembra proprio riferirsi alla frase precedente ovvero alla condizione che «musica e parole, armonia e ritmo» vadano insieme. Quindi, non mi sembra una forzatura affermare che, per Malipiero, per qualificare una Canzone in quanto tale, questa condizione sia quantomeno uno degli elementi indispensabili. Abbiamo visto nel capito precedente che Malipiero ha affermato di aver tratto i testi delle Sette canzoni dalla «antica poesia italiana» poiché essa, in particolare, permetterebbe di ritrovare «il ritmo della nostra musica, cioè quel ritmo veramente italiano che a poco a poco, durante tre secoli, è andato perdendosi nel melodramma».101 Ecco ancora delle indicazioni sulla Canzone: in essa il ritmo musicale è modellato su quello prosodico che a sua volta contiene il ricordo della musicalità del passato; il passato a cui si allude è quello della musica composta tre secoli prima del 1918 - epoca a cui risale la citazione - ovvero quello della nascente monodia accompagnata o, al limite, quello madrigalistico di poco precedente. A questa citazione ne possiamo accostare un’ultima che ci da un’ulteriore indizio: «Il testo delle canzoni è tratto dall’antica poesia italiana, che spesso ha conservato l’accento della nostra antica e perduta musica popolare».102 Ecco dunque, il riaffiorare della convergenza, almeno concettuale, tra «popolare» e «arcaico» - tratto comune ai compositori della “Generazione dell’80”103. Un’ultima indicazione: Malipiero attribuisce al ‘ritmo musicale’ di cui sopra, un non meglio identificato carattere ‘popolare’.
Lo studioso Tilman Schlömp ha cercato di definire le caratteristiche delle composizioni da Malipiero definite “canzoni” ed anche di quelle non esplicitamente denominate tali ma che, a suo avviso, possono essere fatte rientrare nella tipologia.104 Il termine “canzone” compare molto presto nella produzione malipieriana e attraversa la sua intera produzione; ad iniziare da Danze e canzoni del 1911-1912, per finire con Sette canzonette veneziane del 1960;105 esiste un denominatore comune, si chiede Schlömp, che permetta di stabilire con chiarezza cosa sia” canzone” ? Il denominatore comune più evidente riguarda la scelta di testi appartenenti al genere della canzone a ballo; in questo caso le ragioni dell’appartenenza al genere possono considerarsi ovvie. Nel caso delle canzoni destinate al teatro come le Sette canzoni o di Orfeo ovvero l ’ ottava canzone, la determinazione degli elementi che le caratterizzano in quanto “canzoni” è meno scontata. Schlömp tenta di stabilire quali siano i principi musicali che stabiliscono l’architettura della canzone, dapprima in negativo e successivamente in positivo. Per quanto cerchi di parlare della canzone in termini generali, lo studioso ha in mente, di fatto, un’opera precisa: L ’ Orfeide. La trattazione risulta così non generalizzabile sotto l’aspetto formale e inoltre fondamentalmente orientata a comprendere la funzione che la canzone assume dal punto di vista drammaturgico. Non sarà quindi presa in considerazione in questa sede perché non funzionale ai fini di una miglior comprensione delle «nove canzoni» che, come già visto, appartengono al genere delle liriche da camera.
Tra gli studiosi che si sono occupati delle Sette canzoni e indirettamente quindi della canzone in generale, non si può, in ultimo, non menzionare Luigi Pestalozza, uno dei più noti critici malipieriani. Lo studioso, in un suo articolo del 1978,106 afferma che il «tema che non si emancipa elaborandosi» produce una sorta di immobilità che nella canzone teatrale rappresenta anche l’immobilità dei rapporti scenici. Il paradosso melodico della canzone insinuandosi «nell’ordito strumentale dove si infrange il suo ‘continuum’» produce un effetto di straniamento in cui il canto viene stravolto e sottratto alla sua funzione comunicativa attraverso il ricorso a una vocalità enigmatica e all’opposto di quella ‘cantabile’. Questo straniamento sarebbe ottenuto tramite una «polifonia fatta di linee o frammenti melodici in contrappunto soltanto per stabilire l’inerzia della loro coesione contrappuntistica, per dar luogo alla libertà armonica della libera forma in cui s’intrecciano e si isolano provocando l’ambiguo svettare delle dissonanze».107 Per Pestalozza, il rapporto di Malipiero con le forme del passato che egli rievoca è molto libero; esse sono infatti, nelle sue composizioni, avvertibili ma non veramente decifrabili, configurandosi più che altro come metafore. In questo senso, nelle Sette canzoni, la canzone non si riferisce ad un modello precostituito, non rappresentando altro che ricomprende».108
[...]
1 Mario Messinis, Malipiero e Maderna vent ’ anni dopo, in Cattelan 2000, p.6.
2 Ivi, pp. 6-7.
3 Ho mantenuto la dicitura «nove canzoni», utilizzata da Malipiero nella citazione che segue, al posto dell’indicazione in corsivo, poiché le canzoni in questione non sono mai state pubblicate insieme con questo nome.
4 Nota del 1952 che compare nel Catalogo delle opere annotato dall’Autore in Scarpa 1952 p.254.
5 Cfr. Gualandri 2001.
6 Guarnieri Corazzol 1998, p. 309.
7 Cfr. Scarpa 1952.
8 Si tornerà più nel dettaglio su queste chiavi di lettura nel capitolo dedicato agli stilemi linguistici del primo Malipiero.
9 Mario Messinis, Malipiero e Maderna vent ’ anni dopo (1973-1993), in Malipiero-Maderna 2000, p. 3. Malipiero morirà l’anno dopo, il primo agosto del 1973.
10 Atti pubblicati in Muraro 1984.
11 I contributi sono solo quattro, dedicati, come annunciato dal titolo, al Malipiero scrittore e critico. Una buona metà della pubblicazione è dedicata a una scelta di sedici articoli del compositore, curata da John C.G. Waterhouse.
12 Atti pubblicati in Pestalozza 1984.
13 Pestalozza dichiarerà, nella Nota di cura: «È stato anche il solo dedicato in Italia a Malipiero musicista, nell’anniversario della sua nascita.
14 Atti pubblicati in Nicolodi 1981.
15 Nicolodi 1984.
16 Illiano 2004.
17 Cfr. Pieri 1992.
18 Cfr. Palandri 1997.
19 Cfr. Cogliandro 1992.
20 Waterhouse 1990.
21 Cattelan 2000.
22 Mario Messinis, Malipiero e Maderna vent ’ anni dopo, in Cattelan 2000, pp. 3-9.
23 Cattelan 2000, pp. 3-9. Sulla critica su Malipiero si veda anche il contributo di Piero Santi: La critica malipieriana, in Pestalozza 1984, pp. 31-48.
24 Ivi, p. 6.
25 Ivi, p. 8.
26 Nel tempo, sulla scia di una iniziale proposta di Fedele D’Amico, si è venuta affermando una suddivisione delle opere di Malipiero in tre periodi. Il primo, che arriverebbe all’incirca fino a Torneo notturno (1929) caratterizzata dalla “costruzione a pannelli”, il secondo periodo cosiddetto “classicheggiante” e un ultimo periodo caratterizzato da una scrittura più capricciosa e articolata che dovrebbe rappresentare l’ultimo Malipiero.
27 Ibid.
28 Guarnieri Corazzol 1998.
29 Cfr. Scarpa 1952.
30 Cfr. Guanieri Corazzol 1998, p. 309.
31 Cfr. il suo saggio: G. F. Malipiero, pubblicato dapprima su «La Revue musicale», gennaio 1927 e confluito poi in Scarpa 1952, pp. 40-60.
32 Ivi, p. 51. Traduzione dal francese mia.
33 Ibid.
34 Scarpa 1952, pp. 81-89, comparso per la prima volta nel 1941 sulla rivista «Primato» di Bottai.
35 Ivi, p. 82.
36 Ivi, p. 83.
37 Ivi, pp. 82-83.
38 Ivi, p. 84.
39 Ivi, p. 88.
40 Ivi, p. 76-80.
41 Ivi, p. 79.
42 Ivi, p. 72.
43 Ibid.
44 Ivi, pp. 110-126. Apparso precedentemente su «La Rassegna musicale», febbraio-marzo 1942.
45 Ivi, pp. 112-113.
46 Ivi, pp. 114-115.
47 Ibid.
48 Ibid.
49 Ivi, p. 116.
50 Cfr. ad esempio, il suo Malipiero nella cultura italiana del novecento, in Messinis 1977, pp. 29-32 e discussione seguente, pp. 32-43 o ancora Pestalozza 1978, pp.43-57.
51 Cfr. Mila, Modernit à e antimodernismo in Malipiero, in Messinis 1977, pp. 15-20 e discussione, pp. 32-43.
52 Cfr. Scarpa 1952, pp. 127-132.
53 Ivi, pp. 129-130.
54 Ivi, p. 131.
55 Francesco Degrada, Strutture musicale del “ Torneo notturno ”, in Pestalozza 1984, pp. 66-82: 81.
56 Ibid. Sull’aspetto dell’immobilità si veda anche: Ernesto Rubin de Cervin, A proposito dei quartetti di Gian Francesco Malipiero, in Messinis 1977, pp. 79-84 e Luigi Pestalozza, Gian Francesco Malipiero: le canzoni del silenzio in Nicolodi 1981, pp. 311-322: 315-316.
57 Luigi Pestalozza, Malipiero e la forma, in Pestalozza 1984, pp. 15-22: 17.
58 Cfr. Gian Francesco Malipiero e la tradizione musicale italiana, pubblicato dapprima su «Quadrivium», Vol. XIV (1973), pp. 412-432; e in seguito in Messinis 1977, pp. 131-152. A complemento del suddetto articolo vedasi anche: Francesco Degrada, La « generazione dell ’ 80 » e il mito della musica italiana, in Nicolodi 1981, pp. 83-96. Sempre sul tema del rapporto di Malipiero con la musica del passato può essere interessante rileggere i primi contributi, pubblicati in Scarpa 1952, come quello di Henri Prunières, G. Francesco Malipiero (del 1927) pp. 40-60 o quello di Angelo Ephrikian, Malipiero e la tradizione musicale italiana (del 1952), pp.179-186. Cfr. anche il più recente: Enrico Fubini, Malipiero e l ’ estetica della musica in Italia tra le due guerre, in Pestalozza 1984, pp. 164-174.
59 Messinis 1977 , p. 131.
60 Ivi p. 132.
61 Sulla musicologia italiana nascente e il suo burrascoso rapporto con i compositori della “Generazione dell’80” cfr. Giorgio Pestelli, La « Generazione dell ’ 80 » e la resistibile ascesa della musicologia italiana, in Nicolodi 1981, pp. 31-44 e Salvetti 1991.
62 Francesco Degrada, La « Generazione dell ’ 80 » e il mito della musica italiana, in Nicolodi 1981, p. 92
63 Ibid.
64 Ivi.
65 Cfr. Pestalozza 1978, pp. 43-57.
66 Guarnieri Corazzol 1998, p. 319.
67 Ibid.
68 Ivi, 320.
69 Benché Malipiero sostenga il contrario: «Attraverso il canto gregoriano, a passo a passo ho raggiunto la grande scuola dei polifonisti italiani per arrivare inevitabilmente a Claudio Monteverdi che va considerato il primo musicista dell’era moderna» (Malipiero 1966, p.), io credo che le cose non siano andate proprio così. Credo che sia stato proprio l’incontro con i madrigali di Monteverdi - che lui data al 1902 (Malipiero 1966, p. 256) - che l’abbia spinto a riconsiderare e ad approfondire la conoscenza della polifonia derivatagli della formazione scolastica (ricevuta tra il 1899 e il 1904, anno del Diploma).
70 Fedele D’Amico, Ragioni umane del primo Malipiero in Scarpa 1952, pp. 110-126: 115.
71 Cfr. Nino Pirrotta, Malipiero e il filo di Arianna, in Muraro 1984, pp. 5-19.
72 Ivi, p. 12.
73 Dal «Meridiano di Roma», VIII/26 (27 giugno 1943), p. 1.
74 Muraro 1984, pp. 14-15.
75 In rappresentanza di quest’ultimo, ma in una pubblicazione assai tarda (1963), Malipiero curò l’edizione: Adriano Willaert e i suoi discendenti: madrigali a 5 voci (di Willaert, Ruffo, Ingegneri e Monteverdi).
76 Muraro 1984, p. 11.
77 «Non v’è dubbio, il canto gregoriano lascia trapelare i rapporti armonici: se si aggira sul primo suono di una scala ha in sé gli armonici, cioè i suoni naturali che vibrano anche se il canto non li tocca, anzi muovendosi questo canto li fa vieppiù sentire, e cambierà totalmente il sentimento armonico se il nucleo melodico si sposta su un altro suono della scala, suono-base che a sua volta si muoverà su altri suoni della scala» in Malipiero 1966, p. 222.
78 Muraro 1984, p. 12.
79 Ivi, pp. 17-18. Già Francesco Degrada in Malipiero e la tradizione musicale italiana (in Messinis 1977, pp. 136-137) aveva trovato eccessiva la negatività del giudizio che riconduceva alla «contrapposizione quasi ossessiva (organica e ineliminabile per Malipiero) tra teoria e prassi, tra intuizione e intelletto, tra creatore e teorico, tra composizione e musicologia» che gli aveva fatto salvare, tra tutti i trattatisti, accanto a Gianfrancesco Doni solo il Vicentino per la sua propensione a lasciarsi guidare più dall’istinto che dallo sforzo intellettuale.
80 Pubblicato dapprima nella «Rassegna musicale», XV, n. 6, giugno 1942, pp. 189-193, confluito poi in Malipiero 1966, pp. 220-226.
81 Un esempio della tendenza sopra menzionata lo si può avere scorrendo le pagine de Il filo d ’ Arianna (Malipiero 1966) dove troviamo, per esempio a pag. 256, la notizia che nel 1902 lui stesso avrebbe iniziato la copiatura di «molti madrigali, cantate, sonate e brani dell’Incoronazione di Poppea del divino Claudio» mentre un centinaio di pagine prima, per difendersi dall’accusa di aver ricalcato il recitar cantando delle Stagioni italiche del 1924 sulla Lettera amorosa di Monteverdi, aveva affermato: «in quell’epoca 1924 di Monteverdi conoscevo soltanto alcuni madrigali completamente deformati da coloro che li trascrissero e li pubblicarono» (pag. 154).
82 Malipiero 1966, p. 5.
83 Ivi, p. 20.
84 Ibid.
85 Ivi, p. 33.
86 Ivi, p. 58.
87 Fotocopia della richiesta si può vedere in Scarpa 1952, tra p. 42 e p. 43.
88 Ancora una volta è il risultato in termini di musicalità che fa la differenza: «Mentre in Italia imperversavano le requisitorie contro il contrappunto, Claudio Monteverdi persevera nella più pura polifonia dei suoi madrigali e se la famosa seconda pratica in sostanza è derivata dalle teorie della camerata fiorentina, queste si dimenticano ascoltando l’ Orfeo e l’ Arianna perché il divino Claudio raggiunge l’irraggiungibile dell’espressione musicale. (Malipiero 1966, p. 93).
89 Malipiero 1966, p. 220.
90 Ivi, p. 220-221.
91 «I trattati dell’epoca in cui più fioriva il contrappunto poco si occupano del valore verticale (armonia) della musica. La preoccupazione principale è di combinare vari canti che conservino ciascuno una linea perfetta nella sua espressività, senza proporsi di risolvere problemi armonici» Ivi, p. 221. Più avanti (p. 222) rincara la dose: «Mentre allora si accanivano sul contrappunto, non si curavano dell’armonia che era un sottinteso, come dovrebbe essere ora inquantoché è elementare teoria l’intervallo fra le note e il vero interesse armonico deriva dal movimento delle parti».
92 Tilman Schlömp, Una forma nel teatro del primo Malipiero, in Cattelan 2000, p. 98.
93 L ’ Armonioso labirinto (da Zarlino a Padre Martini, 1558-1774), Milano, Rosa e Ballo, 1946, ristampato in Malipiero 1966, pp. 3-74.
94 Non sono riuscita a trovare la data esatta della sua presentazione. Pubblicato sulla «Rassegna Musicale» nel 1942, ora in Malipiero 1966.
95 Cfr. Maier 1952, 1953.
96 Cfr. Powers 1980, 1981.
97 Cfr. Malipiero 1966, p. 65 e p. 94.
98 Il canto gregoriano e la musica di Gian Francesco Malipiero in Messinis 1977, pp. 45-50.
99 Ivi, pp. 48-49.
100 Catalogo delle opere annotato dall’Autore in Scarpa 1952, p.254.
101 Messinis 1977, p.187.
102 Muraro 1984, p.147.
103 Sull’argomento cfr. Medievalismi e folklore nella musica italiana del ‘ 900.
104 Cfr. Tilman Schlömp, La canzone d ’ opera e l ’ opera come canzone, in Cattelan 2000, pp. 87-101.
105 Ivi, p. 87.
106 Pestalozza 1978.
107 Ivi, pp. 53-54.
108 Pestalozza 1984, p. 20. «la metafora della forma drammatica che la
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- Francesca Gualandri (Author), 2008, Le "Nove Canzoni" di Gian Francesco Malipiero (1920-1922), Munich, GRIN Verlag, https://www.grin.com/document/143399
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